Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
ILIADE
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo
L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro.
Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine.
L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini.
Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò.
Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme.
Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto.
Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana.
Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C.
L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente.
Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo.
L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti.
L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto.
L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future.
Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane.
Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.
Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartiene ad Omero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.
INTRODUZIONE al V LIBRO
Diomede Tidide (figlio di Tideo), coll’aiuto di Pallade, fa mostra di mirabili prove. È ferito da Pandaro con una freccia. Minerva gli ridona il vigore. Ritorna egli alla pugna e uccide molti nemici, fra’ quali Pandaro; con un sasso colpisce Enea nel ginocchio. Venere Citèrea (dall'isola di Citèra portatavi dalla connchiglia da cui nacque), accorsa per salvare il figlio, è da lui ferita in una mano. Salita all’Olimpo la Dea, è risanata da Peone. Enea, inseguito da Diomede, viene tratto in salvo da Apollo. Marte incoraggia i Troiani. Sarpedonte uccide Tlepolemo. Prevalendo Ettore e Marte, Diomede è costretto a retrocedere. Giunone e Minerva discendono a soccorrere i Greci. Diomede, istigato da Minerva, ferisce Marte nel ventre. Il Dio, mugghiando pel dolore, sale al cielo, ed è rampognato da Giove. Peone risana la sua ferita. In questo primo scontro intervengono pesantemente gli dei, in particolare, Minerva, Giunone, Venere, Marte, Bellona, Apollo, Vulcano e Iri.
TESTO LIBRO V (in questa traduzione del Monti i nomi greci sono latinizzati)
Allor Pallade Minerva a Dïomede
Forza infuse e ardire, onde fra tutti
Gli Achei splendesse glorïoso e chiaro.
Lampi gli uscían dall’elmo e dallo scudo
D’inestinguibil fiamma, al tremolío5
Simigliante del vivo astro d’autunno,
Che lavato nel mar splende più bello.
Tal mandava dal capo e dalle spalle
Divin foco l’eroe, quando la Diva
Lo sospinse nel mezzo ove più densa10
Ferve la mischia. Era fra’ Teucri un certo
Darete, uom ricco e d’onoranza degno,
Di Vulcan sacerdote, e genitore
Di due prodi figliuoi mastri di guerra
Fegéo nomati e Idéo. Precorsi agli altri15
Si fêr costoro incontro a Dïomede,
Essi sul cocchio, ed ei pedone: e a fronte
Divenuti così, scagliò primiero
La lung’asta Fegéo. L’asta al Tidíde
Lambì l’omero manco, e non l’offese.20
Col ferrato suo cerro allor secondo
Mosse il Tidíde, nè di mano indarno
Il telo gli fuggì, chè tra le poppe
Del nemico s’infisse, e dalla biga
Lo spiombò. Diede Idéo, visto quel colpo,25
Un salto a terra, e in un col suo bel carro
Smarrito abbandonò la pia difesa
Dell’ucciso fratel. Nè avría schivato
Perciò la morte; ma Vulcan di nebbia
Lo ricinse e servollo, onde non resti30
Il vecchio padre desolato al tutto.
Tolse i destrieri il vincitore, e trarli
Da’ compagni li fece alle sue navi.
Visti i due figli di Darete i Teucri
L’un freddo nella polve e l’altro in fuga,35
Turbârsi; e la glaucopide Minerva
Preso per mano il fero Marte disse:
O Marte, Marte, esizïoso Iddio
Che lordo ir godi d’uman sangue e al suolo
Adeguar le città, non lasceremo40
Noi dunque battagliar soli tra loro
Teucri ed Achei, qualunque sia la parte
Cui dar la palma vorrà Giove? Or via
Ritiriamci, evitiam l’ira del nume.
In questo favellar trasse la scaltra45
L’impetuoso Dio fuor del conflitto,
E su la riva riposar lo fece
Dell’erboso Scamandro. Allora i Dánai
Cacciâr li Teucri in fuga; e ognun de’ duci
Un fuggitivo uccise. Agamennóne50
Primier riversa il vasto Hodio dal carro,
Degli Alizóni condottiero, e primo
Al fuggir. Gli piantò l’asta nel tergo,
E fuor del petto uscir la fece. Ei cadde
Romoroso, e suonâr l’armi sovr’esso.55
Dalla glebosa Tarne era venuto
Festo figliuol del Méone Boro. Il colse
Idomenéo coll’asta alla diritta
Spalla nel punto che salía sul carro.
Cadde il meschin d’orrenda notte avvolto,60
E i servi lo spogliâr d’Idomenéo.
L’Atride Menelao di Strofio il figlio
Scamandrio uccise, cacciator famoso
Cui la stessa Dïana ammaestrava
Le fere a saettar quante ne pasce65
Montana selva. E nulla allor gli valse
La Diva amica degli strali, e nulla
L’arte dell’arco. Menelao lo giunse
Mentre innanzi gli fugge, e tra le spalle
L’asta gli spinse, e trapassògli il petto.70
Boccon cadde il trafitto, e cupamente
L’armi sovr’esso rimbombar s’udiro.
Prole del fabbro Armónide, Fereclo
Da Merïon fu spento. Era costui
Per tutte guise di lavori industri75
Maraviglioso, e a Pallade Minerva
Caramente diletto. Opra fur sua
Di Paride le navi, onde principio
Ebbe il danno de’ Teucri, e di lui stesso,
Perchè i decreti degli Dei non seppe.80
L’inseguì, lo raggiunse, lo percosse
Nel destro clune Merïone, e sotto
L’osso vêr la vescica uscì la punta.
Gli mancâr le ginocchia, e guaiolando
E cadendo il coprì di morte il velo.85
Mege uccise Pedéo, bastarda prole
D’Anténore, cui l’inclita Teano,
Gratificando al suo consorte, avea
Con molta cura nutricato al paro
Dei diletti suoi figli. Si fe’ sopra90
A costui coll’acuta asta il Filíde
Mege, e alla nuca lo ferì. Trascorse
Tra i denti il ferro, e gli tagliò la lingua.
Così concio egli cadde, e nella sabbia
Fe’ tenaglia co’ denti al freddo acciaro.95
Ipsénore, figliuol del generoso
Dolopïon, scamandrio sacerdote
Riverito qual Dio, fugge davanti
Al chiaro germe d’Evemone Eurípilo.
Eurípilo l’insegue, e via correndo100
Tal gli cala su l’omero un fendente
Che il braccio gli recide. Sanguinoso
Casca il mozzo lacerto nella polve,
E la purpurea morte e il vïolento
Fato le luci gli abbuiâr. Di questi105
Tal nell’acerba pugna era il lavoro.
DIOMEDE
Ma di qual parte fosse Dïomede,
Se troiano o acheo, mal tu sapresti
Discernere, sì fervido ei trascorre
Il campo tutto; simile alla piena110
Di tumido torrente che cresciuto
Dalle piogge di Giove, e improvviso
Precipitando i saldi ponti abbatte
Debil freno alle fiere onde, e de’ verdi
Campi i ripari rovesciando, ingoia115
Con fragor le speranze e le fatiche
De’ gagliardi coloni: a questa guisa
Sgominava il Tidíde e dissipava
Le caterve de’ Troi, che sostenerne
Non potean, benchè molti, la ruina.120
Come Pandaro il vide sì furente
Scorrere il campo, e tutte a sè dinanzi
Scompigliar le falangi, alla sua mira
Curvò subito l’arco, e l’irruente
Eroe percosse alla diritta spalla.125
Entrò pel cavo dell’usbergo il crudo
Strale, e forollo, e il sanguinò. Coraggio,
Forte allora gridò l’inclito figlio
Di Licaon, magnanimi Troiani,
Stimolate i cavalli, ritornate130
Alla pugna. Ferito è degli Achei
Il più forte guerriero, né credo ei possa
A lungo tollerar l’acerbo colpo,
Se vano feritor non mi sospinse
Qua dalla Licia il re dell’arco Apollo.135
Così gridava il vantator. Ma domo
Non restò da quel colpo Dïomede,
Che ritraendo il passo, e de’ cavalli
Coprendosi e del cocchio, al suo fedele
Capaneíde si rivolse, e disse:140
Corri, Sténelo mio, scendi dal carro,
E dall’omero tosto mi divelli
Questo acerbo quadrel. - Diè un salto a terra
Sténelo e corse, e l’aspro stral gli svelse
Dall’omero trafitto. Per la maglia145
Dell’usbergo spicciava il caldo sangue,
E imperturbato sì l’eroe pregava:
Invitta figlia dell’Egíoco Giove,
Se nelle ardenti pugne unqua a me fosti
Del tuo favor cortese e al mio gran padre,150
Odimi, o Dea Minerva, e or di nuovo
M’assisti, e al tiro della lancia mia
Manda il mio feritor: dammi ch’io spegna
Questo ventoso nebulon che grida
Ch’io del Sol non vedrò più l’aurea luce.155
Udì la Diva il prego, e a lui repente
E mani e piedi e tutta la persona
Agile rese, e fattasi vicina
E manifesta disse: Ti rinfranca
Dïomede, e co’ Troi pugna securo;160
Ch’io del tuo grande genitor Tidéo
L’invitta gagliardía ti pongo in petto,
E la nube dagli occhi ecco ti sgombro
Che la vista mortal t’appanna e grava,
Onde tu ben discerna le divine165
E l’umane sembianze. Ove alcun Dio
Qui ti venga a tentar, tu con gli Eterni
Non cimentarti, no; ma se in conflitto
Vien la figlia di Giove Citerea,
L’acuto ferro adopra, e la ferisci.170
Sparve, ciò detto, la cerulea Diva.
