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Dante, Paradiso, Canto IX. Le vicende della Marca Trevigiana.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO IX

Il Canto chiude l'episodio dedicato a Carlo Martello con le ultime parole del beato che profetizzano gli inganni subìti dai suoi discendenti, per poi presentare Cunizza da Romano e Folchetto di Marsiglia che saranno personaggi ben diversi da Carlo, essendosi dati dapprima all'amore sensuale e terreno per poi volgersi a quello divino e guadagnarsi la salvezza. Nei versi di apertura Dante si rivolge idealmente a Clemenza, probabilmente la vedova di Carlo Martello (anche la figlia aveva lo stesso nome), alludendo in modo oscuro alla profezia che lo spirito ha fatto circa i torti futuri alla sua discendenza: è un probabile accenno alla fraudolenta usurpazione del regno di Napoli da parte del fratello Roberto d'Angiò ai danni del figlio di Carlo, Caroberto, anche se egli impone al poeta di tacere e di lasciare passare gli anni anni in quanto il castigo divino non potrà tardare. Si tratta di una di quelle profezie oscure e indeterminate il cui esempio più famoso è in Par., XVII, 91-93, quando l'avo Cacciaguida predirà le incredibili imprese di Cangrande Della Scala di cui Dante non dovrà dire nulla; le parole di Carlo Martello sono la chusura del discorso del Canto precedente contro il malgoverno degli Angioini e costituiscono un'ulteriore denuncia delle ingiustizie del mondo contro le quali la punizione divina arriverà presto, così come colpirà i tiranni della Marca Trevigiana e i chierici corrotti, protagonisti delle profezie messe in bocca agli altri personaggi di questo Canto. Non a caso le parole di Carlo sono sottolineate da un duro rimprovero di Dante rivolto alle fatture empie, ai cattivi cristiani che si lasciano sviare dalle lusinghe terrene e non servono debitamente Dio, così come l'episodio sarà chiuso dall'invettiva ancor più dura che Folchetto rivolgerà alla Chiesa corrotta e a Firenze, colpevole di spargere nel mondo il maladetto fiore che suscita avidità ed è, quindi, fonte di corruzione.
L'incontro con Cunizza e Folchetto è al centro dell'episodio e i due personaggi, peraltro diversissimi, hanno in comune la stessa vicenda terrena di amore sfrenato e sensuale seguito da un ravvedimento, in quanto entrambi dichiarano di aver subìto l'influsso del pianeta Venere del quale tuttavia non si rammaricano. La questione è assai delicata sotto il profilo teologico e infatti essa, accennata da Cunizza, viene poi risolta da Folchetto il quale riconduce tutto alla teoria degli influssi astrali e al disegno provvidenziale, per cui l'inclinazione ad amare è una delle influenze che le intelligenze angeliche inviano sulla Terra e sono finalizzate al bene, per quanto tocchi poi agli uomini farne buon uso e realizzare opere virtuose (secondo la teoria del libero arbitrio chiarita più volte da Dante). Nel caso suo e di Cunizza è stato così e i due, pur essendosi dati ad amori disordinati e licenziosi (Cunizza era addirittura fuggita col trovatore Sordello e le venivano attribuiti vari matrimoni), si sono ravveduti in tempo e hanno ottenuto la salvezza, di cui costituiscono un esempio sorprendente; nel caso di Folchetto, inoltre, che fu trovatore e poeta lirico al pari di Guido Guinizelli e Arnaut Daniel, c'è un'ulteriore riflessione sui rischi insiti nella poesia amorosa e sulla necessità di depurarla di ogni elemento che possa indurre al peccato, per cui Dante sembra voler chiudere definitivamente con la letteratura d'amore per dedicarsi alla poesia dell'amore di Dio, come gli episodi della parte finale del Purgatorio hanno ampiamente dimostrato (Folchetto, del resto, aveva smesso gli abiti del trovatore per diventare addirittura vescovo di Tolosa). Un ulteriore e, forse, più stupefacente esempio di spirito amante che ha ottenuto la salvezza è poi quello di Raab, la meretrice di Gerico che aiutò Giosuè a conquistare la città ed è stata la prima anima a salire nel III Cielo dopo il trionfo di Cristo, per cui la sua salvezza è simbolo dell'imperscrutabile giudizio divino non meno di personaggi come Traiano e Rifeo, che vedremo nel Cielo di Giove.

