Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.
Cherubini - Raffaello
RIASSUNTO DEL CANTO XII
Il Canto è dedicato quasi interamente alla figura di san Domenico, di cui il francescano Bonaventura tesse l'elogio in modo speculare a quanto fatto da san Tommaso nel Canto precedente con san Francesco, per cui i Canti XI-XII formano una sorta di «chiasmo» (Bonaventura farà seguire al panegirico di Domenico la rampogna contro i francescani degeneri, così come Tommaso aveva criticato la corruzione dei domenicani). L'episodio si apre con l'apparizione di una seconda corona di spiriti sapienti, cui appartiene il protagonista del Canto san Bonaventura, che circonda la prima e accorda la propria danza e il proprio canto con essa, in modo così melodioso da risultare impossibile descriverlo a parole: Dante ricorre alla preziosa similitudine dei due archi paralelli e concolori, due arcobaleni concentrici che sono l'uno il riflesso dell'altro e che rimandano a un duplice riferimento mitologico (l'ancella di Giunone, Iride, che scende dall'Olimpo sulla Terra e forma l'arcobaleno e la ninfa Eco), nonché al racconto biblico del Diluvio Universale, dopo il quale Dio, per garantire a Noè che quell'evento non si sarebbe ripetuto, fece appunto apparire un arcobaleno. Entrambi gli esempi evocano una sorta di legame tra Cielo e Terra, mentre quello biblico sottolinea il nuovo patto sancito tra Dio e l'uomo dopo il peccato punito, oltre a innalzare notevolmente il linguaggio con una serie di riferimenti colti che introducono l'importante discorso che occuperà buona parte del Canto (lo stesso avverrà all'inizio di quello seguente, in cui la doppia corona verrà paragonata alle costellazioni più luminose della volta celeste).
Viene poi introdotto il personaggio di Bonaventura, che senza presentarsi subito, quindi in maniera opposta a quanto fatto nel Canto X da Tommaso d'Aquino, si dice intenzionato a rispondere alla cortesia del domenicano che ha parlato così bene del fondatore del suo Ordine, per cui egli farà lo stesso col fondatore di quello domenicano: il motivo è analogo a quello già detto da Tommaso, ovvero il fatto che entrambi i santi ad una militaro (combatterono insieme, per lo stesso fine) e dunque è giusto che la loro gloria risplenda insieme, essendo entrambi stati creati da Dio come campioni della Chiesa sulla Terra. In effetti la metafora militare è largamente usata da Bonaventura nel panegirico di san Domenico, a cominciare dal termine militaro che allude alle battaglie da lui svolte per combattere le eresie, per poi indicare la Chiesa come essercito di Cristo che fu «riarmato» a caro prezzo (si allude alla morte di Cristo sulla croce che riconciliò Dio e l'uomo e diede all'umanità le armi per difendersi dal demonio), nonostante ora si muova esitante dietro le insegne del Cristianesimo. Dio stesso è definito 'mperador, temine carico di significati militari e guerreschi nel linguaggio classico, mentre Domenico e Francesco sono appunto i due campioni della Chiesa, il cui scopo era quello di raccogliere l'esercito cristiano ormai sbandato e riorganizzarlo, immagine che in realtà si adatta bene solo al santo spagnolo che fu, come è noto, particolarmente impegnato nella lotta ai movimenti ereticali (non a caso Domenico è detto amoroso drudo, «vassallo» di Dio, e santo atleta, santo combattente e difensore della Fede, mentre lo stesso Bonaventura nella Legenda maior aveva definito Francesco novus Christi... athleta). La biografia di Domenico si apre con la presentazione dei luoghi in cui egli nacque, che vuole essere parallela rispetto a XI, 43-54, anche se lì Dante si mostrava profondo conoscitore della geografia di Assisi e del territorio circostante, mentre qui la descrizione è più generica: la città castigliana di Calaroga viene indicata con il riferimento all'estremità occidentale dell'Europa, dove in primavera spira il vento zefiro e l'Oceano percuote le coste spagnole, mentre la Castiglia è evocata dal suo stemma in cui soggiace il leone e soggioga (è stato osservato che, mentre Francesco era paragonato a un Sole nascente e la città di Assisi era detta appunto Oriente, Domenico nasce invece nell'Occidente del mondo cristiano, per cui sembra che i due santi provengano da punti opposti per convergere entrambi al cuore della Cristianità). Segue poi la vita del santo in cui Dante si rifà agli elementi leggendari e aneddotici diffusi nella agiografia del tempo, quindi citando il sogno profetico fatto dalla madre prima della nascita e quello della madrina dopo il battesimo, in occasione del quale vennero celebrate delle mistiche nozze tra