Allor diè volta e si mischiò tra’ primi
Combattenti il Tidíde, a pugnar pronto
Più che prima d’assai; chè in quel momento
Triplice in petto si sentì la forza.175
Come lïon che, mentre il gregge assalta,
Ferito dal pastor, ma non ucciso,
Vie più s’infuria, e superando tutte
Resistenze si slancia entro l’ovile:
Derelitte, tremanti e affollate180
L’una addosso dell’altra si riversano
Le pecorelle, ed ei vi salta in mezzo
Con ingordo furor: tal dentro ai Teucri
Diede Diomede. A prima giunta
Astínoo uccise ed Ipenór: trafisse185
L’uno coll’asta alla mammella; all’altro
’omero percosse
Con tale un colpo della grande spada,
Che gli spiccò dal collo e dalla schiena
L’omero netto. Dopo questi addosso190
Ad Abante si spicca e a Poliido,
Figli del veglio interprete di sogni
Euridamante; ma il meschin non seppe
Nella lor dipartenza a questa volta
Divinarne il destin, ch’ambi il Tidíde195
Li pose a morte e li spogliò. Drizzossi
Quindi a Xanto e Faon figli a Fenopo,
Ambo a lui nati nell’età canuta.
In amara vecchiezza il derelitto
Genitor si struggea, chè d’altra prole,200
Cui sua reda lasciar, lieto non era.
Gli spense ambo il Tidíde, e lor togliendo
La cara vita, in aspre cure e in pianti
Pose il misero padre, a cui negato
Fu il vederli tornar dalla battaglia205
Salvi al suo seno; e di lui morto in lutto
Ignoti eredi si partîr l’avere.
Due Prïamidi, Cromio ed Echemóne,
Veníano entrambi in un sol cocchio. A questi
S’avventò Dïomede; e col furore210
Di lïon che una mandra al bosco assalta
E di giovenca o bue frange la nuca;
Così mal conci entrambi il fier Tidíde
Precipitolli dalla biga, e tolte
L’arme de’ vinti, a’ suoi sergenti ei dienne215
I destrieri onde trarli alla marina.
Come de’ Teucri sbarattar le file
Videlo Enea, si mosse, e per la folta
E fra il rombo dell’aste discorrendo
A cercar diessi il valoroso e chiaro220
Figlio di Licaon, Pandaro. Il trova,
Gli si appresenta e fa queste parole:
Pandaro, dov’è l’arco? ove i veloci
Tuoi strali? ov’è la gloria in che qui nullo
Teco gareggia, nè verun si vanta225
Licio arcier superarti? Or su, ti sveglia,
Alza a Giove la mano, un dardo allenta
Contro costui, qualunque ei sia, che desta
Cotanta strage, e sì malmena i Teucri,
De’ quai già molti e forti a giacer pose:230
Se pur egli non fosse un qualche nume
Adirato con noi per obblïati
Sacrifizi: e de’ numi acerba è l’ira.
Così d’Anchise il figlio. E il figlio a lui
Di Licaone: O delle teucre genti235
Inclito duce Enea, se quello scudo
E quell’elmo a tre coni e quei destrieri
Ben riconosco, colui parmi in tutto
Il forte Dïomede. E nondimeno
Negar non l’oso un immortal. Ma s’egli240
È il mortale ch’io dico, il bellicoso
Figliuolo di Tidéo, tanto furore
Non è senza il favor d’un qualche iddio,
Che di nebbia i celesti omeri avvolto
Stagli al fianco, e dal petto gli disvía245
Le veloci saette. Io gli scagliai
Dianzi un dardo, e lo colsi alla diritta
Spalla nel cavo del torace, e certo
D’averlo mi credea sospinto a Pluto.
Pur non lo spensi: e irato quindi io temo250
Qualche nume. Non ho su cui salire
Or qui cocchio verun. Stolto! che in serbo
Undici ne lasciai nel patrio tetto
Di fresco fatti e belli, e di cortine
Ricoperti, con due d’orzo e di spelda255
Ben pasciuti cavalli a ciascheduno.
E sì che il giorno ch’io partii, gli eccelsi
Nostri palagi abbandonando, il veglio
Guerriero Licaon molti ne dava
Prudenti avvisi, e mi facea precetto260
Di guidar sempre mai montato in cocchio
Le troiane coorti alla battaglia.
Certo era meglio l’obbedir; ma, folle!
Nol feci, ed ebbi ai corridor riguardo,
Temendo che assueti a largo pasto265
Di pasto non patissero difetto
In racchiusa città. Lasciáili adunque,
E pedon venni ad Ilio, ogni fidanza
Posta nell’arco che giovarmi poscia
Dovea sì poco. Saettai con questo270
Due de’ primi, l’Atride ed il Tidíde,
E ferii l’uno e l’altro, e il vivo sangue
Ne trassi io sì, ma n’attizzai più l’ira.
In mal punto spiccai dunque dal muro
Gli archi ricurvi il dì che al grande Ettorre275
Compiacendo qua mossi, e de’ Troiani
Il comando accettai. Ma se redire,
Se con quest’occhi riveder m’è dato
La patria, la consorte e la sublime
Mia vasta reggia, mi recida ostile280
Ferro la testa, se di propria mano
Non infrango e non getto nell’accese
Vampe quest’arco inutile compagno.
E al borïoso il duce Enea: Non dire,
No, questi spregi. Della pugna il volto285
Cangerà, se ambedue sopra un medesmo
Cocchio raccolti affronterem costui,
E farem delle nostre armi periglio.
Monta dunque il mio carro, e de’ cavalli
Di Troe vedi la vaglia, e come in campo290
Per ogni lato sappiano veloci
Inseguire e fuggir. Questi (se avvegna
Che il Tonante di nuovo a Dïomede
Dia dell’armi l’onor), questi trarranno
Salvi noi pure alla cittade. Or via295
Prendi tu questa sferza e queste briglie,
Ch’io de’ corsieri, per pugnar, ti cedo
Il governo; o costui tu stesso affronta,
Chè de’ corsieri sarà mia la cura.
Sì (riprese il figliuol di Licaone)300
Tien tu le briglie, Enea, reggi tu stesso
I tuoi cavalli, che la mano udendo
Del consueto auriga, il curvo carro
Meglio trarranno, se fuggir fia forza
Dal figlio di Tidéo. Se lor vien manco305
La tua voce, potrían per caso istrano
Spaventati adombrarsi, e senza legge
Aggirarsi pel campo, e a trarne fuori
Della pugna indugiar tanto che il fero
Dïomede n’assegua impetuoso,310
Ed entrambi n’uccida, e via ne meni
I destrieri di Troe. Resta tu dunque
Al timone e alle briglie, chè coll’asta
Io del nemico sosterrò l’assalto.
Montâr, ciò detto, sull’adorno cocchio,315
E animosi drizzâr contra il Tidíde
I veloci cavalli. Il chiaro figlio
Di Capanéo li vide, e all’amico
Vôlto il presto parlar, Tidíde, ei disse,
Mio diletto Tidíde, a pugnar teco320
Veggo pronti venir due di gran nerbo
Valorosi guerrier, l’uno il famoso
Pandaro arciero che figliuol si vanta
Di Licaone, e l’altro Enea che prole
Vantasi ei pur di Venere e d’Anchise.325
Su, presto in cocchio; ritiriamci, e incauto
Tu non istarmi a furïar tra i primi
Con sì gran rischio della dolce vita.
Bieco guatollo il gran Tidíde, e disse:
Non parlarmi di fuga. Indarno tenti330
Persuadermi una viltà. Fuggire
Dal cimento e tremar, non lo consente
La mia natura: ho forze intégre, e sdegno
De’ cavalli il vantaggio. Andrò pedone,
Quale mi trovo, a incontrar costoro;335
Chè Pallade mi vieta ogni paura.
Ma non essi ambedue salvi di mano
Ci scapperan, dai rapidi sottratti
Lor corridori, e avverrà che appena
Ne scampi un solo. Un altro avviso ancora340
Vo’ dirti, e tu non l’obblïar. Se fia
Che l’alto onore d’atterrarli entrambi
La prudente Minerva mi conceda,
Tu per le briglie allora i miei cavalli
Lega all’anse del cocchio, e ratto vola345
Ai cavalli d’Enea, e dai Troiani
Via te li mena fra gli Achei. Son essi
Della stirpe gentil di quei che Giove,
Prezzo del figlio Ganimede, un giorno
A Troe donava; nè miglior destrieri350
Vede l’occhio del Sole e dell’Aurora.
