Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.
Cherubini - Raffaello
RIASSUNTO DEL CANTO V
Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali è dedicata al problema del voto e della possibilità di cambiarne la materia, la seconda descrive l'ascesa al II Cielo e l'incontro con gli spiriti che operarono per la gloria terrena, tra cui l'imperatore Giustiniano. L'ampiezza della trattazione del problema del voto può sembrare sproporzionata rispetto alla questione in sé, ma è chiaro che per Dante si tratta di un problema assai delicato che, tra l'altro, ha pesanti implicazioni nella condotta della Chiesa, per l'eccessiva facilità con cui dai voti si veniva dispensati dietro pagamento: l'importanza della questione è dimostrata dal solenne inizio del Canto, con Beatrice che giustifica l'abbagliamento della vita di Dante con l'acume della sua visione di Dio, la quale si riverbera sull'intelletto del poeta che, per questo, desidera conoscere nuove cose (il discorso della donna è definito, non a caso, processo santo).
Giustiniano e il suo seguito- Mosaico in San Vitale - Ravenna
In effetti Dante si dimostra assai rigoroso nell'interpretazione teologica del voto, anche più dello stesso san Tommaso d'Aquino che a riguardo aveva ammesso varie eccezioni: egli distingue tra la materia del voto, cioè la cosa promessa a Dio, e la convenenza, il patto sottoscritto tra il fedele e Dio, affermando che quest'ultimo non può mai venir meno per la natura stessa del voto. Pronunciando i voti, infatti, gli uomini fanno liberamente sacrificio della propria libera volontà, che è il dono più prezioso che Dio ha fatto loro, quindi in teoria nulla può essere offerto in compenso che sia di valore equivalente. Dante sottolinea che la cosa offerta deve essere un'azione virtuosa e deve avere un fine nobile, quindi condanna decisamente quei voti fatti per ottenere scopi malvagi o che coinvolgono la volontà di altri loro malgrado: è tuttavia ammissibile che la materia del voto subisca una permuta, sia cioè sostituita da qualcos'altro, a condizione però che ciò riceva l'avallo ufficiale della Chiesa (attraverso l'immagine simbolica delle due chiavi bianca e gialla, che raffigurano l'autorità del sacerdote) e che la sostituzione avvenga con qualcosa di più prezioso della cosa promessa in un primo momento, tranne nei casi in cui la materia del voto è troppo preziosa per ammettere qualunque permuta. Dante vuole polemizzare anzitutto con la Chiesa, troppo incline a consentire simili «permute» o a dispensare addirittura dai voti in cambio di offerte e denaro, specie per iniziativa dei canonisti e dei decretalisti che fornivano interpretazioni capziose del diritto sacro dietro pagamento (è la stessa accusa che Folchetto di Marsiglia rivolgerà alla fine del Canto IX, condannando il maladetto fiore come la moneta che ha diffuso la corruzione tra il clero); la sua accusa è però anche rivolta contro i fedeli stessi, troppo pronti a pronunciare voti nella speranza di salvarsi l'anima e a promettere cose malvage o che arrecano danno a terzi. Il severo monito di Beatrice a conclusione del suo ragionamento è rivolto proprio ai Cristiani, che devono evitare di pronunciare i voti con troppa leggerezza, come fecero Iefte e Agamennone costretti poi a uccidere le rispettive figlie pur di adempiere alla promessa (e quelli erano voti inammissibili, sia per il fine perseguito che per la cosa promessa a Dio e agli dei), e non devono pensare che il voto sia una facile scorciatoia per lavarsi la coscienza, poiché la strada per la salvezza passa per un percorso di purificazione ben più faticoso e accidentato. I due esempi evangelici delle pecore matte e dell'agnello «sbandato», che lascia cioè il latte della madre e se ne allontana a suo danno, servono a richiamare i fedeli all'osservanza delle regole e soprattutto della Sacra Scrittura, contenendo anche un implicito rimprovero al pastore del gregge (nel caso della Chiesa, al papa e alle gerarchie ecclesiastiche) che deve vigilare affinché non ci sia un abuso dell'istituto del voto ed evitare che ciò diventi occasione per lucrare sulla malafede e sulla leggerezza dei fedeli.
Sacrificio della figlia di Ieftè di Girolamo Donnini
La parte finale del Canto introduce al II Cielo di Mercurio in cui Dante e Beatrice entrano rapidissimi, con l'accresciuta bellezza della donna che ne è il segno tangibile e dona maggiore splendore al pianeta stesso, come altrove vedremo accadere nella Cantica. Rispetto agli spiriti del I Cielo, i beati che appaiono qui a Dante non hanno una figura umana ma sono delle sagome totalmente avvolte dalla luce, a malapena distinguibili all'occhio: uno di loro si rivolge a Dante e lo prega di rivolgergli qualunque domanda, poiché la loro più grande gioia sarà quella di rispondergli e chiarire così ogni suo dubbio. L'anima è quella di Giustiniano, che sarà protagonista assoluto del Canto seguente in cui risponderà alle due domande poste da Dante alla fine di questo, ovvero il suo nome e quale sia la condizione dei beati che appaiono in questo Cielo: il Canto si chiude con l'aumentato splendore della luce che avvolge lo spirito, segno dell'accresciuta letizia e del fatto che egli sorride (è un espediente stilistico usato spesso da Dante nel Paradiso), per cui la sua figura è offuscata dalla luce e scompare nel momento in cui si accinge a parlare, preannunciando il discorso che sarà al centro del Canto VI.
