Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo
L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro.
Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine.
L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini.
Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò.
Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme.
Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto.
Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana.
Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C.
L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente.
Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo.
L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti.
L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto.
L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future.
Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane.
Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.
Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartiene ad Omero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.
RIASSUNTO VIII LIBRO
Giove impedisce agli dei di intervenire nella prossima battaglia, e si ritira a osservarla dall’alto, destinando la vittoria ai Troiani. Ettore avanza, sentendosi favorito da Giove. Era vorrebbe che Poseidone intervenisse a favore degli Achei, ma lui non vuole disobbedire a Giove. Molti Achei muoiono sotto i colpi di Ettore, e invocano gli dèi, impauriti. Impietosite, Atena ed Era vorrebbero scendere ad aiutarli, ma Giove le rimprovera e le blocca, dicendo che gli Achei dovranno subire l’attacco dei Troiani finché Achille non tornerà a combattere.
Si fa notte, ed Ettore ordina ai Troiani di vegliare sugli Achei, perché non fuggano.
TESTO LIBRO VIII
Spandeasi Aurora, peplo di croco, su tutta la terra,
quando, sul picco piú alto dei monti d’Olimpo,
Giove, che s’allieta dei folgori, chiamò i Numi a concione.
Ed egli favellò, l’udirono tutti i Celesti:
«Voi tutti, o Numi, e tutte voi, Dive, ora datemi ascolto,
ché io vi dica quello che il cuor mi comanda ch’io dica.
Nessun di voi Celesti, né uomo né femmina, tenti
di render vano quello ch’io sto per dire; ma tutti
siate concordi, perché sian queste opere presto compiute.
Se alcun di voi vedrò che voglia, in disparte dai Numi,
scendere a terra, e soccorso recare agli Achivi o ai Troiani,
dovrà, da me colpito, tornare scornato in Olimpia,
oppur lo ghermirò, lontano nel Tartaro buio
lo scaglierò, dov’è sotterra piú fondo l’abisso,
dove le porte sono di ferro, la soglia di bronzo,
tanto dell’Ade piú giú, quanto il cielo è piú su de la terra.
Conoscerete cosí quanto sono il piú forte dei Numi.
Fate, se no, la prova, se tutti volete saperlo;
fate che penda giú dal cielo una gómena d’oro,
e attaccatevi ad essa, voi Dei tutti quanti, e voi Dive;
ma non potrete giú tirare dal cielo a la terra,
Giove, il piú saggio dei Numi, per quanto pur voi v’affanniate.
Se poi di buona voglia anch’io mi mettessi a tirare,
su vi potrei tirare con tutta la terra e il mare;
poi legherei la fune d’intorno a una vetta d’Olimpo,
e resterebbe cosí tutto quanto sospeso nell’aria:
tanto io sono piú forte di tutti i mortali e i Celesti».
Cosí diceva; e niuno parlò, ché rimasero muti,
stupiti ai detti suoi, che furono proprio perentori.
Pure, alla fine, parlò la Diva dagli occhi azzurrini:
«O padre nostro, figlio di Crono, che imperi su tutto,
ciascun di noi lo sa, tutti conosciamo la tua forza;
ma, tuttavia, pietà mi stringe dei Dànai guerrieri,
che, la lor triste sorte compiendo, s’avviano a morte.
Noi dalla guerra, come c’imponi, staremo lontani:
solo qualche consiglio che giovi daremo agli Achivi,
perché tutti, per l’ira che t’arde, non restino spenti».
E a lei, ridendo, Giove che i nugoli aduna, rispose:
«O Tritogenia, figlia diletta: non parlo
con volontario cruccio; ma teco voglio essere mite».
Disse. E al suo carro aggiogò due corsieri dai piedi di bronzo,
rapidi al volo; e d’oro, in alto, ondeggiavano i crini;
ed egli stesso, d’oro le membra recinse, la sferza
bella impugnò, forgiata nell’oro, salí sul suo carro,
sopra i corsieri, e vibrò la sferza; né furono quelli
tardi a volare, in mezzo fra il cielo stellato e la terra.
E giunse all’Ida irrigua di fonti, nutrice di fiere,
dove sul Gàrgaro a lui si leva un sacrario e un’ara
fumida. Quivi i corsieri, degli uomini il padre e dei Numi
fermò, li sciolse, intorno diffuse una nebbia fitta.
Ed ei, nella sua gloria raggiando, sede’ su la vetta,
guardando la città di Troia, e le navi achee.
Presero dunque il pasto gli Achei dalle floríde chiome,
presso le tende: in fretta poi súbito presero l’armi.
E dentro la città s’armavano anch’essi i Troiani:
meno di numero: e pure, correvan pronti a combattere,
per i figliuoli e le spose costretti alle pugne, alle zuffe.
Or, poi che, gli uni sugli altri movendo, pervennero a un punto,
un cozzo fu di scudi, di lancie, d’usberghi di bronzo,
d’uomini in furia; e l’uno sull’altro:
immenso frastuono spargevasi attorno.
E qui s’udíano insieme levarsi i lamenti e i vanti
dei vincitori e dei vinti; la terra correva di sangue.
Sin che durò il mattino, crescendo la vampa del giorno,
dardi volavan da entrambe le parti, e cadevan le turbe;
ma quando il sole già nel mezzo del cielo era asceso,
l’aurea bilancia prese degli uomini il padre e dei Numi,
pose due fati sui piatti, di morte e di lungo dolore,
qui dei Troiani, lí degli Achei loricati di bronzo,
e la levò, pel mezzo tenendola. E il giorno fatale
piombò giú degli Achivi: piombò sino al suolo fecondo;
e quello dei Troiani s’aderse a l’illimite cielo.
ZEUS
E allora, il Dio mandò dall’Ida un gran tuono, e rovente
una folgore lanciò sugli Achei. Sbigottirono quelli,
furon, mirando il prodigio, cospersi di vero terrore.
Né quivi Idomenèo, né Agamènnone osò rimanere,
né l’uno e l’altro Aiace rimasero, alunni di Marte:
Nèstore solo gerenio restò, degli Achei baluardo:
non di sua voglia, bensí gli s’era ferito un cavallo.
Con una freccia lo aveva colpíto Alessandro, lo sposo
d’Elena, a sommo del capo, nel punto ove crescono i crini
primi del cranio al cavallo, né punto c'è piú mortale.
Fe’, pel dolore, un gran balzo: la freccia trafisse il cervello;
e anche spaventò, dibattendosi, gli altri cavalli.
Ed ecco, mentre il vecchio le redini a colpi di spada
recidere tentava, giungevano i ratti corsieri
d’Ettore, tutti foga, recando l’auriga animoso.
E qui di certo avrebbe perduta la vita il vegliardo,
se Dïomede, aguzza pupilla, alto grido di guerra,
non lo vedeva; e spronò, con urlo terribile, Ulisse:
«O di Laerte figlio divin, dove mai fra le turbe
tu fuggi, quasi un vile tu fossi, voltando le spalle?
Ve’, che qualcuno la lancia non t’abbia a piantar nella schiena!
Férmati; e lungi dal vecchio spingiamo quell’uomo selvaggio».
Cosí dicea; ma Ulisse tenace neppure l’intese,
e oltre fuggi, verso le rapide navi achee.
Ma si lanciò Dïomede, sebben solo fosse, tra i primi,
stette dinanzi ai cavalli del vecchio figliuol di Nelèo,
e a lui favellò, queste parole veloci gli volse:
«I giovani guerrieri t’incalzano troppo, o vegliardo,
e scema è la tua forza, ti preme la vecchiezza,
l’auriga tuo ben poco ti giova, son tardi i cavalli.
Or sul mio carro sali, su’ via, ché tu possa vedere
quali i cavalli sono di Tròo, bene esperti del piano,
a correre di qua, di là, se s’insegua o si fugga,
ministri di terrore, che un giorno ho rapiti a Enea.
Abbiano cura i tuoi due servi di quelli; e noi, questi
contro i guerrieri troiani spingiamo, sí ch’Ettore anch’egli
sappia la lancia mia, come infuria, se in pugno la stringo».
Cosí disse; e l’eroe gerenio, signor di cavalli,
sordo non fu. Dei suoi cavalli i suoi prodi scudieri
Stènelo ed Eurimedonte si presero cura,
ed essi tutti e due sul cocchio salîr del Tidíde.