Al re Laomedonte il prence Anchise
La razza ne furò, sopposte ai padri
Segretamente un dì le sue puledre
Che di tale imeneo sei generosi355
Corsier gli partoriro. Egli n’impingua
Quattro di questi a sè nel suo presepe,
E due ne cesse al figlio Enea, superbi
Cavalli da battaglia. Ove n’avvegna
Di predarli, n’avremo immensa lode.360
Mentre seguían tra lor queste parole,
Quelli incitando i corridor veloci
Tosto appressârsi, e Pandaro primiero
Favellò: Bellicoso ardito figlio
Dell’illustre Tidéo, poichè l’acuto365
Mio stral non ti domò, vengo a far prova
S’io di lancia ferir meglio mi sappia.
Così detto, la lunga asta vibrando
Fulminolla, e colpì di Dïomede
Lo scudo sì, che la ferrata punta370
Tutto passollo, e ne sfiorò l’usbergo.
Sei ferito nel fianco (alto allor grida
L’illustre feritor), nè a lungo, io spero,
Vivrai: la gloria che mi porti è somma.
Diomede combatte con violenza facendo stragi. Di J. L. David
Errasti, o folle, il colpo (imperturbato375
Gli rispose l’eroe); ben io m’avviso
Ch’uno almeno di voi, pria di ristarvi
Da questa zuffa, nel suo sangue steso
L’ira di Marte sazierà. Ciò detto,
Scagliò. Minerva ne diresse il telo,380
E a lui che curvo lo sfuggía, cacciollo
Tra il naso e il ciglio. Penetrò l’acuto
Ferro tra’ denti, ne tagliò l’estrema
Lingua, e di sotto al mento uscì la punta.
Piombò dal cocchio, gli tonâr sul petto385
L’armi lucenti, sbigottîr gli stessi
Cavalli, e a lui si sciolsero per sempre
E le forze e la vita. Enea temendo
In man non caggia degli Achei l’ucciso,
Scese, e protesa a lui l’asta e lo scudo390
Giravagli dintorno a simiglianza
Di fier lïone in suo valor sicuro;
E parato a ferir qual sia nemico
Che gli si accosti, il difendea gridando
Orribilmente. Diè di piglio allora395
Ad un enorme sasso Dïomede
Di tal pondo, che due nol porterebbero
Degli uomini moderni; ed ei vibrandolo
Agevolmente, e solo e con grand’impeto
Scagliandolo, percosse Enea nell’osso400
Che alla coscia s’innesta ed è nomato
Ciotola. Il fracassò l’aspro macigno
Con ambi i nervi, e ne stracciò la pelle.
Diè del ginocchio al grave colpo in terra
L’eroe ferito, e colla man robusta405
Puntellò la persona. Un negro velo
Gli coperse le luci, e qui pería,
Se di lui tosto non si fosse avvista
L’alma figlia di Giove Citerea
Che d’Anchise pastor l’avea concetto.410
Intorno al caro figlio ella diffuse
Le bianche braccia, e del lucente peplo
Gli antepose le falde, onde dall’armi
Ripararlo, e impedir che ferro acheo
Gli passi il petto e l’anima gl’involi.415
Mentre al fiero conflitto ella sottragge
Il diletto figliuol, Sténelo il cenno
Membrando dell’amico, ne sostiene
In disparte i cavalli, e prestamente
All’anse della biga avviluppate420
Le redini, s’avventa ai ben chiomati
Corridori d’Enea; di mezzo ai Teucri
Agli Achivi li spinge, e alle navi
Spedisceli fidati al dolce amico
Dëipilo, cui sopra ogni altro eguale,425
Perchè d’alma conforme, in pregio ei tiene.
Esso intanto l’eroe capaneíde
Rimontato il suo cocchio, e in man riprese
Le rilucenti briglie, allegramente
De’ cavalli sonar l’ugna facea430
Dietro il Tidíde che coll’empio ferro
L’alma Venere insegue, la sapendo
Non una delle Dee che de’ mortali
Godon le guerre amministrar, siccome
Minerva e la di mura atterratrice435
Torva Bellona, ma un’imbelle Diva.
Poichè raggiunta per la folta ei l’ebbe,
Abbassò l’asta il fiero, e coll’acuto
Ferro l’assalse, e della man gentile
Gli estremi le sfiorò verso il confine440
Della palma. Forò l’asta la cute,
Rotto il peplo odoroso a lei tessuto
Dalle Grazie, e fluì dalla ferita
L’icóre della Dea, sangue immortale,
Qual corre de’ Beati entro le vene;445
Ch’essi, nè frutto cereal gustando
Nè rubicondo vino, esangui sono,
E quindi han nome d’Immortali. Al colpo
Died’ella un forte grido, e dalle braccia
Depose il figlio, a cui difesa Apollo450
Corse tosto, e l’ascose entro una nube,
Onde camparlo dall’achee saette.
Venere ferita da Diomede dipinto di Ingres
Il bellicoso Dïomede intanto,
Cedi, figlia di Giove, alto gridava,
Cedi il piè dalla pugna. E non ti basta455
Sedur d’imbelli femminette il core?
Se qui troppo t’avvolgi, io porto avviso
Che tale desteratti orror la guerra,
Ch’anco il sol nome ti darà paura.
Disse; ed ella turbata e affannosa460
Partiva. La veloce Iri per mano
La prese, la tirò fuor del tumulto
Carca di doglie e livida le nevi
Della morbida cute. Alla sinistra
Della pugna seduto il furibondo465
Marte trovò: la grande asta del Nume
E i veloci corsier cingea la nebbia.
Gli abbracciò le ginocchia supplicando
La sorella, e gridò: Caro fratello,
Miserere di me, dammi il tuo cocchio470
Ond’io salga all’Olimpo. Assai mi crucia
Una ferita che mi feo la destra
D’un ardito mortal, di Dïomede,
Che pur con Giove pigliería contesa.
Sì prega, e Marte i bei destrier le cede.475
Salì sul cocchio allor la dolorosa,
Salì al suo fianco la taumanzia figlia,
E in man tolte le briglie, a tutto corso
I cavalli sferzò che desïosi
Volavano. Arrivâr tosto all’Olimpo,480
Eccelsa sede degli Eterni. Quivi
Arrestò la veloce Iri i corsieri,
Li disciolse dal giogo, e ristorolli
D’immortal cibo. La divina intanto
Venere al piede si gittò dell’alma485
Genitrice Dïona, che la figlia
Raccogliendo al suo seno, e colla mano
La carezzando e interrogando, Oh! disse,
Oh! chi mai de’ Celesti si permise,
Amata figlia, in te sì grave offesa,490
Coma rea di gran fallo alla scoperta?
Il superbo Tidíde Dïomede,
Rispose Citerea, l’empio ferimmi
Perchè il mio figlio, il mio sovra ogni cosa
Diletto Enea sottrassi dalla pugna,495
Che pugna non è più di Teucri e Achivi,
Ma d’Achivi e di numi. - E a lei Dïona
Inclita Diva replicò: Sopporta
In pace, o figlia, il tuo dolor; chè molti
Degl’Immortali con alterno danno500
Molte soffrimmo dai mortali offese.
Le soffrì Marte il dì che gli Aloídi
Oto e il forte Efïalte l’annodaro
D’aspre catene. Un anno avvinto e un mese
In carcere di ferro egli si stette,505
E forse vi pería, se la leggiadra
Madrigna Eeribéa nol rivelava
Al buon Mercurio che di là furtivo
Lo sottrasse, già tutto per la lunga
E dolorosa prigionía consunto.510
Le soffrì Giuno allor che il forte figlio
D’Anfitrïone con trisulco dardo
La destra poppa le piagò, sì ch’ella
D’alto duol ne fu colta. Anco il gran Pluto
Dal medesmo mortal figlio di Giove515
Aspro sofferse di saetta un colpo
Là su le porte dell’Inferno, e tale
Lo conquise un dolor, che lamentoso
E con lo stral ne’ duri omeri infisso
All’Olimpo sen venne, ove Peone,520
Di lenitivi farmaci spargendo
La ferita, il sanò; chè sua natura
Mortal non era: ma ben era audace
E scellerato il feritor che d’ogni
Nefario fatto si fea beffe, osando525
Fin gli abitanti saettar del cielo.
Oggi contro te pur spinse Minerva
Il figlio di Tidéo. Stolto! chè seco
Punto non pensa che son brevi i giorni
Di chi combatte con gli Dei: nè babbo530
Lo chiameran tornato dalla pugna
I figlioletti al suo ginocchio avvolti.
Benchè forte d’assai, badi il Tidíde
Ch’un più forte di te seco non pugni;
Badi che l’Adrastina Egïaléa,535
Di Dïomede generosa moglie,
Presto non debba risvegliar dal sonno
Ululando i famigli, e il forte Acheo
Plorar che colse il suo virgineo fiore.
In questo dir con ambedue le palme540
La man le asterse dal rappreso icóre,
E la man si sanò, queta ogni doglia.
