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Omero, Iliade, Libro 9. Ambasciatori da Achille

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

ifigenia
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartiene ad Omero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.

RIASSUNTO IX LIBRO

L'esercito acheo, in preda all'angoscia, veglia, mentre Agamennone, turbato dalla difficile situazione, convoca i capi in assemblea e arriva a proporre di tornare in patria. Nestore, invece, dà come sempre un saggio consiglio e suggerisce di mandare un’ambasceria ad Achille, consapevole che egli è l’unico in grado di contrastare Ettore. Con la promessa di Agamennone di restituire Briseide ad Achille e offrirgli splendidi doni, Fenice (antico precettore di Achille), Aiace e Odisseo si recano alla tenda dell’eroe. È il facondo Odisseo a esporre la proposta di Agamennone, ma Achille rifiuta le scuse e i tesori. Dopo aver addirittura espresso il suo progetto di ritornare in patria per vivere serenamente rinunciando alla gloria eroica, congeda i messaggeri. A nulla vale l’esortazione del vecchio Fenice, che lo ha allevato come un figlio, affinché desista dal suo proposito, deponendo i motivi dell’ira. Achille ritiene che l’offesa arrecatagli da Agamennone non possa essere cancellata né dai doni né dalle preghiere e non raccoglie neppure il rimprovero di Aiace di essere selvaggio nella sua ira. Tornati alla tenda di Agamennone, i messaggeri, gli riferiscono la risposta di Achille; Diomede, sdegnato, propone di riprendere i combattimenti.

TESTO LIBRO IX

Queste de’ Teucri eran le veglie. Intanto
Del gelido Terror negra compagna
La Fuga, dagli Dei ne’ petti infusa,
L’achivo campo possedea. Percosso
Da profonda tristezza era di tutti5
I più forti lo spirto; e in quella guisa
Che il pescoso Oceáno si rabbuffa,
Quando improvviso dalla tracia tana
Di Ponente sorgiunge e d’Aquilone
L’impetuoso soffio; alto s’estolle10
L’onda, e si sparge di molt’alga il lido:
Tale è l’interna degli Achei tempesta.
Sovra ogni altro l’Atride addolorato
Di qua, di là s’aggira, e agli araldi
Comanda di chiamar tutti in segreto15
A uno a uno i duci a parlamento.
Come fûro adunati, e mesti in volto
S’assisero, levossi Agamennóne.
Lagrimava simíle a cupo fonte
Che tenebrosi da scoscesa rupe20
Versa i suoi rivi; e dal profondo seno
Messo un sospiro, cominciò: Diletti
Principi Argivi, in una ria sciagura
Giove m’avvolse. Dispietato! ei prima
Mi promise e giurò che al suol prostrate25
D’Ilio le mura, glorïoso in Argo
Avrei fatto ritorno; e or mi froda
Indegnamente, e dopo tante in guerra
Estinte vite, di partir m’impone
Inonorato. Il piacimento è questo30
Del prepotente nume, che già molte
Spianò cittadi eccelse, e molte ancora
Ne spianerà, chè immenso è il suo potere.
Dunque al mio detto obbediam tutti, al vento
Diam le vele, fuggiamo alla diletta35
Paterna terra, chè dell’alta Troia
Lo sperato conquisto è vana impresa.

La cosiddetta maschera di Agamennone
maschera
   Ammutîr tutti a queste voci, e in cupo
Lungo silenzio si restâr dolenti
I figli degli Achei. Lo ruppe alfine40
Il bellicoso Dïomede, e disse:
   Atride, al torto tuo parlar col vero
Libero dir, che in libero consesso
Lice ad ognun, risponderò. Tu m’odi
Senza disdegno. Osasti, e fosti il primo,45
Alla presenza degli Achei pur dianzi
Vituperarmi, e imbelle dirmi, e privo
D’ogni coraggio, e l’udîr tutti. Or io
Dico a te di rimando, che se Giove
L’un ti diè de’ suoi doni, l’onor sommo50
Dello scettro su noi, non ti concesse
L’altro più grande che lo scettro, il core.
Misero! e speri sì codardi e fiacchi,
Come pur cianci, della Grecia i figli?
Se il cor ti sprona alla partenza, parti;55
Sono aperte le vie; le numerose
Navi, che d’Argo ti seguîr, son pronte:
Ma gli altri Achivi rimarran qui fermi
All’eccidio di Troia; e se pur essi
Fuggiran sulle prore al patrio lido,60
Noi resteremo a guerreggiar; noi due
Sténelo e Dïomede, insin che giunga
Il dì supremo d’Ilïon; chè noi
Qua ne venimmo col favor d’un Dio.