Nèstore in pugno strinse le briglie, sul dorso ai cavalli
vibrò la sferza; e presto a Ettore furono presso.
Questi su loro piombò; ma vibrò la zagaglia il Tidíde;
né lo colpí; ché invece trafisse l’auriga scudiero
Enïopèo, figlio di Tebaio dal cuore magnanimo ,
che gli reggea le briglie, nel petto, vicino alle mamme.
Piombò dal carro giú, s’impennarono indietro i cavalli
piedi veloci: fiaccati gli furono spiriti e forze.
D’atroce doglia allora percosso fu d’Ettore il cuore,
per il compagno. Qui lo lasciò, sebben pieno di cruccio,
e un altro ardito auriga si diede a cercare; né a lungo
privi di guida i suoi cavalli rimaser: ché tosto
trovò d’Ifito il figlio, l’ardito Archeptòlemo. Seco
lo trasse egli sul carro, gli porse le fulgide briglie.
E quivi orride stragi seguite sarebbero e mali,
fuggiti come agnelli sarebbero in Ilio i Troiani,
se la pupilla acuta su lor non volgeva il Croníde.
Con un gran tuono lanciò terribile un folgore ardente,
a terra lo scagliò, del Tidíde dinanzi ai cavalli;
e una vampa orrenda surse alta dal solfo che ardeva,
e sbigottiti i cavalli s’accovacciâr sotto il carro.
Sfuggiron dalle mani le redini a Nèstore,
terror gl’invase il cuore, e queste parole rivolse al Tidíde:
«O Dïomede, volgi di nuovo i cavalli alla fuga!
Non vedi tu che Giove rifiuta di darci soccorso?
A Ettore adesso Giove Croníde concede la gloria,
domani la darà, se pure lo voglia, anche a noi.
Ma nessun uomo potrà mutare la mente di Giove,
per quanto sia gagliardo: ché Giove è piú forte di molto».
E gli rispose cosí Dïomede, fiero urlo di guerra:
«O vecchio, certo sí, tutto quello ch’ài detto è opportuno;
ma questo è un cruccio grave che l’anima e il cuore m’invade:
ch’Ettore un giorno dire potrà, favellando ai Troiani:
— Di me temendo, un giorno fuggito è alle navi il Tidíde. —
Cosí millanterà. S’apra allora la terra e m’inghiotta!».
E Nèstore, gerenio signore, cosí gli rispose:
«Ahimè!, che cosa hai detto, figliuol dell’accorto Tidèo?
Se pure Ettore dica che un vile e un imbelle tu sei,
non gli daranno, no, né Troiani né Dàrdani ascolto,
né dei Troiani guerrieri dal cuore animoso le spose,
a cui tu nella polve prostravi gli sposi fiorenti».
Disse. E i corsieri voltò spronandoli in mezzo alle turbe,
novellamente a fuga. Ed Ettore, e seco i Troiani
le grida al cielo alzando, scagliaron le amare saette.
E un grido alto lanciò di Priamo il figlio:
«Renderti assai d’onore solevano i Dànai, Tidíde,
il posto nei banchetti, le carni, le coppe ricolme;
ma or ti spregeranno: ché a fatti eri come una donna.
Alla malora, trista bagascia, ché il campo diserti:
mai non sarà che le torri di Troia tu ascenda, e le nostre
donne alle navi trascini: avrai da me prima il malanno!».
Cosí disse; e ondeggiava con duplice avviso il Tidíde:
voltar volle i cavalli, combatter con lui faccia a faccia:
tre volte questo avviso volgea nella mente e nel cuore,
e tre tuonò dai gioghi dell’Ida il prudente Croníde,
dando ai Troiani il segno che a essi ridea la vittoria.
DIOMEDE
Ed Ettore parlò, levando alte grida, ai Troiani:
«Dàrdani, Lici, Troiani valenti a combatter da presso,
uomini siate, amici, mostrate il valore guerresco!
So certo ch’ora a me, con cenno propizio, il Croníde
vittoria e alta gloria promise, e cordoglio agli Achivi.
Stolti, che a gran fatica alzar questa fiacca muraglia
che a nulla gioverà, che frenar non potrà la mia furia:
presto i cavalli miei balzeranno di là dalla fossa.
E quando sarò giunto vicino alle concave navi,
memoria abbia qualcuno di porgermi il fuoco funesto,
si ch’io bruciare possa le navi, e i medesimi Argivi
spenti vicino ai legni procombano, oppressi dal fuoco».
Cosí detto, ai cavalli parlò, disse queste parole:
«O Xanto, Etóne, e tu, Podarge, e tu, Lampo divino,
rendete a me la grazia che a voi con tal copia largiva
la figlia d’Etïóne magnanima, Andromaca, quando
a voi prima che a me, frumento piú dolce del miele
porgea, vino mesceva, se brama di bere avevate,
prima di me, che pure mi vanto suo florido sposo.
Su via, movete insieme, lanciatevi a caccia, ché preda
fare possiam dello scudo di Nèstore, ch’à tutti d’oro
— fama ne sale al cielo! — gl’imbracci e il medesimo piatto;
e dalle spalle poi del Tidíde, togliamo l’usbergo
cui fabbricò Vulcano, foggiò tutto vario d’intarsi.
Se questi due pigliamo, speranza nutro io che gli achei
questa medesima notte dovranno scampar su le navi».
Parlò con tale vanto; e molto fu d’Era lo sdegno.
Sul trono ella si scosse — die’ grande sussulto l’Olimpo —
e questi motti al Dio possente Posídone disse:
«Ahimè, Nume possente che scuoti la terra, nel seno
pur non ti piange il cuore, per tanto sterminio d’Achivi?
Pure, ad Elíca e ad Ège portare ti sogliono doni
molti e graditi! Or tu provvedi ch’essi abbian vittoria!
Ché se volessimo, quanti siam Numi propizi agli Achivi,
respingere i Troiani, frapporre una remora a Giove,
solo soletto sull’Ida restare dovrebbe a crucciarsi».
E il Nume a lei che scuote la terra, adirato rispose:
«Era, che a tempo tacere non sai, che parole son queste?
Io non vorrei che venissimo a lotta col figlio di Crono,
tutti noialtri; perché di tutti egli è molto più forte».
ERA PROTETTRICE DEGLI ACHEI
Mentre cosí parole scambiavano l’uno con l’altro,
quanto era spazio di qua dalle navi, tra il muro e la fossa,
tutto s’andava empiendo di cavalli e d’uomini armati
sospinti a frotte. Il figlio di Priamo simile a Marte,
Ettore l’incalzava: ché Giove gli dava la gloria.
E qui col fuoco ardente bruciava le navi,
se d’Agamènnone in cuore la Dea veneranda Giunone
non ispirava l’idea d’eccitare egli stesso gli Achivi.
Si mosse, dunque, lungo le tende e le navi d’Acaia,
nella gagliarda mano reggendo il purpureo manto.
Presso la negra nave panciuta d’Ulisse stette,
che sita era nel mezzo, perché la sua voce, da un lato
giunger potesse alla tenda d’Achille, dall’altro alla tenda
del Telamonio Aiace: ch’entrambi agli estremi del campo
aveano tratti i legni, fidando nel proprio valore.
Dunque, di qui levò ai Danai altissimo un grido:
«Vergogna, Achivi, tristi, sol belli a vedere!
Dove sono iti i vanti di quando i piú prodi fra tutti
ci credevamo, e in Lemno, parlando con vana iattanza,
mangiando carne a iosa di buoi dalle corna diritte,
e vino dai cratèri ricolmi attingendo e bevendo,
millantavate che ognuno potrebbe affrontare in battaglia
cento, duecento Troiani? Se or non bastiamo per uno,
per Ettore, che presto col fuoco rapace le navi
avrà distrutto! O Giove, qual mai dei possenti sovrani
spingesti a tal rovina, struggendo l’insigne sua gloria?
Eppure, mai dei tuoi bellissimi altari nessuno
ho trascurato, quando per mar, col mio danno, qui venni;
ma sopra tutti cosce bruciai di giovenchi, e omento,
d’abbattere bramoso le solide mura di Troia!
O Giove, almeno adesso asseconda questa preghiera:
fa’ tu che scampo adesso trovare possiamo, e fuggire;
e non lasciar che gli Achei sian cosí dai Troiani abbattuti!».
