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Omero, Iliade, Libro I. Introduzione.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

ILIADE

ifigenia
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartiene ad Omero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.

E' interessante osservare come tutti i grandi poemi rappresentino un aspetto della nostra vita: l'ILIADE ci dice che la vita è sempre una guerra, l'ODISSEA che essa è un lungo viaggio, la DIVINA COMMEDIA che la vita è amore, l'ENEIDE che la vita è una continua ricerca, il librro di GIOBBE che la vita è un enigma, per le METAMORFOSI di Ovidio la vita è fantasia.

L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se ed allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.

GLI EROI DELLA MITOLOGIA GRECA E LATINA. Le Armature.

In tutti i grandi poemi epici della letteratura antica greca e latina incontriamo alcuni eroi che quando scendono in campo compiono stragi dei nemici, ne vengono uccisi a centinaia. Sembra che questi avvenimenti siano dovuti alle potenze dell'Olimpo che privilegiano questo o quell'eroe. In realtà c'è sempre qualcosa di vero nei racconti mitologici. Gli eserciti antichi erano costituiti da principi o re che indossavano armi poderose; i semplici soldati erano, per lo più, contadini o artigiani che erano costretti a seguire il proprio principe, ma che non avevano certo i soldi per comprare armature adeguate; in Grecia facevano eccezione gli opliti che erano veri soldati. La loro armatura, definita con il termine panoplia, era costituita da un elmo, da una corazza pesante, da schinieri in bronzo, da una corta spada , da una lancia e infine da uno scudo bronzeo rotondo fornito di un passante centrale e di un'impugnatura lungo il bordo.Gli scontri avvenivano, per lo più, tra "eroi" con armature scintillanti e potenti e poveracci mandati allo sbaraglio. Se facciamo caso, nei racconti mitologici si parla molto delle armi degli eroi; le armi di Achille e di Enea sono forgiate, ad esempio, da Vulcano. Possedere armi "tecnologicamente", forgiate dava agli eroi possibilità apparentemente soprannaturali; uno scudo resistente, leggero e maneggevole dava al cavaliere che guidava carri da guerra anch'essi protetti una potenza di sfondamento inaudita. Una spada di ferro temprata era certamente più efficace di un'arna in bronzo; giova notare all'epoca della guerra di Troia il ferro era scarso e molto costoso.Quando lo scontro è tra eroi vince chi ha armature più potenti. Nello scontro tra Menelao e il Pavido Paride la spada di Menelao si frantuma colpendo l'elmo di Paride; Menelao ne esce comunque vincitore perchè più forte e coraggioso.
Alla meta del XIII secolo a.C., l'arte della guerra stava muovendo i primi passi. Gli eserciti non possedevano tattiche codificate, nè macchine d'assedio, non avevano ancora assunto il classico schieramento con un centro e due ali, e i carri dei re e dei guerrieri più illustri non erano usati coerentemente come massa di manovra o di sfondamento, combattendo confusi con le fanterie. La condotta di guerra, appare quindi nell'Iliade molto più primitiva del livello allora raggiunto da Ittiti e Assiri, dove i carri da guerra erano impegnati in massa come forza d'urto e di manovra, mentre le fanterie erano ben organizzate in divisioni.
Inoltre ci troviamo allo scadere dell'età del bronzo, e il ferro è ancora poco conosciuto o comunque scarsamente usato, poiché di costo eccezionale vista la sua rarità. Le armi descritte da Omero sono, escluse le rarissime volte che lascia spazio a ipotesi (le armi divine), tutte di bronzo e quindi pesanti, poco pratiche e per nulla maneggevoli. Un particolare abbastanza interessante da notare nel poema è l'assenza della cavalleria. Il cavallo, introdotto prima in medio oriente e in seguito in occidente e in Egitto, era usato soltanto come mezzo di locomozione del carro da guerra. Il carro di tipo miceneo, piuttosto fragile, si componeva di tre parti: un piccolo pianale di legno, un parapetto di graticcio o di cuoio, due ruote leggere a quattro raggi in legno di olmo con il cerchio di bronzo ed un timone che collegava il veicolo al giogo dei cavalli. L'equipaggio del carro era costituito dal guerriero trasportato e dall'auriga-scudiero. Quest'ultimo teneva le redini e dirigeva il veicolo, mentre l'altro poteva combattere anche a bordo maneggiando la lancia, anche se spesso scendeva dal carro per misurarsi con avversari degni del suo valore in duelli (spesso tra aristocratici) che potevano decidere l'intera battaglia. L'uso del carro come abbiamo detto era del tutto individuale e lasciato all'iniziativa del nobile che lo montava, senza alcuna coordinazione con la fanteria o gli altri carri.
L'unica differenza che Omero rileva tra gli schieramenti di Achei e Troiani, consiste nel fatto che i primi avanzavano in fitte schiere, mentre i secondi in massa, ma disordinati e confusi. Non sappiamo però se questa notizia sia dovuta a una sorta di "nazionalismo" dell'autore, teso a dimostrare la superiore disciplina dei Micenei rispetto a quella degli Asiatici, o se realmente rispondesse a verità.
Certo è che nei secoli a cui è riferita l'Iliade erano già presenti le prime milizie oplitiche nelle città della Grecia. Queste si ordinavano in battaglia per ranghi serrati, anche se meno densi che nella successiva falange, e muovevano silenziosamente, per la necessità di sentire gli ordini di manovra degli ufficiali e per tenere il passo. Poche notizie storiche invece affiorano sui Mirmidoni il leggendario corpo scelto acheo, comandato personalmente da Achille.

INTRODUZIONE al PRIMO LIBRO

Durante il decimo anno della guerra di Troia Crise, sacerdote del dio Apollo, si reca da Agamennone per farsi riconsegnare la figlia Criseide, che il potente re acheo teneva con sé come schiava. Il sovrano greco lo maltratta e ingiuriandolo rifiuta la sua offerta, ordinandogli poi di andarsene e di non farsi mai più vedere presso il suo campo e le sue navi. Disperato, il sacerdote scongiura Apollo di punire gli Achei a causa del grave affronto che ha subito dall'arrogante Agamennone. Il dio, infuriatosi, discende in fretta dall'Olimpo e comincia a colpire gli uomini presso le navi achee con l'infallibile mira del suo arco d'argento e dei suoi dardi avvelenati, gettando una pestilenza su tutto l'accampamento dei Danai e provocando così una moria di eroi. Dopo dieci giorni, Achille indice un'assemblea di tutti gli Achei per discutere dell'emergenza ed esorta l'indovino Calcante a rivelare quali siano le cause della pestilenza. L'indovino spiega allora che il motivo per il quale la peste è scoppiata va ricercato nell'ira di Apollo, dovuta al maltrattamento subito dal suo sacerdote da parte di Agamennone. Quest'ultimo, sentendosi accusato, inveisce contro Calcante, accusandolo di vaticinare solo cose funeste. Achille interviene e, dopo un breve scambio di parole tra i due, nasce subito un attrito e comincia un vero e proprio litigio. Alla fine, dopo molti insulti e ingiuriose parole, l'Atride Agamennone acconsente a lasciare andare Criseide, ma per non restare senza una donna come dono e per non essere quindi privato del riconoscimento del suo eroismo, dato che l'ancella era il premio ottenuto dopo la conquista di una città, decide di prendere quella del Pelide Achille, Briseide. Achille, offeso nel suo orgoglio, sta per estrarre la spada e uccidere Agamennone, quando Atena, inviata da Era, che ha a cuore tutti e due gli eroi, lo afferra per i capelli, dicendogli che un giorno molto vicino per fare ammenda a quella grave offesa gli avrebbero offerto doni tre volte superiori al maltolto. Achille, seppur a malincuore, ascolta la dea e, rinfoderata la spada, offende pesantemente Agamennone, annunciando anche che non avrebbe combattuto più al suo fianco finché non gli avesse riparato quel torto. Allora si sarebbe presto pentito, quando Ettore avrebbe fatto strage di Achei e lui sarebbe stato costretto ad assistervi, debole e impotente, lacerato nel cuore dal dolore. Dopo un intervento di Nestore, che cerca inutilmente di far riappacificare i due, la seduta è sciolta e Agamennone dà ordine che Odisseo, alla guida di un'ambasceria, riporti Criseide dal padre, mentre ordina a due dei suoi araldi di prelevare Briseide dalla tenda del Pelide e di portarla nella sua. I due, seppur a malincuore, obbediscono e Achille, vedendo che la sua donna viene condotta via a forza, scoppia a piangere e invoca la madre Teti, che accorre dalle profondità degli abissi del mare dove dimora per consolare il figlio, che le fa un breve sunto della vicenda, chiedendole poi di rivolgersi a Zeus perché questi metta in risalto il suo valore. La madre si duole delle pene del figlio e gli promette che quando gli dèi fossero tornati all'Olimpo (in quel momento erano andati per pranzo dagli Etiopi verso l'Oceano), sarebbe andata direttamente da Zeus per esaudire la sua preghiera. Intanto parte la spedizione di Odisseo presso Ilio, volta a riportare a Crise sua figlia. Dopo molti sacrifici per deliziare e placare il dio Apollo, banchetteranno fino a sera con le carni dei sacrifici e Crise, rasserenato nell'animo dal ritorno della figlia, promette che pregherà il dio di arrestare la strage dei Danai. Nel frattempo, dopo dodici giorni, gli dèi tornano finalmente all'Olimpo e Teti, memore della promessa fatta al figlio, sale fino al signore dei numi e dei mortali e, cingendogli le ginocchia, lo prega di dare la vittoria ai Troiani fino a quando gli Achei non avessero fatto ammenda al torto subito da suo figlio e non gli avessero reso il giusto onore. Il dio della folgore, seppur a malincuore, acconsente, ma sua moglie Era, che ha cara la sorte degli Achei, ha visto tutto e chiede irata al marito quali piani abbia mai ordito con Teti alle sue spalle. Il dio, tuttavia, la mette a tacere con brusche parole. Il banchetto pare prendere una piega infelice, ma interviene Efesto, che riporta la pace fra gli dèi, provocando l'ilarità di tutti per via della sua andatura zoppicante. Quando si parla di Iliade si pensa sempre a un poema che descrive i dieci anni dell'assedio; tratti in errore anche dai vari sceneggiati e film che l'hanno descritto. In realtà Omero parla solo degli ultimi 51 giorni della guerra, dall'ira di Achille ai funerali di Ettore.