raab
Raab aiuta gli israeliti a fuggire


Entrambi i personaggi affrontano poi un discorso politico che sfocia in una minacciosa profezia, sul piano più proprio delle lotte comunali e della tirannide quello di Cunizza e sul piano della corruzione ecclesiastica quello di Folchetto. Quest'ultimo è indicato a Dante proprio dalla donna, che ne elogia la grande fama e dichiara che gli uomini farebbero bene a ricercarla sulla Terra, cosa che non fanno gli abitanti della Marca Trevigiana da cui lei proviene: dopo essersi presentata come sorella di Ezzelino da Romano, lo spietato tiranno che esercitò il suo dominio su quella terra, Cunizza predice una serie di sventure che colpiranno duramente i popoli di quella regione, ovvero la sconfitta dei Guelfi padovani ad opera dei Vicentini di Cangrande Della Scala (nel 1314), l'uccisione del signore di Treviso, Rizzardo da Camino (nel 1312), infine l'odioso tradimento del vescovo di Feltre, Alessandro Novello, che nel 1314 consegnò alcuni fuorusciti ferraresi al vicario angioino che li fece poi decapitare. Le vicende turbolente della Marca si inseriscono nel più generale disordine della terra prava / italica, già denunciato più volte da Dante e ricondotto alla mancanza di un'autorità imperiale nella Penisola, per cui sia il Veneto sia la Romagna sono dominate da feroci tiranni e uomini senza scrupoli, che calpestano i diritti delle popolazioni loro assoggettate e sono autori di soprusi (discorso analogo per la Romagna. È noto che Dante riponeva grandi aspettative in Cangrande signore di Verona, la cui vittoria contro i Guelfi è allusivamente evocata in questo Canto e la cui azione politica avrebbe dovuto ristabilire l'autorità imperiale sull'Italia del Nord, in modo da stroncare la resistenza non solo dei Comuni ribelli come Firenze, ma anche quella di signori e tiranni locali di cui Ezzelino era stato esempio più remoto e Rizzardo da Camino più recente, senza contare gli altri che dominavano su varie città della Romagna e della stessa Toscana.
Un duro castigo è profetizzato anche da Folchetto, che dopo la sua elegante e ricercata prosopopea (con la complessa perifrasi geografica che descrive il Mediterraneo e Marsiglia, la sua città natale) e la spiegazione sull'influsso di Venere che introduce la figura di Raab, prende spunto proprio da questo personaggio per lanciare un durissimo attacco contro la corruzione della Chiesa e, in particolare, contro i papi che pensano solo ad arricchirsi, anziché bandire una Crociata per riconquistare la Terrasanta dove Giosuè riportò la sua prima vittoria. Il tema si ricollega a tutti gli episodi del poema in cui è presente la polemica anti-ecclesiastica, soprattutto Inf., XIX (per il riferimento ai papi simoniaci) e XXVII, 85 ss., dove Guido da Montefeltro accusava Bonifacio VIII di fare guerra ai suoi nemici a Palestrina e non con Saracin né con Giudei, cioè non pensava a riconquistare il Santo Sepolcro: qui l'attacco di Folchetto è rivolto alla città di Firenze, colpevole di coniare e diffondere il fiorino che diventa mezzo di corruzione suscitando la cupidigia del papa e dei cardinali, che si arricchiscono con l'interpretazione capziosa del diritto canonico al fine di lucrare sulle indulgenze e altri provvedimenti simili (ne è dimostrazione il fatto che il Vangelo è trascurato, mentre i Decretali, cioè i manuali di diritto canonico, hanno i margini sdruciti per il troppo uso). Firenze è attaccata in quanto i banchieri di quella città finanziavano la monarchia francese e il fiorino era all'epoca la moneta più diffusa negli scambi commerciali: Folchetto la definisce addirittura il prodotto di Lucifero, poiché il suo denaro ha trasformato i pastori del gregge dei fedeli in famelici lupi (tale accusa riprende la condanna dell'usura e dell'uso eccessivo del denaro, di cui Dante ha parlato soprattutto in Inf., XVI-XVII e su cui tornerà nell'episodio di Cacciaguida, XVI). La dura invettiva di Folchetto anticipa quella di san Tommaso nel Canto XI, quando alla fine del panegirico di san Francesco biasimerà i difetti dell'Ordine domenicano dicendo che il suo pecuglio di nova vivanda / è fatto ghiotto, alludendo alle attività mondane perseguite dai frati per arricchirsi, nonché quella di san Pietro di XXVII, 19 ss., con il riferimento al Vaticano come cimitero / a la milizia che Pietro seguette (anche Pietro parlerà del suo cimiterio profanato da Bonifacio VIII e trasformato in una cloaca). Folchetto predice che presto esso e gli altri luoghi santi saranno liberi dalla profanazione di questi posti a opera del clero corrotto (cfr. Inf., XIX, 4: per oro e per argento avolterate): non sappiamo a cosa esattamente il beato si riferisca, ma certo quest'ultima indeterminata profezia è in tono con l'andamento generale del Canto e si inserisce nel generale preannuncio da parte di Dante di un futuro rinnovamento della società per il ristabilirsi della giustizia, già attribuito in maniera altrettanto oscuro a figure come il «veltro» o il «DXV» e in cui il poeta sembra nutrire una fiducia incrollabile.
Note
- Clemenza (v. 1) era il nome sia della moglie sia della figlia di Carlo Martello, per cui è incerto a quale delle due donne si rivolga Dante: la vedova del principe era già morta all'epoca della visione (morì infatti nel 1295), tuttavia l'espressione Carlo tuo sembra riferirsi a un rapporto coniugale.
- Gli 'nganni (v. 2) a cui accenna Dante si riferiscono sicuramente all'usurpazione del regno di Napoli da parte di Roberto, fratello di Carlo Martello, ai danni del figlio Caroberto: in verità Carlo II d'Angiò aveva avallato tale successione ed essa era stata validata prima da papa Bonifacio VIII, poi da Clemente V (i due papi di cui Dante ha predetto la dannazione in Inf., XIX).
- Al v. 19 compenso vuol dire letteralmente «contrappeso», poiché Dante chiede a Cunizza di soddisfare il suo desiderio mettendo un contrappeso metaforico sulla bilancia del suo volere.
- Il colle citato al v. 28 è il colle di Romano, che sorge non lontano da Bassano del Grappa e su cui era il castello degli Ezzelini.
- Al v. 29 la facella (fiaccola incendiaria) è metaforicamente Ezzelino, che esercitò il suo dominio tirannico sulla Marca Trevigiana: l'immagine ricorda quella di Ecuba che sognò di partorire una torcia quando generò Paride, mentre una leggenda analoga circolava anche riguardo alla madre di Ezzelino (almeno secondo il commento di Pietro di Dante).
- Il v. 40 (questo centesimo anno ancor s'incinqua) indica che l'anno secolare, il 1300, si ripeterà cinque volte, passeranno cioè cinque secoli (in generale, passerà molto tempo) prima che la fama di Folchetto svanisca. S'incinqua è neologismo dantesco, simile a s'addua (VII, 6), s'intrea (XIII, 57) e s'inmilla (XXVIII, 93). Il Tagliamento e l'Adige (v. 44) sono i fiumi che delimitano la Marca Trevigiana a est ed ovest.
- I vv. 46-48 alludono sicuramente alla sconfitta subìta dai Guelfi di Padova il 17 dic. 1314 ad opera dei Ghibellini di Vicenza, aiutati da Cangrande Della Scala: essi cambieranno l'acqua del Bacchiglione arrossandola col proprio sangue (altri interpretano il passo come allusione al fatto che i Vicentini deviarono le acque del fiume come azione di guerra contro i Padovani).
- I fiumi Sile e Cagnano, oggi chiamato Botteniga (v. 49) si uniscono presso Treviso; colui che signoreggia sulla città è Rizzardo da Camino, figlio di quel Gherardo citato da Marco Lombardo (Purg., XVI, 124) come esempio di liberalità e cortesia: succedette al padre nel 1306 e fu ucciso in una congiura nel 1312.
- I vv. 52-54 alludono al vescovo di Feltre, Alessandro Novello, che nel luglio 1314 consegnò tre fuorusciti ferraresi nelle mani del vicario angioino Pino della Tosa, che poi li fece decapitare. Il termine malta (v. 54) indica genericamente «prigione», attestato variamente nella letteratura del Due-Trecento, anche se c'erano varie prigioni che avevano quel nome (una, collocata nel lago di Bolsena, era adibita a carcere per ecclesiastici ed è forse quella indicata da Cunizza).
- I Troni (v. 61) sono il terzo ordine della prima gerarchia angelica, che governa il VII Cielo di Saturno e attraverso cui Dio esercita la giustizia.
- Il balasso (v. 69) è una specie di rubino, il cui nome deriva dall'arabo «balaksh» (dalla regione di Balascam da cui si importavano, secondo la testimonianza di Marco Polo nel Milione, XXXV).
- Il vb. s'inluia (v. 73) è neologismo dantesco, come m'intuassi e m'inmii (v. 80), e significano «penetrare in lui, in te, in me». Cfr. l'analogo t'inlei di XXII, 127. I fuochi pii / che di sei ali facen la coculla sono i Serafini, detti «fuochi» perché Serafino in ebraico vuol dire «ardente», e che si ammantano di sei ali (coculla, «cocolla», è il saio con cappuccio dei monaci). Questi angeli sono così descritti in Is., VI, 2. Il v. 82 indica il Mediterraneo, di cui Folchetto spiega che si estende da ovest a est per novanta gradi, così che il cerchio che a Cadice è il suo orizzonte orientale, a Gerusalemme diventa il suo meridiano. Il Mediterraneo, in realtà, si estende per soli quarantadue gradi.
- Buggea (v. 92) è l'odierna Bougie, in Algeria, che essendo quasi sullo stesso meridiano di Marsiglia vede il sole sorgere e tramontare nello stesso momento. Il v. 93 allude alla strage dei Marsigliesi fatta da Bruto nella guerra civile (cfr. Lucano, Phars., III, 572-573).
- La figlia di Belo (v. 97) è Didone. La Rodopea (v. 100) è invece Fillide, figlia di Sitone re Tracia, dov'è il monte Rodope: innamoratasi di Demofoonte, figlio di Teseo e Fedra, e abbandonata da lui, s'impiccò venendo poi mutata in mandorlo (cfr. Ovidio, Her., II). I vv. 106-108 sono molto controversi per l'interpretazione, e anche perché alcuni mss. leggono con tanto effetto, e discernesi 'l bene / per che 'l modo di sù quel di giù torna. La lezione a testo intende affetto come l'amore di Dio, e dà al vb. torna (v. 108, in rima equivoca col v. 104) il senso di «tornia», quindi «dà forma». I vv. 117-118 alludono alla teoria astronomica secondo cui il cono d'ombra proiettato dalla Terra aveva la sua fine nel Cielo di Venere. Palma al v. 121 vuol dire «testimonianza», mentre al v. 123 (in rima equivoca) indica le palme di Cristo che furono entrambe inchiodate sulla croce. Altri intendono il v. 123 come riferito a Giosuè, che pregò con entrambe le mani Dio e ottenne l'alta vittoria su Gerico. Il v. 132 sarà riecheggiato da san Pietro nella sua invettiva di XXVII, 55-56: In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua sù per tutti i paschi. I Decretali (v. 134) sono i testi di diritto canonico, i cui vivagni («margini») sono sgualciti per il troppo uso. Folchetto allude all'interpretazione capziosa del diritto canonico per lucrare sulle indulgenze e simili provvedimenti.