Cosí disse. E pietà n’ebbe il padre, vedendo il suo pianto,
e consentí, con un cenno, che salvo il suo popolo fosse;
e un’aquila mandò, perfetto fra tutti gli alati,
che fra gli artigli il rampollo stringea d’una cerva;
e lo gittò presso all’ara di Giove bellissima, dove
porgean gli Achivi a Giove, signor dei responsi, le offerte.
E questi, allor, veduto l’augurio propizio di Giove,
con nuovo ardor guerresco piombarono ancor sui Troiani.
ETTORE AIUTATO DA GIOVE
Quivi, nessuno dei Dànai, per molti che fossero, potè vantarsi
d'aver spinto i cavalli prima
di Dïomede, a varcare la fossa, e affrontare i Troiani.
Primo fra i primi, quegli trafisse il troiano Agelao
figlio di Fràdmone, mentre volgeva, a fuggire, i cavalli.
L’asta nel dorso, mentre le briglie volgea, gli confisse
fra l’una spalla e l’altra: la punta gli uscí fuor dal petto.
Piombò dal carro giú, su lui rintronarono l’armi.
E, dopo quello, i due sovrani figliuoli d’Atrèo
e l’uno e l’altro Aiace, vestiti di furia guerresca,
e quindi Idomenèo, dopo lui Merïóne, compagno
d’Idomenèo, gagliardo non meno d’Eníalo,
e dopo loro, il figlio d’Evèmone, Eurípilo bello:
Teucro veniva nono, che l’arco ricurvo tendeva,
e se ne stava dietro lo scudo d’Aiace, al riparo.
Aiace quivi un poco scostava lo scudo; e l’eroe
mirava; e quando alcuno colpiva, di mezzo alla plebe
con le sue frecce, e quello cadeva e perdeva la vita,
egli tornava, come bambino alla mamma, al riparo
presso ad Aiace; e Aiace tendeva lo scudo, a coprirlo.
Chi fra i Troiani prima qui Teucro infallibil trafisse?
Cadde Orsíloco primo, quindi Òrmeno, quindi Ofelèste,
poi Dètore, poi Cromio, poi, pari agli Dei, Licofonte,
poi Melanippo, poi di Polièmone il figlio Amepone:
tutti, l’uno su l’altro, sul suolo fecondo li stese.
E Agamènnone, re di genti, fu lieto, vedendo
com’egli dei Troiani le schiere abbatteva con l’arco;
e a lui, standogli presso, cosí la parola rivolse:
«Teucro, diletto mio, Telamonio signore di genti,
saetta pur, ché tu pei Dànai sarai gran fulgore,
e per il padre tuo, che te maturò da piccino,
che te nella sua casa, sebben fossi spurio, raccolse:
fa’ or, sebbene lungi ti sia, ch’egli ascenda la gloria.
Ed una cosa ti dico, che avrà compimento sicuro:
se Giove a me concede, signore dell’ègida, e Atena,
che un giorno alfine abbatta le solide mura di Troia,
il primo dono a te d’onore offrirò dopo il mio,
o sia tripode, o sian due cavalli col carro aggiogato,
o una donna che salga con te nel medesimo letto».
E l’infallibile Teucro rispose con queste parole:
«O glorïoso Atríde, perché tu mi spingi, se sono
già di per me tutto foga? Sin quando la forza mi assista
io non desisterò. Da quando incalzammo i Troiani,
io qui, stando alla posta, trafiggo col dardo i guerrieri.
Otto lanciate ho già saette di cuspide aguzza,
tutte si son nelle membra di giovani svelti confitte:
ma solo questo cane rabbioso colpire io non posso!».
Cosí diceva. E un’altra saetta scagliò dalla corda,
contro Ettore, diritta, ché brama avea pur di colpirlo.
Ma lo sbagliò: colpí Gorgitíone immune da pecca,
figlio diletto di Priamo, in petto la freccia gl’infisse.
Lui generato avea Castinéïra bella, che sposa
era venuta d’Asime, simile a una dea. — E il capo
piegò da un lato, come papavero quando negli orti
a Primavera l’aggrava la bacca e la fresca rugiada:
cosí piegò da un lato la testa gravata da l’elmo.
E Teucro un altro dardo lanciò dalla corda dell’arco,
contro Ettore, diritto, ché brama avea pur di colpirlo:
e anche qui sbagliò, ché il colpo deviò Apollo.
Ma d’Ettore l’auriga, l’audace Argettòlemo, mentre
moveva a zuffa, colpí nel petto, vicino a una mamma.
Piombò dal cocchio giú, si fecero indietro i cavalli
piedi veloci, e a lui mancarono spiriti e forze.
D’acuta doglia, allora, colpito fu d’Ettore il cuore,
per il compagno: qui lo lasciò, sebben pieno di cruccio,
e Cebrïone chiamò, suo fratello, che gli era vicino,
ché dei cavalli reggesse le briglie; né quegli fu tardo.
Ed egli giú balzò, dal carro suo lucido, a terra,
con un orribile grido: e, stretto nel pugno un macigno,
dritto su Teucro mosse, ché il cuor gli dicea di colpire.
Dalla faretra quegli fuor tratta un’amara saetta,
posta l’aveva sul nervo; ma mentre tendeva la corda,
Ettore gli colpí la clavicola, ov’essa divide
dal collo il petto; ed è sovra ogni altro mortale quel punto.
Qui lo colpí, mentr’egli mirava, con l’aspro macigno,
e gli spezzò la corda. La man cadde inerte sul polso:
sopra i ginocchi piombò, dalla mano gli cadde giù l’arco.
Ma non lasciò senza aiuto Aiace il fratello caduto:
corse, gli stette d’intorno, riparo gli fe’ dello scudo.
E lui, fattisi presso, sostenner due fidi compagni,
d’Èchio il diletto figlio, Mecísto, ed Alàstore divo;
e lo portaron, che grave gemeva, alle concave navi.
E nuovo allora infuse furore l’Olimpio ai Troiani,
che dritto spinser verso la fossa profonda gli Achivi.
Ed Ettore moveva fra i primi, raggiante di forze.
Come allorquando un cane dai piedi veloci persegue
apro selvaggio o leone, tentando addentargli di dietro
le cluni, o i fianchi, attento se dietro si volga: del pari
Ettore al corso incalzava gli Achei dalle floride chiome,
l’ultimo sempre uccidendo. Fuggivano quelli, sgomenti;
e poi che furon giunti di là dalla fossa e dai pali,
e dei Troiani sotto le mani ne caddero molti,
stettero alfine lí, si raccolsero presso le navi,
e l’uno all’altro dava coraggio; ed a tutti i Celesti
alte levando le mani, ciascuno facea lunga prece;
ed Ettore qua e là volgeva i chiomati cavalli,
e della Gòrgone aveva l’aspetto, e di Marte omicida.
Era n’ebbe pietà, la Dea dalle candide braccia;
ed ecco, queste alate parole ad Atena rivolse:
«Ahimè!, figlia di Giove signore dell’ègida, dunque
noi non avremo piú mai dei Dànai pietà, che distrutti
vanno cosí, che per tristo destino pervengono a morte,
per l’impeto d’un uomo! Ché niuno pon freno a la furia
d’Ettore, figlio di Priamo, che tanti malanni ha compiùti!».
E a lei cosí rispose la Diva dagli occhi azzurrini:
«Deh!, se davvero costui perdesse la forza e la vita
sotto le man’ degli Achivi, distrutto nel suol di sua patria!
Ma sempre il padre mio delira fra tristi pensieri,
perfido sempre, e tristo, che ad ogni mia brama s’oppone.
Non si ricorda piú quante volte suo figlio salvai
che soccombeva già d’Euristèo sotto i gravi travagli.
Quegli piangeva allora, volgendosi al cielo; e il Croníde
soleva me dal cielo mandare, per dargli soccorso.
Ma se poteva ciò prevedere la scaltra mia mente,
quando egli scese all’Ade, che sta delle porte a custodia,
per trarne il cane esoso d’Averno dall’Èrebo fuori,
non si salvava, no, dai gorghi rapaci di Stige.
Ora ei m’esècra invece, di Tètide approva i disegni,
che gli baciò le ginocchia, che al mento gli tese la mano,
perché d’onore Achille di rocche eversore coprisse.