TESTO LIBRO I (Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille

l'ira funesta che infiniti addusse

lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco

generose travolse alme d'eroi,

e di cani e d'augelli orrido pasto

lor salme abbandonò (così di Giove

l'alto consiglio s'adempìa), da quando

primamente disgiunse aspra contesa

il re de' prodi Atride e il divo Achille.

E qual de' numi inimicolli? Il figlio

di Latona e di Giove. Irato al Sire

destò quel Dio nel campo un feral morbo,

e la gente perìa: colpa d'Atride

che fece a Crise sacerdote oltraggio.

Degli Achivi era Crise alle veloci

prore venuto a riscattar la figlia

con molto prezzo. In man le bende avea,

e l'aureo scettro dell'arciero Apollo:

e agli Achei tutti supplicando, e in prima

ai due supremi condottieri Atridi:

O Atridi, ei disse, o coturnati Achei,

gl'immortali del cielo abitatori

concedanvi espugnar la Prïameia

cittade, e salvi al patrio suol tornarvi.

Deh mi sciogliete la diletta figlia,

ricevetene il prezzo, e il saettante

figlio di Giove rispettate. - Al prego

tutti acclamâr: doversi il sacerdote

riverire, e accettar le ricche offerte.

Ma la proposta al cor d'Agamennóne

non talentando, in guise aspre il superbo

accommiatollo, e minaccioso aggiunse:

Vecchio, non far che presso a queste navi

ne dor né poscia più ti colga io mai;

ché forse nulla ti varrà lo scettro

né l'infula del Dio. Franca non fia

costei, se lungi dalla patria, in Argo,

nella nostra magion pria non la sfiori

vecchiezza, all'opra delle spole intenta,

e a parte assunta del regal mio letto.

Or va, né m'irritar, se salvo ir brami.

Impaurissi il vecchio, ed al comando

obbedì. Taciturno incamminossi

del risonante mar lungo la riva;

e in disparte venuto, al santo Apollo

di Latona figliuol, fe' questo prego:

Dio dall'arco d'argento, o tu che Crisa

proteggi e l'alma Cilla, e sei di Tènedo

possente imperador, Smintèo, deh m'odi.

Se di serti devoti unqua il leggiadro

tuo delubro adornai, se di giovenchi

e di caprette io t'arsi i fianchi opimi,

questo voto m'adempi; il pianto mio

paghino i Greci per le tue saette.

Sì disse orando. L'udì Febo, e scese

dalle cime d'Olimpo in gran disdegno

coll'arco su le spalle, e la faretra

tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo

su gli omeri all'irato un tintinnìo

al mutar de' gran passi; ed ei simìle

a fosca notte giù venìa. Piantossi

delle navi al cospetto: indi uno strale

liberò dalla corda, e un ronzìo

terribile mandò l'arco d'argento.

Prima i giumenti e i presti veltri assalse,

poi le schiere a ferir prese, vibrando

le mortifere punte; onde per tutto

degli esanimi corpi ardean le pire.

Nove giorni volâr pel campo acheo

le divine quadrella. A parlamento

nel decimo chiamò le turbe Achille;

ché gli pose nel cor questo consiglio

Giuno la diva dalle bianche braccia,

de' moribondi Achei fatta pietosa.

Come fur giunti e in un raccolti, in mezzo

levossi Achille piè-veloce, e disse:

Atride, or sì cred'io volta daremo

nuovamente errabondi al patrio lido,

se pur morte fuggir ne fia concesso;

ché guerra e peste a un medesmo tempo

ne struggono. Ma via; qualche indovino

interroghiamo, o sacerdote, o pure

interprete di sogni (ché da Giove

anche il sogno procede), onde ne dica

perché tanta con noi d'Apollo è l'ira:

se di preci o di vittime neglette

il Dio n'incolpa, e se d'agnelli e scelte

capre accettando l'odoroso fumo,

il crudel morbo allontanar gli piaccia.

Così detto, s'assise. In piedi allora

di Testore il figliuol Calcante alzossi,

de' veggenti il più saggio, a cui le cose

eran conte che fur, sono e saranno;

e per quella, che dono era d'Apollo,

profetica virtù, de' Greci a Troia

avea scorte le navi. Ei dunque in mezzo

pien di senno parlò queste parole:

Amor di Giove, generoso Achille,

vuoi tu che dell'arcier sovrano Apollo

ti riveli lo sdegno? Io t'obbedisco.

Ma del braccio l'aita e della voce

a me tu pria, signor, prometti e giura:

perché tal che qui grande ha su gli Argivi

tutti possanza, e a cui l'Acheo s'inchina,

n'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso.

Quando il potente col minor s'adira,

reprime ei sì del suo rancor la vampa

per alcun tempo, ma nel cor la cova,

finché prorompa alla vendetta. Or dinne

se salvo mi farai. - Parla securo,

rispose Achille, e del tuo cor l'arcano,

qual ch'ei si sia, di' franco. Per Apollo

che pregato da te ti squarcia il velo

de' fati, e aperto tu li mostri a noi,

per questo Apollo a Giove caro io giuro:

nessun, finch'io m'avrò spirto e pupilla,

con empia mano innanzi a queste navi

oserà vïolar la tua persona,

nessuno degli Achei; no, s'anco parli

d'Agamennón che sé medesmo or vanta

dell'esercito tutto il più possente.

Allor fe' core il buon profeta, e disse:

né d'obblïati sacrifici il Dio

né di voti si duol, ma dell'oltraggio

che al sacerdote fe' poc'anzi Atride,

che francargli la figlia ed accettarne

il riscatto negò. La colpa è questa

onde cotante ne diè strette, ed altre

l'arcier divino ne darà; né pria

ritrarrà dal castigo la man grave,

che si rimandi la fatal donzella

non redenta né compra al padre amato,

e si spedisca un'ecatombe a Crisa.