diomede 3
Statua di Diomede

   Tacque; e tutti mandâr di plauso un grido,65
Del Tidíde ammirando i generosi
Sensi; e di Pilo il venerabil veglio
Surto in piedi dicea: Nelle battaglie
Forte ti mostri, o Dïomede, e vinci
Di senno insieme i coetani eroi.70
Nè biasmar nè impugnar le tue parole
Potrà qui nullo degli Achei: ma pure,
Benchè retti e prudenti e di noi degni,
Non ferîr giusto i tuoi discorsi il segno.
Giovinetto se’ tu, sì che il minore75
Esser potresti de’ miei figli. Io dunque
Che di te più d’assai vecchio mi vanto,
Dironne il resto, nè il mio dir veruno
Biasmerà, non lo stesso Agamennóne.
È senza patria, senza leggi e senza80
Lari chi la civile orrenda guerra
Desidera. Ma giovi or della fosca
Diva dell’ombre rispettar l’impero.
S’apprestino le cene, e ogni scolta
Vegli al fosso del muro, e questo sia85
De’ giovani il pensier. Tu, sommo Atride,
Come a capo s’addice, accogli a mensa
I più provetti, e ben lo puoi, chè piene
Le tende hai tu del buon lïeo che ognora
Pel vasto mar ti recano veloci90
L’achive prore dalle tracie viti.
Nulla all’uopo ti manca, e al tuo cenno
Tutto obbedisce. Congregati i duci,
Apra ognun la sua mente, e tu seconda
Il consiglio miglior, chè di consiglio95
Utile e saggio or fa mestier davvero.
Imminente alle navi è l’inimico,
Pien di fuochi il suo campo. E chi mirarli
Può senza tema? Questa fia la notte
Che l’esercito perda, o lo conservi.100
   Disse, e tutti obbediro. Immantinente
Uscîr di rilucenti armi vestite
Le sentinelle. N’eran sette i duci;
Il Nestoride prence Trasimede,
Di Marte i figli Ascálafo e Jalmeno,105
Merïon, Dëipíro e Afaréo
Con Licomede di Creonte; e cento
Giovani prodi conducea ciascuno
Di lunghe picche armati. In ordinanza
Si difilâr tra il fosso e il muro, e quivi110
Destaro i fuochi, e apposero le cene.
   Nella tenda regal l’Atride intanto
Convita i duci, di vivande grate
Li ristaura; e sì tosto che de’ cibi
E del bere in ciascun tacque il desío,115
Il buon Nestorre, di cui sempre uscía
Ottimo il detto, cominciò primiero
A svolgere dal petto un suo consiglio,
E in questo saggio ragionar l’espose:
   Agamennóne glorïoso Atride,120
Da te principio prenderan le mie
Parole, e in te si finiranno, in te
Di molte genti imperador, cui Giove,
Per la salute de’ suggetti, il carco
Delle leggi commise e dello scettro.125
Principalmente quindi a te conviensi
Dir tua sentenza, e ascoltar l’altrui,
E la porre ad effetto, ove da pura
Coscïenza proceda, e il ben ne frutti;
Chè il buon consiglio, da qualunque ei vegna,130
Tuo lo farai coll’eseguirlo. Io dunque
Ciò che acconcio a me par, dirò palese,
Nè verun penserà miglior pensiero
Di quel ch’io penso e mi pensai dal punto
Che dalla tenda dell’irato Achille135
Via menasti, o gran re, la giovinetta
Brisëide, sprezzato il nostro avviso.
Ben io, lo sai, con molti e caldi preghi
Ti sconfortai dall’opra: ma tu spinto
Dall’altero tuo cor onta facesti140
Al fortissimo eroe, dagl’Immortali
Stessi onorato, e il premio gli rapisti
De’ suoi sudori, e ancor lo ti ritieni.
Or tempo egli è di consultar le guise
Di blandirlo e piegarlo, o con eletti145
Doni o col dolce favellar che tocca.