Giorno però verrà, che ancor dovrà dirmi sua cara!
Su via, dunque i cavalli per noi solidunguli appresta,
e intanto io nella casa di Giove, dell’ègida sire,
entro, e dell’armi da guerra mi vesto: ché voglio vedere
se sarà lieto il figlio di Priamo dall’alto cimiero,
quando apparire vedrà noi due nella lizza di guerra,
oppur se pascerà cani e uccelli qualcun dei Troiani
col grasso e con le polpe, dinanzi alle navi cadendo».
Cosí disse. E fu pronta la Dea dalle candide braccia,
Era, la Dea veneranda, la figlia di Crono l’eccelso;
mosse, e i cavalli aggiogò dagli aurei frontali; ed Atena
la figlia occhiazzurrina di Giove dell’ègida sire,
spogliò sopra la soglia del padre il suo morbido peplo,
variopinto, che aveva foggiato ella stessa ed ornato,
la tunica indossò di Giove che i nugoli aduna,
l’armi indossò, con cui moveva fra il pianto e la guerra,
e sopra il cocchio balzò fiammante, stringendo nel pugno
l’asta massiccia, grande, pesante, che stermina a schiere
gli eroi con cui s’adira la figlia del padre possente.
Di qui, dunque, i corsieri guidarono, al pungolo pronti.
Giove però le scòrse dall’Ida, e fu grave il suo cruccio;
e spinse Iri, ch’à d’oro le penne, a recare un messaggio:
«Iri veloce, va’, fa’ che tornino; e starmi di contro
più non ardiscano! Brutta sarà, se verremo a contesa!
Ché questo io dico adesso, che avrà compimento sicuro:
io prima azzoppirò sotto il cocchio i veloci cavalli,
dal seggio abbatterò loro stesse; ed il carro in frantumi;
sicché, neppure quando saranno trascorsi dieci anni,
sane saranno, ove l’abbia la folgore impresse, le piaghe:
ché l’occhiazzurra impari, se ardisce azzuffarsi col padre.
D’Era non tanto mi cruccio, né tanto mi provoca a sdegno:
ché sempre contro me, checché possa io dire, la trovo».
Disse. E a recare il messaggio corse Iri dal pie’ di procella.
Mosse dai picchi d’Ida ai vertici sommi d’Olimpo,
e dell’Olimpo fitto di gioghi trovò su le porte
le Dive, e le rattenne, recando il comando di Giove:
«Dove correte? Quale delirio nel seno v’infuria?
Giove non vuole che voi soccorso rechiate agli Argivi.
Fece il Croníde questa minaccia, che avrà compimento:
prima, zoppi farò sotto il cocchio i veloci cavalli,
dal seggio abbatterà voi stesse, ed il carro in frantumi;
sicché, neppure quando saranno trascorsi dieci anni,
sane saranno, ove l’abbia la folgore impresse, le piaghe:
ché apprenda tu, se ardisci, col padre, Occhiazzurra, azzuffarti.
D’Era non tanto si cruccia, né tanto lo provoca a sdegno:
ché sempre contro lui, checché possa dire, la trova;
ma, prepotente, di te, di te, cagna sfacciata, si cruccia,
se tu la lancia tua volessi levar contro Giove!».
Detto cosí, partiva la Diva dai piedi veloci;
ed Era allora queste parole rivolse ad Atena:
«Ahimè, figlia di Giove dell’ègida re, non consento
che col Croníde veniamo per causa degli uomini, a lotta.
Di questi viva l’uno, distrugga pur l’altro la morte,
come il destino vuole: comparta ai Troiani e agli Achivi
come gli detta il cuore, giustizia il Croníde: a lui spetta».
Detto cosí, voltò di nuovo i corsieri veloci.
Sciolsero l’Ore per lei dal carro i chiomati cavalli,
e li legaron dinanzi le greppie fragranti, ed i carri
alle pareti presso poggiâr, che fulgevano tutte.
E sopra i seggi, d’oro foggiati, sedetter le Dive,
in mezzo agli altri Numi, col cuore crucciato nel seno.
E Giove padre, il carro veloce e i cavalli sospinse
dal monte Ida all’Olimpo, pervenne al consesso dei Numi.
A lui disciolse il Nume che scuote la terra i corsieri,
presso ai pilastri il carro poggiò, la coperta vi stese.
E il Dio voce possente, sul trono foggiato nell’oro
sede’; sotto i suoi piedi l’Olimpo die’ lungo sussulto.
Sole, lontane da Giove, sedevano Era ed Atena,
né a lui parola alcuna volgevano, alcuna domanda.
Ed ei, che se n’accorse, cosí prese a dire alle Dive:
«Era ed Atena, perché vi veggo sí piene di cruccio?
Pur, non vi siete stancate nel nobil cimento di guerra,
a sterminare i guerrieri di Troia, che tanto odïate!
Smuovermi poi, tale è la mia furia e le invitte mie mani,
non lo potrebbero quanti Celesti ci sono in Olimpo:
e voi, tremito prima v’avrebbe pervase le membra,
prima che voi vedeste la guerra, e i suoi fieri cimenti.
Perché questo ora dico che allor si sarebbe compiuto:
dal folgore colpite, piú voi non sareste tornate
sul vostro carro qui, dove i Numi han dimora, in Olimpo».
Cosí disse. E crucciate rimasero Atena con Era,
l’una vicina all’altra, pensando al malanno di Troia.
E l’Occhiazzurra muta restò, ché non disse parola,
sdegnata contro Giove, pervasa di bile selvaggia.
Ma ben parlò Giunone, che in cuor non contenne la bile:
«Quali parole mai dici tu, potentissimo Giove?
Ben lo sappiamo anche noi, che poca non è la tua forza;
ma, tuttavia, pietà ci stringe dei Dànai guerrieri,
che vanno ora distrutti, compiendo il lor triste destino.
Or, dalla guerra lungi, se tu lo comandi, restiamo;
ma diam qualche consiglio che possa giovare agli Argivi,
sicché, pel tuo furore, non debbano tutti morire».
E a lei Giove cosí rispose, che i nugoli aduna:
«Doman, se tu lo brami, di Crono il possente figliuolo
veder potrai, divina mia sposa dagli occhi rotondi,
le schiere degli Argivi colpir con piú duro sterminio:
ch’Ettore, il fiero campione, non desisterà dalla guerra,
prima che presso i legni si levi il Pelíde veloce,
quel dí che avvamperà vicino alle navi, la zuffa,
in un’orrenda stretta, di Patroclo presso alla salma:
cosí vuole il destino. Di te, della furia che t’arde,
pensiero io non mi do, neppur se agli estremi confini
del mare e della terra tu giunga, ove Crono e Giapeto
seggon, né quivi li allieta del Sol ch’alto valica il raggio,
né lo spirar dei venti, ma il Tartaro fondo li cinge:
neppur se quivi tu, vagando, giungessi, pensiero
non mi darei di te: ché di te non c’è altra più cagna».
Disse. Né motto rispose la Dea dalle candide braccia.
TEUCRO GRANDE ARCIERE GRECO
E nell’Ocèano cadde la lucida vampa del Sole,
la negra notte sopra le zolle feraci traendo.
Cara ai Troiani non fu la luce, sparendo; ma cara
giunse la fosca notte, tre volte invocata, agli Argivi.
Ettore fulgido, allora, raccolse i guerrieri Troiani
sul vorticoso fiume, lontan dalle navi, in un luogo
libero, dove sgombro di salme appariva uno spiazzo.
Qui dai cavalli a terra balzarono, e udîr le parole
ch’Ettore, ai Numi caro, diceva. Stringeva la lancia
d’undici cubiti, in pugno: splendeva la punta di bronzo
in cima, e la cingeva, foggiato ne l’oro, un anello.
Poggiato a questa, tali parole rivolse ai Troiani:
«Udite, o voi Troiani, voi Dàrdani, e tutti, o alleati.
Or credevamo che a Ilio ventosa tornati saremmo
dopo distrutte tutte le navi con tutti gli Achivi;
ma prima è sopraggiunta, purtroppo, la tènebra; e salvi
fatti ha gli Achivi e i legni presso la spiaggia del mare:
ora, alla negra notte conviene che pur ci fermiamo.