Note e passi controversi
- Nei vv. 4-6 Beatrice intende dire probabilmente che la perfetta visione di Dio da parte sua accresce il proprio splendore, il che ha causato l'abbagliamento di Dante; altri intendono pefetto veder come riferito a Dante stesso, ma è ipotesi meno convincente.
- Al v. 15 letigio vuol dire «controversia» e indica forse che l'anima non avrà motivo di dibattere con la giustizia divina (meno probabile che significhi «contrasto con se stessa»).
- Al v. 16 canto significa probabilmente «l'argomento di questo canto», o forse indica che le parole di Beatrice suonano melodiose.
- Il v. 29 indica che con il voto si fa vittima, cioè «sacrificio» della libera volontà.
- Il v. 33 significa «vuoi fare un'opera buona (buon lavoro) con il mal tolto, col frutto di una rapina (maltolletto)». Quest'ultima forma deriva dal lat. med. maletollettum, «maltolto», «refurtiva».
- Quella / di che si fa (vv. 44-45) è la cosa promessa, ovvero la materia del voto; la convenenza (v. 45) è il patto con Dio.
- I vv. 49-51 alludono alla necessità per gli Ebrei dei sacrifici e della possibilità di modificare le offerte (Lev., XXVII, 1-33).
- I vv. 56-57 si riferiscono all'autorità sacerdotale e della Chiesa, simboleggiata dalle due chiavi bianca e gialla (già citate in Purg., IX, 117 ss.); la necessità dell'avallo ufficiale per la permuta del voto è ribadita da san Tommaso, Summa theol., II-IIae, q. 88).
- I vv. 59-60 vogliono dire «se la cosa lasciata non è contenuta in quella scambiata come il quattro nel sei» (il Levitico fissava l'aggiunta di un quinto alle offerte permutate).
- Il v. 66 allude al racconto biblico di Iefte, giudice di Israele che, durante la guerra con gli Ammoniti, fece voto di sacrificare a Dio in caso di vittoria ciò che per primo fosse uscito di casa e gli fosse venuto incontro; fu poi costretto a immolare la sua unica figlia (Iud., XI, 39-40). L'espressione prima mancia non è molto chiara, potendo indicare la prima cosa promessa in dono, oppure il primo scontro col nemico (dall'ant. fr. manche, «assalto»).
- I vv. 68-72 si riferiscono al mito di Agamennone, che promise di sacrificare a Diana ciò che quell'anno fosse nato di più bello in cambio dei venti favorevoli alla flotta dei Greci in Aulide, dovendo poi uccidere la figlia Ifigenia. Tra le molti fonti dantesche, la più probabile è Cicerone, De officiis, III, 25.
- Il v. 75 non è di chiara interpretazione e può voler dire «non crediate che far voti basti a salvarvi l'anima», oppure «non crediate che dai voti possiate essere dispensati tanto facilmente».
- L'espressione mala cupidigia (v. 79) può riferirsi agli uomini, che fanno voti per i motivi più superficiali e abietti, ma anche alla Chiesa che in cambio di denaro dispensa con leggerezza dai voti.
- Le pecore matte (v. 80) sono probabilmente le pecore affette da un disturbo nervoso chiamato «capostorno», che induce queste bestie a compiere salti e strani movimenti. La metafora dell'agnello sbandato (vv. 82-84) è invece frequente nel linguagio evangelico e sarà usata anche in XI, 124-131 per indicare i frati che si discostano dalla regola del proprio Ordine.
- Il v. 87 non è chiarissimo e indica forse semplicemente che Beatrice guarda verso l'alto (verso il Sole o il Cielo successivo).
- Al v. 111 carizia significa «miseria spirituale» e non semplicemente «mancanza», «desiderio» come solitamente si interpreta.
- Al v. 117 milizia indica la vita terrena, in cui i Cristiani sono appunto «militanti», mentre i beati sono «trionfanti».
- La spera / che si vela ai mortai con altrui raggi (vv. 128-129) è naturalmente Mercurio, detto così perché è il pianeta più vicino al Sole.
- Il v. 139 si chiude con una paronomàsia (canto / canta).