Così forse avverrà che il Dio si plachi.

Tacque, e s'assise. Allor l'Atride eroe

il re supremo Agamennón levossi

corruccioso. Offuscavagli la grande

ira il cor gonfio, e come bragia rossi

fiammeggiavano gli occhi. E tale ei prima

squadrò torvo Calcante, indi proruppe:

Profeta di sciagure, unqua un accento

non uscì di tua bocca a me gradito.

Al maligno tuo cor sempre fu dolce

predir disastri, e d'onor vote e nude

son l'opre tue del par che le parole.

E fra gli Argivi profetando or cianci

che delle frecce sue Febo gl'impiaga,

sol perch'io ricusai della fanciulla

Crisëide il riscatto. Ed io bramava

certo tenerla in signoria, tal sendo

che a Clitennestra pur, da me condutta

vergine sposa, io la prepongo, a cui

di persona costei punto non cede,

né di care sembianze, né d'ingegno

ne' bei lavori di Minerva istrutto.

Ma libera sia pur, se questo è il meglio;

ché la salvezza io cerco, e non la morte

del popol mio. Ma voi mi preparate

tosto il compenso, ché de' Greci io solo

restarmi senza guiderdon non deggio;

ed ingiusto ciò fôra, or che una tanta

preda, il vedete, dalle man mi fugge.

O d'avarizia al par che di grandezza

famoso Atride, gli rispose Achille,

qual premio ti daranno, e per che modo

i magnanimi Achei? Che molta in serbo

vi sia ricchezza non partita, ignoro:

delle vinte città tutte divise

ne fur le spoglie, né diritto or torna

a nuove parti congregarle in una.

Ma tu la prigioniera al Dio rimanda,

ché più larga n'avrai tre volte e quattro

ricompensa da noi, se Giove un giorno

l'eccelsa Troia saccheggiar ne dia.

E a lui l'Atride: Non tentar, quantunque

ne' detti accorto, d'ingannarmi: in questo

né gabbo tu mi fai, divino Achille,

né persuaso al tuo voler mi rechi.

Dunque terrai tu la tua preda, ed io

della mia privo rimarrommi? E imponi

che costei sia renduta? Il sia. Ma giusti

concedanmi gli Achivi altra captiva

che questa adegui e al mio desir risponda.

Se non daranla, rapirolla io stesso,

sia d'Aiace la schiava, o sia d'Ulisse,

o ben anco la tua: e quegli indarno

fremerà d'ira alle cui tende io vegna.

Ma di ciò poscia parlerem. D'esperti

rematori fornita or si sospinga

nel pelago una nave, e vi s'imbarchi

coll'ecatombe la rosata guancia

della figlia di Crise, e ne sia duce

alcun de' primi, o Aiace, o Idomenèo,

o il divo Ulisse, o tu medesmo pure,

tremendissimo Achille, onde di tanto

sacrificante il grato ministero

il Dio ne plachi che da lunge impiaga.

Lo guatò bieco Achille, e gli rispose:

Anima invereconda, anima avara,

chi fia tra i figli degli Achei sì vile

che obbedisca al tuo cenno, o trar la spada

in agguati convegna o in ria battaglia?

Per odio de' Troiani io qua non venni

a portar l'armi, io no; ché meco ei sono

d'ogni colpa innocenti. Essi né mandre

né destrier mi rapiro; essi le biade

della feconda popolosa Ftia

non saccheggiâr; ché molti gioghi ombrosi

ne son frapposti e il pelago sonoro.

Ma sol per tuo profitto, o svergognato,

e per l'onor di Menelao, pel tuo,

pel tuo medesmo, o brutal ceffo, a Troia

ti seguitammo alla vendetta. Ed oggi

tu ne disprezzi ingrato, e ne calpesti,

e a me medesmo di rapir minacci

de' miei sudori bellicosi il frutto,

l'unico premio che l'Acheo mi diede.

Né pari al tuo d'averlo io già mi spero

quel dì che i Greci l'opulenta Troia

conquisteran; ché mio dell'aspra guerra

certo è il carco maggior; ma quando in mezzo

si dividon le spoglie, è tua la prima,

ed ultima la mia, di cui m'è forza

tornar contento alla mia nave, e stanco

di battaglia e di sangue. Or dunque a Ftia,

a Ftia si rieda; ché d'assai fia meglio

al paterno terren volger la prora,

che vilipeso adunator qui starmi

di ricchezze e d'onori a chi m'offende.

Fuggi dunque, riprese Agamennóne,

fuggi pur, se t'aggrada. Io non ti prego

di rimanerti. Al fianco mio si stanno

ben altri eroi, che a mia regal persona

onor daranno, e il giusto Giove in prima.

Di quanti ei nudre regnatori abborro

te più ch'altri; sì, te che le contese

sempre agogni e le zuffe e le battaglie.

Se fortissimo sei, d'un Dio fu dono

la tua fortezza. Or va, sciogli le navi,

fa co' tuoi prodi al patrio suol ritorno,

ai Mirmìdoni impera; io non ti curo,

e l'ire tue derido; anzi m'ascolta.

Poiché Apollo Crisëide mi toglie,

parta. D'un mio naviglio, e da' miei fidi

io la rimando accompagnata, e cedo.

Ma nel tuo padiglione a involarti

verrò la figlia di Brisèo, la bella

tua prigioniera, io stesso; onde t'avvegga

quant'io t'avanzo di possanza, e quindi

altri meco uguagliarsi e cozzar tema.

Di furore infiammâr l'alma d'Achille

queste parole. Due pensier gli fêro

terribile tenzon nell'irto petto,

se dal fianco tirando il ferro acuto

la via s'aprisse tra la calca, e in seno

l'immergesse all'Atride; o se domasse

l'ira, e chetasse il tempestoso core.

Fra lo sdegno ondeggiando e la ragione

l'agitato pensier, corse la mano

sovra la spada, e dalla gran vagina

traendo la venìa; quando veloce

dal ciel Minerva accorse, a lui spedita

dalla diva Giunon, che d'ambo i duci

egual cura ed amor nudrìa nel petto.

agamennone 1
Giovanni Battista Tiepolo. Atena impedisce ad Achille di uccidere Agamennone.

Gli venne a tergo, e per la bionda chioma

prese il fiero Pelìde, a tutti occulta,

a lui sol manifesta. Stupefatto

si scosse Achille, si rivolse, e tosto

riconobbe la Diva a cui dagli occhi

uscìan due fiamme di terribil luce,

e la chiamò per nome, e in ratti accenti,

Figlia, disse, di Giove, a che ne vieni?

Forse d'Atride a veder l'onte? Aperto

io tel protesto, e avran miei detti effetto:

ei col suo superbir cerca la morte,

e la morte si avrà. - Frena lo sdegno,

la Dea rispose dalle luci azzurre:

io qui dal ciel discesi ad acchetarti,

se obbedirmi vorrai. Giuno spedimmi,

Giuno ch'entrambi vi difende ed ama.

Or via, ti calma, né trar brando, e solo

di parole contendi. Io tel predìco,

e andrà pieno il mio detto: verrà tempo

che tre volte maggior, per doni eletti,

avrai riparo dell'ingiusta offesa.

Tu reprimi la furia, e obbedisci.

E Achille a lei: Seguir m'è forza, o Diva,

benché d'ira il cor arda, il tuo consiglio.

Questo fia lo miglior. Ai numi è caro

chi de' numi al voler piega la fronte.

Disse; e rattenne su l'argenteo pomo

la poderosa mano, e il grande acciaro

nel fodero respinse, alle parole

docile di Minerva. Ed ella intanto

all'auree sedi dell'Egìoco padre

sul cielo risalì fra gli altri Eterni.

Achille allora con acerbi detti

rinfrescando la lite, assalse Atride:

Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core!