Dunque, apprestate la cena, sciogliete i chiomati cavalli
di sotto i cocchi, a essi dinanzi ponete la biada,
e dalla rocca bovi recate, con pecore pingui,
senza indugiare; e il pane recate, e il vin dalle case,
che i cuori allegri; e poi gran raccolta di legna si faccia,
e, sinché duri la notte, sinché non rifulga l’aurora,
s’ardano grandi fuochi, ché al cielo il bagliore ne salga,
perché gli Achei chiomati non possan, durante la notte,
sopra l’immane dorso del mare, tentare la fuga.
Non debbon senza fretta salir sulle navi, a bell’agio:
deve più d’uno una piaga portare, e smaltirsela a casa,
vuoi da una freccia, vuoi da un’acuta zagaglia colpito,
mentre salia su la nave: sicché qualcun altro abbia voglia di
recar contro i Troiani le dure battaglie di Marte.
Quindi, per la città, gli araldi diletti di Giove,
gl’impuberi fanciulli avvertano, e i vecchi canuti,
che intorno alla città, su le mura costrutte dai Numi,
s’accolgano; e le donne che accendano ognuna un gran fuoco,
nella sua casa; e guardia continua si faccia, ché mentre
le schiere sono lungi, non entri un drappello nemico.
Fate cosí, Troiani magnanimi, come vi dico.
Queste parole ora ho dette, che valgano a vostra salvezza,
il resto le dirò su l’alba, ai guerrieri Troiani.
Io spero, e Giove invoco, e tutti i beati Celesti,
ch’io scaccerò quei cani, qui giunti per nostra sciagura,
ché su le negre navi guidati qui li hanno le Furie.
Su, dunque, sinché dura la notte, facciam buona guardia:
dimani all’alba, poi, coperti le membra dall’arme,
risveglieremo presso le concave navi la pugna:
vedremo se il gagliardo figliuol di Tidèo, Dïomede,
respingermi alle mura saprà dalle navi, o se io
l’ucciderò col bronzo e ne avrò sanguinanti le spoglie.
Domani ei mostrerà quanta è la sua forza: se l’urto
reggere della mia lancia potrà; ma credo io che fra i primi
soccomberà ferito, tra molti compagni caduti,
da quando il sole sorge, sin quando tramonta. Immortale
esser vorrei, immune cosí da vecchiezza,
e essere onorato al pari d’Atena e d’Apollo,
come ora questo dí segnerà per gli Achivi il malanno».
Ettore disse cosí. Levaron clamore i Troiani:
disciolsero i cavalli, grondanti sudore, dai gioghi,
e li legâr presso i carri, dov’era ciascun, con le cinghie.
E buoi dalla città portarono, e pecore pingui,
senza indugiare, e il pane recarono e il vin dalle case,
gioia dei cuori; e poi raccolsero legna in gran copia.
Quindi agli eterni Numi offersero scelte ecatombi;
e i venti il pingue fumo levarono, tutto fragrante,
dal piano al ciel: però non l’ebbero caro i Celesti,
lo rifiutarono: Troia la sacra aborrivano troppo,
e Priamo, e i figliuoli di Priamo, maestro di lancia.
Ma pieni essi d’orgoglio rimasero tutta la notte:
fulgevano i fuochi in gran copia.
Come allorquando in cielo, d’intorno alla luna, le stelle
brillano tutte chiare, se il vento nell’aria è caduto,
e si distinguono tutte le balze e le cime dei colli
dentro le valli; ché l’aria si stende dal cielo infinito:
brillano tutte le stelle, ne gode nel cuore il pastore:
tanti sul piano, in mezzo fra i rivi dello Xanto e le navi,
i fuochi dei Troiani brillavano a Ilio dinanzi.
Mille brillavano fuochi sul piano; e davanti a ciascuno
sedeano, al raggio ardente del fuoco, cinquanta guerrieri
e i corsieri anch’essi, cibando orzo candido e spelta,
stavano presso ai cocchi, l’Aurora divina attendendo.
{Traduzione di Ettore Romagnoli}
ETTORE
Ettore è un eroe della mitologia greca, figlio primogenito di Priamo, re di Troia, e di Ecuba. Era sposo di Andromaca e padre di Astianatte. Nell'Iliade Ettore fa parte del poema di Omero. Ettore, per evitare che i nemici prendano il sopravvento, li affronta per salvare la sua gente e la sua patria. Sa essere in battaglia un guerriero terribile, il più forte e valoroso fra i Troiani, ma a volte lo si vede anche indietreggiare. Durante la lotta contro il prode Achille inizialmente fu l'unico a fermarsi per affrontarlo, per poi darsi alla fuga, e infine prendere coraggio e affrontare il suo grande nemico in un duello per lui mortale. Partecipò alla guerra di Troia e fu il più importante difensore della città prima di essere ucciso in combattimento da Achille, rabbioso con lui per l'uccisione di Patroclo. Le sue vicende sono narrate principalmente nell'Iliade, di cui è il personaggio principale al pari di Achille. Ettore "dalla Negra chioma" come lo descrive Omero, a differenza di Achille che era invulnerabile, era un semplice essere umano, il più umano di tutti gli eroi omerici,il suo coraggio e la sua forza erano insiti nella sua natura umana, non erano un dono degli dei, come invece lo era l'invulnerabilita'del Pelide Achille, egli "Da solo salvava Troia..." come racconta Omero, nel brano in cui descrive l'ultimo incontro con Andromaca e con il piccolo Astianatte, ancora lattante. La figura di Ettore è forse quella che commuove di più, perché è l'eroe che si avvicina maggiormente alla natura umana, egli si commuove, pur essendo forte e poderoso, sa essere coraggioso e tenero nel medesimo istante. La fama dell'eroe omerico rimase viva anche in epoca post classica, e nel Medioevo egli fu ritenuto esemplare per la sua piena adesione agli ideali cavallereschi. Ettore sposò Andromaca, dalla quale ebbe un unico figlio, Astianatte, che trovò poi la morte per mano del figlio di Achille, Neottolemo durante la conquista di Troia. Alcuni autori attribuiscono a Ettore la paternità di altri tre figli: Laodamante, generato da Andromaca, Anfineo e Ossimo (o Ossinio).
LA GUERRA: Informati dell'arrivo degli achei, i Troiani si schierarono lungo la costa per tentare di ostacolare l'approdo. Gli Achei, dunque, indugiavano a scendere: infatti, un oracolo aveva predetto loro che il primo a metter piede sul suolo troiano sarebbe stato il primo a morire. Iolao, allora, non volendo credere alla sentenza, scese da solo dall'imbarcazione su cui si trovava, e si lanciò contro i nemici. Combatté valorosamente fino a quando Ettore lo uccise scagliandogli contro una lancia: da quel momento Iolao fu chiamato Protesilao. Durante una dura barraglia, Ettore raggiunse suo fratello Paride e lo convinse ad affrontare in duello Menelao. Subito dopo si recò dal nemico proponendo il duello: il vincitore avrebbe trattenuto presso di sé Elena, e si sarebbero stipulati dei patti di amicizia tra i due popoli, in modo da porre fine alla guerra. Menelao accettò la sfida, ma essa non ebbe tuttavia l'esito sperato a causa dell'intervento divino di Afrodite, che mise in salvo Paride.
La guerra continuò, molti eroi caddero sotto le armi di Ettore in seguito, sotto consiglio di suo fratello Eleno, Ettore partì per andare a trovare sua moglie, in ansia per lui; ma prima di iniziare il viaggio, fece un accalorato discorso ai suoi soldati. Quando il principe troiano raggiunse le porte della città, tutte le donne gli chiesero novità sui propri cari, Ettore a tali domande rispose sinceramente, raccontando anche le notizie più tristi. In casa incontrò la sorella Laodice e la madre Ecuba; rifiutò offerte di buon vino e buoni pasti per non dimenticare la durezza della lotta che incombeva non lontano e convinse la madre a pregare la dea Atena, tradizionalmente ostile ai troiani, per cercarne il favore: una volta uscito incontrò Paride ed Elena intenti a giustificare il loro agire. Ettore quindi si recò alla ricerca della moglie, e dopo aver ottenuto informazioni su come raggiungerla, riuscì a incontrare i suoi familiari più cari. Vide sia la moglie che suo figlio, chiamato da tutti Astianatte, ma dal padre Scamandrio. La moglie cercò di convincerlo a non tornare in battaglia, ma lui la tranquillizzò, poi si apprestò ad abbracciare il loro pargoletto. Questi si mostrò intimorito dall'aspetto del padre: inizialmente pianse alla vista dell'elmo penzolante e dell'armatura di bronzo. Ettore e Andromaca, fra le lacrime, si lasciarono scappare un sorriso per l'episodio buffo, lui si levò il copricapo, accarezzò il figlio pregando il padre degli dei affinché vegliasse su di lui.