TESTO
«S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
di là dal modo che ‘n terra si vede,
sì che del viso tuo vinco il valore, 3
non ti maravigliar; ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede. 6
Io veggio ben sì come già resplende
ne l’intelletto tuo l’etterna luce,
che, vista, sola e sempre amore accende; 9
e s’altra cosa vostro amor seduce,
non è se non di quella alcun vestigio,
mal conosciuto, che quivi traluce. 12
Tu vuo’ saper se con altro servigio,
per manco voto, si può render tanto
che l’anima sicuri di letigio». 15
Sì cominciò Beatrice questo canto;
e sì com’uom che suo parlar non spezza,
continuò così ‘l processo santo: 18
«Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’e’ più apprezza, 21
fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate. 24
Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
l’alto valor del voto, s’è sì fatto
che Dio consenta quando tu consenti; 27
ché, nel fermar tra Dio e l’uomo il patto,
vittima fassi di questo tesoro,
tal quale io dico; e fassi col suo atto. 30
Dunque che render puossi per ristoro?
Se credi bene usar quel c’hai offerto,
di maltolletto vuo’ far buon lavoro. 33
Tu se’ omai del maggior punto certo;
ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto, 36
convienti ancor sedere un poco a mensa,
però che ‘l cibo rigido c’hai preso,
richiede ancora aiuto a tua dispensa. 39
Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scienza,
sanza lo ritenere, avere inteso. 42
Due cose si convegnono a l’essenza
di questo sacrificio: l’una è quella
di che si fa; l’altr’è la convenenza. 45
Quest’ultima già mai non si cancella
se non servata; e intorno di lei
sì preciso di sopra si favella: 48
però necessitato fu a li Ebrei
pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta
sì permutasse, come saver dei. 51
L’altra, che per materia t’è aperta,
puote ben esser tal, che non si falla
se con altra materia si converta. 54
Ma non trasmuti carco a la sua spalla
per suo arbitrio alcun, sanza la volta
e de la chiave bianca e de la gialla; 57
e ogne permutanza credi stolta,
se la cosa dimessa in la sorpresa
come ‘l quattro nel sei non è raccolta. 60
Però qualunque cosa tanto pesa
per suo valor che tragga ogne bilancia,
sodisfar non si può con altra spesa. 63
Non prendan li mortali il voto a ciancia;
siate fedeli, e a ciò far non bieci,
come Ieptè a la sua prima mancia; 66
cui più si convenia dicer ‘Mal feci’,
che, servando, far peggio; e così stolto
ritrovar puoi il gran duca de’ Greci, 69
onde pianse Efigènia il suo bel volto,
e fé pianger di sé i folli e i savi
ch’udir parlar di così fatto cólto. 72
Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
e non crediate ch’ogne acqua vi lavi. 75
Avete il novo e ‘l vecchio Testamento,
e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento. 78
Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte,
sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida! 81
Non fate com’agnel che lascia il latte
de la sua madre, e semplice e lascivo
seco medesmo a suo piacer combatte!». 84
Così Beatrice a me com’io scrivo;
poi si rivolse tutta disiante
a quella parte ove ‘l mondo è più vivo. 87
Lo suo tacere e ‘l trasmutar sembiante
puoser silenzio al mio cupido ingegno,
che già nuove questioni avea davante; 90
e sì come saetta che nel segno
percuote pria che sia la corda queta,
così corremmo nel secondo regno. 93
Quivi la donna mia vid’io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fé ‘l pianeta. 96
E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec’io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise! 99
Come ‘n peschiera ch’è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura, 102
sì vid’io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udìa:
«Ecco chi crescerà li nostri amori». 105
E sì come ciascuno a noi venìa,
vedeasi l’ombra piena di letizia
nel folgór chiaro che di lei uscia. 108
Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
non procedesse, come tu avresti
di più savere angosciosa carizia; 111
e per te vederai come da questi
m’era in disio d’udir lor condizioni,
sì come a li occhi mi fur manifesti. 114
«O bene nato a cui veder li troni
del triunfo etternal concede grazia
prima che la milizia s’abbandoni, 117
del lume che per tutto il ciel si spazia
noi semo accesi; e però, se disii
di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia». 120
Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii». 123
«Io veggio ben sì come tu t’annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch’e’ corusca sì come tu ridi; 126
ma non so chi tu se’, né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
che si vela a’ mortai con altrui raggi». 129
Questo diss’io diritto alla lumera
che pria m’avea parlato; ond’ella fessi
lucente più assai di quel ch’ell’era. 132
Sì come il sol che si cela elli stessi
per troppa luce, come ‘l caldo ha róse
le temperanze d’i vapori spessi, 135
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa;
e così chiusa chiusa mi rispuose
nel modo che ‘l seguente canto canta. 139
PARAFRASI
«Se io ti abbaglio con la luce del mio amore al di là del modo consueto sulla Terra, così che vinco la tua potenza visiva, non ti stupire; infatti, questo accade per la mia perfetta visione di Dio, che quanto più percepisce la luce divina, tanto più si addentra nel bene percepito.