Domenico e la Fede, in maniera parallela a quanto detto per Francesco e la Povertà. Il nome del santo è messo in relazione col possessivo di Dominus, quindi indicherebbe l'appartenenza e la totale devozione di Domenico a Dio, mentre lo stesso viene fatto per il nome del padre, Felice, e della madre, Giovanna, che nei lessici medievali veniva interpretato come «Grazia di Dio»; Domenico dimostra la sua dedizione alla Fede e a Dio fin da piccolo, quando viene spesso trovato dalla nutrice sveglio e per terra, a indicare il suo destino di umiltà e l'attaccamento alla povertà. Domenico si dedica poi allo studio della teologia, non per arricchirsi come poi faranno i domenicani degeneri attraverso l'interpretazione sottile del diritto canonico, ma per volontà di servire la Chiesa e difenderla dai suoi nemici: Dante sottolinea che il santo chiederà al papa la licenza di combattere contro le eresie, quindi l'approvazione del proprio Ordine, e non la possibilità di arricchirsi grazie a sofisticati cavilli legali (il poeta usa i termini propri del linguaggio canonico, mentre Ostiense e Taddeo citati prima sono due famosi canonisti, autori di quei volumi che, secondo Folchetto di Marsiglia, avevano i margini più sgualciti rispetto al Vangelo e ai libri di dottrina; cfr. IX, 133-135). Evidente è allora il parallelo tra Domenico e Francesco, entrambi lontani dalle lusinghe dei beni terreni e tutti votati alla loro missione religiosa, con la differenza che Francesco abbraccerà un ideale di povertà evangelica, mentre Domenico con dottrina e con volere si batterà per estirpare la mala pianta dell'eresia, soprattutto quella albigese in Provenza, lasciando dietro di sé un'eredità che almeno all'inizio sarà raccolta dai suoi confratelli, impegnati a proseguire l'opera del fondatore per curare l'orto di Cristo (lo stesso Domenico era stato definito agricola, «contadino» voluto da Cristo per custodire la sua vigna, mentre va ricordato che entrambi gli Ordini, francescano e domenicano, erano nati come «mendicanti»).
Il panegirico di Domenico è poi seguito dal biasimo dei francescani degeneri, accusati da Bonaventura di aver tradito la Regola del fondatore e di volerla inasprire (è la critica rivolta agli «spirituali», guidati da Ubertino da Casale) oppure di volerla attenuare (come proposto dai «conventuali», il cui capo era Matteo d'Acquasparta). Entrambe le correnti nate nel francescanesimo vengono condannate da Dante, che mette in bocca a Bonaventura la complessa e sofisticata metafora della ruota del carro della Chiesa rappresentata da Francesco, il cui solco sul terreno è stato abbandonato e presenta la muffa al posto della gromma, ovvero il tartaro che si forma all'interno delle botti e che ammuffisce se non viene curato; il poeta prende quindi le distanze sia dagli spirituali sia dai conventuali, ed è quindi assai improbabile che l'ulteriore metafora del loglio separato dal grano (cioè i francescani buoni che saranno distinti dai cattivi) si riferisca alla bolla di Giovanni XXII che espelleva dall'Ordine gli spirituali dissidenti. Alla fine del suo discorso Bonaventura presenta infine se stesso e gli altri spiriti sapienti della sua corona, tra cui spicca soprattutto l'abate Gioacchino, quel Gioacchino da Fiore che fondò l'Ordine florense e fu autore delle cosiddette profezie gioachimite, in cui preannunciava una prossima palingenesi della Cristianità: le sue idee si diffusero ampiamente tra i franscescani spirituali e furono aspramente combattute proprio da Bonaventura, che ora invece è posto accanto a Gioacchino in perfetta concordia, in modo dunque parallelo a quanto si è visto per san Tommaso e Sigieri di Brabante nel canto nel Canto X. Il parallelismo è evidente anche nella rassegna dei beati che formano le due corone, che nel caso di Tommaso precede e nel caso di Bonaventura segue il panegirico e il biasimo che sono al centro dei Canti XI-XII, per cui si può veramente parlare di struttura «chiastica»; nei due episodi l'accenno a Gioacchino da Fiore conferma ulterioremente, poi, che in Paradiso i contrasti terreni sono ormai superati, come si è visto nell'episodio di Piccarda Donati che nessun risentimento nutriva per chi l'aveva rapita dal chiostro, e forse in quello di Giustiniano che faceva ammenda dei suoi errori verso il generale Belisario, attraverso l'elogio di Romeo di Villanova.
Mantegna: San Benedetto
Note
- Al v. 3 la santa mola è la prima corona, detta così perché ruota orizzontalmente come la macina di un mulino.
- Il v. 9 allude al raggio riflesso (quel ch'e' refuse) che è più luminoso di quello diretto (il primo splendor).