Tu non osi giammai nelle battaglie

dar dentro colla turba; o negli agguati

perigliarti co' primi infra gli Achei,

ché ogni rischio t'è morte. Assai per certo

meglio ti torna di ciascun che franco

nella grand'oste achea contro ti dica,

gli avuti doni in securtà rapire.

Ma se questa non fosse, a cui comandi,

spregiata gente e vil, tu non saresti

del popol tuo divorator tiranno,

e l'ultimo de' torti avresti or fatto.

Ma ben t'annunzio, e altamente il giuro

per questo scettro (che diviso un giorno

dal montano suo tronco unqua né ramo

né fronda metterà, né mai virgulto

germoglierà, poiché gli tolse il ferro

con la scorza le chiome, ed ora in pugno

sel portano gli Achei che posti sono

del giusto a guardia e delle sante leggi

ricevute dal ciel), per questo io giuro,

e invïolato sacramento il tieni:

stagion verrà che negli Achei si svegli

desiderio d'Achille, e tu salvarli

misero! non potrai, quando la spada

dell'omicida Ettòr farà vermigli

di larga strage i campi: e allor di rabbia

il cor ti roderai, ché sì villana

al più forte de' Greci onta facesti.

Disse; e gittò lo scettro a terra, adorno

d'aurei chiovi, e s'assise. Ardea l'Atride

di novello furor, quando nel mezzo

surse de' Pilii l'orator, Nestorre

facondo sì, che di sua bocca uscièno

più che mel dolci d'eloquenza i rivi.

Di parlanti con lui nati e cresciuti

nell'alma Pilo ei già trascorse avea

due vite, e nella terza allor regnava.

Con prudenti parole il santo veglio

così loro a dir prese: Eterni Dei!

Quanto lutto alla Grecia, e quanta a Prìamo

gioia s'appresta e a' suoi figli e a tutta

la dardania città, quando fra loro

di voi s'intenda la fatal contesa,

di voi che tutti di valor vincete

e di senno gli Achei! Deh m'ascoltate,

ché minor d'anni di me siete entrambi;

ed io pur con eroi son visso un tempo

di voi più prodi, e non fui loro a vile:

ned altri tali io vidi unqua, né spero

di riveder più mai, quale un Drïante

moderator di genti, e Piritòo,

Cèneo ed Essadio e Polifemo uom divo,

e l'Egìde Teseo pari ad un nume.

Alme più forti non nudrìa la terra,

e forti essendo combattean co' forti,

co' montani Centauri, e strage orrenda

ne fean. Con questi, a lor preghiera, io spesso

partendomi da Pilo e dal lontano

Apio confine, a conversar venìa,

e secondo mie forze anch'io pugnava.

Ma di quanti mortali or crea la terra

niun potrìa pareggiarli. E nondimeno

da quei prestanti orecchio il mio consiglio

ed il mio detto obbedïenza ottenne.

E voi pur anco m'obbedite adunque,

ché l'obbedirmi or giova. Inclito Atride,

deh non voler, sebben sì grande, a questi

tor la fanciulla; ma ch'ei s'abbia in pace

da' Greci il dato guiderdon consenti:

né tu cozzar con inimico petto

contra il rege, o Pelìde. Un re supremo,

cui d'alta maestà Giove circonda,

uguaglianza d'onore unqua non soffre.

Se generato d'una diva madre

tu lui vinci di forza, ei vince, o figlio,

te di poter, perché a più genti impera.

Deh pon giù l'ira, Atride, e placherassi

pure Achille al mio prego, ei che de' Greci

in sì ria guerra è principal sostegno.

Tu rettissimo parli, o saggio antico,

pronto riprese il regnatore Atride;

ma costui tutti soverchiar presume,

tutti a schiavi tener, dar legge a tutti,

tutti gravar del suo comando. Ed io

potrei patirlo? Io no. Se il fêro i numi

un invitto guerrier, forse pur anco

di tanto insolentir gli diero il dritto?

Tagliò quel dire Achille, e gli rispose:

Un pauroso, un vil certo sarei

se d'ogni cenno tuo ligio foss'io.

Altrui comanda, a me non già; ch'io teco

sciolto di tutta obbedienza or sono.

Questo solo vo' dirti, e tu nel mezzo

lo rinserra del cor. Per la fanciulla

un dì donata, ingiustamente or tolta,

né con te né con altri il brando mio

combatterà. Ma di quant'altre spoglie

nella nave mi serbo, né pur una,

s'io la niego, t'avrai. Vien, se nol credi,

vieni alla prova; e il sangue tuo scorrente

dalla mia lancia farà saggio altrui.

Con questa di parole aspra tenzone

levârsi, e sciolto fu l'acheo consesso.

Con Patroclo il Pelìde e co' suoi prodi

riede a sue navi nelle tende; e Atride

varar fa tosto a venti remi eletti

una celere prora colla sacra

ecatombe. Di Crise egli medesmo

vi guida e posa l'avvenente figlia;

duce v'ascende il saggio Ulisse, e tutti

già montati correan l'umide vie.

Ciò fatto, indisse al campo Agamennóne

una sacra lavanda: e ognun devoto

purificarsi, e via gittar nell'onde

le sozzure, e del mar lungo la riva

offrir di capri e di torelli intere

ecatombi ad Apollo. Al ciel salìa

volubile col fumo il pingue odore.

Seguìan nel campo questi riti. E fermo

nel suo dispetto e nella dianzi fatta

ria minaccia ad Achille, intanto Atride

Euribate e Taltibio a sé chiamando,

fidi araldi e sergenti, Ite, lor disse,

del Pelìde alla tenda, e m'adducete

la bella figlia di Brisèo. Se il niega,

io ne verrò con molta mano, io stesso,

a gliela tôrre: e ciò gli fia più duro.

Disse; e il cenno aggravando in via li pose.

Del mar lunghesso l'infecondo lido

givan quelli a mal cuore, e pervenuti

de' Mirmidóni alla campal marina

trovâr l'eroe seduto appo le navi

davanti al padiglion: né del vederli

certo Achille fu lieto. Ambo al cospetto

regal fermârsi trepidanti e chini,

né far motto fur osi né dimando.

Ma tutto ei vide in suo pensiero, e disse:

Messaggeri di Giove e delle genti,

salvete, araldi, e v'appressate. In voi

niuna è colpa con meco. Il solo Atride,

ei solo è reo, che voi per la fanciulla

Brisëide qui manda. Or va, fuor mena,

generoso Patròclo, la donzella,

e in man di questi guidator l'affida.

Ma voi medesmi innanzi ai santi numi

e innanzi ai mortali e al re crudele

siatemi testimon, quando il dì splenda

che a scampar gli altri di rovina il mio

braccio abbisogni. Perocché delira

in suo danno costui, ned il presente

vede, né il poi, né il come a sua difesa

salvi alle navi pugneran gli Achei.

Disse; e Patròclo del diletto amico

al comando obbedì. Fuor della tenda

Brisëide menò, guancia gentile,

e agli araldi condottier la cesse.

Mentre ei fanno alle navi achee ritorno,

e ritrosa con lor partìa la donna,

proruppe Achille in un subito pianto,

e da' suoi scompagnato in su la riva

del grigio mar s'assise, e il mar guardando

le man stese, e dolente alla diletta

madre pregando, Oh madre! è questo, disse,

questo è l'onor che darmi il gran Tonante

a conforto dovea del viver breve

a cui mi partoristi? Ecco, ei mi lascia

spregiato in tutto: il re superbo Atride

Agamennón mi disonora; il meglio

de' miei premi rapisce, e sel possiede.

Sì piangendo dicea. La veneranda

genitrice l'udì, che ne' profondi

gorghi del mare si sedea dappresso

al vecchio padre; udillo, e tosto emerse,

come nebbia, dall'onda: accanto al figlio,

che lagrime spargea, dolce s'assise,

e colla mano accarezzollo, e disse:

Figlio, a che piangi? e qual t'opprime affanno?

Di', non celarlo in cor, meco il dividi.