Io vedo bene come ormai risplende nel tuo intelletto la luce eterna di Dio, che è la sola ad accendere il desiderio di sé non appena viene vista;
e se qualche altra cosa terrena attrae il vostro amore, è solo qualche traccia di quella luce che traspare in essa ed è mal conosciuta.
Tu vuoi sapere se si può contraccambiare un voto mancato con un'altra opera buona, quel tanto che basti a evitare all'anima una controversia con Dio».
Così Beatrice iniziò questo canto; e come l'uomo che non interrompe il suo discorso, continuò in tal modo il suo ragionamento pieno di santità:
«Il più grande dono che Dio, per sua generosità, fece creando l'uomo, e quello più conforme alla sua bontà, e quello che Lui più apprezza, fu la libera volontà; di essa tutte le creature intelligenti (uomini e angeli), e solo loro, sono dotate.
Ora, se rifletti su questo, capirai l'alto valore del voto, purché sia fatto in modo tale che sia bene accetto a Dio e abbia il consenso di chi lo pronuncia;
infatti, quando l'uomo e Dio sottoscrivono il patto, si fa sacrificio di questo tesoro (la libera volontà) di cui parlo, e lo si fa in modo del tutto volontario.
Dunque, cosa mai si potrebbe dare in cambio di esso? Se tu volessi usare ciò che hai offerto, è come se volessi fare una buona opera coi proventi di un furto.
Tu sei ormai certo riguardo il punto principale; ma poiché la Chiesa talvolta dispensa dai voti, il che sembra contraddire quanto ti ho appena detto, è bene che tu sieda ancora un poco a mensa (che ascolti ulteriori spiegazioni), poiché devi essere aiutato a digerire il cibo pesante che hai ingerito (la mia difficile e complessa spiegazione).
Apri la mente a quello che ti spiego e fissalo nella memoria; infatti l'aver ascoltato non produce conoscenza, se non si rammenta.
Due cose formano l'essenza di questo sacrificio (del voto): una è la cosa che viene offerta, l'altra è il patto tra uomo e Dio.
Quest'ultimo non si può mai cancellare, se non viene rispettato; e di questo ti ho già parlato con precisione poc'anzi:
per questo fu imposto agli Ebrei di fare le offerte, anche se (come devi sapere) alcune offerte venivano permutate.
L'altra cosa, che ti ho spiegato essere la materia del voto, può tuttavia essere scambiata con qualcos'altro senza commettere peccato.
Ma nessuno osi cambiare il carico sulle sue spalle (permutare la materia del voto) a suo capriccio, senza l'avallo dell'autorità ecclesiastica;
e giudica scorretta ogni permutazione in cui la cosa lasciata non sia contenuta in quella scambiata come il quattro è contenuto nel sei.
Perciò, qualunque cosa è tanto preziosa da non avere alcun termine di paragone, non può essere scambiata con nient'altro.
Gli uomini non prendano il voto alla leggera; siate fedeli e non siate sconsiderati, come fu Iefte nella sua prima offerta, al quale sarebbe stato meglio dire 'Ho sbagliato', piuttosto che far peggio osservando il voto; e fu altrettanto stolto anche il comandante dei Greci (Agamennone), per cui la figlia Ifigenia rimpianse la sua bellezza e fece piangere tutti coloro che udirono parlare di un simile culto.
Sacrificio di Ifigenia del Domenichino
O Cristiani, siate più prudenti nel pronunciare i voti: non siate piume che si muovono a ogni vento e non crediate che ogni acqua possa lavarvi.
Avete il Nuovo e il Vecchio Testamento e il pastore della Chiesa (il papa) che vi guida; questo vi basti per condurvi alla salvezza.
Se un desiderio malvagio vi suggerisce altro, siate uomini e non pecore matte, così che il Giudeo che vive tra voi non rida del vostro comportamento!
Non fate come l'agnello sbandato, che lascia il latte della madre e, semplice e irrequieto, combatte da solo a suo danno!».
Così mi disse Beatrice come io ne scrivo; poi si rivolse, piena di desiderio, a quella parte (l'alto?) dove il mondo è più luminoso.
Il suo silenzio e il fatto che cambiò aspetto fecero tacere il mio avido ingegno, che già si proponeva nuove domande;
e rapidi come una freccia che colpisce il bersaglio prima che la corda dell'arco smetta di vibrare, così salimmo al II Cielo.
Qui vidi la mia donna così felice, non appena entrò nell'astro di quel Cielo, che il pianeta stesso divenne più lucente.
E se la stella si trasformò e rise, figuriamoci come potei fare io che, per la mia natura mortale, sono soggetto a ogni tipo di mutamento!
Come in una peschiera calma e tersa i pesci si avvicinano al pelo dell'acqua, credendo che ciò che viene dall'esterno sia il loro cibo, così io vidi più di mille luci venire verso di noi e dentro ciascuna si sentiva: «Ecco chi accrescerà il nostro ardore di carità».
E non appena ciascuna luce veniva verso di noi, si vedeva l'ombra piena di gioia avvolta dal chiaro splendore che usciva da essa.