- Al v. 10 paralelli al posto di «paralleli» è la forma consueta nel volgare toscano del Trecento, ampiamente attestata da quasi tutti i codici della Commedia.
Il v. 12 accenna al noto mito di Iride, l'ancella di Giunone che, quando scendeva sulla Terra per recare un messaggio della dea, tracciava l'arcobaleno (Iunone e iube, «ordina», sono due latinismi).
- I vv. 14-15 alludono al mito della ninfa Eco, che, innamorata di Narciso e non corrisposta, fu consumata dall'amore fino a ridursi alla sola voce che ripeteva gli altri suoni (Ovidio, Met., III, 339 ss.).
- Al v. 24 blande vuol dire «piene di carità».
- I vv. 26-27 indicano semplicemente che le due corone si fermano simultaneamente, come gli occhi si aprono e si chiudono insieme.
- I vv. 29-30 alludono alla bussola, da poco introdotta in Occidente nel XIV sec., il cui ago si credeva attratto dalla Stella Polare.
- Al v. 33 per cui vuol dire «a causa del quale», riferito a Francesco.
- Il vb. si raccorse (v. 45) vuol dire probabilmente «si ravvide», ma alcuni interpretano «si raccolse».
- Il grande scudo del v. 53 è lo stemma del re di Castiglia, in cui vi sono quattro quartieri: in quelli di sinistra il leone sta sotto la torre, in quelli di destra sta sopra.
- Al v. 55 drudo non vuol dire «amante», ma «vassallo» ed è termine militare; al v. 56 atleta vuol dire invece «difensore».
- Il v. 60 allude al sogno profetico che Giovanna, la madre di Domenico, avrebbe fatto prima della sua nascita: la donna sognò di partorire un cane bianco e nero (i colori dell'Ordine domenicano) con in bocca una fiaccola, che poi incendiava il mondo. La leggenda ha punti di contatto con la nascita di Ezzelino da Romano (cfr. IX, 28-30) e con quella di Paride, anche se qui il sogno ha significato positivo.
- I vv. 64-66 si riferiscono al sogno fatto dalla madrina di battesimo del santo (la donna che per lui l'assenso diede), in cui vide il bambino con una stella in fronte, simbolo della sua missione religiosa. Alcune biografie riferiscono tale sogno alla madre del santo.
- Ai vv. 71, 73 e 75 la parola Cristo rima con se stessa, come sempre avviene nella Commedia (alcuni critici pensano che Dante faccia ammenda della rima Cristo / tristo / malacquisto di Rime, XXVIII, 9-14 (la Tenzone con Forese Donati).
- Il primo consiglio dato da Cristo (v. 75) potrebbe essere quello all'umilità della prima beatitudine, oppure quello alla povertà dato al giovane ricco (Matth., XIX, 21); sembra più verosimile la seconda ipotesi, visto che Domenico bambino viene trovato in terra dalla nutrice.
Al v. 83 Ostiense e... Taddeo sono Enrico da Susa, nominato nel 1262 vescovo di Ostia (da cui il soprannome) e prob. il fiorentino Taddeo d'Alderotto, entrambi autori di apprezzati volumi di diritto canonico.
- L'immagine della vigna (vv. 86-87) che imbianca, si secca se non è curata dal vignaiolo, è evangelica (Matth., XX, 1-16); il vb. circuir è prob. un latinismo puro e significa «custodire».
- La sedia del v. 88 è il soglio del papa, di cui si dice che un tempo fu più pronto a dispensare le ricchezze ai poveri. Nei vv. seguenti Dante si rifà al linguaggio canonico, alludendo all'usanza di dare solo un terzo o la metà di quanto si doveva ai poveri (v. 91), di occupare il primo beneficio ecclesiastico libero (v. 92), di impadronirsi delle decime (v. 93).
- Il seme (v. 95) è la Fede, mentre le ventiquattro piante sono i beati delle due corone.
- I vv. 112-114 vogliono dire che il solco un tempo tracciato da una ruota del carro della Chiesa (l'Ordine francescano) ora è abbandonata, perché i francescani degeneri seguono un'altra via. La gromma è lo strato di tartaro che il vino buono forma sulle pareti interne delle botti e che diventa muffa se la botte non è curata (immagine affine a quella del buon vignaiolo, vv. 86-87).
- I vv. 115-117 sono di difficile interpretazione, anche se il senso è chiaro: i francescani non seguono pù la strada tracciata dal loro fondatore (prob. il significato è che essi camminano a ritroso, spingendo il piede davanti verso quello dietro).
- I vv. 118-120 alludono alla parabola evangelica della zizzania (Matth., XIII, 24-30), per cui Dante vuol dire che presto si distingueranno i francescani degeneri da quelli fedeli alla Regola. Improbabile che il poeta si riferisca alla bolla di condanna di papa Giovanni XXII, sia per il disprezzo manifestato altrove per quel pontefice, sia perché egli condanna anche gli spirituali.