Riser Giuno e Minerva a quella vista,
E con amaro motteggiar la Diva
Dalle glauche pupille il genitore545
Così prese a tentar: Padre, senz’ira
Un fiero caso udir vuoi tu? Ciprigna
Qualche leggiadra Achea sollecitando
A seguir seco i suoi Teucri diletti,
Nel carezzarla e acconciarle il peplo,550
A un aurato ardiglione, ohimè! s’è punta
La dilicata mano. - Il sommo padre
Grazïoso sorrise, e a sè chiamata
L’aurea Venere, Figlia, le dicea,
Per te non sono della guerra i fieri555
Studi, ma l’opre d’Imeneo soavi.
A queste intendi, e il pensier dell’armi
Tutto a Marte lo lascia e a Minerva.
Mentre in cielo seguían queste favelle,
Contro il figlio d’Anchise il bellicoso560
Dïomede si spinge, nè l’arresta
Il saper che la man d’Apollo il copre.
Desïoso di porre Enea sotterra
E spogliarlo dell’armi peregrine,
Nulla ei rispetta un sì gran Dio. Tre volte565
A morte l’assalì, tre volte Apollo
Gli scosse in faccia il luminoso scudo.
Ma come il forte Calidonio al quarto
Impeto venne, il saettante nume
Terribile gridò: Guarda che fai;570
Via di qua, Dïomede; il paragone
Non tentar degli Dei, chè de’ Celesti
E de’ terrestri è disugual la schiatta.
Disse; e alquanto l’eroe ritrasse il piede
L’ira evitando dell’arciero Apollo,575
Che, fuor condutto della mischia Enea,
Nella sagrata Pergamo fra l’are
Del suo delubro il pose. Ivi Latona,
Ivi l’amante dello stral Dïana
Lo curâr, l’onoraro. Intanto Apollo580
Formò di tenue nebbia una figura
In sembianza d’Enea; d’Enea le finse
L’armi, e dintorno al vano simulacro
Teucri ed Achei facean di targhe e scudi
Un alterno spezzar che intorno ai petti585
Orrendo risonava. Allor si volse
Al Dio dell’armi il Dio del giorno, e disse:
Eversor di città, Marte omicida,
Che sol nel sangue esulti, e non andrai
Ad aggredir tu dunque, a cacciar lungi590
Questo altiero mortal, questo Tidíde
Che alle mani verría con Giove ancora?
Egli assalse e ferì prima Ciprigna
Al carpo della mano; indi avventossi
A me medesmo coll’ardir d’un Dio.595
Sì dicendo, s’assise alto sul colmo
Della pergámea rocca, e il rovinoso
Marte sen corse a concitar de’ Teucri
Le schiere, e preso d’Acamante il volto,
D’Acamante de’ Traci esimio duce,600
Così prese a spronar di Priamo i figli:
Illustri Priamídi, e sino a quando
Permetterete della vostra gente
Per la man degli Achei sì rio macello?
Sin tanto forse che la strage arrivi605
Alle porte di Troia? A terra è steso
L’eroe che al pari del divino Ettorre
Onoravamo, Enea preclaro figlio
Del magnanimo Anchise. Andiam, si voli
Alla difesa di cotanto amico.610
Destâr la forza e il cor d’ogni guerriero
Queste parole. Sarpedon con aspre
Rampogne allora rabbuffando Ettorre,
Dove andò, gli dicea, l’alto valore
Che poc’anzi t’avevi? E pur t’udimmo615
Vantarti che tu sol senza l’aita
De’ collegati, e co’ tuoi soli affini
E co’ fratei bastavi alla difesa
Della città. Ma niuno io qui ne veggo,
Niun ne ravviso di costor, chè tutti620
Trepidanti s’arretrano come
Timidi veltri intorno a un leone:
E qui frattanto combattiam noi soli,
Noi venuti in sussidio. Io che mi sono
Pur della lega, di lontana al certo625
Parte mi mossi, dalla licia terra,
Dal vorticoso Xanto, ove la cara
Moglie e un figlio pargoletto e molti
Lasciai di quegli averi a cui sospira
L’uomo mai sempre bisognoso. E pure630
Alleato, qual sono, i miei guerrieri
Esorto alla battaglia, e io medesmo
Sto qui pronto a pugnar contra costui,
Benchè qui nulla io m’abbia che il nemico
Rapir mi possa, nè portarlo seco.635
E tu ozïoso ti ristai? nè almeno
Agli altri accenni di far fronte, e in salvo
Por le consorti? Guárdati, che presi,
Siccome in ragna che ogni cosa involve,
Non divenghiate del crudel nemico640
Cattura e preda, e ch’ei tra poco al suolo
La vostr’alma cittade non adegui.
A te tocca l’aver di ciò pensiero
E giorno e notte, a te dell’alleanza
I capitani supplicar, che fermi645
Resistano al lor posto, e far che niuna
Cagion più sorga di rampogne acerbe.
D’Ettore al cor fu morso amaro il detto
Di Sarpedonte, sì che tosto a terra
Saltò dal cocchio in tutto punto, e l’asta650
Scotendo ad animar corse veloce
D’ogni parte i Troiani alla battaglia,
E destò mischia dolorosa. Allora
Voltâr la fronte i Teucri, e impetuosi
Fêrsi incontro agli Achei, che stretti insieme655
Gli aspettâr di piè fermo e senza tema.
Come allor che di Zefiro lo spiro
Disperde per le sacre aie la pula,
Mentre la bionda Cerere la scevra
Dal suo frutto gentil, che il buon villano660
Vien ventilando; lo leggier spulezzo
Tutta imbianca la parte ove del vento
Lo sospinge il soffiar: così gli Achivi
Inalbava la polve al cielo alzata
Dall’ugna de’ cavalli entrati allora665
Sotto la sferza degli aurighi in zuffa.
Difilati portavano i Troiani
Il valor delle destre, e furïoso
Li soccorrea Gradivo discorrendo
Il campo tutto, e tutta di gran buio670
La battaglia coprendo. E sì di Febo
I precetti adempía, di Febo Apollo
D’aurea spada precinto, che comando
Dato gli avea d’accendere ne’ Teucri
L’ardimento guerrier, vista partire675
L’aiutatrice degli Achei Minerva.
Fuori intanto de’ pingui aditi sacri
Enea messo da Febo, e per lui tutto
Di gagliardía ripieno appresentossi
A’ suoi compagni che gioîr, vedendo680
Vivo e salvo il guerriero e rintegrato
Delle pristine forze. Ma gravarlo
D’alcun dimando il fier nol consentía
Lavor dell’armi che dell’arco il divo
Sire eccitava, e l’omicida Marte,685
E la Discordia ognor furente e pazza.
D’altra parte gli Aiaci e Dïomede
E il re dulíchio anch’essi alla battaglia
Raccendono gli Achei già per sè stessi
Nè la furia tementi nè le grida690
De’ Dardani, ma fermi ad aspettarli.
Quai nubi che de’ monti in su la cima
Immote arresta di Saturno il figlio
Quando l’aria è tranquilla e il furor dorme
Degli Aquiloni o d’altro impetuoso695
Di nubi fugator vento sonoro;
Di piè fermo così senza veruno
Pensier di fuga attendono gli Achivi
De’ Troiani l’assalto. E Agamennóne
Per le file scorrendo, e molte cose700
D’ogni parte avvertendo, Amici, ei grida,
Uomini siate e di cor forte, e ognuno
Nel calor della pugna il guardo tema
Del suo compagno. De’ guerrier che infiamma
Generoso pudore, i salvi sono705
Più che gli uccisi; chi rossor di fuga
Non sente, ha persa coll’onor la forza.
Scagliò l’asta, ciò detto, e un guerriero
Percosse de’ primai, commilitone
Del magnanimo Enea, Dëicoonte,710
Di Pérgaso figliuol tenuto in pregio
Dai Teucri al paro che di Priamo i figli,
Perchè presto a pugnar sempre tra’ primi.
Colpillo Atride nell’opposto scudo
Che difesa non fece. Trapassollo715
Tutto la lancia, e per lo cinto all’imo
Ventre discese. Strepitoso ei cadde,
E l’armi rimbombâr sovra il caduto.
Enea diè morte di rincontro a due
Valentissimi, Orsiloco e Cretone,720
Figli a Dïócle, della ben costrutta
Città di Fere un ricco abitatore.
Scendea costui dal fiume Alfeo che largo
La pilia terra di bell’acque inonda:
Alféo produsse Orsiloco di molte725
Genti signore, Orsiloco Dïócle,
E Dïócle costor, mastri di guerra
D’un sol parto acquistati. Aveano entrambi
Già fatti adulti navigato a Troia
Per onor degli Atridi, e qui la vita730
Entrambi terminâr. Quai due leoni,
Cui la madre sul monte entro i recessi
D’alto speco educò, fan ruba e guasto
Delle mandre, de’ greggi e delle stalle,
Finchè dal ferro de’ pastor raggiunti735
Caggiono anch’essi; e tali allor dall’asta
D’Enea percossi caddero costoro
Col fragor di recisi eccelsi abeti.
Strinse pietà dei due caduti il petto
Del prode Menelao, che tosto innanzi740
Si spinse di lucenti armi vestito
L’asta squassando. E Marte, che domarlo
Per man d’Enea fa stima, il cor gli attizza.