TESTO CANTO IX

Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, 
m’ebbe chiarito, mi narrò li ‘nganni 
che ricever dovea la sua semenza;                                 3

ma disse: «Taci e lascia muover li anni»; 
sì ch’io non posso dir se non che pianto 
giusto verrà di retro ai vostri danni.                                  6

E già la vita di quel lume santo 
rivolta s’era al Sol che la riempie 
come quel ben ch’a ogne cosa è tanto.                          9

Ahi anime ingannate e fatture empie, 
che da sì fatto ben torcete i cuori, 
drizzando in vanità le vostre tempie!                               12

Ed ecco un altro di quelli splendori 
ver’ me si fece, e ‘l suo voler piacermi 
significava nel chiarir di fori.                                             15

Li occhi di Beatrice, ch’eran fermi 
sovra me, come pria, di caro assenso 
al mio disio certificato fermi.                                            18

«Deh, metti al mio voler tosto compenso, 
beato spirto», dissi, «e fammi prova 
ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!».                21

Onde la luce che m’era ancor nova, 
del suo profondo, ond’ella pria cantava, 
seguette come a cui di ben far giova:                            24

«In quella parte de la terra prava 
italica che siede tra Rialto 
e le fontane di Brenta e di Piava,                                     27

si leva un colle, e non surge molt’alto, 
là onde scese già una facella 
che fece a la contrada un grande assalto.                    30

D’una radice nacqui e io ed ella: 
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo 
perché mi vinse il lume d’esta stella;                             33

ma lietamente a me medesma indulgo 
la cagion di mia sorte, e non mi noia; 
che parria forse forte al vostro vulgo.                             36

Di questa luculenta e cara gioia 
del nostro cielo che più m’è propinqua, 
grande fama rimase; e pria che moia,                          39

questo centesimo anno ancor s’incinqua: 
vedi se far si dee l’omo eccellente, 
sì ch’altra vita la prima relinqua.                                     42

E ciò non pensa la turba presente 
che Tagliamento e Adice richiude, 
né per esser battuta ancor si pente;                              45

ma tosto fia che Padova al palude 
cangerà l’acqua che Vincenza bagna, 
per essere al dover le genti crude;                                 48

e dove Sile e Cagnan s’accompagna, 
tal signoreggia e va con la testa alta, 
che già per lui carpir si fa la ragna.                                 51

Piangerà Feltro ancora la difalta 
de l’empio suo pastor, che sarà sconcia 
sì, che per simil non s’entrò in malta.                            54

Troppo sarebbe larga la bigoncia 
che ricevesse il sangue ferrarese, 
e stanco chi ‘l pesasse a oncia a oncia,                       57

che donerà questo prete cortese 
per mostrarsi di parte; e cotai doni 
conformi fieno al viver del paese.                                   60

Sù sono specchi, voi dicete Troni, 
onde refulge a noi Dio giudicante; 
sì che questi parlar ne paion buoni».                            63

Qui si tacette; e fecemi sembiante 
che fosse ad altro volta, per la rota 
in che si mise com’era davante.                                     66

L’altra letizia, che m’era già nota 
per cara cosa, mi si fece in vista 
qual fin balasso in che lo sol percuota.                         69

Per letiziar là sù fulgor s’acquista, 
sì come riso qui; ma giù s’abbuia 
l’ombra di fuor, come la mente è trista.                         72