- Il v. 124 allude a Ubertino da Casale (1259-inizio XIV sec.), che parteggiò per gli spirituali e fu ad Avignone sotto la protezione dei cardinali Orsini e Colonna; dopo la bolla di Giovanni XXII fu condannato per eresia e fece perdere le proprie tracce. Matteo d'Acquasparta (morto nel 1302) fu invece a capo dei conventuali; generale dell'Ordine francescano e cardinale, aiutò le mire teocratiche di Bonifacio VIII e fu a Firenze come paciere tra Bianchi e Neri.
- Il vb. inveggiar del v. 142 è di significato dubbio e potrebbe voler dire «emulare», oppure «inneggiare», oppure ancora «chiamare in campo» (in riferimento a Domenico, definito «campione» della Chiesa). Il paladino è ovviamente il santo spagnolo.
- Al v. 144 latino vuol dire «discorso».
TESTO DEL CANTO XII
Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola; 3
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse; 6
canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch’e’ refuse. 9
Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube, 12
nascendo di quel d’entro quel di fori,
a guisa del parlar di quella vaga
ch’amor consunse come sol vapori; 15
e fanno qui la gente esser presaga,
per lo patto che Dio con Noè puose,
del mondo che già mai più non s’allaga: 18
così di quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
e sì l’estrema a l’intima rispuose. 21
Poi che ‘l tripudio e l’altra festa grande,
sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
luce con luce gaudiose e blande, 24
insieme a punto e a voler quetarsi,
pur come li occhi ch’al piacer che i move
conviene insieme chiudere e levarsi; 27
del cor de l’una de le luci nove
si mosse voce, che l’ago a la stella
parer mi fece in volgermi al suo dove; 30
e cominciò: «L’amor che mi fa bella
mi tragge a ragionar de l’altro duca
per cui del mio sì ben ci si favella. 33
Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca:
sì che, com’elli ad una militaro,
così la gloria loro insieme luca. 36
L’essercito di Cristo, che sì caro
costò a riarmar, dietro a la ‘nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro, 39
quando lo ‘mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch’era in forse,
per sola grazia, non per esser degna; 42
e, come è detto, a sua sposa soccorse
con due campioni, al cui fare, al cui dire
lo popol disviato si raccorse. 45
In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire, 48
non molto lungi al percuoter de l’onde
dietro a le quali, per la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde, 51
siede la fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
in che soggiace il leone e soggioga: 54
dentro vi nacque l’amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a’ suoi e a’ nemici crudo; 57
e come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute,
che, ne la madre, lei fece profeta. 60
Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutua salute, 63
la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede; 66
e perché fosse qual era in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto. 69
Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de l’agricola che Cristo
elesse a l’orto suo per aiutarlo. 72
Ben parve messo e famigliar di Cristo:
che ‘l primo amor che ‘n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo. 75
Spesse fiate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: ‘Io son venuto a questo’. 78
Oh padre suo veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice! 81
Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
di retro ad Ostiense e a Taddeo,
ma per amor de la verace manna 84
in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circuir la vigna
che tosto imbianca, se ‘l vignaio è reo. 87
E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna, 90
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei, 93
addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante. 96
Poi, con dottrina e con volere insieme,
con l’officio appostolico si mosse
quasi torrente ch’alta vena preme; 99
e ne li sterpi eretici percosse
l’impeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse. 102
Di lui si fecer poi diversi rivi
onde l’orto catolico si riga,
sì che i suoi arbuscelli stan più vivi. 105
Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga, 108
ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese. 111
Ma l’orbita che fé la parte somma
di sua circunferenza, è derelitta,
sì ch’è la muffa dov’era la gromma. 114
La sua famiglia, che si mosse dritta
coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
che quel dinanzi a quel di retro gitta; 117
e tosto si vedrà de la ricolta
de la mala coltura, quando il loglio
si lagnerà che l’arca li sia tolta. 120
Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
nostro volume, ancor troveria carta
u’ leggerebbe "I’ mi son quel ch’i’ soglio"; 123
ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge e altro la coarta. 126
Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio, che ne’ grandi offici
sempre pospuosi la sinistra cura. 129
Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de’ primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici. 132
Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli; 135
Natàn profeta e ‘l metropolitano
Crisostomo e Anselmo e quel Donato
ch’a la prim’arte degnò porre mano. 138
Rabano è qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino,
di spirito profetico dotato. 141
Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ‘l discreto latino;
e mosse meco questa compagnia». 145
Benedetto incontra Totila. Di Spinello Aretino
PASRAFRASI CANTO XII
Non appena la luce benedetta (san Tommaso) pronunciò l'ultima parola, la prima corona cominciò a ruotare orizzontalmente;
e non compì un giro completo, prima che una seconda corona la circondasse, accordando il proprio movimento e il proprio canto a quello dell'altra;
un canto che vince le nostre Muse e le nostre Sirene (i canti terreni) in quei dolci strumenti musicali, tanto quanto il raggio diretto supera in splendore quello riflesso.