nestore 3
Nestore e i suoi figli sacrificano un toro a Poseidone

   Tu parli il vero, Agamennón rispose,
Parli il vero pur troppo, enumerando
I miei torti, o buon vecchio. Errai, nol nego:
Val molte squadre un valoroso in cui150
Ponga Giove il suo cor, siccome in questo
Per lo cui solo onor doma gli Achei.
Ma se ascoltando un mal desío l’offesi,
Or vo’ placarlo, e il presentar di molti
Onorevoli doni, e a voi qui tutti155
Li dirò: sette tripodi, non anco
Tocchi dal foco; dieci aurei talenti;
Due volte tanti splendidi lebeti;
Dodici velocissimi destrieri
Usi nel corso a riportarmi i primi160
Premi, e di tanti già mi fêr l’acquisto,
Che povero per certo e di ricchezze
Desideroso non saría chi tutti
Li possedesse. Donerogli in oltre
Di suprema beltà sette captive165
Lesbie donzelle a meraviglia sperte
Nell’opre di Minerva, e da me stesso
Trascelte il dì che Lesbo ei prese. A queste
Aggiungo la rapita a lui poc’anzi
Brisëide, e farò giuro solenne170
Ch’unqua il suo letto non calcai. Ciò tutto
Senza indugio fia pronto. Ove gli Dei
Ne concedano poscia il porre al fondo
La troiana città, primiero ei vada,
Nel partir delle spoglie, a ricolmarsi175
D’oro e bronzo le navi, e si trascelga
Venti bei corpi di dardanie donne
Dopo l’argiva Eléna le più belle.
Di più: se d’Argo riveder n’è dato
Le care sponde, ei genero sarammi180
Onorato e diletto al par d’Oreste,
Ch’unico germe a me del miglior sesso
Ivi s’edúca alle dovizie in seno.
Ho di tre figlie nella reggia il fiore,
Crisotemi, Laódice, Ifianassa.185
Qual più d’esse il talenta a sposa ei prenda
Senza dotarla, e a Peléo la meni.
Doterolla io medesmo, e di tal dote
Qual non s’ebbe giammai altra donzella:
Sette città, Cardamile ed Enópe,190
Le liete di bei prati Ira e Antéa,
L’inclita Fere, Epéa la bella, e Pédaso
D’alme viti feconda: elle son poste
Tutte quante sul mar verso il confine
Dell’arenosa Pilo, e dense tutte195
Di cittadini che di greggi e mandre
Ricchissimi, co’ doni al par d’un Dio
L’onoreranno, e di tributi opimi
Faran bello il suo scettro. Ecco di quanto
Gli farò dono se depor vuol l’ira.200
Placar si lasci: inesorato è il solo
Pluto, e per questo il più abborrito iddio.
Rammenti ancora che di grado e d’anni
Io gli vo sopra; lo rammenti, e ceda.
   Potentissimo Atride Agamennóne,205
Riprese il veglio cavalier, pregiati
Sono i doni che appresti al re Pelíde.
Senza dunque indugiar alla sua tenda
Si mandino i legati. Io stesso, o sire,
Li nomerò, nè alcun mi fia ritroso:210
Primamente Fenice, al sommo Giove
Carissimo mortale, e capo ei sia
Dell’imbasciata. Il seguirà col grande
Aiace il divo Ulisse, e degli araldi
N’andran Hodio ed Euríbate. Frattanto215
Date l’acqua alle mani, e comandate
Alto silenzio, acciò che salga a Giove
La nostra prece, e la pietà ne svegli.
   Disse; e a tutti fu caro il suo consiglio.
Dier le linfe alle mani i banditori;220
Lesti i donzelli coronâr di liete
Spume le tazze, e le portaro in giro:
E libato e gustato a pien talento
Il devoto licore, uscîr veloci
Dalla tenda regal gli ambasciadori;225
E molti avvisi porgea lor per via
Il buon veglio, girando a ciascheduno,
Principalmente di Laerte al figlio,
Le parlanti pupille, e a tentar tutte
Le vie gli esorta d’ammansar quel fiero.230
Del risonante mar lungo la riva
Avviârsi i legati, supplicando
Dall’imo cor l’Enosigéo Nettunno
Perchè d’Achille la grand’alma ei pieghi.
   Alle tende venuti e alle navi235
De’ Mirmidóni, ritrovâr l’eroe
Che ricreava colla cetra il core,
Cetra arguta e gentil, che la traversa
Avea d’argento, e spoglia era del sacco
Della città d’Eezïon distrutta.240
Su questa degli eroi le glorïose
Geste cantando raddolcía le cure:
Solo a rincontro gli sedea Patróclo
Aspettando la fin del bellicoso
Canto in silenzio riverente. Ed ecco245
Dall’Itaco precessi all’improvviso
Avanzarsi i legati, e al suo cospetto
Rispettosi sostar. Alzasi Achille
Del vederli stupito, e abbandona
Colla cetra lo seggio; alzasi ei pure250
Di Menézio il buon figlio, e lor porgendo
Il Pelíde la man, Salvete, ei dice,
Voi mi giungete assai graditi: al certo