«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia», 
diss’io, «beato spirto, sì che nulla 
voglia di sé a te puot’esser fuia.                                     75

Dunque la voce tua, che ‘l ciel trastulla 
sempre col canto di quei fuochi pii 
che di sei ali facen la coculla,                                          78

perché non satisface a’ miei disii? 
Già non attendere’ io tua dimanda, 
s’io m’intuassi, come tu t’inmii».                                    81

«La maggior valle in che l’acqua si spanda», 
incominciaro allor le sue parole, 
«fuor di quel mar che la terra inghirlanda,                    84

tra ‘ discordanti liti contra ‘l sole 
tanto sen va, che fa meridiano 
là dove l’orizzonte pria far suole.                                     87

Di quella valle fu’ io litorano 
tra Ebro e Macra, che per cammin corto 
parte lo Genovese dal Toscano.                                     90

Ad un occaso quasi e ad un orto 
Buggea siede e la terra ond’io fui, 
che fé del sangue suo già caldo il porto.                      93

Folco mi disse quella gente a cui 
fu noto il nome mio; e questo cielo 
di me s’imprenta, com’io fe’ di lui;                                  96

ché più non arse la figlia di Belo, 
noiando e a Sicheo e a Creusa, 
di me, infin che si convenne al pelo;                              99

né quella Rodopea che delusa 
fu da Demofoonte, né Alcide 
quando Iole nel core ebbe rinchiusa.                           102

Non però qui si pente, ma si ride, 
non de la colpa, ch’a mente non torna, 
ma del valor ch’ordinò e provide.                                   105

Qui si rimira ne l’arte ch’addorna 
cotanto affetto, e discernesi ‘l bene 
per che ‘l mondo di sù quel di giù torna.                      108

Ma perché tutte le tue voglie piene 
ten porti che son nate in questa spera, 
proceder ancor oltre mi convene.                                  111

Tu vuo’ saper chi è in questa lumera 
che qui appresso me così scintilla, 
come raggio di sole in acqua mera.                             114

Or sappi che là entro si tranquilla 
Raab; e a nostr’ordine congiunta, 
di lei nel sommo grado si sigilla.                                  117

Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta 
che ‘l vostro mondo face, pria ch’altr’alma 
del triunfo di Cristo fu assunta.                                      120

Ben si convenne lei lasciar per palma 
in alcun cielo de l’alta vittoria 
che s’acquistò con l’una e l’altra palma,                     123

perch’ella favorò la prima gloria 
di Iosuè in su la Terra Santa, 
che poco tocca al papa la memoria.                             126

La tua città, che di colui è pianta 
che pria volse le spalle al suo fattore 
e di cui è la ’nvidia tanto pianta,                                     129

produce e spande il maladetto fiore 
c’ha disviate le pecore e li agni, 
però che fatto ha lupo del pastore.                                132

Per questo l’Evangelio e i dottor magni 
son derelitti, e solo ai Decretali 
si studia, sì che pare a’ lor vivagni.                               135

A questo intende il papa e’ cardinali; 
non vanno i lor pensieri a Nazarette, 
là dove Gabriello aperse l’ali.                                         138

Ma Vaticano e l’altre parti elette 
di Roma che son state cimitero 
a la milizia che Pietro seguette, 

tosto libere fien de l’avoltero».                                        142

PARAFRASI CANTO IX

Dopo che il tuo Carlo, bella Clemenza, ebbe chiarito i miei dubbi, mi raccontò gli inganni che doveva subire la sua discendenza;

ma disse: «Non riferire questo e lascia trascorrere gli anni»; cosicché io non posso dire se non che le vostre sventure saranno giustamente punite da Dio.

E ormai l'anima di quella santa luce si era rivolta al Sole (Dio) che la ricolma come quel bene che è più grande di qualunque cosa.

Ahimè, anime fuorviate e creature malvagie, che distogliete i cuori da un bene simile e indirizzate la vostra mente verso cose vane!

Ed ecco che un altro di quegli splendori si avvicinò a me e con il suo fulgore manifestava la volontà di rispondere alle mie domande.

Gli occhi di Beatrice, che erano fissi su di me, come avevano fatto prima diedero un cenno d'assenso al mio desiderio di parlare.

Dissi: «Orsù, spirito beato, metti subito un contrappeso alla mia volontà (esaudisci il mio desiderio), e dimostrami che i miei pensieri possono essere riflessi nella tua mente!»

Allora quella luce, che ancora non conoscevo, dalla sua profondità in cui prima cantava, iniziò a parlare come colui a cui piace fare del bene:

«In quella parte della malvagia terra d'Italia che è compresa fra Rialto (Venezia) e le sorgenti di Brenta e Piave, sorge un colle non molto alto, da dove discese una torcia incendiaria (Ezzelino da Romano) che esercitò un tirannico dominio sulla regione.

Entrambi nascemmo dagli stessi genitori (fummo fratelli): fui chiamata Cunizza e risplendo in questo Cielo perché fui sopraffatta dall'influsso di questo pianeta (Venere);

cunizza
Cunizza da Romano di J. Flaxman

ma con gioia perdono a me stessa la causa di questa mia sorte e non me ne rammarico; cosa che, forse, potrebbe sembrare difficile da capire.

Di questa splendente e preziosa gemma del nostro Cielo che mi è più vicina (Folchetto di Marsiglia) è rimasta una grande fama; e prima che essa svanisca, passeranno non meno di cinque secoli: vedi se l'uomo deve badare ad acquistare la fama, in modo da lasciare dietro la sua vita mortale un'altra vita gloriosa.

Invece il popolo che oggi abita la Marca Trevigiana, compresa tra il Tagliamento e l'Adige, non pensa a questo, e pur subendo castighi non se ne pente;

ma accadrà presto che i Padovani cambieranno col loro sangue l'acqua della palude che bagna Vicenza (il Bacchiglione), scontando il fatto di essere restii al loro dovere (verso l'Impero);

e là dove il Sile e il Cagnano si uniscono (a Treviso) c'è un tiranno (Rizzardo da Camino) che domina con superbia, tanto che già si ordisce la congiura che lo eliminerà.

Inoltre Feltre rimpiangerà il tradimento del suo empio vescovo (Alessandro Novello), che sarà talmente odioso che nessuno fu mai imprigionato per un atto simile.

Troppo grande dovrebbe essere il recipiente che contenesse tutto il sangue ferrarese e sarebbe stanco chi lo pesasse con precisione, il sangue che questo prete cortese spargerà per mostrare la sua fedeltà al suo partito; e questi doni saranno conformi ai costumi di quella terra.