Il principe troiano tornò in guerra insieme a Paride mietendo le file degli Achei; durante uno scontro Eioneo, nemico agguerrito di Troia, cadde sotto la lancia del principe troiano. Le battaglie continuarono fino a quando Eleno, sotto consiglio degli dei, suggerì al prode una sfida fra i due guerrieri più valorosi degli opposti schieramenti.
Ettore accettò il suggerimento, decise quindi di sfidare colui che si ritenesse il più forte dei greci. Timorosi della grande forza del Troiano, inizialmente nessuno si fa avanti, ciò suscitò le ire di Menelao che decise di proporsi, andando incontro a morte certa. Agamennone stesso intervenne per fermare il fratello, pronto ad accettare il duello, troppo più forte era Ettore. Nestore comprese la situazione, istigò gli animi con un accalorato discorso, fino a che ben nove eroi accettarono di combattere contro il troiano. A questo punto venne decisa un'estrazione a sorte. Tutti depositarono un sasso, dove avevano posto precedentemente un segno di riconoscimento, dentro l'elmo di Agamennone. Quando avvenne l'estrazione nessuno all'istante riconobbe la pietra, ma poi si comprese che ad essere prescelto fu il grande Aiace Telamonio.
Il primo assalto lo effettuò il troiano, ma l'avversario dotato di un famoso scudo bloccò l'attacco che non superò gli strati di pelle di cui era composto. Aiace sferrò un assalto con la sua forte lancia, oltrepassando lo scudo del troiano, ma Ettore fu abile ad abbassarsi appena in tempo per evitare una tragica fine. L'attacco del principe troiano di nuovo si infranse sullo scudo, e la sua arma all'urto si piegò. Il figlio di Priamo afferrò una pietra da terra deciso a continuare, sferrando quindi un colpo allo scudo che risuonò rimbombando. Aiace prese una pietra molto più grande della prima e la scagliò contro l'avversario: quel poco di scudo ancora rimasto venne distrutto definitivamente, il principe troiano venne tramortito e il suo corpo cadde al suolo. Subito l'eroe si riprese, estrasse la spada, lo stesso fece Aiace e i due avrebbero combattuto ad oltranza se gli araldi, fra cui Ideo, non si fossero opposti alla continuazione della sfida a causa del calar del sole. e così, grazie alla decisione di Ettore, il duello ebbe fine, senza vinti o vincitori e si scambiarono doni di rispetto.
I doni scambiati furono in realtà presagi di sventura, in quanto entrambi saranno collegati agli episodi che narrano della loro morte: la spada, regalo di Ettore, sarà quella con cui Aiace si ucciderà; la cintura, (regalo dell'acheo) sarà quella con cui il troiano verrà trascinato per il campo dopo la sua morte. Secondo un'altra versione Ettore voleva scontrarsi direttamente con Achille capendo che lo scontro fra i due era inevitabile, ma l'eroe greco ancora infuriato con Agamennone perché gli aveva sottratto il suo bottino di guerra (presa solo per compassione e per esaudire il desiderio di Patroclo), Briseide, riferì che si era ritirato dalla guerra e solo allora Ettore scelse Aiace come sfidante.
Ettore nella battaglia successiva stava per uccidere l'anziano Nestore; Diomede, suo alleato, cercò allora di convincere Odisseo a unirsi con lui contro il troiano, ma la risposta fu la sua fuga. Il greco da solo partì al soccorso dell'amico che si ritrova appiedato, perse infatti il suo cavallo per via di una freccia. Nestore salì sul carro e i due affrontarono a viso aperto il nemico. Una lancia venne scagliata dall'infallibile Diomede in direzione di Ettore, lui riuscì a schivarla, non altrettanto fece il suo cocchiere, Eniopeo, figlio di Tebeo che morto cadde dal carro. Zeus intervenne per salvare Diomede, che si era distinto per coraggio alzando nebbia nel campo di battaglia. Egli era titubante nell'abbandonare la sfida, perché non voleva che Ettore potesse vantarsi del fatto che egli avesse avuto paura di lui, alla fine convinto da Nestore, si ritirò resistendo a fatica alle offese del nemico, e solo grazie ai tuoni di Zeus.
Un altro avversario, con cui Ettore si ritrovò a combattere più volte, fu il formidabile Teucro, egli a ogni freccia che scagliava un nemico cadeva morto sul campo. Nel primo scontro fra i due, di nuovo i rapidi riflessi di Ettore gli salvarono la vita, la saetta mortale indirizzata verso di lui colpì invece Gorgitione, suo fratellastro. Un'altra freccia scoccò dall'arco e anche questa volta per volere divino il nemico sbagliò mira, uccidendo invece Archeptolemo, il nuovo cocchiere del troiano, sostituito subito da Cebrione, altro fratellastro. Ettore scese dal carro, andando verso il suo nemico che nel frattempo si stava preparando a saettare l'ennesima freccia. L'arco fu teso al massimo, ma prima che potesse scoccare la punta acuminata il figlio di Priamo recise la corda dell'arco e l'arma divenne inutilizzabile. Il troiano, approfittando del momento favorevole, riuscì a ferire Teucro e solo il fratello di lui, Aiace, e l'intervento di altri eroi salvarono l'abile acheo da morte certa.
Ettore elaborò un piano, cercando di reclutare sotto pagamento qualche seguace, rispose all'appello tale Dolone. Subito si diresse verso l'accampamento nemico dove fu vittima di un arguto piano del re di Itaca. Dolone venne fatto prigioniero e ucciso, segnando il fallimento dell'impresa affidatagli da Ettore.
Giorni dopo in un'altra battaglia fra Danai e Troiani, Ettore, grazie al consiglio di Zeus, aspettò che Agamennone desse un segno di stanchezza, e, appena riuscì ad intravedere il re acheo intento ad abbandonare la battaglia, incitò i suoi alleati e avanzò fra i nemici uccidendo molti di essi: Aseo, Autonoo, Opite, Dolope, Ofeltio e Agelao, Esimno, Oro e Ipponoo caddero privi di vita sul campo di battaglia. Diomede intuì che l'obiettivo del nemico era raggiungere le navi ed insieme ad Odisseo oppose resistenza, ma quando Ettore li raggiunse, Diomede provò una paura profonda, che esternò al re di Itaca.
Ettore attaccò Diomede scagliandogli contro la sua lancia ma essa non raggiunse l'obiettivo, come sperato dal principe troiano. Diomede reagì scagliando a sua volta la lancia mirando alla testa e colpendo l'elmo di Ettore che a stento resistette al forte impatto, il troiano barcollò, le tenebre scesero sui suoi occhi, mentre il nemico recuperò armi e terreno. Ettore preoccupatosi della situazione dopo essersi rialzato salì sul carro fuggendo mentre il Tidide lo copriva di insulti. Ettore preferì evitare scontri impegnativi dilettandosi contro soldati di minore fattura. Gli fecero notare la presenza di Aiace che stava sterminando i suoi alleati ma il principe troiano decise di non scontrarsi nuovamente contro di lui, ma di girargli intorno.
Grazie alla figura del difensore di Troia i greci rimasero vicino alle proprie navi in difesa, ma egli voleva attaccarli anche se le condizioni erano sfavorevoli. Ettore incitò gli alleati ad attraversare i pericoli, mentre Polidamante cercò di comprendere il suo piano che sembrava portarli a morte certa; a tal proposito chiese un consiglio di guerra, riunendo tutti i vari capi dell'esercito.