Del magnanimo Nestore il buon figlio
Antiloco osservollo, e un qualche danno745
Paventando all’Atride, un qualche grave
Storpio all’impresa degli Achei, processe
Nell’antiguardo. Già s’aveano incontro
Abbassate le picche i due campioni
Pronti a ferir, quando d’Atride al fianco750
Antiloco comparve: e di due tali
Viste le forze in un congiunte, Enea,
Benchè prode guerriero, retrocesse.
Trassero questi tra gli Achei gli estinti
Orsiloco e Cretone, e d’ambedue755
Le miserande spoglie in man deposte
Degli amici, dier volta, e nella pugna
Novellamente si mischiâr tra’ primi.
Fu morto il duce allor de’ generosi
Scudati Paflagoni, il marzïale760
Pilemene. Il ferì d’asta alla spalla
L’Atride Menelao. Lo suo sergente
E auriga Midon, gagliardo figlio
D’Antimnio, cadde per la man d’Antiloco.
Dava questo Midon, per via fuggirsi,765
La volta al cocchio. Antiloco nel pieno
Del cubito il ferì con tale un colpo
Di sasso, che gittògli al suol le belle
Eburnee briglie. Gli fu tosto sopra
Il feritor col brando, e su la tempia770
D’un dritto l’attastò, che giù dal carro
Lo travolse, e ficcògli nella sabbia
Testa e spalle. Anelante in quello stato
Ei restossi gran pezza, chè profondo
Era il sabbion; finchè i destrier del tutto775
Lo riversâr calpesto nella polve.
Diè lor di piglio Antiloco, e veloce
Col flagello li spinse al campo acheo.
Com’Ettore di mezzo all’ordinanze
Vide lor prove, impetuoso mosse780
Con alte grida a investirli, e dietro
De’ Teucri si traea le forti squadre
Cui Marte è duce e la feral Bellona.
Bellona in compagnía vien dell’orrendo
Tumulto della zuffa; e Marte in pugno785
Palleggia un’asta smisurata, e or dietro
Or davanti cammina al grande Ettorre.
Turbossi a quella vista il bellicoso
Tidíde; e quale della strada ignaro
Vïator che trascorsa un’ampia landa790
Giunge a rapido fiume che mugghiante
L’onda del mar devolve, e visto il flutto
Che freme e spuma, di fuggir s’affretta
L’orme sue ricalcando: a questa guisa
Retrocesse il Tidíde, e al suo drappello
Volgendo le parole: Amici, ei disse,
Qual fia stupor se forte d’asta e audace
Combattente si mostra il duce Ettorre?
Sempre al fianco gli viene un qualche iddio
Che alla morte l’invola; e or lo stesso800
Marte in sembianza d’un mortal l’assiste.
Non vogliate attaccar dunque co’ numi
Ostinata contesa, e date addietro,
Ma col viso ognor vôlto al nemico.
Mentr’egli sì dicea, scagliârsi i Teucri805
Addosso alla sua schiera. E quivi Ettorre
A morte mise due guerrier, nell’armi
Assai valenti e in un sol cocchio ascesi,
Anchïalo e Meneste. Ebbe di loro
Pietade il grande telamonio Aiace,810
E fêssi avanti e stette, e la lucente
Asta lanciando, Anfio colpì, che figlio
Di Selago tenea suo seggio in Peso
Ricco d’ampie campagne. Ma la nera
Parca a Ilio il menò confederato815
Del re troiano e de’ suoi figli. Il colse
Sul cinto il lungo telamonio ferro,
E nell’imo del ventre si confisse.
Diè cadendo un rimbombo, e a dispogliarlo
Corse l’illustre vincitor; ma un nembo820
I Troiani piovean di frecce acute
Che d’irta selva gli coprîr lo scudo.
Ben egli al morto avvicinossi, e il petto
Calcandogli col piè, la fulgid’asta
Ne sferrò, ma dall’omero le belle825
Armi rapirgli non poteo: sì densa
La grandine il premea delle saette.
E temendo l’eroe nol circuisse
De’ Troiani la piena, che ristretti
Erano e molti e poderosi, e tutti830
Con armi d’ogni guisa e d’ogni tiro
Ad incalzarlo, a repulsarlo intesi,
Ei benchè forte e di gran corpo e d’alto
Ardir diè volta, e si ritrasse addietro.
Mentre questi alle mani in questa parte835
Si travaglian così, nemico fato
Contra l’illustre Sarpedon sospinse
L’Eraclide Tlepólemo, guerriero
Di gran persona e di gran possa. Or come
A fronte si trovâr quinci il nepote840
E quindi il figlio del Tonante Iddio,
Tlepólemo primiero così disse:
Duce de’ Licii Sarpedon, qual uopo
Rozzo in guerra a tremar qua ti condusse?
È mentitor chi dell’Egíoco Giove845
Germe ti dice. Dal valor dei forti,
Che nell’andata età nacquer di lui,
Troppo lungi se’ tu. Ben altro egli era
Il mio gran genitor, forza divina,
Cuor di leone. Qua venuto un giorno850
A via menar del re Laomedonte
I promessi destrieri, egli con sole
Sei navi e pochi armati Ilio distrusse,
E vedovate ne lasciò le vie.
Tu sei codardo, tu a perir qui traggi855
I tuoi soldati, tu veruna aita,
Col tuo venir di Licia, non darai
Alla dardania gente; e quando pure
Un gagliardo ti fossi, il braccio mio
Qui stenderatti e spingeratti a Pluto.860
E di rimando a lui de’ Licii il duce:
Tlepólemo, le sacre iliache mura
Ercole, è ver, distrusse, e la scempiezza
Del frigio sire il meritò, che ingrato
Al beneficio con acerbi detti865
Oltraggiollo; e i destrieri, alta cagione
Di sua venuta, gli negò. Ma i vanti
Paterni non torran che la mia lancia
Qui non ti prostri. Tu morrai: son io
Che tel predíco, e a me l’onor qui tosto870
Darai della vittoria, e l’alma a Pluto.
Ciò detto appena, sollevaro in alto
I ferrati lor cerri ambo i guerrieri,
Ed ambo a un tempo gli scagliâr. Percosse
Sarpedonte il nemico a mezzo il collo,875
Sì che tutto il passò l’asta crudele,
E a lui gli occhi coperse eterna notte.
Ma il telo uscito nel medesmo istante
Dalla man di Tlepólemo la manca
Coscia ferì di Sarpedon. Passolla880
Infino all’osso la fulminea punta,
Ma non diè morte, chè vietollo il padre.
Accorsero gli amici, e dal tumulto
Sottrassero l’eroe che del confitto
Telo di molto si dolea, nè mente885
V’avea posto verun, nè s’avvisava
Di sconficcarlo dalla coscia offesa,
Onde espedirne il camminar: tant’era
Del salvarlo la fretta e la faccenda.
Dall’altra parte i coturnati Achei890
Di Tlepólemo anch’essi dalla pugna
Ritraggono la salma. Al doloroso
Spettacolo la forte alma d’Ulisse
Si commosse altamente; e in suo pensiero
Divisando ne vien s’ei prima insegua895
Di Giove il figlio, o più gli torni il darsi
Alla strage de’ Licii. Alla sua lancia
Non concedean le Parche il porre a morte
Del gran Tonante il valoroso seme.
Scagliasi ei dunque da Minerva spinto900
Nella folta de' Licii, e quivi uccide
L’un sovra l’altro Alastore, Cerano,
Cromio, Pritani, Alcandro, e Noemone
Ed Alio: e più n’avría di lor prostrati
Il divino guerrier, se il grande Ettorre905
Di lui non s’accorgea. Tra i primi ei dunque
Processe di corrusche armi splendente,
E portante il terror ne’ petti argivi.
Come il vide vicin fe’ lieto il core
Sarpedonte, e con voce lamentosa:910
Generoso Prïamide, dicea,
Non lasciarmi giacer preda al nemico:
Mi soccorri, e la vita m’abbandoni
Nella vostra città, poichè m’è tolto
Il tornarmi al natío dolce terreno,915
E d’allegrezza spargere la mia
Diletta moglie e il pargoletto figlio.
Non rispose l’eroe; ma desïoso
Di vendicarlo e ricacciar gli Achivi
Colla strage di molti, oltre si spinse.920
In questo mezzo la pietosa cura
De’ compagni adagiò sotto un bel faggio
A Giove sacro Sarpedonte, e il telo
Dalla piaga gli svelse il valoroso
Diletto amico Pelagon. Nell’opra925
Svenne il ferito, e s’annebbiò la vista;
Ma l’aura boreal, che fresca intorno
Ventavagli, tornò ne’ primi uffici
Della vita gli spirti; e nell’anelo
Petto affannoso ricreògli il core.930
Da Marte intanto e dall’ardente Ettorre
Assaliti gli Achei nè paurosi
Verso le navi si fuggían, nè arditi
Farsi innanzi sapean. Ma quando il grido
Corse tra lor che Marte era co’ Teucri,935
Indietro si piegâr sempre cedendo.