Se quel che ho iniziato a descrivere non andasse avanti, pensa, o lettore, come tu saresti spiritualmente misero, desiderando con angoscia di sapere di più;
e (se penserai questo) capirai da solo come io desiderassi sapere della loro condizione, non appena apparvero ai miei occhi.
«O spirito fortunato, a cui la grazia divina concede di vedere i seggi del trionfo eterno (il Paradiso) prima di aver abbandonato la milizia terrena (mentre sei ancora vivo), noi siamo accesi della luce che si diffonde in tutto il cielo; dunque, se desideri avere dei chiarimenti su di noi, domanda pure senza esitare».
Così mi fu detto da uno di quegli spiriti santi; e Beatrice aggiunse: «Parla, parla senza timore, e credi a ciò che ti diranno come se lo sentissi da Dio stesso».
«Io vedo bene come tu ti nascondi nella tua stessa luce, e che essa nasce dal tuo sguardo, perché diventa più intensa quando tu sorridi;
ma non so chi sei, né perché occupi, anima degna, il grado del Cielo (di Mercurio) che è velato agli uomini dai raggi del Sole».
Questo io dissi rivolto alla luce che prima mi aveva parlato; per cui essa diventò assai più lucente di quanto fosse prima.
Come il Sole che si nasconde alla vista per la troppa luce, non appena il calore ha dissolto gli spessi vapori che talvolta lo cingono e permettono di guardarlo, così la santa figura del beato si celò al mio sguardo per l'accresciuta letizia; e così, avvolta dalla luce, mi rispose nel modo che è descritto dal Canto seguente.
IEFTE
Nel Primo libro di Samuele Iefte è assimilato a Gedeone, Barak e Samuele, definiti "liberatori" di Israele, mandati da Dio (Primo Libro di Samuele 12,11). Anche nella Lettera agli Ebrei Iefte viene annoverato nel «...folto nuvolo di testimoni» fedeli dell'antichità (versetti 11,32 e 12,1). Questi testimoni, esemplari nella fede, non lo furono sempre dal punto di vista morale. L'attenzione con cui la Bibbia sottolinea le loro mancanze, anche quando esse sono irrilevanti per il seguito della narrazione rispecchia la teologia deuteronomista? il popolo di Israele può essere salvato soltanto da IHWH, i condottieri che operano di fatto questa salvezza sono solo strumenti nella mano di Dio.
Nel caso di Iefte, perciò, non vengono taciute né le umili origini, né il comportamento da avventuriero in gioventù, né la ferocia con cui furono trucidati 42.000 efraimiti. Solo quando opera come liberatore chiamato da Dio per salvare Israele egli cerca di operare pacificamente.
Il voto di Iefte, sacrificio o dedicazione a Dio?
Biblisti, apologeti e accademici, danno interpretazioni controverse al termine "olocausto", conseguente al voto fatto dal giudice Iefte, controversia quindi sulla reale sorte toccata a sua figlia.
Il termine "olocausto" infatti, è inteso da alcuni in senso letterale, un vero e proprio sacrificio umano, per cui la figlia di Iefte venne uccisa e quindi sacrificata al Dio biblico alla stessa maniera di come venivano sacrificati gli animali, ovvero per scannamento.
D'altra parte Bullinger fa notare che questo sarebbe stato il solo e unico caso di sacrificio umano a Dio in tutta la Bibbia. Dio era stato da sempre avverso a tali sacrifici e aveva giudicato severamente, fino all'annientamento, i popoli che seguivano tali pratiche sacrificando a dei pagani donne e bambini.
Quello della figlia di Iefte, secondo alcuni esegeti, è stato un reale sacrificio umano. Ad esempio, nel "Nuovo Grande Commentario Biblico" si afferma che Iefte "costringe la sua unica figlia a sottostare a un voto che non aveva nessuna ragione di essere, e la sacrifica, non fermato neanche da un messaggero divino per proporgli una vittima sostitutiva. La figlia di Iefte muore senza figli e lascia la casa del padre senza eredi. Il suo tempo di lamento (o lei stessa) divenne una tradizione e un modello per le donne israelite"; anche la Bibbia di Gerusalemmeconcorda e annota che "non bisogna attenuarne il senso: Iefte immola sua figlia per non mancare al voto che ha fatto (versetto 31). I sacrifici umani saranno sempre condannati in Israele , ma il narratore riporta l'avvenimento senza alcun biasimo, anzi sembra che l'accento sia messo sulla fedeltà al voto emesso" e l'interconfessionale Bibbia TOB precisa che "una volta pronunziato, il voto deve essere mantenuto e Iefte pensa di non potervisi sottrarre nonostante le circostanze. Il narratore tuttavia non si pronunzia sulla moralità di questo voto [ma] il rigore del voto, che qui appare inviolabile, si attenuerà col tempo". Il commento della Bibbia Edizioni Paoline rileva inoltre come "una volta pronunciato, il voto doveva essere mantenuto ad ogni costo. I sacrifici erano praticati sin dai tempi antichi dai Semiti e anche dagli Ebrei; Iefte si comporta come un uomo del suo tempo" ma in seguito "combattuta dai profeti, questa pratica aberrante fu proibita dalla legge"; tali studiosi - in merito al sopracitato versetto: "Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli fece di lei quello che aveva promesso con voto." - sottolineano ancora: "Versetto molto delicato. L'orrore del fatto è coperto sotto la riserva delle parole".