Come due arcobaleni concentrici e con gli stessi colori si inarcano in una nube sottile (quando Giunone invia la sua ancella Iride sulla Terra), poiché quello esterno è il riflesso di quello interno, proprio come il suono della ninfa Eco che fu consumata dall'amore come un vapore lo è dal sole;
e come gli arcobaleni rassicurano gli uomini del fatto che non ci sarà un secondo Diluvio, per il patto stretto fra Dio e Noè:
così le due corone di quelle luci eterne ruotavano intorno a noi, e quella esterna era in perfetta armonia con quella interna.
Dopo che la gioia e la gran festa del canto e dello sfolgorio luminoso, fatto reciprocamente da quelle luci piene di felicità e di carità, si fermarono nello stesso istante e per una volontà concorde, proprio come gli occhi che, obbedendo al piacere, si aprono e si chiudono simultaneamente;
dall'interno di una delle nuove luci provenne una voce, che mi indusse a volgermi verso di essa come l'ago della bussola verso la Stella Polare;
e il beato (san Bonaventura) iniziò: «La carità che mi abbellisce mi spinge a parlare dell'altro condottiero cristiano (san Domenico), per il quale qui si parla così bene del mio (san Francesco).
È giusto che si parli di uno, se si parla anche dell'altro: cosicché, poiché combatterono insieme, anche la loro gloria risplenda all'unisono.
L'esercito di Cristo (la Chiesa), che fu riarmato a così caro prezzo (con la morte di Gesù), si muoveva dietro le insegne lento, con esitazione e scarso di numero, quando l'imperatore che regna in eterno (Dio) provvide alla milizia che era in pericolo, non perché ne fosse degna ma per sua grazia;
e, come già detto da Tommaso, soccorse la sua sposa (la Chiesa) con due campioni (Domenico e Francesco), le cui azioni e parole indussero il popolo sbandato a ravvedersi.
In quella parte d'Europa dove arriva il vento zefiro a far nascere le nuove fronde che poi rinverdiscono il continente (a Occidente), non molto lontano dalle coste bagnate dall'Oceano, dietro alle quali il sole talvolta (nel solstizio d'estate) tramonta dopo un lungo percorso, sorge la fortunata città di Calaruega, sotto la protezione dello stemma di Castiglia in cui il leone sta sotto e sopra la torre:
lì nacque l'amoroso vassallo della Fede cristiana, il santo difensore della Chiesa, benevolo con i suoi e crudele con i nemici;
e non appena la sua mente fu creata, fu subito ripiena di viva virtù, il che indusse la madre a fare un sogno profetico prima che lui nascesse.
Dopo che furono celebrate le nozze al fonte battesimale tra lui e la Fede, là dove si donarono la reciproca salvezza, la donna che gli fece da madrina vide in sogno il frutto meraviglioso che doveva essere prodotto da lui e dai suoi eredi;
e perché il suo nome corrispondesse alla sua indole, da qui (dal Cielo) si mosse un'ispirazione a chiamarlo col possessivo (Domenico, "del Signore") al quale apparteneva totalmente.
Fu appunto battezzato Domenico; e io parlo di lui come del contadino che Cristo scelse come aiutante nel suo orto.
Sembrò proprio un inviato e un servo di Cristo: infatti il primo amore che si vide in lui fu rivolto al primo consiglio dato da Cristo (la povertà o l'umiltà).
Molte volte la sua nutrice lo trovò sveglio e per terra, come se dicesse: 'Io sono nato per questo'.
Oh, quanto era davvero Felice il padre! Oh, quanto davvero la madre era Giovanna, se l'interpretazione del suo nome (Grazia di Dio) è corretta!
In breve tempo diventò un grande esperto di teologia, non per i beni terreni, per cui ci si affanna dietro i manuali di diritto canonico dell'Ostiense e di Taddeo, ma per amore della sapienza divina; a tal punto che iniziò subito a custodire la vigna di Cristo (la Chiesa), che diventa presto secca se il vignaiolo trascura il suo dovere.
E al soglio pontificio, che un tempo era più benevolo verso i poveri giusti, non per errore suo ma per quello del papa, che devia dalla giusta strada, chiese non di dare un terzo o la metà dei beni ai poveri, non di occupare il primo beneficio ecclesiastico vacante, non le decime, che sono dei poveri di Dio, ma il permesso di combattere le eresie in nome di quel seme (la Fede) dal quale sono nate le ventiquattro piante (le anime delle due corone) che ora ti circondano.