Or chi prima, chi poi fu l’abbattuto
Dal ferreo Marte e dall’audace Ettorre?
Teutrante che sembianza avea d’un Dio,
L’agitatore di cavalli Oreste,940
Il vibrator di lancia Etolio Treco,
E l’Enopide Eléno, ed Enomáo,
E d’armi adorno di color diverso
Oresbio che a far d’oro alte conserve
Posto il pensier, tenea suo seggio in Ila945
Appo il lago Cefisio ov’altri assai
Opulenti Beozi avean soggiorno.
Tale e tanta d’Achivi occisïone
Giuno mirando, a Pallade si volse,
E con preste parole: Ohimè! le disse,950
Invitta figlia dell’Egíoco Giove,
Se libera lasciam dell’omicida
Marte la furia, indarno a Menelao
Noi promettemmo dell’iliache torri
La caduta, e felice il suo ritorno.955
Or via, scendiamo, e di valor noi pure
Facciam prova laggiù. Disse, e Minerva
Tenne l’invito. Allor la veneranda
Saturnia Giuno ad allestir veloce
Corse i d’oro bardati almi destrieri.960
Immantinente al cocchio Ebe le curve
Ruote innesta. Un ventaglio apre ciascuna
D’otto raggi di bronzo, e si rivolve
Sovra l’asse di ferro. Il giro è tutto
D’incorruttibil oro, ma di bronzo965
Le salde lame de’ lor cerchi estremi.
Maraviglia a veder! Son puro argento
I rotondi lor mozzi, e vergolate
D’argento e d’ôr del cocchio anco le cinghie
Con ambedue dell’orbe i semicerchi,970
A cui sospese consegnar le guide.
Si dispicca da questo e scorre avanti
Pur d’argento il timone, in cima a cui
Ebe attacca il bel giogo e le leggiadre
Pettiere; e queste parimenti e quello975
D’auro sono contesti. Desïosa
Giuno di zuffe e del rumor di guerra,
Gli alipedi veloci al giogo adduce.
Nè Minerva s’indugia. Ella diffuso
Il suo peplo immortal sul pavimento980
Delle sale paterne, effigïato
Peplo, stupendo di sua man lavoro,
E vestita di Giove la corazza,
Di tutto punto al lagrimoso ballo
Armasi. Intorno agli omeri divini985
Pon la ricca di fiocchi Egida orrenda,
Che il Terror d’ogn’intorno incoronava.
Ivi era la Contesa, ivi la Forza,
Ivi l’atroce Inseguimento, e il diro
Gorgonio capo, orribile prodigio990
Dell’Egìoco signore. Indi alla fronte
L’aurea celata impone irta di quattro
Eccelsi coni, a ricoprir bastante
Eserciti e città. Tale la Diva
Monta il fulgido cocchio, e l’asta impugna995
Pesante, immensa, poderosa, ond’ella
Intere degli eroi le squadre atterra
Irata figlia di potente iddio.
Giuno, al governo delle briglie, affretta
Col flagello i corsieri. Cigolando1000
Per sè stesse s’aprîr l’eteree porte
Custodite dall’Ore a cui commessa
Del gran cielo è la cura e dell’Olimpo,
Onde serrare e disserrar la densa
Nube che asconde degli Dei la sede.1005
Per queste porte dirizzâr le Dive
I docili cavalli, e ritrovaro
Scevro dagli altri Sempiterni e solo
Su l’alta vetta dell’Olimpo assiso
Di Saturno il gran figlio. Ivi i destrieri1010
Sostò la Diva dalle bianche braccia,
E il supremo de’ numi interrogando:
Giove padre, gli disse, e non ti prende
Sdegno de’ fatti di Gradivo atroci?
Non vedi quanta e quale il furibondo1015
Strage non giusta degli Achei commette?
Io ne son dolorosa: e queti intanto
Si letiziano Apollo e Citerea,
Essi che questo d’ogni legge schivo
Forsennato aizzâr. Padre, s’io scendo1020
A rintuzzar l’audace, a discacciarlo
Dalla pugna, n’andrai tu meco in ira?
Va, le rispose delle nubi il sire,
Spingi contra costui la predatrice
Minerva, a farlo assai dolente usata.1025
Di ciò lieta la Dea fe’ su le groppe
De’ corsieri sonar la sferza; e quelli
Infra la terra e lo stellato cielo
Desïosi volaro; e quanto vede
D’aereo spazio un uom che in alto assiso1030
Stende il guardo sul mar, tanto d’un salto
Ne varcâr delle Dive i tempestosi
Destrier. Là giunte dove l’onde amiche
Confondono davanti all’alta Troia
Simoenta e Scamandro, ivi rattenne1035
Giuno i cavalli, gli staccò dal cocchio,
E di nebbia li cinse. Il Simoenta
Loro un pasco fornì d’ambrosie erbette.
Tacite allora, e col leggiero incesso
Di timide colombe ambe le Dive1040
Appropinquârsi al campo acheo, bramose
Di dar soccorso a’ combattenti. E quando
Arrivâr dove molti e valorosi,
Come stuol di cinghiali o di lïoni,
Si stavano ristretti intorno al forte1045
Figliuolo di Tidéo, presa la forma
Di Sténtore che voce avea di ferro,
E pareggiava di cinquanta il grido,
Giuno sclamò: Vituperati Argivi,
Mere apparenze di valor, vergogna!1050
Finché mostrossi in campo la divina
Fronte d’Achille, non fur osi i Teucri
Scostarsi mai dalle dardanie porte;
Cotanto di sua lancia era il terrore.
Or lungi dalle mura insino al mare1055
Vengono audaci a cimentar la pugna.
Sì dicendo svegliò di ciascheduno
E la forza e l’ardir. Sorgiunse in questa
La cerula Minerva a Dïomede
Ch’appo il carro la piaga, onde l’offese1060
Di Pandaro lo stral, refrigerava;
E colla stanca destra sollevando
Dello scudo la soga tutta molle
Di molesto sudor, tergea del negro
Sangue la tabe. Colla man posata1065
Sul giogo de’ corsier la Dea sì disse:
Tidéo per certo generossi un figlio
Che poco lo somiglia. Era Tidéo
Picciol di corpo, ma guerriero; e quando
Io gli vietava di pugnar, fremea.1070
E quando senza compagnía venuto
Ambasciatore a Tebe io co’ Tebani
Ne’ regii alberghi a banchettar l’astrinsi,
Non depose egli, no, la bellicosa
Alma di prima, ma sfidando il fiore1075
De’ giovani Cadmei, tutti li vinse
Agevolmente col mio nume al fianco.
E al tuo fianco del pari io qui ne vegno,
E ti guardo e t’esorto e ti comando
Di pugnar co’ Troiani arditamente.1080
Ma te per certo o la fatica oppresse,
O qualche tema agghiaccia, e tu non sei
Più, no, la prole del pugnace Eníde.
Ti riconosco, o Dea (tosto rispose
Il valoroso eroe), ti riconosco,1085
Figlia di Giove, e di buon grado e netta
Mia ragione dirò. Nè vil timore
Nè ignavia mi rattien, ma il tuo comando.
Non se’ tu quella che pugnar poc’anzi
Mi vietasti co’ numi? E se la figlia1090
Di Giove Citerea nel campo entrava,
Non mi dicesti di ferirla? Il feci.
Ed or recedo, e agli altri Achivi imposi
D’accogliersi qui tutti, ora che Marte,
Ben lo conosco, de’ Troiani è il duce.1095
E a lui la Diva dalle luci azzurre:
Diletto Dïomede, alcuna tema
Di questo Marte non aver, nè d’altro
Qualunque iddio, se tua difesa io sono.
Sorgi, e drizza in costui gl’impetuosi1100
Tuoi corridori, e stringilo e il percuoti,
Nè riguardo t’arresti nè rispetto
Di questo insano ad ogni mal parato
E ad ogni parteggiar, che a me pur dianzi
E a Giuno promettea che contra i Teucri1105
A pro de’ Greci avría pugnato; ed ora
Immemore de’ Greci i Teucri aiuta.
Sì dicendo afferrò colla possente
Destra il figliuol di Capanéo, dal carro
Traendolo; nè quegli a dar fu tardo1110
Un salto a terra; ed ella stessa ascese
Sovra il cocchio da canto a Dïomede
Infiammata di sdegno. Orrendamente
L’asse al gran pondo cigolò, chè carco
D’una gran Diva egli era e d’un gran prode.1115
Al sonoro flagello e alle briglie
Diè di piglio Minerva, e senza indugio
Contra Marte sospinse i generosi
Cornipedi. Lo giunse appunto in quella
Che atterrato l’enorme Perifante1120
(Un fortissimo Etólo, egregio figlio
D’Ochesio), il Dio crudel lordo di sangue
Lo trucidava. In arrivar si pose
Minerva di Pluton l’elmo alla fronte,
Onde celarsi di quel fero al guardo.1125
Come il nume omicida ebbe veduto
L’illustre Dïomede, al suol disteso
Lasciò l’immenso Perifante, e dritto
Ad investir si spinse il cavaliero.