Il voto: un sacrificio animale?
Si è ipotizzato che Iefte, nel pronunciare il suo voto, si riferisse a un sacrificio animale anziché a una persona. Quindi l'animale che per primo fosse uscito da casa sua, sarebbe stato sacrificato.
Contesto e usanze israelite, ad avviso di alcuni apologeti, non confortano questa tesi.
Il voto di Iefte in effetti recitava: «Chiunque uscirà dalla porta di casa mia per venirmi incontro» Ma:
Gli Israeliti non avevano animali per i sacrifici in casa.
Di che reale valore sarebbe stato un sacrificio animale in cambio di una vittoria, tanto da potersi considerare "un voto" di un certo peso, visto che gli Israeliti sacrificavano regolarmente animali a Dio?
Il voto: un sacrificio umano?
Anche se generalmente l'interpretazione della prima tradizione cristiana ed ebrea è stata che la figlia di Iefte sia stata sacrificata a Dio, alcuni scioccati dall'idea hanno ipotizzato che il voto di Iefte non dovesse essere interpretato in modo così letterale.
Una delle principali domande che alcuni importanti biblisti si sono posti è stata: poteva essere mai possibile, che l'amorevole Dio della Bibbia avesse accettato un sacrificio umano, pratica da Lui osteggiata e aspramente da sempre condannata? Fanno notare inoltre che se quello di Iefte fosse stato realmente un sacrificio umano, questo potrebbe considerarsi l'unico sacrificio umano a Dio. In tutte le Sacre Scritture non troviamo nessun altro racconto di un altro sacrificio umano. La sua unicità nel racconto dell'intera Bibbia, dovrebbe suscitare secondo alcuni, il dubbio se anche quello di Iefte fosse davvero un sacrificio umano.
Quanto coerente sarebbe stato il Dio della Bibbia, che condanna e annienta gli amalechiti, proprio per la loro pratica di sacrifici umani, e poi ne accetta uno da un suo fedele servitore come fu Iefte, che era stato utilizzato da Dio proprio per punire quelli amalechiti per quello stesso tipo di pratica? Inoltre, la figlia di Iefte era innocente, poteva mai una legge giustificare la sua uccisione, anche se offerta come olocausto a Dio?
Se Iefte, un servitore che aveva operato fino ad allora sotto la potenza dello spirito di Dio (Giudici, 11:29) fosse stato un personaggio che avesse compiuto un'azione sconsiderata, come mai Samuele, nel Vecchio Testamento, lo chiama "liberatore mandato da Dio" e Paolo nel Nuovo Testamento lo cita come un "esempio" eccelso di fede da seguire? Il biblista e teologo Ethelbert William Bullinger in una sua pubblicazione che analizzava «...il gran nuvolo di testimoni...» di Ebrei ammette che Iefte era un uomo non solo di grande fede, ma versato nella legge di Dio, lo dimostra il suo messaggio al re ammonita, per cui conosceva esattamente che cosa Dio gradiva e che cosa aborriva nell'adorazione che lo riguardava.
La fede basata sulla conoscenza dei propositi di Dio viene messa in risalto, secondo Bullinger, anche da ciò che scrive Paolo su di lui nella sua Lettera agli Ebrei, capitolo 11, dove Iefte è considerato esempio di fede: «Che avrebbe sacrificato sua figlia, e che Dio non avrebbe riprovato con una sola parola di disapprovazione un sacrificio umano è una teoria incredibile ed inaccettabile. E solo una umana interpretazione, su cui i Teologi hanno differito in tutte le età, e la quale non è mai stata raggiunta con un esame accurato del testo», così come fece, secondo Bullinger invece, il filosofo, grammatico e commentatore biblico ebreo Rabbi David Kimhi Radak nell'esaminare e tradurre il termine "voto".
In questa analisi Bullinger conclude: «Possiamo concludere dall'intero volume delle Scritture, come pure dai Salmi 106:35-38, Isaia 57:5 ecc. che il sacrificio umano era un'abominazione agli occhi di Dio; e non possiamo immaginare che Dio l'avrebbe accettato, o che Iefte avrebbe offerto, sangue umano. Sostenere questa idea è una diffamazione su Jehovah come pure su Iefte».