Madre, tu il sai, rispose alto gemendo

il piè-veloce eroe. Ridir che giova

tutto il già conto? Nella sacra sede

d'Eezïon ne gimmo; la cittade

ponemmo a sacco, e tutta a questo campo

fu condotta la preda. In giuste parti

la diviser gli Achivi, e la leggiadra

Crisëide fu scelta al primo Atride.

Crise d'Apollo sacerdote allora

con l'infula del nume e l'aureo scettro

venne alle navi a riscattar la figlia.

Molti doni offerì, molte agli Achivi

porse preghiere, ed agli Atridi in prima.

Invan; ché preghi e doni e sacerdote

e degli Achei l'assenso ebbe in dispregio

Agamennón, che minaccioso e duro

quel misero cacciò dal suo cospetto.

Partì sdegnato il veglio; e Apollo, a cui

diletto capo egli era, il suo lamento

esaudì dall'Olimpo, e contra i Greci

pestiferi vibrò dardi mortali.

Perìa la gente a torme, e d'ogni parte

sibilanti del Dio pel campo tutto

volavano gli strali. Alfine un saggio

indovin ne fe' chiaro in assemblea

l'oracolo d'Apollo. Io tosto il primo

esortai di placar l'ire divine.

Sdegnossene l'Atride, e in piè levato

una minaccia mi fe' tal che pieno

compimento sortì. Gli Achivi a Crisa

sovr'agil nave già la schiava adducono

non senza doni a Febo; e dalla tenda

a me pur dianzi tolsero gli araldi,

e menâr seco di Brisèo la figlia,

la fanciulla da' Greci a me donata.

Ma tu che il puoi, tu al figlio tuo soccorri,

vanne all'Olimpo, e porgi preghi a Giove,

s'unqua Giove per te fu nel bisogno

o d'opera aitato o di parole.

Nel patrio tetto, io ben lo mi ricordo,

spesso t'intesi glorïarti, e dire

che sola fra gli Dei da ria sciagura

Giove campasti adunator di nembi,

il giorno che tentâr Giuno e Nettunno

e Pallade Minerva in un con gli altri

congiurati del ciel porlo in catene;

ma tu nell'uopo sopraggiunta, o Dea,

l'involasti al periglio, all'alto Olimpo

prestamente chiamando il gran Centìmano,

che dagli Dei nomato è Brïarèo,

da' mortali Egeóne, e di fortezza

lo stesso genitor vincea d'assai.

Fiero di tanto onore alto ei s'assise

di Giove al fianco, e n'ebber tema i numi,

che poser di legarlo ogni pensiero.

Or tu questo rammentagli, e al suo lato

siedi, e gli abbraccia le ginocchia, e il prega

di dar soccorso ai Teucri, e far che tutte

fino alle navi le falangi achee

sien spinte e rotte e trucidate. Ognuno

lo si goda così questo tiranno;

senta egli stesso il gran regnante Atride

qual commise follìa quando superbo

fe' de' Greci al più forte un tanto oltraggio.

E lagrimando a lui Teti rispose:

Ahi figlio mio! se con sì reo destino

ti partorii, perché allevarti, ahi lassa!

Oh potessi ozioso a questa riva

senza pianto restarti e senza offese,

ingannando la Parca che t'incalza,

e omai t'ha raggiunto! Ora i tuoi giorni

brevi sono ad un tempo ed infelici,

ché iniqua stella il dì ch'io ti produssi

i talami paterni illuminava.

E nondimen d'Olimpo alle nevose

vette n'andrò, ragionerò con Giove

del fulmine signore, e al tuo desire

piegarlo tenterò. Tu statti intanto

alle navi; e nell'ozio del tuo brando

senta l'Achivo de' tuoi sdegni il peso.

Perocché ieri in grembo all'Oceàno

fra gl'innocenti Etïopi discese

Giove a convito, e il seguîr tutti i numi.

Dopo la luce dodicesma al cielo

tornerà. Recherommi allor di Giove

agli eterni palagi; al suo ginocchio

mi gitterò, supplicherò, né vana

d'espugnarne il voler speranza io porto.

Partì, ciò detto; e lui quivi di bile

macerato lasciò per la fanciulla

suo mal grado rapita. Intanto a Crisa

colla sacra ecatombe Ulisse approda.

Nel seno entrati del profondo porto,

le vele ammaïnâr, le collocaro

dentro il bruno naviglio, e prestamente

dechinâr colle gomone l'antenna,

e l'adagiâr nella corsìa. Co' remi

il naviglio accostâr quindi alla riva;

e l'ancore gittate, e della poppa

annodati i ritegni, ecco sul lido

tutta smontar la gente, ecco schierarsi

l'ecatombe d'Apollo, e dalla nave

dell'onde vïatrice ultima uscire

Crisëide. All'altar l'accompagnava

l'accorto Ulisse, ed alla man del caro

genitor la ponea con questi accenti:

Crise, il re sommo Agamennón mi manda

a ti render la figlia, e offrir solenne

un'ecatombe a Febo, onde gli sdegni

placar del nume che gli Achei percosse

d'acerbissima piaga. - In questo dire

l'amata figlia in man gli cesse; e il vecchio

la si raccolse giubilando al petto.

Tosto dintorno al ben costrutto altare

in ordinanza statuîr la bella

ecatombe del Dio; lavâr le palme,

presero il sacro farro, e Crise alzando

colla voce la man, fe' questo prego:

Dio che godi trattar l'arco d'argento,

tu che Crisa proteggi e la divina

Cilla, signor di Tènedo possente,

m'odi: se dianzi a mia preghiera il campo

acheo gravasti di gran danno, e onore

mi desti, or fammi di quest'altro voto

contento appieno. La terribil lue,

che i Dànai strugge, allontanar ti piaccia.

Sì disse orando, ed esaudillo il nume.

Quindi fin posto alle preghiere, e sparso

il salso farro, alzar fêr suso in prima

alle vittime il collo, e le sgozzaro.

tratto il cuoio, fasciâr le incise cosce

di doppio omento, e le coprîr di crudi

brani. Il buon vecchio su l'accese schegge

le abbrustolava, e di purpureo vino

spruzzando le venìa. Scelti garzoni

al suo fianco tenean gli spiedi in pugno

di cinque punte armati: e come fûro

rosolate le coste, e fatto il saggio

delle viscere sacre, il resto in pezzi

negli schidoni infissero, con molto

avvedimento l'arrostiro, e poscia

tolser tutto alle fiamme. Al fin dell'opra,

poste le mense, a banchettar si diero,

e del cibo egualmente ripartito

sbramârsi tutti. Del cibarsi estinto

e del bere il desìo, d'almo lïeo

coronando il cratere, a tutti in giro

ne porsero i donzelli, e fe' ciascuno,

libagion colle tazze. E così tutto

cantando il dì la gioventude argiva,

e un allegro peàna alto intonando,

laudi a Febo dicean, che nell'udirle

sentìasi tocco di dolcezza il core.

Fugato il sole dalla notte, ei diersi

presso i poppesi della nave al sonno.

Poi come il cielo colle rosee dita

la bella figlia del mattino aperse,

conversero la prora al campo argivo,

e mandò loro in poppa il vento Apollo.

Rizzâr l'antenna, e delle bianche vele

il seno dispiegâr. L'aura seconda

le gonfiava per mezzo, e strepitoso,

nel passar della nave, il flutto azzurro

mormorava dintorno alla carena.

Giunti agli argivi accampamenti, in secco

trasser la nave su la colma arena,

e lunghe vi spiegâr travi di sotto

acconciamente. Per le tende poi

si dispersero tutti e pe' navili.

Appo i suoi legni intanto il generoso

Pelìde Achille nel segreto petto

di sdegno si pascea, né al parlamento,

scuola illustre d'eroi, né alle battaglie

più comparìa; ma il cor struggea di doglia

lungi dall'armi, e sol dell'armi il suono

e delle pugne il grido egli sospira.

Rifulse alfin la dodicesma aurora,

e tutti di conserva al ciel gli Eterni

fean ritorno, ed avanti iva il re Giove.

Memore allor del figlio e del suo prego,

Teti emerse dal mare, e mattutina

in cielo al sommo dell'Olimpo alzossi.