In alto ci sono degli specchi, che voi chiamate Troni, da dove Dio giudicante risplende a noi; dunque tali discorsi ci sembrano giusti».

A questo punto tacque; e mi mostrò di essersi rivolta ad altro, dato che ricominciò a danzare in tondo come faceva in precedenza.

L'altro spirito gioioso, che mi era già stato presentato come un'anima preziosa, mi si mostrò come un raffinato rubino colpito dalla luce del sole.

In Paradiso si acquista fulgore quando si è lieti, come sulla Terra quando si ride; invece all'Inferno l'ombra si rabbuia all'esterno, tanto quanto la mente è rattristata.

Io dissi: «Dio vede tutto e la tua vista si compenetra in Lui, o spirito beato, così che nessun desiderio può sottrarsi a te (tu vedi bene cosa io desideri).

Dunque, perché la tua voce, che allieta sempre il Cielo col canto di quegli angeli (i Serafini) che si ammantano di sei ali, non esaudisce i miei desideri? Io non attenderei certo che tu parlassi, se potessi penetrare in te come tu puoi farlo in me».

Allora le sue parole cominciarono così: «Il maggior avvallamento (il Mediterraneo) in cui si spande l'acqua dell'Oceano che circonda le terre, si estende verso oriente tra i lidi opposti tanto che si fa meridiano là dove prima fa orizzonte (a Gerusalemme).

Io nacqui sulle coste di quell'avvallamento (del Mediterraneo), tra i fiumi Ebro e Magra, che per un breve tratto divide la Liguria dalla Toscana.

La città di Buggea e quella (Marsiglia) dove nacqui, che versò tanto sangue nel porto, hanno quasi la stessa alba e lo stesso orizzonte (sono poste sullo stesso meridiano).

Quelli che mi conobbero mi chiamarono Folco (Folchetto); e questo Cielo risplende della mia luce come io risplendetti della sua;

infatti la figlia di Belo (Didone), che offese Creusa e Sicheo, non arse d'amore più di me, finché fui giovane;

né arsero d'amore la rodopea Fillide, che fu abbandonata da Demofoonte, né l'Alcide (Ercole) quando fu innamorato di Iole.

Tuttavia qui non ci si pente di questo, ma ci si rallegra: non della colpa, il cui ricordo è cancellato in noi, ma della virtù divina che determinò e dispose questo.

Qui in Paradiso si contempla l'arte divina della creazione che l'amore di Dio abbellisce e si distingue il fine provvidenziale per cui i Cieli danno forma al mondo terreno.

Ma affinché tutti i desideri di conoscenza che sono nati in te in questo Cielo siano soddisfatti pienamente, devo dirti ancora qualcos'altro.

Tu vuoi sapere chi è in questa luce che sfavilla qui accanto a me, in modo tale che sembra un raggio di sole in un'acqua cristallina.

Ora sappi che lì dentro gode la pace Raab; e, unita al nostro Cielo, esso riceve l'impronta di lei al massimo grado (è lo spirito più luminoso).

Essa fu assunta da questo Cielo, in cui termina il cono d'ombra proiettato dalla Terra, prima di ogni altra anima dal trionfo di Cristo.

Fu giusto lasciarla in un Cielo come simbolo della grande vittoria che si ottenne con la crocifissione di Cristo, perché essa favorì la prima vittoria militare di Giosuè in Terrasanta (a Gerico), di cui oggi il papa si ricorda troppo poco.

Firenze, la tua città che è prodotto di colui (Lucifero) che per primo si ribellò a Dio e la cui invidia è fonte di tanta sofferenza, conia e diffonde il maledetto fiorino che ha sviato tutto il popolo cristiano, in quanto ha trasformato il pastore in un lupo.

Per questo il Vangelo e i libri dei Padri della Chiesa sono trascurati, e si leggono solo i Decretali, come appare dai loro margini sgualciti.

Il papa e i cardinali pensano solo a questo; i loro pensieri non vanno certo a Nazareth, dove l'arcangelo Gabriele aprì le ali (per fare l'Annunciazione a Maria).

Tuttavia il Vaticano e gli altri luoghi sacri di Roma, che hanno visto il martirio dei primi cristiani che seguirono Pietro, saranno presto liberi da questa profanazione».