E tosto giunti l’un dell’altro a fronte,1130
Marte il primo scagliò l’asta di sopra
Al giogo de’ corsier lungo le briglie,
Di rapirgli la vita desïoso:
Ma prese colla man l’asta volante
La Dea Minerva e la stornò dal carro,1135
E vano il colpo rïuscì. Secondo
Spinse l’asta il Tidíde a tutta forza.
La diresse Minerva, e al Dio l’infisse
Sotto il cinto nell’epa, e vulnerollo,
E lacerata la divina cute1140
L’asta ritrasse. Mugolò il ferito
Nume, e ruppe in un tuon pari di nove
O dieci mila combattenti al grido
Quando appiccan la zuffa. I Troi l’udiro,
L’udîr gli Achivi, e ne tremâr: sì forte1145
Fu di Marte il muggito. E quale pel grave
Vento che spira dalla calda terra
Si fa di nubi tenebroso il cielo;
Tal parve il ferreo Marte a Dïomede,
Mentre avvolto di nugoli alle sfere1150
Dolorando salía. Giunto alla sede
Degli Dei su l’Olimpo, accanto a Giove
Mesto s’assise, discoperse il sangue
Immortal che scorrea dalla ferita,
E in suono di lamento: O padre, ei disse,1155
E non t’adiri a cotal vista, a fatti
Sì nequitosi? Esizïosa sempre
A noi Divi tornò la mutua gara
Di gratuir l’umana stirpe; e intanto
Di nostre liti la cagion tu sei,1160
Tu che una figlia generasti insana,
E di sterminii e di malvage imprese
Invaghita mai sempre. Obbedïenti
Hai quanti alberga Sempiterni il cielo;
Tutti inchiniamo a te. Sola costei1165
Nè con fatti frenar nè con parole
Tu sai per anco, connivente padre
Di pestifera furia. Ella pur dianzi
Stimolò di Tidéo l’audace figlio
A pazzamente guerreggiar co’ numi;1170
Ella a ferir Ciprigna; ella a scagliarsi
Contra me stesso, e pareggiarsi a un Dio.
E se più tardo il piè fuggía, sarei
Steso rimasto fra quei tanti uccisi
In lunghe pene, nè morir potendo1175
M’avría de’ colpi infranto la tempesta.
Bieco il guatò l’adunator de’ nembi
Giove, e rispose: Querimonie e lai
Non mi far qui seduto al fianco mio,
Fazïoso incostante, e a me fra tutti1180
I Celesti odïoso. E risse e zuffe
E discordie e battaglie, ecco le care
Tue delizie. Trasfuso in te conosco
Di tua madre Giunon l’intollerando
Inflessibile spirto, a cui mal posso1185
Pur colle dolci riparar; nè certo
D’altronde io penso che il tuo danno or scenda,
Che dal suo torto consigliar. Non io
Vo’ per questo patir che tu sostegna
Più lungo duolo: mi sei figlio, e caro1190
La Dea tua madre a me ti partoría.
Se malvagio, qual sei, d’altro qualunque
Nume nascevi, da gran tempo avresti
Sorte incorsa peggior degli Uranídi.
Così detto, a Peon comando ei fece1195
Di risanarlo. La ferita ei sparse
Di lenitivo medicame, e tolto
Ogni dolore, il tornò sano al tutto,
Chè mortale ei non era. E come il latte
Per lo gaglio sbattuto si rappiglia,1200
E perde il suo fluir sotto la mano
Del presto mescitor; presta del pari
La peonia virtù Marte guaría.
Ebe poscia lavollo, e di leggiadre
Vesti l’avvolse; ed egli accanto a Giove1205
Dell’alto onor superbo si ripose.
Repressa del crudel Marte la strage,
Tornâr contente alla magion del padre
Giuno Argiva e Minerva Alalcoménia.
DIOMEDE
Diomede (in greco antico: Diom?des) è un personaggio della mitologia greca. Figlio di Tideo e di Deipile, fu uno dei principali eroi achei della guerra degli Epigoni e della guerra di Troia. Oltre all'importanza come guerriero, Diomede assume un ruolo rilevante come diffusore della civiltà, specie nell'Adriatico. Re di Argo, partecipò alla guerra di Troia dalla parte di Agamennone e degli Achei, durante la quale si distinse molto presto in battaglia. Guerriero valorosissimo, assume un ruolo centrale all'interno dell'Iliade di Omero, specialmente nel V canto, che, probabilmente, si rifaceva ad un poema epico preesistente che aveva la figura di Diomede come protagonista. Dopo Achille e Aiace Telamonio, fu il più valoroso eroe dell'esercito acheo. La figura di Diomede, uomo insigne per intelligenza e coraggio, è stata ripresa da numerosi autori antichi, posteriori a Omero, come Virgilio, che lo inserirà nell''Eneide, e come Quinto Smirneo nei Posthomerica.
I suoi sei cugini, figli dello zio Agrio, Celeutore, Licopeo, Melanippo, Onchesto, Protoo e Tersite, decisero di deporre il nonno Oineo dal trono di Calidone, su cui regnava, e che, essendo molto anziano, era incapace di difendersi, e insediarono così il loro padre. Oineo venne tenuto sì in vita ma incatenato tra le torture dei nipoti. Allora Diomede, nato in esilio, ad Argo, dopo essere arrivato a Calidone in gran segreto con l'aiuto di Alcmeone, uccise uno dopo l'altro i figli di Agrio, usurpatori del trono, rimettendo il nonno al capo del regno. E dal momento che questi era ormai molto avanti negli anni, Diomede affidò il regno ad Andremone, marito di Gorga, e perciò genero di Oineo. Dei figli di Agrio, solo Tersite e Onchesto sfuggirono alla strage e si rifugiarono nel Peloponneso, mentre Agrio, espulso dal regno, si tolse la vita. L'eroe portò Oineo con sé ad Argo. Diomede passò la giovinezza ad allenarsi nell'arte della guerra insieme ai sei figli degli altri comandanti morti a Tebe, nel desiderio di vendicare la morte del padre, di ridare il trono a suo nonno e di far trionfare così la giustizia. Una volta adulti, Diomede e i suoi compagni furono i sette Epigoni: indissero la seconda guerra contro Tebe e la vinsero. Durante la guerra però morì il Re di Argo. Quando Elena, la figlia di Zeus e Leda, raggiunse l'età da marito, la sua bellezza attirò al palazzo del suo patrigno Tindaro re e principi di tutta la Grecia che pretesero la sua mano, in cambio di ricchi doni. Giovane e bello, Diomede, insieme ad altri principi della Grecia, si presentò al palazzo di Tindaro per chiedere Elena in moglie. Ad Argo Diomede si sposò con Egialea, la figlia ormai orfana del re, e diventò così sovrano della città. Avrebbe voluto governare in pace e dedicarsi alle gioie familiari ma ben presto dovette partire per la guerra di Troia.
Diomede partì alla volta di Troia con 80 navi da guerra (un gran numero per quell'epoca) e arrivò addirittura a scendere in campo contro Ettore, Enea e gli dei stessi: ferì Afrodite, accorsa per aiutare il figlio, e l'amante di lei, Ares, dio della guerra. Diomede era protetto dalla dea Atena. Omero afferma che, durante le battaglie, Diomede era simile a un torrente in piena, che tutto travolge. Come è raccontato nell'Iliade, in particolare nei libri V e VI, Diomede compì molte gesta eroiche, uccidendo diversi guerrieri, tra cui i fratelli Xanto e Toone, l'arciere Pandaro, Dreso e il giovane Assilo insieme all'auriga Calesio.
Fu eroe valoroso e spesso supportato da Atena. Atena diede a Diomede l'ispirazione di realizzare un massacro di nemici sul campo: simile all'astro della canicola, sotto le sue armi si accese un fuoco. Lo affrontarono allora due guerrieri, che combattevano su un carro, figli di Darete, sacerdote di Efesto a Troia, i quali gli corsero incontro: uno di questi, Fegeo, cercò di colpirlo con la sua lancia, ma lo mancò. L'eroe scagliò a sua volta l'asta contro di lui e colse il nemico in pieno petto, facendolo precipitare morto dal cocchio.
Diomede, nella battaglia che seguì al duello fra Paride e Menelao, uccise Pandaro, che combatteva sul carro da guerra in compagnia di Enea. Quest'ultimo lasciò incustodito il carro (che verrà poi portato al campo greco da Stenelo, fedele compagno d'armi e auriga di Diomede) per difendere il corpo dell'amico dagli assalti greci.
Affrontò dunque Enea, che rimase ferito a causa di un masso scagliato dal greco. L'eroe troiano venne salvato dalla madre che lo avvolse nel suo velo. Diomede, non temendo l'ira della dea, la ferì a una mano costringendola alla fuga. Ares corse in aiuto di Afrodite, che riuscì in tal modo a fuggire col suo carro sull'Olimpo insieme a Iris. Il corpo di Enea venne ricoverato nel tempio di Apollo e curato da Artemide e Latona. Al suo posto combatté sul campo un fantasma con le sue sembianze. Apollo, allora, apostrofò Diomede con queste parole: “Tu, mortale, non tentare il confronto con gli dei!”. Diomede si scontrò quindi con Ares e lo ferì al ventre: il dio dovette uscire dalla battaglia e rifugiarsi sull'Olimpo dove verrà curato dal medico degli dei, Panèon.