In quella spedizione l'esercito era diviso in gruppi: nel primo al comando di esso oltre ad Ettore vi era suo fratello Cebrione, di solito suo ultimo cocchiere, nel secondo c'è Paride con Alcatoo e Agenore, nel terzo Eleno con Deifobo e Asio, nel quarto Enea con Archeloco e Acamante, uniti per discutere su come sarebbe stato più saggio agire, ma fra tutti l'unico a disubbidire, mancando con la sua presenza al consiglio fu Asio, desideroso di combattere, che iniziò una cruenta battaglia. Tutto l'esercito infine lo seguì, arrivando sino al campo nemico vicino alla spiaggia, dove avevano retto mura e fortificazioni varie. Le truppe di Ettore videro nel corso della battaglia un presagio in alto nel cielo, e pensando che poteva essere portatore di nefaste notizie dubitarono su come agire, e lo stesso Polidamante chiese all'eroe di ritirarsi. Il principe troiano temendo che le parole del suo amico potessero far titubare il cuore dei soldati, ribatté esortando tutti i troiani a combattere anche a costo della loro vita.
Grazie alla furia di Sarpedone, figlio di Zeus, Ettore riuscì a salire per primo sul possente muro, oltrepassato il quale spostò un masso enorme, tanto grande che due uomini robusti non avrebbero mai potuto smuovere, permettendo ai suoi alleati di penetrare nel campo nemico.
Ettore guidò il suo esercito alle navi, affrontando di nuovo il temibile Teucro; l'eroe troiano scagliò la sua lancia sperando di colpirlo, ma la sua arma si conficcò nel petto di Anfimaco, un capitano acheo. Il greco scagliò la sua lancia ma lo scudo del troiano lo difese. Si imbatté in Aiace Telamonio, desideroso di combattere contro di lui. Ettore cercando di colpirlo, scagliò la sua arma che si infranse sull'incrocio delle cinghie. Il nemico scagliò un grosso macigno, contro cui il troiano, per quanto riuscì a difendersi, si ritrovò disteso a terra dolorante. Glauco ed altri lo portarono al sicuro, ma era ferito gravemente. Ettore, grazie anche all'incoraggiamento fornito dal dio Apollo, guidò di nuovo i suoi uomini mentre i nemici al vederlo improvvisamente, come per magia, non avevano più coraggio. Il principe troiano cercò di evitare Aiace, senza riuscirci, nello scontro scagliarono le loro lance ma entrambi furono lesti ed evitarono la morte; persone a loro care ne pagarono le conseguenze. Il nemico chiese aiuto al fratello, Teucro rivolse la sua mira contro il troiano, tese l'arco che si ruppe per volere dello stesso Zeus. Ettore uccise Schedio e quando iniziò a bruciare le navi pose fine alla vita di Perifete, l'ennesimo nemico.
Achille, rimasto neutrale per promessa data in precedenza, scorse da lontano le navi in fiamme, e Patroclo dopo avergli chiesto di poter andare a combattere vestito con le sue armi, partì a capo dei Mirmidoni, l'esercito del Pelide. Grazie a questo trucco, i Danai riuscirono a prendere di nuovo il controllo della riva. Patroclo fu in grado di attaccare ed uccidere il grande Sarpedone e tanti altri nemici. In un lancio d'impeto Aiace riuscì a ferire gravemente Ettore, che fu costretto a ritirarsi momentaneamente dalla battaglia per riprendersi. Il troiano dopo aver ucciso Epigeo, lasciò perdere gli altri avversari concentrandosi su Patroclo, che per difendersi scagliò una pietra contro di lui. Il principe troiano schivò il colpo mortale e fu il suo terzo cocchiere, Cebrione, a farne le spese. Intorno al suo cadavere combattevano i duellanti come due fiere bestie, e lo scudiero cercava di attaccare Ettore alle gambe. Nella battaglia si alzò una nube di polvere che tutto copriva, perdendo di vista Ettore, Patroclo attaccò uccidendo molti altri nemici; ma a un attacco si rivolse senza saperlo contro Apollo, unitosi in precedenza alla battaglia, che si difese con una sola mano. Il colpo all'avversario fu talmente forte da fargli perdere quasi la sanità mentale. Apollo, al colmo dell'ira, colpì Patroclo alla schiena disarmandolo completamente: egli perse l'elmo, lo scudo, la lancia e la corazza. Indifeso e confuso, venne raggiunto da Euforbo che lo colpì con la sua lancia tra le scapole ma non ebbe il coraggio di affrontarlo. Ettore sorprese Patroclo mentre cercava di allontanarsi dalla battaglia e con un colpo di lancia lo trapassò e lo uccise. Patroclo in procinto di morte ebbe il tempo di sminuire la sua sconfitta da parte dell'eroe troiano ("Se anche venti guerrieri come te mi assalivano,/tutti perivano qui vinti dalla mia lancia;/ me uccise il destino fatale e il figliuolo di Latona,/ e tra gli uomini Euforbo: tu m'uccidi per terzo.") e di profetizzare al Ettore la sua morte per mano di Achille.
Glauco era infastidito dal comportamento di Ettore, che sembrava disinteressarsi della sorte dei compagni. A tali accuse l'eroe troiano ribatté, dicendogli che non aveva mai temuto una battaglia, sfidandolo a vedere se in quel giorno si sarebbe comportato da vigliacco o da eroe. Il principe troiano cercò di indossare le armi di Patroclo, le quali in realtà appartenevano ad Achille, ma solo l'intervento divino di Zeus ed Ares permise al troiano di combattere con le armi del nemico. La battaglia si fece confusa, i troiani cercavano di prendere il corpo di Patroclo agli Achei, dove Aiace solido era preposto alla sua difesa, uccidendo chi tentava di recuperarne il corpo. Schivò l'ennesimo attacco di Ettore, mentre sul cadavere del povero morto infuriava la strage. Nel corso dei combattimenti, Ettore uccise Schedio, capitano dei Focesi, figlio di Ifito, ma di fronte al contrattacco acheo retrocesse di poco. Automedonte schivò per poco la morte per mano di Ettore, mentre il principe troiano riuscì a ferire il forte Leito. Menelao trafisse Pode, il giovane cognato di Ettore, suscitando un dolore immenso nel condottiero troiano: questa uccisione valse comunque a renderlo nuovamente agguerrito. Anche Polidamante reagì con rinnovato furore, arrivando a ferire gravemente Peneleo. Stanco delle imprese di Ettore, Idomeneo colpì l'eroe troiano in pieno petto con la lancia, senza riuscire a ferirlo a causa dell'armatura, ma questi rispose scagliandosi addosso la sua asta, che si piantò nella mandibola di Cerano, cocchiere di Merione, che cadde morto nella polvere.
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Achille appena saputa della tragica morte dell'amato Patroclo prima pianse, confortandosi con sua madre, e, infuriato, strinse nuova amicizia con Agamennone; infine si diresse verso il suo nemico senz'armi. Il Pelide grazie all'aiuto di sua madre e del dio Efesto, abile forgiatore di armi e armature, ottenne una nuova armatura portata dalle Nereidi, mentre Omero narra che Teti, non volendo aspettare un solo secondo, portò di persona l'armatura. L'invincibile guerriero espresse il desiderio di voler uccidere oltre l'assassino del suo amante anche altri guerrieri, pratica non documentata nella realtà dell'epoca, ma vista solo nei miti.
Nel frattempo l'eroe troiano era alle prese con i due Aiaci, cercando di recuperare ancora il corpo di Patroclo per più volte, ma ogni volta per timore delle armi nemiche desisteva dall'intento. Quasi vi riuscì spaventando i nemici ma la sera calò, Polidamante suggerì la ritirata, un'idea che disturbava Ettore. L'eroe pensava che il temporeggiare era solo una tattica a favore dei più ricchi greci, infatti Troia era stanca per il continuo assedio e non aveva più sostegni economici per sfamare l'esercito. Il suo nuovo discorso incitò ogni guerriero a combattere ancora, e per quanto il consiglio potesse apparire per certi versi sbagliato, fu trionfalmente acclamato. La battaglia fra i due eroi si stava avvicinando sempre di più e gli dei tutti volevano intervenire: Apollo, fra tutti il più esposto, cercò di coinvolgere Enea, spingendolo a osare il duello con Achille: il Pelide avrebbe facilmente ucciso il suo nemico ma questi fu salvato da Poseidone, che pur essendo divinità protettrice dei Greci apprezzava moltissimo la pietas di Enea. La furia di Achille investì molti eroi vicinissimi al principe troiano, fra cui anche il giovinetto Polidoro, che era suo fratellastro: a quel punto Ettore avanzò, incontrando il suo nemico di sempre.