Poi, con la dottrina e con la volontà, ottenuto l'avallo papale, si mosse come un torrente che sgorga da un'alta sorgente;
e la sua forza vigorosa colpì gli sterpi eretici, con maggior forza là (in Provenza) dove vi era maggiore resistenza (l'eresia albigese).
Da lui nacquero in seguito altri ruscelli che irrigano l'orto della Chiesa, così che le sue piante (i cristiani) sono ravvivate.
Se una ruota del carro con cui la Santa Chiesa si difese e vinse la sua battaglia interna contro le eresie fu tale, dovresti capire facilmente l'eccellenza dell'altra (san Francesco), di cui Tommaso parlò così cortesemente prima del mio arrivo.
Ma il solco tracciato dalla parte superiore della ruota è ormai abbandonato, tanto che c'è muffa dove prima c'era gromma (c'è il male al posto del bene).
I suoi seguaci, che prima seguivano dirittamente coi piedi le orme di Francesco, ora sono tanto deviati che camminano a ritroso;
e presto ci si accorgerà del raccolto di questa cattiva coltura, quando il loglio (i francescani degeneri) si lagnerà di non essere messo nel granaio (coi francescani fedeli).
Affermo comunque che, se qualcuno sfogliasse foglio per foglio tutto il nostro volume, troverebbe ancora delle pagine in cui si legge "Io sono quello che devo essere";
ma non sarà il caso di Ubertino da Casale né di Matteo d'Acquasparta, da dove provengono frati tali che uno fugge dalla Regola francescana, l'altro la irrigidisce.
Io sono l'anima di Bonaventura da Bagnoregio, che nelle alte cariche che ho ricoperto ho sempre messo in secondo piano la cura per i beni mondani.
Qui (nella seconda corona) ci sono Illuminato da Rieti e Agostino da Assisi, che furono tra i primi seguaci di Francesco che andarono scalzi in povertà, facendosi amici di Dio nel cinto francescano.
Ugo da San Vittore è qui con loro, e Pietro Mangiadore e Pietro da Lisbona, il quale risplende in Terra nei dodici libretti che ha scritto;
ci sono il profeta Natan e il metropolita Giovanni Crisostomo, Anselmo d'Aosta e quell'Elio Donato che scrisse un trattato di grammatica (la prima arte).
C'è qui Rabano Mauro, e colui che risplende al mio fianco è l'abate calabrese Gioacchino da Fiore, dotato di capacità profetiche.
Mi spinse a lodare un tale paladino della Chiesa (san Domenico) l'ardente cortesia di san Tommaso, e il suo elegante discorso; ed egli spinse me e queste altre anime a venir qui».
Il miracolo di Benedetto, Di Spinello Aretino
SAN BENEDETTO
San Benedetto da Norcia (Norcia, 480 circa – Montecassino, 21 marzo 547) è stato il fondatore dell'Ordine di San Benedetto. Viene venerato da tutte le Chiese cristiane che riconoscono il culto dei santi.
San Benedetto, fratello di santa Scolastica, nacque verso il 480 nella città umbra di Norcia. Il padre Eutropio, figlio di Giustiniano Probo della gens Anicia, era Console e Capitano Generale dei Romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Abbondanza Claudia de' Reguardati di Norcia. Quando ella morì, secondo la tradizione, i due fratelli furono affidati alla nutrice Cirilla. Alla gens appartenevano anche san Gregorio Magno e Severino Boezio. A 12 anni fu mandato con la sorella a Roma a compiere i suoi studi, ma, come racconta Gregorio Magno nel secondo libro dei Dialoghi[2], sconvolto dalla vita dissoluta della città «ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell'immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e volle far parte della vita monastica».
All'età di 17 anni, insieme con la sua nutrice Cirilla, si ritirò nella valle dell'Aniene presso Eufide (l'attuale Affile), dove, secondo la leggenda devozionale, avrebbe compiuto il primo miracolo, riparando un vaglio rotto dalla stessa nutrice. Lasciò poi la nutrice e si avviò verso la valle di Subiaco, presso gli antichi resti di una villa neroniana, nella quale le acque del fiume Aniene alimentavano tre laghi (la città sorgeva appunto sotto - "sub" - questi laghi). A Subiaco incontrò Romano, monaco di un vicino monastero retto da un abate di nome Adeodato, che, vestitolo degli abiti monastici, gli indicò una grotta impervia del Monte Taleo (attualmente contenuta all'interno del Monastero del Sacro Speco), dove Benedetto visse da eremita per circa tre anni, fino alla Pasqua dell'anno 500. Conclusa l'esperienza eremitica, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo che alcuni monaci tentarono di ucciderlo con una coppa di vino avvelenato, tornò a Subiaco.