Diomede non era però solo furia e impeto: egli diede nel pieno della lotta un'altissima prova di lealtà e di spirito cavalleresco: fu poco prima di intraprendere il duello con Glauco, il nobile di Licia, che si batteva a fianco dei Troiani. È questo uno degli episodi più toccanti dell'Iliade: dopo aver chiesto al nemico il suo nome, Diomede si rese conto che l'uomo che aveva di fronte era legato da un antico vincolo di amicizia e di ospitalità con la propria famiglia. Gettò allora la spada a terra e i due nemici, anziché scontrarsi, si strinsero la mano e si scambiarono le armi, secondo consuetudine. Glauco, preso dall'entusiasmo del gesto e noncurante del loro valore, scambiò le sue armi d'oro con armi di bronzo, pari al valore di cento buoi per nove buoi.
Diomede assecondò spesso Ulisse, quando si trattò di condurre trattative delicate (sia presso Agamennone che presso Achille), e con lui compì varie imprese pericolose, tra le quali il furto del Palladio (la statua da cui dipendevano le sorti di Troia), e l'incursione notturna nell'accampamento del giovane re tracio Reso, che Diomede colpì con la spada mentre dormiva. Narra Omero che il sonno di Reso, famoso russatore, fu quella notte più rumoroso che mai, essendogli apparso in sogno il suo assassino.
Dopo che Troia fu conquistata, Diomede viaggiò per tornare ad Argo, con una veloce navigazione favorita da Afrodite, desiderosa di accelerare il ritorno dell'eroe in patria, dove aveva intenzione di vendicarsi dell'offesa subita durante la guerra.
Secondo una variante del mito, invece, una tempesta suscitata da Afrodite, sempre per vendicare l'offesa subita, spinse Diomede sulle coste della Licia: qui fu sul punto di essere sacrificato ad Ares dal re Lico, che voleva vendicare la morte di Sarpedonte caduto a Troia, ma poté salvarsi per l'intervento di Calliroe, figlia del re, che lo aiutò a ripartire. Secondo alcune fonti Diomede sarebbe poi sbarcato per errore ad Atene, e qui avrebbe perso il Palladio, finito nelle mani di Demofonte.
Arrivato ad Argo, Diomede ebbe un'amara sorpresa: né sua moglie Egialea, né i suoi sudditi lo ricordavano più, in quanto Afrodite aveva cancellato il ricordo di Diomede dalla loro memoria. Secondo una variante del mito, Egialea, ispirata dalla dea, tradì Diomede con Comete, il giovane figlio di Stenelo, e gli tese molti agguati.
Diomede decise di abbandonare la città, imbarcandosi per l'Italia insieme ai suoi compagni: Acmone, Lico, Idas, Ressenore, Nitteo, Abante. Dopo aver errato a lungo nel mare Adriatico si fermò in più porti insegnando alle popolazioni locali la navigazione e l'addomesticamento e allevamento del cavallo. La diffusione della navigazione forse aveva l'intento di ottenere il perdono dalla dea nata dalla spuma del mare e considerata divinità della buona navigazione (Afrodite euplea). In ogni caso si realizza così una straordinaria trasformazione: da campione della guerra Diomede diventa l'eroe del mare e della diffusione della civiltà greca. Era infatti venerato come benefattore ed ecista ad Ankón (Ancona), città nella quale è nota la presenza di un suo tempio, a Pola, a Capo San Niccolò (in Dalmazia), a Vasto, a Lucera e all'estremo limite dell'Adriatico: alle foci del Timavo[. In questi luoghi il culto di Diomede si era sovrapposto a quello del Signore degli Animali, un'antichissima divinità dei boschi.
La caratteristica di civilizzatore viene rafforzata dalla fondazione di molte città italiane, tra cui Vasto (Histonium), Andria, Brindisi, Benevento, Argiripa (Arpi) presso l'attuale Foggia, Siponto presso l'attuale Manfredonia, Canusio (Canosa di Puglia), Equo Tutico (Ariano Irpino), Drione (San Severo), Venafrum (Venafro) e infine Venusìa (Venosa)[13]. La fondazione di quest'ultima città, come lo stesso toponimo (da Venus) ricorda, coincide con il perdono ottenuto da Afrodite, in seguito al quale si stabilì in Italia meridionale e si sposò con la figlia del Re del popolo dei Dauni: Evippe.
Stretto fu il rapporto tra l'eroe e la Daunia. Il primo contatto con questa terra si ebbe con l'approdo alle isole che da lui avrebbero preso il nome di Insulae Diomedeae, tradizionalmente identificate con le isole Tremiti. Sbarcò quindi nell'odierna zona di Rodi, sul Gargano alla ricerca di un terreno più fecondo e si spostò a sud dove incontrò i Dauni, che prendevano il nome dal loro re eponimo, Dauno, figlio di Licaone e fratello di Enotro, Peucezio e Japige.
Diomede si guadagnò le simpatie di Dauno il re che "pauper aquae agrestium regnavit populorum" e dopo avergli prestato valido aiuto nella guerra contro i Messapi, per il suo alto valore militare - victor Gargani - ebbe in sposa la figlia Evippe (secondo alcuni si chiamava Drionna, secondo altri Ecania) ed in dote parte della Puglia - "dotalia arva"-, i cosiddetti campi diomedei, "in divisione regni quam cum Dauno". Fu allora che fondò Siponto, detta così dal nome greco sipius, a motivo delle seppie sbalzate sulla riva da onde gigantesche. Virgilio nell'Eneide ci racconta che i Latini e i Rutuli, bisognosi di alleati per scacciare Enea dalla loro terra, chiedono aiuto a Diomede, ricordando i trascorsi tra i due eroi. Diomede, però sorprende gli ambasciatori a lui pervenuti, rifiutando di combattere il suo antico nemico ed anzi invocando la pace tra i popoli. Secondo il poema latino, Diomede non è genero di Dauno, che è invece padre di Turno, il re dei Rutuli.
Secondo gli scolii dell'Alessandra di Licofrone, che rappresentano la tradizione più diffusa, Diomede fu ucciso da Dauno a causa della spartizione di un bottino; invece, nelle Metamorfosi di Antonino Liberale, Diomede sposò la figlia di Dauno e morì di vecchiaia.
Strabone (VI, 3, 9) elenca addirittura quattro diverse varianti sulla fine dell'eroe. Una afferma che nella città di Yria Diomede stava facendo un canale verso il mare, quando fu richiamato in patria ad Argo, dove morì. La seconda afferma che rimase a Yria fino alla fine della sua vita. La terza narra che scomparve sull'isola disabitata di Diomedea (chiamata così in suo onore e identificata in San Domino, una delle Tremiti o Diomedee), dove secondo la leggenda vivono i suoi compagni trasformati da Afrodite in grandi uccelli marini, le diomedee, il che implica una sorta di deificazione. La quarta variante sostiene che Diomede ebbe un'apoteosi misteriosa nel paese dei Veneti.
Una tradizione identifica in una spiaggia dell'isola di San Nicola il luogo della sua sepoltura. Nel film di Federico Fellini 8½, un cardinale racconta questa storia all'attore Marcello Mastroianni.
Secondo il racconto omerico, Diomede ricevette da Atena l'immortalità, che non aveva dato a suo padre. Per raggiungere l'immortalità, uno scolio di Nemea X dice che Diomede sposò Ermione, l'unica figlia di Menelao ed Elena, e vive con i Dioscuri come un dio immortale godendosi anche gli onori di Metaponto e Turi.
Era adorato come un essere divino sotto vari nomi in Italia, dove statue di lui esistevano ad Argi, Metaponto, Turi e in altri luoghi. Nell'Adriatico c'era un tempio consacrato a Diomede ad Ankón, l'attuale Ancona, nello sperone più settentrionale del promontorio su cui sorge la città; un altro tempio sorgeva alle foci del Timavo, dove l'eroe era venerato con l'epiteto tratto dal nome del fiume. Ci sono tracce anche in Grecia anche del culto di Diomede.
Le prime due tradizioni elencate da Strabone non danno alcuna indicazione sulla divinità se non più tardi attraverso un culto, e le altre due dichiarano fortemente l'immortalità di Diomede come più di un semplice eroe di culto.
Dante Alighieri (Inferno - Canto ventiseiesimo) colloca Diomede nell'VIII bolgia dell'VIII cerchio, quella dei consiglieri fraudolenti, che in vita agirono con inganno e di nascosto e quindi la loro pena nell'inferno sarà quella di essere celati dalle fiamme alla vista altrui. Egli infatti si trova avvolto in una fiamma a due capi insieme ad Ulisse, poiché proprio con lui andò nottetempo a rubare il Palladio, la statua di Atena protettrice della città di Troia.
Eugenio Caruso - 24 - 07 - 2021
Tratto da