Sul più sublime de' suoi molti gioghi

in disparte trovò seduto e solo

l'onniveggente Giove. Innanzi a lui

la Dea s'assise, colla manca strinse

le divine ginocchia, e colla destra

molcendo il mento, e supplicando disse:

Giove padre, se d'opre e di parole

giovevole fra' numi unqua ti fui,

un mio voto adempisci. Il figlio mio,

cui volge il fato la più corta vita,

deh, m'onora il mio figlio a torto offeso

dal re supremo Agamennón, che a forza

gli rapì la sua donna, e la si tiene.

Onoralo, ti prego, olimpio Giove,

sapientissimo Iddio; fa che vittrici

sien le spade troiane, infin che tutto

e doppio ancora dagli Achei pentiti

al mio figlio si renda il tolto onore.

Disse; e nessuna le facea risposta

il procelloso Iddio; ma lunga pezza

muto stette, e sedea. Teti il ginocchio

teneagli stretto tuttavolta, e i preghi

iterando venìa: Deh, parla alfine;

dimmi aperto se nieghi, o se concedi;

nulla hai tu che temer; fa ch'io mi sappia

se fra le Dee son io la più spregiata.

Profondamente allora sospirando

l'adunator de' nembi le rispose:

Opra chiedi odiosa che nemico

farammi a Giuno, e degli ontosi suoi

motti bersaglio. Ardita ella mai sempre

pur dinanzi agli Dei vien meco a lite,

e de' Troiani aiutator m'accusa.

Ma tu sgombra di qua, ché non ti vegga

la sospettosa. Mio pensier fia poscia

che il desir tuo si cómpia, e a tuo conforto

abbine il cenno del mio capo in pegno.

Questo fra' numi è il massimo mio giuro,

né revocarsi, né fallir, né vana

esser può cosa che il mio capo accenna.

Disse; e il gran figlio di Saturno i neri

sopraccigli inchinò. Su l'immortale

capo del sire le divine chiome

ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo.

Così fermo l'affar si dipartiro.

Teti dal ciel spiccò nel mare un salto;

Giove alla reggia s'avviò. Rizzârsi

tutti ad un tempo da' lor troni i numi

verso il gran padre, né veruno ardissi

aspettarne il venir fermo al suo seggio,

ma mosser tutti ad incontrarlo. Ei grave

si compose sul trono. E già sapea

Giuno il fatto del Dio; ch'ella veduto

in segreti consigli avea con esso

la figlia di Nerèo, Teti la diva

dal bianco piede. Con parole acerbe

così dunque l'assalse: E qual de' numi

tenne or teco consulta, o ingannatore?

Sempre t'è caro da me scevro ordire

tenebrosi disegni, né ti piacque

mai farmi manifesto un tuo pensiero.

E degli uomini il padre e degli Dei

le rispose: Giunon, tutto che penso

non sperar di saperlo. Ardua ten fôra

l'intelligenza, benché moglie a Giove.

Ben qualunque dir cosa si convegna,

nullo, prima di te, mortale o Dio

la si saprà. Ma quel che lungi io voglio

dai Celesti ordinar nel mio segreto,

non dimandarlo né scrutarlo, e cessa.

Acerbissimo Giove, e che dicesti?

Riprese allor la maestosa il guardo

veneranda Giunon: gran tempo è pure

che da te nulla cerco e nulla chieggo,

e tu tranquillo adempi ogni tuo senno.

Or grave un dubbio mi molesta il core,

che Teti, del marin vecchio la figlia,

non ti seduca; ch'io la vidi, io stessa,

sul mattino arrivar, sederti accanto,

abbracciarti i ginocchi; e certo a lei

di molti Achivi tu giurasti il danno

appo le navi, per onor d'Achille.

E a rincontro il signor delle tempeste:

Sempre sospetti, né celarmi io posso,

spirto maligno, agli occhi tuoi. Ma indarno

la tua cura uscirà, ch'anzi più sempre

tu mi costringi a disamarti, e questo

a peggio ti verrà. S'al ver t'apponi,

che al ver t'apponga ho caro. Or siedi, e taci,

e m'obbedisci; ché giovarti invano

potrìan quanti in Olimpo a tua difesa

accorresser Celesti, allor che poste

le invitte mani nelle chiome io t'abbia.

Disse; e chinò la veneranda Giuno

i suoi grand'occhi paurosa e muta,

e in cor premendo il suo livor s'assise.

Di Giove in tutta la magion le fronti

si contristâr de' numi, e in mezzo a loro

gratificando alla diletta madre

Vulcan l'inclito fabbro a dir sì prese:

Una malvagia intolleranda cosa

questa al certo sarà, se voi cotanto,

de' mortali a cagion, piato movete,

e suscitate fra gli Dei tumulto.

De' banchetti la gioia ecco sbandita,

se la vince il peggior. Madre, t'esorto,

benché saggia per te; vinci di Giove,

vinci del padre coll'ossequio l'ira,

onde a lite non torni, e del convito

ne conturbi il piacer; ch'egli ne puote,

del fulmine signore e dell'Olimpo,

dai nostri seggi rovesciar, se il voglia;

perocché sua possanza a tutte è sopra.

Or tu con care parolette il molci,

e tosto il placherai. - Surse, ciò detto,

ed all'amata genitrice un tondo

gemino nappo fra le mani ei pose,

bisbigliando all'orecchio: O madre mia,

benché mesta a ragion, sopporta in pace,

onde te con quest'occhi io qui non vegga,

te, che cara mi sei, forte battuta;

ché allor nessuna con dolor mio sommo

darti aìta io potrei. Duro egli è troppo

cozzar con Giove. Altra fiata, il sai,

volli in tuo scampo venturarmi. Il crudo

afferrommi d'un piede, e mi scagliò

dalle soglie celesti. Un giorno intero

rovinai per l'immenso, e rifinito

in Lenno caddi col cader del sole,

dalli Sinzii raccolto a me pietosi.

Disse; e la Diva dalle bianche braccia

rise, e in quel riso dalla man del figlio

prese il nappo. Ed ei poscia agli altri Eterni,

incominciando a destra, e dal cratere

il nèttare attignendo, a tutti in giro

lo mescea. Suscitossi infra' Beati

immenso riso nel veder Vulcano

per la sala aggirarsi affaccendato

in quell'opra. Così, fino al tramonto,

tutto il dì convitossi, ed egualmente

del banchetto ogni Dio partecipava.

Né l'aurata mancò lira d'Apollo,

né il dolce delle Muse alterno canto.

Ratto, poi che del Sol la luminosa

lampa si spense, a' suoi riposi ognuno

ne' palagi n'andò, che fabbricati

a ciascheduno avea con ammirando

artifizio Vulcan l'inclito zoppo.

E a' suoi talami anch'esso, ove qual volta

soave l'assalìa forza di sonno,

corcar solea le membra, il fulminante

Olimpio s'avvïò. Quivi salito

addormentossi il nume, ed al suo fianco

giacque l'alma Giunon che d'oro ha il trono.