CUNIZZA DA ROMANO
Cunizza da Romano (1198 – dopo il 1279) è stata una nobildonna italiana, figlia di Ezzelino II da Romano e sorella di Ezzelino III e Alberico da Romano. La sua biografia ci è nota, più che dagli scarsi documenti storici, dalle fonti cronachistiche e letterarie, sebbene queste non possano essere considerate pienamente affidabili. La principale è la Cronica in factis et circa facta Marchiae Trivixanae di Rolandino da Padova, relativa alle vicende della sua città nel periodo ezzeliniano. Alle sue vicende amorose si accenna con ironia nelle tenzoni dei trovatori Jaufre Reforzat de Trets, Uc de Saint Circ e Johanet d'Albusson, mentre le sono solidali Peire Guilhem de Luserna e Sordello da Goito. Ultimogenita di Ezzelino II da Romano e di Adelaide dei conti di Mangona, nacque probabilmente nel 1198. Il nome Cunizza è la forma italianizzata di Künnecke (forma del basso tedesco per Cunegonda). Sappiamo di certo che nel 1222 sposò Rizzardo da San Bonifacio, della famiglia dei conti di Verona. Il matrimonio rientrava nella politica di Ezzelino II, che intendeva distendere i rapporti con una famiglia nemica per introdurre la propria nella vita pubblica veronese. Non è un caso se, pressoché contemporaneamente, il fratello Ezzelino III sposava la sorella di Rizzardo, Zilia. Ciò non diede gli effetti sperati e negli anni successivi i da Romano continuarono ad affiancare la pars dei Montecchi contro la pars Comitum con a capo i San Bonifacio. È in questo contesto che si inserisce un episodio che fece scalpore tra i contemporanei: il ratto di Cunizza da parte del trovatore Sordello da Goito che, all'epoca, si trovava presso i San Bonifacio. Secondo Girolamo Biscaro il fatto va collocato tra la seconda metà del 1222 e la fine del 1223, mentre Fernando Coletti lo data nel 1226. A detta di Rolandino e di due biografie del poeta, questa non fu un'iniziativa propria di Sordello, ma venne organizzata da Ezzelino III per oltraggiare il cognato rivale. Inoltre, questo permise di mettere al sicuro Cunizza dalle tensioni tra le due famiglie. Negli anni tra il 1225 e il 1235 Cunizza risulta accanto alla cognata Zilia a Treviso e a Oderzo, presso la famiglia d'origine, il che fa pensare che i da Romano avessero perlomeno acconsentito all'operazione. Dagli indizi che si rilevano nelle fonti, pare che la relazione tra i due inizialmente fosse platonica, conforme al concetto dell'amor cortese. Dopo la fuga il rapporto dovrebbe essersi fatto concreto e diversi autori trovadorici alludono a Cunizza come una donna passionale e attratta dell'avventura. Successivamente Sordello venne allontanato dagli Ezzelini e Cunizza cominciò una nuova storia amorosa con un certo Bonio, miles trevigiano che Biscaro ha identificato con Enrico Bonio, giudice e procuratore del Comune, ricco e già sposato. Secondo Rolandino, Cunizza intraprese con Bonio un lungo viaggio, dandosi ai sollazzi e alle spese, finché non tornò a Treviso, allora governata dal fratello Alberico in lotta con l'altro fratello Ezzelino. In base a quest'ultima precisazione, possiamo fissare il suo ritorno a non prima del 1239. Poco tempo dopo Bonio morì difendendo la sua città dalle truppe di Ezzelino; nel 1253 spirava anche Rizzardo da San Bonifacio. In seguito, Cunizza si riavvicinò a Ezzelino che le procurò un nuovo marito, il nobile vicentino Naimerio da Breganze, ma di questa nuova relazione non si sa quasi nulla. Ancora a detta di Rolandino, dopo la morte di Ezzelino Cunizza contrasse un nuovo matrimonio con un Veronese; questo evento risulta poco probabile, poiché Ezzelino morì nel 1259 quando la sorella aveva superato i sessant'anni. Risulta verosimile che, con la rovina della famiglia da Romano seguita all'eccidio di Alberico e dei suoi congiunti, Cunizza abbia riparato in Toscana presso i parenti materni, dove sottoscrisse gli ultimi documenti di cui si ha conoscenza. Si tratta di due atti meramente simbolici che la nobildonna stilò nel tentativo di rivendicare la grandezza della sua famiglia. Il primo è datato 1º aprile 1265 e fu redatto nella casa di Cavalcante Cavalcanti: Cunizza donava la libertà a tutti i servi di masnada che erano stati al servizio della sua famiglia, tuttavia questo era già stato sancito anni prima da una bolla del 1258 di papa Alessandro IV. Nel secondo, compilato nella Rocca di Cerbaia residenza dei conti di Mangona, dal giurista Convenevole da Prato nel giugno del 1279, ella donava al conte Alessandro di Mangona tutti i possedimenti che erano stati dei suoi fratelli nella Marca di Verona, cosa impossibile da attuarsi visto che i beni dei da Romano erano stati confiscati e ridistribuiti dai governi dei Comuni veneti. Dante Alighieri inserisce Cunizza da Romano, che forse conobbe di persona quando, ormai anziana, viveva in Toscana, nel Canto IX del Paradiso, collocandola nel cielo di Venere fra le anime che vissero sotto l'influsso del «bel pianeta che d'amar conforta». L'incontro segue quello di Carlo Martello e precede quello di Folco da Marsiglia, formando un trittico sulla decadenza della società italiana, in contrasto con la visione estatica del Paradiso; Cunizza, in particolare, condanna le colpe e predice le disgrazie dei popoli «che Tagliamento e Adice richiude», ovvero gli abitanti della Marca di Verona. La scelta del poeta di inserire nel Paradiso questo personaggio ambiguo è stata dibattuta dai commentatori sin dai tempi più antichi. Jacopo della Lana e l'Ottimo hanno ridimensionato la sua fama, ritenendola una donna "onesta", dedita solamente agli amori cortesi e poetici. Ma molti altri preferiscono descriverla come una lussuriosa che in tarda età si ravvide, assicurandosi la salvezza (secondo le Chiose Cassinesi «sicut fecit Madalena»). I pareri dei critici moderni sono invece più articolati. Ugo Foscolo è stato tra i primi a domandarsi se Cunizza, sorella del ghibellino Ezzelino, non fosse in realtà un espediente per predire e condannare le sanguinose azioni dei guelfi nella Marca. Simile il commento di Adolfo Bartoli, secondo il quale Dante diede in questo caso precedenza alle proprie opinioni storico-politiche rispetto alle giustificazioni legate alla salvezza di Cunizza. Tralasciando Benedetto Croce (legge l'episodio come un omaggio di Dante all'affascinante Cunizza), si arriva alle tesi di Elisa Simioni e Manfredi Porena, i quali ribadiscono che tramite la nobildonna il poeta abbia voluto esaltare i da Romano, fieri ghibellini vicini a Federico II e precursori di Cangrande della Scala, in opposizione del guelfismo che, dopo la caduta della casata, dilagava nelle città venete assetato di vendetta. Questo spiega perché Cunizza non è minimamente descritta, né dal punto di vista fisico, né da quello morale: il suo racconto non focalizza su se stessa, ma ha come unico scopo quello di parlare in rappresentanza della sua terra dilaniata.


FOLCHETTO DI MARSIGLIA
Folchetto da Marsiglia, anche noto come Folco di Tolosa (Marsiglia, 1155 circa – 1231), è stato un vescovo cattolico e trovatore occitano ed è venerato come beato dai Cistercensi. Nasce da una famiglia genovese stabilitasi a Marsiglia. Dopo essere stato mercante e trovatore, divenne monaco dell'Ordine Cistercense, poi infine vescovo di Tolosa. Tra i grandi trovatori, è il solo che ricopre il ruolo di traditore, a causa della sua adesione alla crociata di Simone IV di Montfort contro gli eretici Albigesi. È un grande trovatore, dall'opera potente, riconosciuta nelle corti di Barcellona, Tolosa e Provenza, quando il suo amore non corrisposto per Eudoxie de Montpellier lo porterà a farsi monaco con l'intenzione di ritirarsi dal mondo, nel 1195, data del suo ultimo poema. Nel 1201 viene nominato abate dell'Abbazia di Thoronet; poi vescovo di Tolosa dal 1205 fino alla sua morte. È il solo sostegno che i legati pontifici trovano fra i chierici e gli aristocratici del Midi durante la terribile repressione degli Albigesi, il ramo provenzale dei Catari. In seguito, il suo personaggio con tutto il suo paradosso di grande poeta che ha tradito, a causa di una delusione d'amore per una dama, verrà rievocato nelle poesie d'amor cortese che continuano a comporre i trovatori nel corso del XIII secolo, che segna la fine della cultura del Midi, aventi per tema la follia amorosa e gli accordi e le discordanze tra forma poetica e condotta morale. Con San Domenico lottò contro l'eresia catara e assistette alla fondazione dei primi monasteri del futuro Ordine domenicano, compreso quello di Prouille. Nel 1229 fu fra i fondatori dell'Università medievale di Tolosa. È venerato come beato, con ricorrenza il 25 dicembre.