Anche l'accademico, teologo e apologista Fulcran Vigouroux nel suo Dictionnaire de la Bible sostiene lo stesso punto di vista di Bullinger, sostenendo che il voto di Iefte non riguardava il sacrifico umano della figlia. D'altronde The Catholic Encyclopedia sostiene un punto di vista diverso, giudicando quel periodo in cui avvennero gli avvenimenti raccontati nel libro biblico di Giudici, un periodo in cui non esisteva alcuna etica di comportamento, una condizione "eticamente barbara" e trasgressiva, un clima in cui quindi, il sacrificio umano da parte degli abitanti di Galaad era credibile e praticabile.
Il teologo e studioso biblico Adam Clarke, nel suo Commentario del libro biblico di Giudici sostiene invece che non ci fu nessun sacrificio umano proprio perché erano le stesse precise leggi di Dio date ad Israele a vietarlo. Dopo aver esaminato i diversi tipi di sacrifici compiuti in quel tempo, umani per i pagani e animali per gli israeliti, in una sua importante opera, il teologo sostiene che Iefte non avrebbe potuto sacrificare sua figlia per le seguenti ragioni e considerazioni:
Il sacrificio di bambini al dio ammonita Moloc era considerato da Dio un abominio. In diversi e innumerevoli occasioni Dio esprime il suo odio verso tale pratica. Esisteva "una legge precisa", che vietava i sacrifici umani, riportata in Levitico, 20:2,3 e che prevedeva verso i trasgressori la pena di morte. Inoltre quella pratica era considerata una profanazione del suo nome santo. Se questo era vero per i sacrifici fatti agli dei pagani, il sacrificio umano della figlia di Iefte fatto a Dio stesso, non poteva essere altro che considerato un abominio maggiore, più grande e più dissacrante. Inoltre non c'è nessun precedente nel Vecchio Testamento che riguardi quella pratica abominevole.
Isacco non rappresenta il precedente di un sacrificio umano, per lui non ci fu alcun sacrificio, Dio mandò un angelo a fermare la mano di Abramo. Il suo sacrificio fu proposto solo come prova della fede del patriarca.
Che Iefte potesse uccidere in tutta autonomia la figlia, sacrificandola a Dio violava un'altra precisa legge. Nessun padre con un figlio dissoluto e impenitente, secondo la espressa legge contenuta in Deuteronomio, poteva prendere decisioni per punizioni importanti, senza che il figlio fosse stato prima giudicato da un tribunale costituito nei tempi biblici dagli anziani del luogo. Anziani che dovevano raggiungere in tutti i casi un giudizio condiviso. A maggior ragione alla luce di quella legge biblica, Iefte non solo non poteva arrogarsi il diritto di togliere la vita alla figlia con la sola sua autorità, a una figlia per di più che non aveva commesso alcun errore, a una figlia innocente.
Anche sul valore del voto Clarke fa notare una contraddizione. La Mishnah, ovvero la legge tradizionale degli ebrei, al ver. 212 asseriva, che se un ebreo dedicava suo figlio o la figlia, il suo schiavo o schiava, ebrei, tale voto di dedicazione non sarebbe stato valido. Nessun uomo poteva dedicare ciò che non era suo.
Questi argomenti, ad avviso di Clark, sono decisivi contro la supposizione che Iefte fece un sacrificio umano. Inoltre il sacrificio, che ad avviso di Clark consistette nel voto di celibato della figlia, per soddisfare quella legge, non poteva essere fatto contro la volontà della figlia stessa, così com'è dimostrato dalla storia e dalla considerazione che la figlia di Iefte ebbe dalle figlie di Israele per aver adempiuto il suo dovere filiale. Considerazione che come la storia di Giudici dimostra, veniva manifestata ogni anno in una commemorazione di quattro giorni in ricordo della sua scelta.
Il voto di dedicazione della figlia di Iefte simile a quello dei netinei.
Se il voto di Iefte, ad avviso di alcuni studiosi e biblisti, non fu cruento e non ci fu alcuna uccisione, in che cosa consisté allora l'offerta del giudice d'Israele? Fu un voto di dedicazione promosso da Iefte per sua figlia al servizio di Dio, l'appartenenza a una categoria di persone che ricorda i netinei. Un moderno commentatore biblico, Samuel Landers, sostiene infatti, che tutte le evidenze bibliche dimostrano che la figlia di Iefte non fu materialmente sacrificata in un olocausto a Dio, bensì fu a Lui dedicata con un voto che prevedeva il nubilato come quello dei netinei. I "netinei" era il nome dato agli assistenti del Tempio dell'antica Gerusalemme o nel Tabernacolo dell'epoca pre-monarchica. Il termine è applicato in forma verbale ai Gabaoniti nel libro biblico di Giosuè. Il sostantivo si trova invece 19 volte nel testo masoretico della Bibbia ebraica, una volta in Cronache 9, poi in Esdra e Neemia, e sempre al plurale. I Lessici biblici sono concordi nell'affermare che "Netinei" deriva dalla radice semitica NTN, "dare". Quindi negli anni della sua dedicazione, secondo questo punto di vista, la vergine figlia di Iefte servì presso un santuario a Dio come assistente e aiutante, così come facevano proprio i netinei.