giove teti
Teti chiede a Giove di intercedere per Achille di D. Ingres

TROIA

Troia o Ilio (in greco antico: ????a, o Ilion, Ilios, e in latino Troia o Ilium) è sia un antico sito storico dell'Asia Minore, posto all'entrata dell'Ellesponto nella moderna Turchia, chiamata Truva e popolata da un centinaio di abitanti, sia una città mitica dei testi classici greci. Wilusa, termine presente in più parti negli archivi reali Ittiti, secondo una ricerca condotta da Frank Starke nel 1996, ormai universalmente accettata dal mondo accademico, da J. David Hawkins nel 1998 e da WD Niemeier nel 1999 era il nome, nella lingua ittita propria degli abitanti dell'area, della città poi passata alla storia come Troia.
Fu teatro della guerra di Troia narrata nell'Iliade, che descrive una breve parte dell'assedio (prevalentemente due mesi del nono anno di assedio, secondo la cronologia proposta da Omero, a cui viene attribuito il poema), mentre alcune scene della sua distruzione sono raccontate nell'Odissea. Dello stesso conflitto si canta in molti poemi epici greci, romani e anche medievali. Altri poemi ellenici arcaici notevoli sulla guerra di Troia sono i Canti Cipri, le Etiopide, la Piccola Iliade, la Distruzione di Troia e i Ritorni. Il poema latino Eneide inizia descrivendo l'incendio finale della città. Un inserto poetico, la Troiae Alosis (Presa di Troia), è contenuto nella Pharsalia del poeta latino Marco Anneo Lucano. Il sito storico fu abitato fin dal principio del III millennio a.C.. Si trova ora nella provincia di Çanakkale in Turchia, presso lo stretto dei Dardanelli, tra il fiume Scamandro (o Xanthos) e il Simoenta e occupa una posizione strategica per l'accesso al Mar Nero. Nei suoi dintorni vi è la catena del monte Ida e di fronte alle sue coste si può vedere l'isola di Tenedo. Le condizioni particolari dei Dardanelli, dove c'è un flusso costante di correnti che passano dal Mar di Marmara al Mar Egeo e dove è solito soffiare un forte vento da nord-est durante tutta la stagione che va da maggio a ottobre, suggerisce che le navi, le quali durante le epoche più antiche abbiano cercato di attraversare lo stretto, spesso abbiano dovuto attendere condizioni più favorevoli.
Dopo secoli di abbandono, le rovine di Troia sono state riscoperte durante gli scavi svolti nel 1871 dallo studioso tedesco di archeologia Heinrich Schliemann, a seguito di alcune indagini iniziali condotte a partire dal 1863 da Frank Calvert. Il sito archeologico di Troia è stato proclamato patrimonio mondiale dell'umanità dall'UNESCO nel 1998. Secondo la mitologia greca, la famiglia reale troiana trova i suoi capostipiti in Elettra, una delle Pleiadi, e in Zeus, i genitori divini di Dardano. Questi, nato in Arcadia, secondo la tradizione riportata dal mito, giunse in quella terra dell'Asia Minore proveniente dall'isola di Samotracia. Qui conobbe Teucro, che lo trattò con rispetto e instaurò con lui un rapporto di salda amicizia, tanto da donargli in sposa la propria figlia Batea. Dardano fondò nelle vicinanze un primo insediamento urbano, che volle chiamare Dardania. Dopo la sua morte il regno passò al nipote Troo. Uno dei figli di quest'ultimo, il bel principe Ganimede, mentre si trovava a pascolare il gregge sul monte Ida, venne rapito da Zeus. Il re dell'Olimpo, rimasto ammaliato dalla sublime bellezza del giovinetto, lo volle perennemente al suo fianco sull'Olimpo per fargli da coppiere.
Ilo, un altro dei figli di Troo, diede le basi per la fondazione di quella che sarebbe stata conosciuta come Troia/Ilion, chiedendo al contempo al Signore degli déi un segno della sua benevolenza e del suo favore riguardo all'impresa: ed ecco che venne rinvenuta nelle profondità della terra una grande statua lignea nota come Palladio (in quanto raffigurante Pallade, una cara amica, nonché compagna di giochi della dea Atena: si racconta che ancora fanciulla, Atena uccise incidentalmente la sua compagna di giochi Pallade, mentre si era impegnata con lei in uno scherzoso combattimento, armate di lancia e di scudo. In segno di lutto, Atena aggiunse il nome di Pallade al proprio), apparentemente caduta dal cielo. Un oracolo poi vaticinò che fino a quando la statua fosse rimasta all'interno del perimetro cittadino, Troia si sarebbe mantenuta invincibile, con delle mura inattaccabili. Ilo fece subito costruire un tempio dedicato ad Atena nel luogo esatto del ritrovamento.
Gli abitanti di Troia vennero chiamati collettivamente "il popolo dei troiani", mentre Teucro, assieme ai discendenti di Dardano, Troo e Ilo, furono considerati i fondatori del sito. Gli antichi romani, a loro volta, successivamente associarono il nome del luogo con quello di Ascanio (in lingua latina Iulo), il figlio del principe troiano Enea e mitico antenato della Gens Giulia, a cui appartenne tra gli altri anche Giulio Cesare.
Furono gli dèi Poseidone e Apollo a fornire la città di grandi mura e fortificazioni attorno al perimetro abitato, cosicché potesse divenire inespugnabile. Lo fecero per Laomedonte, figlio di Ilo e suo successore al trono. Eseguito quanto pattuito, al termine dei lavori Laomedonte si rifiutò però di pagare il salario concordato: Poseidone allora, per vendicarsi, inondò la campagna, distruggendone i raccolti, e scatenò un mostro marino che divorò gli abitanti. L'ira del dio, secondo l'oracolo che venne consultato, si sarebbe placata solo se Laomedonte avesse fornito come sacrificio umano al mostro la propria figlia Esione.
La vergine doveva essere divorata dal mostro e venne quindi incatenata a una roccia prospiciente la costa: ma giunse proprio allora al palazzo reale Eracle, che chiese al re cosa stesse succedendo. Questi gli spiegò la situazione e l'eroe si offrì di uccidere il mostro, ricevendo la promessa di ottenere in cambio i due velocissimi cavalli divini che Troo aveva ricevuto a suo tempo, in regalo dallo stesso Zeus a titolo di risarcimento per il rapimento del figlio Ganimede. Eracle, giunto alla spiaggia, ruppe le catene che tenevano avvinta l'inerme fanciulla e la riconsegnò sana e salva tra le braccia del padre; poi si apprestò ad affrontare la terrifica creatura. Sostenuto dalla dea Atena riuscì dopo tre giorni di accesa battaglia ad aver la meglio sul mostro, uccidendolo. A questo punto, liberata la città e tutta la campagna circostante dall'essere sovrumano, si recò a reclamare la ricompensa: ma anche questa volta Laomedonte si rifiutò di saldare il debito contratto e cercò anzi d'ingannare l'eroe facendo sostituire i cavalli divini con animali ordinari.
In alcune versioni del mito questo episodio si situa all'interno della spedizione degli Argonauti: Eracle se ne andò irato e s'imbarcò alla volta della Grecia, minacciando però ritorsioni e promettendo che sarebbe ritornato. Alcuni anni dopo, l'eroe, dopo aver reclutato a Tirinto un esercito di volontari, tra cui vi erano Iolao, Telamone, Peleo e Oicle, guidò una spedizione punitiva composta da 18 navi. Dopo un aspro assedio, le mura furono violate ed Eracle conquistò Troia, facendo prigionieri gli abitanti e uccidendo il fedifrago Laomedonte con tutti i suoi figli, a eccezione del giovane Podarce, l'unico tra i figli maschi di Laomedonte ad essersi a suo tempo opposto al padre, consigliandogli di rispettare i patti e consegnando le cavalle ad Eracle. Eracle risparmiò anche la bella Esione, che diede in sposa all'amico Telamone. Ella chiese che il fratello Podarce venisse fatto liberare dallo stato di schiavitù in cui era stato costretto assieme agli altri superstiti: da quel momento egli si volle chiamare Priamo (il salvato), perché fu liberato dalla schiavitù.
Infine, dopo aver devastato tutta la campagna circostante, Eracle, finalmente pago di vendetta, se ne andò assieme a Glaucia, figlia del dio fluviale Scamandro, lasciando come effettivo re di Troia Priamo, in virtù del suo senso di giustizia.