RAAB
Raab (ebraico: Rachav, il cui significato probabilmente è "ampia" o "larga") è un personaggio biblico menzionato nelle Sacre Scritture per la prima volta dal libro di Giosuè. Fu una locandiera della città cananea di Gerico che sarebbe vissuta nel XV secolo avanti Cristo (data, secondo alcune cronologie bibliche, della caduta di Gerico) e che aiutò a rischio della sua vita e di quella della sua famiglia due spie israelite dando loro alloggio nella sua casa ed assistendole fino alla loro fuga. Successivamente, secondo il Vangelo di Matteo, sposò Salmon, diventando antenata di Davide, o Giosuè stesso, secondo alcune fonti rabbiniche. Secondo il racconto biblico di Giosuè dopo la morte di Mosè che aveva accompagnato il popolo israelita dall'Egitto alla Terra Promessa, Giosuè mandò in esplorazione a Gerico due spie israelite prima della conquista di quella città cananea. Giungendo a Gerico le due spie trovarono alloggio nella casa di Raab. I due ospiti furono però da alcuni riconosciuti come israeliti, cosa che fu riferita al re di Gerico. Mentre gli inviati di Giosuè si trovavano ancora presso di lei, il re le ordinò di consegnarli ai suoi emissari. Decisa a salvarli, la donna usò un sotterfugio, sviando gli emissari: affermò che non erano in casa, essendo usciti sul far della notte. Appena gli uomini del re si diedero a inseguirli, Raab nascose le due spie sulla terrazza fra steli di lino accatastati. Raab dichiarò a quelle due spie che sapeva che il loro Dio aveva assegnato il paese a Israele, riconoscendo quindi il Dio di Israele come l'unico e vero Dio in opposizione ai falsi dèi. Poiché il Signore avrebbe consegnato Gerico al suo popolo, li pregò di intercedere per risparmiare lei e la sua famiglia nel momento in cui gli israeliti avrebbero conquistato la città. Le spie giurarono sulla loro stessa vita che lo avrebbero fatto. Raab li fece calare con una corda dalla finestra mettendoli in salvo: la sua casa infatti era addossata proprio al muro di cinta. Raccomandò loro di restare nascosti sulla montagna per tre giorni finché gli abitanti di Gerico avessero desistito dal loro inseguimento. Prima di partire, i due uomini le suggerirono di legare alla sua finestra una cordicella di filo scarlatto che avrebbe segnalato la sua casa agli Ebrei quando fossero entrati in città. Al momento della presa della città, così come descritto dal racconto biblico, Giosuè mandò le stesse spie ospitate da Raab alla ricerca di lei e dei componenti della sua famiglia. Conquistata, la città fu completamente incendiata. Da quel momento Raab abitò ad Israele. Dio ricompensò la sua fede non solo risparmiandole la vita insieme alla sua famiglia; avvenne infatti che Raab, con lo sposare in seguito un israelita, Salmon figlio di Nacson, divenisse trisavola del Re Davide, dalla cui discendenza sarebbe nato il Messia. Negli scritti successivi Paolo cita Raab nella epistola agli ebrei (ca 61 d.C.). Al capitolo 11 versetto 31, Raab è citata come esempio di fede, unica donna insieme a Sara, moglie di Abramo in un elenco di uomini fedeli come Gedeone, Barac, Sansone, Iefte, Davide e Samuele. Giacomo d'altronde al versetto 25 del capitolo 2 della sua lettera ( 62 d.C. ) cita Raab per le sue opere quali l'ospitalità incondizionata e l'essersi schierata dalla parte giusta, nascondendo e agevolando la fuga degli emissari di Giosuè. Anche gli scritti rabbinici ne fanno una figura positiva per virtù e bellezza e la considerano sposa di Giosuè. Secondo Paolo, a Raab fu risparmiata la vita terrena per effetto della fede, Giacomo 2:25 riporta il sacrificio di Isacco e il tradimento di Raab come esempio della giustificazione per opere in forza dell'obbedienza al Signore. In entrambi i passi, Raab è chiamata come la prostituta, parola che nel Nuovo Testamento si trova riferita soltanto a lei e alla Bestia dell'Apocalisse. Raab cambiò vita e divenne una fedele adoratrice di Dio nonché un'antenata del Messia. Secondo il racconto del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo, Raab di Gerico si colloca sulla linea diretta della discendenza di Gesù, il Messia atteso dal popolo d'Israele. Al versetto 5 e 6 del primo capitolo di Matteo, Raab ( moglie di Salmon ) fu la madre di Boaz che sposò poi Rut. Dal matrimonio nacque Obed che generò Iesse ovvero il padre del re Davide avo di Giuseppe marito di Maria. Alcuni, in particolar modo gli ebrei tradizionalisti, negano che Raab fosse veramente una prostituta nel senso comune della parola. Questa tesi risale a Flavio Giuseppe, che nelle "Antichità Giudaiche" afferma che Raab era una locandiera e non parla affatto di prostituzione. Dato che nell'antichità le locande operavano anche come bordelli, un identico biasimo morale avvolgeva entrambe le professioni. Perciò anche se Raab non avesse esercitato la prostituzione direttamente (fatto che evidentemente nessuno potrà mai verificare), il solo fatto che lei o la sua famiglia avessero una locanda basta a spiegare come mai sia nel testo ebraico, sia nella traduzione greca Raab sia stata designata con vocaboli molto espliciti. Il termine ebraico zonàh implica sempre una relazione illecita, sia in campo sessuale che in senso figurativo in campo spirituale. Quando il termine si riferisce a una donna immorale viene sempre tradotto come prostituta. Lo stesso vale per il vocabolo greco "pornè". Il fatto che Raab fosse una locandiera è molto verosimile perché spiega in modo banale come mai le due spie ebree avessero preso alloggio presso di lei. Anche studiosi moderni seguono la tesi di Giuseppe Flavio. Ad esempio Mary J. Evans afferma che Raab era una locandiera, una persona dotata di accortezza politica, intelligenza, grande coraggio e acutezza spirituale. Ma quale fu l'ambiente in cui visse Raab a Gerico? La storia biblica rivela che la popolazione delle città cananee, Gerico compresa, conquistate dagli israeliti furono tutte votate alla distruzione. I