IFIGENIA
L’antefatto della guerra di Troia si pone sull’Olimpo, il monte sacro della mitologia
greca, dimora degli Dèi.
Eris, la dea della discordia, durante un banchetto offre una mela d’oro alla dea più
bella. Scoppia una lite tra Afrodite, la dea della bellezza e dell’amore, Era, moglie di
Zeus e Atena, dea della saggezza: tutte e tre vogliono la mela e così si stabilisce che
la scelta venga effettuata da Paride, uno dei figli di Priamo, re di Troia. Ciascuna dea
gli offre in cambio qualcosa: vince Afrodite, che dona a Paride l’amore della donna più
bella del mondo, Elena, moglie di Menelao, re di Sparta.
Giunto in questa città, Paride rapisce Elena e la porta con sé a Troia; nel frattempo
Menelao, con l’aiuto del fratello Agamennone, re di Micene, organizza una guerra
contro Troia per vendicare l’offesa subita e riportare a casa la moglie.
Alla guerra partecipano moltissimi principi greci. Vediamo i più importanti:
- Achille: figlio della ninfa Teti e del mortale Peleo, re di Tessaglia. Alla sua nascita la
madre, per renderlo invulnerabile, lo immerse nelle acque del fiume Stige, tenendolo
per un tallone. Teti sa che il figlio morirà a Troia, perciò lo nasconde presso il re di
Sciro. Quando Ulisse giunse alla corte del re per cercare Achille, costui, che indossava
abiti femminili per non farsi riconoscere, non potè resistere al richiamo delle armi e
decise così di rientrare in patria, a Ftia;
- Ulisse, re di Itaca, si era finto pazzo arando la spiaggia e seminando sale, ma fu
smascherato quando il figlioletto Telemaco venne deposto davanti all’aratro; Ulisse si
fermò, rivelando così di non essere pazzo;
- Agamennone: poco prima della partenza della flotta greca, i venti non permisero alle
navi di salpare. L’indovino Calcante predisse che ciò era dovuto all’uccisione da parte
di Agamennone di una cerva sacra ad Artemide, dea della caccia. Per placare l’ira della
dea, Agamennone avrebbe dovuto sacrificare la figlia Ifigenia; durante il sacrificio,
però, Artemide sostituì la fanciulla con una cerva. La flotta potè salpare e così ebbe
inizio la guerra di Troia.
Ifigenìa in Àulide è una tragedia di Euripide, scritta tra il 407 ed il 406 a.C., nel periodo che l'autore passò alla corte di Archelao, re di Macedonia, dove morì. L'opera reca alcuni segni di incompiutezza e non fu mai messa in scena dall'autore.
La prima rappresentazione avvenne nel 403 a.C.] ad opera del figlio (o nipote) dell'autore, chiamato anch'egli Euripide. La tragedia venne messa in scena nell'ambito di una trilogia che comprendeva anche Le Baccanti e Alcmeone a Corinto (oggi perduta), con le quali l'autore ottenne una vittoria postuma alle Grandi Dionisie di quell'anno.
La scena è ambientata nell'accampamento greco, in Aulide, sulla costa della Beozia, dove le navi dirette verso Troia sono bloccate a causa di una lunga bonaccia. Nel prologo si racconta che l'indovino Calcante ha affermato che solo sacrificando alla dea Artemide una figlia di Agamennone, Ifigenia, i venti torneranno a spirare. Ifigenia però non è con loro, è rimasta a casa, così Agamennone, persuaso da Odisseo, le scrive una lettera in cui le prospetta un matrimonio con Achille, chiedendole quindi di raggiungerli in Aulide. In seguito però, pentito di questo inganno, cerca di avvertire la figlia di non mettersi in viaggio, scrivendole un altro messaggio.
Il secondo messaggio viene intercettato da Menelao, che lo toglie di mano al vecchio che lo portava con sé, e rimprovera severamente Agamennone per il suo tentativo di tradimento. Arrivano quindi in Aulide Ifigenia e la madre Clitennestra, con il piccolo Oreste, per le nozze. A quel punto viene a galla la verità, sicché le due donne si ribellano furiosamente: Clitennestra biasimando aspramente il marito, Ifigenia chiedendo pietà con parole toccanti. Anche Achille, nello scoprire che il suo nome era stato usato per un atto tanto infame, minaccia vendetta.
Ifigenia però, nel vedere l'importanza che la spedizione ricopre per tutti i greci, cambia atteggiamento e offre la propria vita, calmando la madre e respingendo l'aiuto di Achille. Al momento del sacrificio, però, la ragazza scompare e al suo posto la dea Artemide invia una cerva, tra lo stupore e la felicità dei presenti, che in tal modo capiscono che la ragazza è stata salvata dagli dei ed ora dimora presso di loro. Il vento torna a spirare e la flotta può finalmente salpare verso Troia.
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Eugenio Caruso - 12- 06 - 2021
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