Secondo Omero, come narrato nell'Iliade, lo scontro che vide affrontarsi gli Achei provenienti dalla penisola greca e il popolo dei troiani avvenne proprio sotto il tardo regno del re Priamo; Eratostene ha datato la guerra di Troia tra il 1194 e 1184 a.C., il Marmor Parium tra il 1219 e il 1209 a.C., infine Erodoto attorno al 1250 a.C.. La città fu assediata per dieci anni dalla spedizione dei micenei al comando di Agamennone re di Micene, che voleva in tal modo vendicare l'onta subita dal fratello Menelao re di Sparta, ossia il rapimento di sua moglie Elena (definita la donna più bella del mondo) da parte del principe troiano Paride, il più giovane tra i figli di Priamo. La guerra fu vinta e la città cadde grazie allo stratagemma del cavallo di legno ideato da Ulisse, l'astuto signore di Itaca. Secondo la tradizione letteraria, la maggior parte degli eroi di Troia e dei suoi alleati morirono nel corso della guerra, ma alcuni troiani riuscirono però a porsi in salvo, dando origine secondo diversi autori ad alcuni popoli del Mediterraneo. Tucidide ed Ellanico di Lesbo riportano la narrazione per cui dei sopravvissuti si stabilirono in Sicilia, nelle città di Erice e Segesta, ricevendo il nome di Elimi.
Inoltre Erodoto dice che anche i Mashuash, una tribù della costa libica occidentale, rivendicavano il fatto di essere discendenti diretti di uomini arrivati da Troia. Alcune di queste storie mitiche, talvolta con contraddizioni tra loro, compaiono sia nell'Iliade che nell'Odissea, oltre che in altre opere e frammenti successivi.
Secondo la leggenda romana narrata da Virgilio e Tito Livio un gruppo guidato da Enea e un altro da Antenore sopravvissero e navigarono prima fino a Cartagine e poi in direzione della penisola italiana. Enea raggiunse il Lazio dove è considerato il diretto antenato dei fondatori di Roma; il gruppo di Antenore proseguì invece lungo la costa settentrionale del Mar Adriatico ove gli viene anche attribuita la fondazione della città di Padova. Ai primi insediamenti di questi sopravvissuti in Sicilia e in Italia sono stati altresì dati il nome di "Troia". Le navi troiane su cui viaggiavano i marinai fuggiaschi vennero trasformate da Cibele in naiadi, quando stavano per essere affrontati da Turno, l'avversario di Enea in Italia.
Tucidide parla di Agamennone e della guerra di Troia nel II libro della sua opera storica intitolata Guerra del Peloponneso (par. 9), ma la datazione è ricavabile piuttosto dal passo del libro V legato al cosiddetto "discorso dei Meli". Nel dialogo con gli Ateniesi, i Meli sottolineano di essere di tradizione dorica e di essere stati colonizzati dagli Spartani da settecento anni. Siccome l'avvenimento è del 416 a.C. e passano ottant'anni tra la guerra di Troia e la colonizzazione dei Dori ("ritorno degli Eraclidi"), la data attribuita da Tucidide alla caduta di Troia è il 1196 a.C..
Erodoto ricostruisce una datazione più antica, ma attraverso una ricerca meno storiografica: nel II libro delle Storie (lògos egizio, cap.145) egli sostiene di essere nato quattrocento anni dopo Omero ed Esiodo. La distruzione di Troia è così spostata più indietro: tra il 1350 e il 1250 a.C.. Eratostene di Cirene è autore della datazione che, dal III secolo a.C., riscuote maggiore successo. Non essendoci giunte opere complete di questo autore, la sua datazione viene riportata da Dionigi di Alicarnasso nelle Antichità romane, in un passato collegato all'arrivo di Enea in Italia e alla fondazione di Lavinio. Dionigi riporta la data esatta, in termini antichi, della caduta di Troia, che corrisponderebbe all'11 giugno 1184-1182 a.C.. Ultima conferma sembra venire dalla Piccola Cosmologia di Democrito di Abdera, filosofo del V secolo a.C. e contemporaneo di Erodoto; egli dice di aver composto quest'opera 730 anni dopo la distruzione di Troia: essendo vissuto intorno al 450 a.C., la data in questione risulta essere il 1180 a.C..
Il problema della storicità della guerra di Troia ha scatenato nel corso dei secoli speculazioni di ogni tipo. Lo stesso Heinrich Schliemann ammise che Omero era un autore di poesia epica e non uno storico, ma era anche fermamente convinto che non si fosse inventato tutto e che potrebbe aver esagerato per licenza poetica le dimensioni di un conflitto storicamente avvenuto. Poco dopo, l'esperto di archeologia Wilhelm Dörpfeld ebbe a sostenere che "Troia VI" fosse stata vittima dell'espansionismo miceneo. A questa ipotesi si rifece Sperling ancora nel 1991. Gli studi approfonditi di Carl Blegen e del suo team hanno concluso che una spedizione achea deve essere stata la causa della distruzione di "Troia VII-A", avvenuta all'incirca attorno al 1250 a.C. – poi corretto in una data più vicina al 1200 a.C. –, ma non si è ancora in grado di dimostrare chi effettivamente siano stati gli aggressori di "Troia VII-A". Nel 1991 Hiller ha ipotizzato due diverse guerre, avvenute in differenti epoche, ad aver segnato la fine di "Troia VI" e di "Troia VII-A". Nel 1996 Demetriou ha insistito sulla data del 1250 a.C. per una storica guerra di Troia, tramite uno studio che si basa su siti archeologici ciprioti. Al contrario Moses Finley ha più volte negato la presenza di elementi espressamente micenei nei poemi omerici e rileva l'assenza di prove archeologiche inconfutabili per dare piena storicità al mito. Altri studiosi di spicco appartenenti a questa corrente scettica sono lo storico Frank Kolb e l'archeologo tedesco Dieter Hertel. Il filologo classico e grecista Joachim Latacz, in uno studio che collega fonti archeologiche, fonti storiche ittite e passi omerici, come il lungo catalogo delle navi del Libro II dell'Iliade, ha testato l'origine micenea della leggenda, ma per quanto riguarda la storicità della guerra si è mantenuto cauto, ammettendo solo la probabile esistenza di un substrato storico nella generalità del racconto. Alcuni hanno cercato di sostenere la storicità del mito con lo studio di testi storici coevi dell'età del bronzo. Carlos Moreu ha interpretato un'iscrizione egizia proveniente da Medinet Habu, in cui si narra dell'attacco contro l'Egitto da parte dei cosiddetti popoli del Mare, in modo diverso dall'ermeneutica tradizionale. Secondo la sua interpretazione, gli Achei avrebbero attaccato diverse regioni dell'Anatolia comprese tra la città di Troia e l'isola di Cipro; i popoli attaccati si sarebbero poi accampati tra gli Amorrei e successivamente avrebbero formato una coalizione, che avrebbe affrontato il faraone Ramses III nel 1186 a.C..
Troia storica
Nelle fonti Ittite la città di Troia fu abitata con certezza fin dalla prima metà del III millennio a.C., ma il suo massimo splendore coincise con l'ascesa dell'impero ittita. Nel 1924, poco dopo la decifrazione della scrittura in lingua ittita, il linguista Paul Kretschmer aveva paragonato un toponimo che compare nelle fonti ittite, Wilusa, con il toponimo greco Ilios utilizzato come nome di Troia. Gli studiosi, sulla base di prove linguistiche, hanno stabilito che il nome di Ilios aveva perso un digamma iniziale e in precedenza era stato Wilios. A questo si unisce anche una comparazione col nome di un re troiano così come è scritto nei documenti ittiti (datati all'incirca al 1280 a.C.), denominato Alaksandu: Alessandro è utilizzato nell'Iliade come nome alternativo per indicare Paride, il principe troiano rapitore della regina Elena.
Le dieci città
Dopo i vari scavi si è riusciti finalmente a ricostruire la storia di Troia, stabilendone dieci fasi di occupazione nel tempo. I primi quattro insediamenti, da Troia I a Troia IV, si sono sviluppati nel corso del III millennio a.C. e hanno una chiara continuità culturale anche con Troia V. Troia VI attesta una seconda fioritura della città, mentre Troia VII è la principale candidata a venir identificata con la città omerica.
Troia VIII e IX coprono rispettivamente la Grecia arcaica, il periodo della Grecia classica rappresentato dalla cosiddetta "età di Pericle", l'epoca dell'ellenismo e infine quello della civiltà romana. Troia X è il centro urbano al tempo dell'impero bizantino. Dal primo insediamento e fino a Troia VII non ci sono resti di documentazione scritta che possano aiutare la valutazione dello sviluppo storico e sociale della città.

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Eugenio Caruso - 15- 06 - 2021

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www.impresaoggi.com