«Lo so che sei forte, ed io di te molto più debole.
Ma, certo, tutto riposa sulle ginocchia degli dei,
se io, per quanto più debole, abbia a strapparti la vita
con un colpo di lancia, perché anche il mio dardo è aguzzo in punta»
(Commento di Ettore; Omero, Iliade libro XX, versi 434-437, traduzione di Giovanni Cerri)
Il figlio di Priamo scagliò la sua arma, ma Atena, ormai decisa a difendere il Pelide, con una folata di vento la fece tornare indietro. Achille attaccò con la sua asta con furia tremenda, al che nebbia fitta provenne dal campo grazie ad Apollo, e i tre attacchi successivi del figlio di Teti andarono tutti a vuoto, decidendo alla fine di cambiare bersaglio: lo scontro venne rimandato.
Achille si rituffò nei combattimenti, facendo scempio di altri compagni di Ettore e tra le sue vittime vi furono Troo Alastoride, che si era arreso senza neanche tentare la fuga, Deucalione, decapitato di netto con la spada (il midollo schizzò dappertutto e il busto giacque disteso in un lago di sangue), e il giovane e valoroso condottiero trace Rigmo; giunto sulle rive dello Scamandro, uccise un altro figlio di Priamo, Licaone, e il forte Asteropeo dei Peoni della Macedonia, i cui corpi furono gettati nel fiume insieme a quelli di molti altri guerrieri. Egli, quindi, costrinse, con la forza del braccio, i Troiani a rifugiarsi dietro alle solide mura della città, grazie anche ad Apollo, che trasformato in Agenore faceva da esca al nemico. L'unico ad essere rimasto fuori dalle mura, infine, era proprio Ettore. Prima che il nemico lo raggiungesse i genitori del troiano si disperarono, soprattutto Priamo, temendo che il guerriero acheo potesse fare scempio del corpo senza vita del figlio. Ettore aveva il tempo per pensare, voleva riscattare la sua misera figura per aver portato molti compagni alla morte, era cosciente che l'unico modo era sconfiggere un nemico che sapeva essere più forte di lui. I pensieri si rivolsero quindi alla possibile sconfitta, e a un modo per evitarla; muginava quindi di offrirgli quanto avrebbe avuto Menelao dalla vittoria su Paride, ma sapeva che ormai era troppo tardi. Il figlio di Priamo a vedere il suo avversario in preda ad una furia omicida, si diede alla fuga, velocissimo tanto da non farsi raggiungere dall'inseguitore ma non abbastanza da sfuggirgli. Tre giri completi delle possenti mura fecero i duellanti: ad Ettore fu preclusa la via dell'entrata, ma al contempo gli venne risparmiato il nugolo di frecce che i Greci erano pronti a scoccare, perché rimaneva una preda di Achille.
Atena scese dall'Olimpo con il permesso di suo padre, raggiunse Achille, lo tranquillizzò, poi assunse le sembianze di Deifobo, uno dei fratelli più cari a Ettore. La dea raggiunse il troiano che si lasciò ingannare dal falso aspetto, decise quindi di andare a scontrarsi con il nemico a viso aperto. Il figlio di Priamo cercò di trovare un accordo sulla sepoltura dello sconfitto, ma il pelide rispose che i leoni non trattavano con gli agnelli. Il primo attacco lo rivolse l'acheo, la sua lancia grazie all'agilità del troiano mancò il bersaglio. Il pastore di genti sferrò il suo attacco e il Pelide si difese con lo scudo, nel frattempo, non vista, Atena raccoglieva la lancia di Achille riconsegnandola al guerriero acheo. Ettore chiamò Deifobo che non accorse, comprese l'inganno ma comunque estrasse la spada iniziando l'ultimo scontro fra i due. Il greco con la sua asta osservò con attenzione il corpo del nemico, l'armatura che indossava la conosceva bene perché era la sua. Achille dopo aver trovato il punto scoperto del nemico, situato vicino al collo, lesto colpì con tutta la sua forza, vendicando la morte dell'amico Patroclo. Il troiano, in punto di morte, ancora pregava il nemico di lasciare le sue spoglie ai parenti ma l'acheo non promise. Secondo una versione minore Ettore non trovò la morte contro Achille, ma la sua fine giunse per mano di Pentesilea, regina del popolo delle amazzoni, che per la maggior parte degli autori è invece alleata dei Troiani.
Appena Ettore morì, tutti i nemici si avvicinarono, rimanendo colpiti dal suo aspetto imponente e minaccioso che manteneva anche da morto. A turno ognuno di loro lo colpì senza ritegno. Achille non mostrò pietà o rispetto per il corpo del rivale, forò i tendini e lo legò con la sua cintura, regalo di Aiace, al carro. Salì su di esso, scoccò la frusta sui suoi cavalli, trascinando Ettore per tutto il campo. I genitori del morto guardavano lo spettacolo e gridavano, mentre la moglie fu raggiunta dalla terribile notizia mentre attendeva fiduciosa il marito nella sua casa. In seguito il figlio di Teti non si ritenne soddisfatto, meditava infatti ancora su quali oltraggi potesse fare al corpo del troiano per onorare Patroclo. Decise di nuovo di effettuare dei giri con il carro attorno alla tomba dell'amico, rispettando un rituale, usanza tipica del suo popolo, anche se la sorte era la stessa di quella riservata ai re sacri dell'epoca. Apollo stesso chiese al padre, sommo Zeus, che il cadavere di Ettore venisse restituito al suo popolo, poiché un morto non poteva pregare e accanirsi sui defunti era ritenuta oltraggio agli dei. Priamo, grazie all'aiuto di Ermes, il messaggero degli dei, riuscì ad arrivare all'accampamento nemico e a parlare con Achille. Pianse, gli baciò le ginocchia e lo supplicò, alla fine ottenne il corpo come voleva, anche se altri autori invece raccontano che Priamo offrì doni molto preziosi per convincere Achille a cambiare idea, e che le parole da sole non bastarono. Il corpo rimase nascosto agli occhi del padre perché, se l'avesse visto in quelle condizioni, avrebbe potuto attaccare Achille e rimanere ucciso.
Furono successivamente indette delle gare: era infatti usanza tipica dell'epoca il festeggiare con dei giochi la morte di personaggi illustri. Nel caso di Ettore i festeggiamenti durarono nove giorni, durante i quali ci furono frastuoni orrendi al punto da far cadere dal cielo qualunque uccello volasse. Il corteo funebre fu aperto da Andromaca, Ecuba ed Elena. Il corpo, secondo una delle tante versioni, fu seppellito per ordine di Apollo in una città greca tenuta nascosta. Ecuba dapprima cercò lo scudo del figlio, per recuperare la memoria di Ettore insieme alla sua immagine, grazie al sudore ivi impresso. In realtà, il sudore sullo scudo non viene mai menzionato da Omero in riferimento ad Ettore, ma solo ad Aiace durante il combattimento sostenuto fra i due. Secondo una versione, quando Ecuba venne catturata dagli Achei divorò le ceneri di suo figlio, che aveva nascosto in seno, per vietare possibili nuovi oltraggi Sulla tomba dell'eroe vennero trovati lacrime e pochi capelli bianchi, in seguito si diffuse nella gente del luogo una sorta di leggenda: si voleva infatti che il fantasma di Andromaca facesse sovente visita alla tomba del marito. Ettore fu il guerriero troiano che più di chiunque altro si distinse in guerra, arrivando ad uccidere 32 eroi fra gli 88 totali uccisi dall'esercito di Troia. Meglio di lui fecero Achille ed Enea che, insieme, riuscirono l'uno, il figlio di Teti, ad uccidere 84 nemici, l'altro, il figlio di Venere o Afrodite, ad annientare in tutto 69 eroi tra achei nella guerra di Troia, e italici nella guerra del Lazio, come detto nell'Eneide. Un ultimo eroe che uccise tantissimi Troiani nell'Eneide fu Turno, il re dei Rutuli e figlio di Dauno, eroe italico, e della ninfa Venilia, anch'egli semidio, che fece un eccidio dei compagni di Enea arrivando ad uccidere da solo ben 48 nemici.
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Eugenio Caruso - 23 - 08 - 2021
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