Qui rimase per quasi trent'anni, predicando la "Parola del Signore" e accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una vasta comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci e un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale. Negli anni tra il 525 ed il 529, a seguito di un altro tentativo di avvelenamento con un pane avvelenato, Benedetto decise di abbandonare Subiaco per salvare i propri monaci. Si diresse quindi verso Cassino dove, sopra un'altura, fondò il monastero di Montecassino, edificato sopra i resti di templi pagani e con oratori in onore di san Giovanni Battista (da sempre ritenuto un modello di pratica ascetica) e di san Martino di Tours, che era stato iniziatore in Gallia della vita monastica
Prologo della Regula
Nel monte di Montecassino, Benedetto compose la sua Regola verso il 540. Prendendo spunto da regole precedenti, in particolare quelle di san Giovanni Cassiano e san Basilio, ma anche san Pacomio, san Cesario, e l'Anonimo della Regula Magistri con il quale ebbe stretti rapporti proprio nel periodo della stesura della regola benedettina, egli combinò l'insistenza sulla buona disciplina con il rispetto per la personalità umana e le capacità individuali, nell'intenzione di fondare una «scuola del servizio del Signore, in cui speriamo di non ordinare nulla di duro e di rigoroso». Giova notare che la REGOLA di San benedetto è analizzata nei corsi avanzati di management.
La regola, nella quale si organizza nei minimi particolari la vita dei monaci all'interno di una "corale" celebrazione dell'uffizio, diede nuova e autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente. I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci (l'obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero contro il vagabondaggio allora piuttosto diffuso di monaci più o meno "sospetti") e la conversatio, cioè la buona condotta morale, la pietà reciproca e l'obbedienza all'abate, il "padre amoroso" (il nome deriva proprio dal siriaco abba, "padre") mai chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora ("prega e lavora").
I monasteri che seguono la regola di san Benedetto sono detti benedettini. Anche se ogni monastero è autonomo sotto l'autorità di un abate, si organizzano normalmente in confederazioni monastiche, delle quali le più importanti sono la congregazione cassinense e la congregazione sublacense, originatesi rispettivamente attorno all'autorità dei monasteri benedettini di Montecassino e di Subiaco.
A Montecassino, Benedetto visse fino alla morte, ricevendo l'omaggio dei fedeli in pellegrinaggio e di alcune personalità come Totila re degli Ostrogoti, che il monaco ammonì, e l'abate Servando.
Benedetto morì il 21 marzo 547 dopo 6 giorni di febbre fortissima e quaranta giorni circa dopo la scomparsa di sua sorella Scolastica, con la quale ebbe comune sepoltura. Secondo la leggenda devozionale spirò in piedi, sostenuto dai suoi discepoli, dopo aver ricevuto la comunione e con le braccia sollevate in preghiera, mentre li benediceva e li incoraggiava.
Tra i numerosi miracoli che avrebbe compiuto san Benedetto durante la sua vita terrena, ricordati nei Dialoghi scritti da papa san Gregorio Magno, sono annoverati anche alcuni miracoli di risurrezione.
Le diverse comunità benedettine nonché il calendario della messa tridentina del rito romano ricordano il dies natalis del santo il 21 marzo, mentre il nuovo calendario del 1969 ne celebra ufficialmente la festa l'11 luglio (in realtà tradizionale data del suo Patrocinio), da quando Papa Paolo VI con il breve Pacis nuntius ha proclamato san Benedetto da Norcia patrono d'Europa il 24 ottobre 1964 in onore della consacrazione della Basilica di Montecassino.[5] La Chiesa ortodossa celebra la sua ricorrenza il 14 marzo.
Da quando le reliquie erano considerate quasi indispensabili alla comune devozione nel Medioevo, e specialmente ai monaci, era naturale che fossero cercate e "trovate" dappertutto.
Si possono ricollegare altre reliquie a questo gruppo di resti scheletrici, prelevate in diversi tempi da questo insieme. Ad esempio: un frammento di costola (Benedettine del Calvario di Orléans), un altro frammento di costola (Benedettine del Santo-Sacramento di Parigi), l'estremità superiore del radio sinistro (Grande seminario di Orléans), la parte inferiore del radio destro e la parte inferiore del perone sinistro (entrambi all'abbazia di Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire), un frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Santa Marie di Parigi), l'estremità inferiore del radio sinistro (abbazia di Saint-Wandrille), un frammento di falange dell'alluce sinistro (abbazia Notre Dame de la Garde), un frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Timadeuc a Bréhan), la rotula sinistra (abbazia d'Aiguebelle), un frammento dell'omero sinistro (abbazia della Grande Trappe). Secondo i monaci benedettini di Montecassino, invece, le reliquie autentiche sono sempre restate a Montecassino.