cananei adoravano molti dèi fra cui il principale Baal ma anche Anat ed Astoret. Dèi sanguinari ed immorali che influenzavano la personalità e il comportamento dei loro adoratori. Del culto fallico praticato dai cananei l'archeologo William Foxwell Albright osserva : Nel suo momento peggiore [...] l'aspetto erotico del loro culto dovette sprofondare a livelli estremamente sordidi di degradazione sociale. Un'altra delle pratiche degradanti delle popolazioni cananee (sebbene su questo punto non vi sia accordo tra gli studiosi) era il sacrificio dei bambini in offerta ai loro dèi pagani. Merrill F. Unger scrive: Scavi eseguiti in Palestina hanno portato alla luce mucchi di cenere e resti di scheletri infantili in cimiteri adiacenti ad altari pagani, a conferma della diffusione di questa crudele usanza Un'altra fonte inoltre specifica: I cananei praticavano il culto dandosi all'immoralità come rito religioso in presenza dei loro dèi; quindi assassinavano i loro primogeniti come sacrificio a quegli stessi dèi. Sembra che in gran parte il paese di Canaan fosse divenuto una specie di Sodoma e Gomorra a livello nazionale [...] Una civiltà così abominevole, sordida e brutale aveva ancora il diritto di esistere? [...] Gli archeologi che scavano fra le rovine delle città cananee si chiedono perché Dio non li abbia distrutti prima Secondo la Bibbia Gerico fu la prima città cananea a ovest del Giordano conquistata dagli israeliti. La città è stata identificata con Tell es-Sultan (Tel Yeriho), circa 22 km a ENE di Gerusalemme. Il sito è stato ripetutamente scavato dagli archeologi, anche con l'obiettivo di verificare se esistevano tracce che potessero confermare il racconto biblico. A Gerico furono compiuti scavi nel corso di tre diverse spedizioni. Ognuna delle tre spedizioni ha pubblicato dei dati arrivando però a conclusioni diverse circa la storia della città e in particolare circa la data della sua eventuale conquista da parte degli israeliti. A ogni modo si può dire che una comparazione dei risultati presenta il seguente quadro generale: Durante il secondo millennio a.C., la città subì una terribile distruzione o una serie di distruzioni, e rimase praticamente disabitata per generazioni. John Garstang, direttore di una spedizione inglese a Tell es-Sultan tra il 1929 e il 1936, scoprì che quella che riteneva una delle città costruite sul luogo aveva subìto violenti incendi e le sue mura erano cadute. Egli identificò questa città con la Gerico del tempo di Giosuè e ne fece risalire la distruzione al 1400 a.E.V. circa. Anche se alcuni sono d'accordo con le conclusioni di Garstang, altri sono di diversa opinione. L'archeologo G. Ernest Wright ha scritto: Si è scoperto che le due mura che cingevano l'antica città, che Garstang... ritenne distrutte dal terremoto e dal fuoco al tempo di Giosuè, risalivano al III millennio e rappresentano solo due delle circa quattordici mura o parti di mura diverse costruite successivamente in quell'epoca. Molti pensano che poco, o nulla, rimanga della Gerico esistente al tempo di Giosuè, poiché precedenti scavi compiuti sul posto hanno rimosso quello che poteva essere rimasto dal tempo della distruzione. Come ha osservato Jack Finegan:Ora sul posto non rimane alcuna evidenza in base alla quale cercare di determinare la data in cui Giosuè può aver preso Gerico. Molti archeologi, inoltre, influenzati dal lavoro che Kathleen Kenyon svolse negli anni '50, si convinsero che all'epoca dell'invasione israelita Gerico non esistesse più. Sostenevano, infatti, che la città fosse stata distrutta ben più di un secolo prima. Perciò, il racconto biblico di Giosuè e di Raab perse ogni credito. Successivamente, però, Bryant G. Wood, archeologo dell'Università di Toronto (Canada), riesaminò i reperti di Gerico. In un numero del New York Times, dichiarò che la conclusione a cui era giunto è che la dottoressa Kenyon ha cercato il vasellame di tipo sbagliato, e nei luoghi sbagliati, e che i reperti sono in effetti in notevole accordo con la Bibbia. Il dott. Wood menzionò uno strato di cenere spesso un metro in cui abbondavano frammenti di vasellame e di mattoni provenienti dal crollo di un muro e travi, tutti anneriti come da un incendio esteso a tutta la città. I frammenti di ceramica erano stati datati al 1410 a.C., con uno scarto possibile di 40 anni. Questo sarebbe in buon accordo con il periodo in cui, secondo la cronologia biblica, potrebbe essersi svolta la conquista di Gerico (XV-XIII secolo). Gli scavi inoltre rivelarono che le case dell'antica Gerico avevano abbondanti scorte di grano nei depositi. La Bibbia indica che Gerico cadde poco dopo il raccolto primaverile e senza un lungo assedio che la costringesse alla fame. Nel 1981 il prof. John J. Bimson prese di nuovo in esame la distruzione di Gerico. Studiò attentamente le rovine della Gerico distrutta mediante il fuoco — secondo Kathleen Kenyon — a metà del XVI secolo a.E.V. Secondo Bimson non solo quella distruzione collimava col racconto biblico della distruzione della città compiuta da Giosuè, ma il quadro archeologico di Canaan nel suo insieme collimava alla perfezione con la descrizione biblica di Canaan relativa al tempo dell'invasione israelita. Pertanto affermò che la datazione archeologica è errata avanzando l'idea che quella distruzione ebbe luogo a metà del XV secolo a.E.V., all'epoca di Giosuè. Tale metodo storico-critico (espressione usata per descrivere lo studio della Bibbia che indaga su dettagli come l'autore, la fonte del materiale e l'epoca in cui fu scritto ciascun libro) secondo molti osservatori dimostra la veracità del racconto biblico su Gerico associato alla storia di Raab.

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Folchetto di Marsiglia

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Eugenio Caruso - 28- 07 - 2021

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www.impresaoggi.com