Lo studioso e monaco benedettino Jean Mabillon pubblicò nel 1685 la seguente narratio brevis, ricavata da un manoscritto medievale dell'abbazia di Sant'Emmerano di Ratisbona, che egli giudicò vecchio di novecento anni e perciò contemporaneo alla "traslazione" del corpo del santo (VIII secolo):
«Nel nome di Cristo. C'era in Francia, grazie alla provvidenza di Dio, un Prete dotto che intraprese un viaggio in Italia, per poter scoprire dove fossero le ossa del nostro santo padre Benedetto, che nessuno più venerava. [Montecassino, monastero fondato da san Benedetto su un rilievo roccioso dell'Appennino tra Roma e Napoli, era stato distrutto dai Longobardi nel 580 circa, e rimase disabitato fino al 718, data di insediamento di Petronace di Montecassino ndr]. Alla fine giunse in una campagna abbandonata a circa 70 o 80 miglia da Roma, dove san Benedetto anticamente aveva costruito un monastero nel quale tutti erano uniti da una carità perfetta. A questo punto questo Prete e i suoi compagni erano inquietati dall'insicurezza del luogo, dato che non erano in grado di trovare né le vestigia del monastero, né quelle di un luogo di sepoltura, fino a quando finalmente un guardiano di suini indicò loro esattamente dove il monastero era stato eretto; tuttavia fu del tutto incapace di individuare il sepolcro finché lui e i suoi compagni non si furono santificati con due o tre giorni di digiuno. Allora il loro cuoco ebbe una rivelazione in un sogno, e la questione apparve loro chiara poiché al mattino fu mostrato loro, da colui che era sembrato più infimo di grado, che le parole di san Paolo sono vere (1Cor 1,27[6]): «Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» o di nuovo, come il Signore stesso ha predetto (Mt 20,26[7]): «Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo». Allora, ispezionando il luogo con maggiore diligenza, trovarono una lastra di marmo che dovettero tagliare. Finalmente, spezzata la lastra, rinvennero le ossa di san Benedetto e, sotto un'altra lastra, quelle di sua sorella; poiché (come pensiamo) il Dio onnipotente e misericordioso volle che fossero uniti nel sepolcro come lo furono in vita, in amore fraterno e in carità cristiana. Dopo avere raccolto e pulito queste ossa le avvolsero, una a una, in un fine e candido tessuto, per portarle nel loro paese. Non fecero menzione del ritrovamento ai Romani per paura che, se questi avessero saputo la verità, indubbiamente non avrebbero mai tollerato che reliquie così sante fossero sottratte al loro paese senza conflitti o guerre di reliquia, il che Dio ha reso manifesto, affinché gli uomini potessero vedere come grande era il loro bisogno di religione e santità, mediante il seguente miracolo. Avvenne cioè che, dopo un po', il lino che avvolgeva queste ossa fu trovato rosso del sangue del santo, come da ferite aperte di un essere vivente. Dalla qual cosa Gesù Cristo ha inteso mostrare che colui cui appartengono quelle ossa è così glorioso che avrebbe vissuto veramente con Lui nel mondo a venire. Allora furono poste sopra un cavallo che le portò durante tutto quel lungo viaggio così agevolmente che non sembrava ci fosse nessun carico. Inoltre, quando attraversavano foreste o percorrevano strade strette, non c'era albero che ostruisse il cammino o asperità del percorso che impedissero loro di proseguire il viaggio; così che i viaggiatori hanno visto chiaramente come questo potesse avvenire grazie ai meriti di san Benedetto e di sua sorella santa Scolastica, affinché il loro viaggio potesse essere sicuro e felice fino al regno di Francia e al monastero di Fleury. In questo monastero sono seppelliti ora in pace, finché sorgeranno nella gloria nell'Ultimo Giorno; e qui conferiscono benefici su tutti coloro che pregano il Padre tramite Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che vive e regna nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.»
(Mabillon: Vetera Analecta, vol. IV, 1685, pag. 451-453))
Le origini della Medaglia di San Benedetto sono antichissime. Papa Benedetto XIV ne ideò il disegno e col "Breve" del 1742 approvò la medaglia concedendo delle indulgenze a coloro che la portano con fede. Sul diritto della medaglia, san Benedetto tiene nella mano destra una croce elevata verso il cielo e nella sinistra il libro aperto della santa Regola. Sull'altare è posto un calice dal quale esce una serpe per ricordare un episodio accaduto a Benedetto: il santo, con un segno di croce, avrebbe frantumato la coppa contenente il vino avvelenato datogli da monaci attentatori. Sullo stesso lato del libro aperto è raffigurato un corvo: quest'uccello sottrasse al santo un pane avvelenato prima che se ne nutrisse.
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Eugenio Caruso - 26- 08 - 2021
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