Vi trae grand’uopo: benchè irato, io v’amo
Sovra tutti gli Achei. - Così dicendo,255
Dentro la tenda interïor li guida,
In alti scanni fa sederli sopra
Porporini tappeti, e a Patróclo
Che accanto gli venía, Recami, disse,
O mio diletto, il mio maggior cratere,260
E mesci del più puro, e apparecchia
Il suo nappo a ciascun: sotto il mio tetto
Oggi entrâr generose anime care.
   Disse; e Patróclo del suo dolce amico
Alla voce obbedì. Su l’ignee vampe265
Concavo bronzo di gran seno ei pose,
E dentro vi tuffò di pecorella
E di scelta capretta i lombi opimi
Con esso il pingue saporoso tergo
Di saginato porco. Intenerite270
Così le carni, Automedonte in alto
Le sollevava; e con forbito acciaro
Acconciamente le incidea lo stesso
Divino Achille, e le infiggea ne’ spiedi.
Destava intanto un grande foco il figlio275
Di Menézio, e conversi in viva bragia
I crepitanti rami, e già del tutto
Queta la fiamma, delle brage ei fece
Ardente un letto, e gli schidion vi stese;
Del sacro sal gli asperse, e tolte alfine280
Dagli alari le carni abbrustolate
Sul desco le posò; prese di pani
Un nitido canestro, e su la mensa
Distribuilli; ma le apposte dapi
Spartía lo stesso Achille, assiso in faccia285
A Ulisse col tergo alla parete.
Ciò fatto, ingiunse al suo diletto amico
Le sacre offerte ai numi; e quei nel foco
Le primizie gettò. Stesero tutti
Allor le mani all’imbandito cibo.290
   Come fur sazi, fe’ degli occhi Aiace
Al buon Fenice un cotal cenno: il vide
Lo scaltro Ulisse, e ricolmato il nappo,
Al grande Achille propinollo, e disse:
   Salve, Achille; poc’anzi entro la tenda295
D’Atride, e ora nella tua di lieto
Cibo noi certo ritroviam dovizia;
Ma chi di cibo può sentir diletto
Mentre sul capo ci veggiam pendente
Un’orrenda sciagura, e sul periglio300
Delle navi si trema? E periranno,
Se tu, sangue divin, non ti rivesti
Di tua fortezza, e non ne rechi aita.
Gli orgogliosi Troiani e gli alleati
Imminente all’armata e al nostro muro305
Han posto il campo, e mille fuochi accesi,
E fan minaccia d’avanzarsi arditi,
E le navi assalir. Giove co’ lampi
Del suo favor gli affida; Ettore i truci
Occhi volgendo d’ogni parte, e molto310
Delle sue forze altero e del suo Giove,
Terribilmente infuria, e non rispetta
Nè mortali nè Dei (tanto gl’invade
Furor la mente), e della nuova aurora
Già le tardanze accusa, e freme, e giura315
Di venirne a schiantar di propria mano
Delle navi gli aplustri, e a scagliarvi
Dentro le fiamme, e incenerirle tutte,
d’alma beltà lesbie donzelle
D’ago esperte e di spola, e da lui stesso
Per lor suprema leggiadría trascelte
Il dì che Lesbo tu espugnavi. A queste
La figlia aggiunge di Briséo, giurando360
Che intatta, o prence, la ti rende. E tutte
Pronte son queste cose. Ove poi Troia
Ne sia dato atterrar, tu primo andrai,
Nel partir della preda, a ricolmarti
D’oro e di bronzo i tuoi navigli, e dieci365
Captive e dieci ti scerrai tenute
Dopo l’Argiva Eléna le più belle.
Di più: se d’Argo rivedrem le rive,
Tu genero sarai del grande Atride,
E in onoranza e nella copia accolto370
D’ogni cara dovizia al par del suo
Unico Oreste. Delle tre che il fanno
Beato genitor alme fanciulle,
Crisotemi, Laódice, Ifianassa,
Prendi quale vorrai senza dotarla.375
Doteralla lo stesso Agamennóne
Di tanta dote e tal, ch’altra giammai
Regal donzella la simíl non s’ebbe;
Sette città, Cardamile ed Enópe,
Ira, Pedaso, Antéa, Fere ed Epéa,380
Tutte belle marittime contrade
Verso il pilio confin, tutte frequenti
D’abitatori, a cui di molte mandre
S’alza il muggito, e che di bei tributi
T’onoreranno al par d’un Dio. Ciò tutto385
Daratti Atride, se lo sdegno acqueti.
Chè se lui sempre e i suoi presenti abborri,
Abbi almeno pietà degli altri Achei
Là nelle tende costernati e chiusi,
Che t’avranno qual nume, e alle stelle390
La tua gloria alzeran. Vien dunque, e spegni
Questo Ettór che furente a te si para,
E vanta che nessun di quanti Achivi
Qua navigaro, di valor l’eguaglia.
   Divino senno, Laerzíade Ulisse,395
Rispose Achille, senza velo, e quali
Il cor li detta e proveralli il fatto,
M’è d’uopo palesar dell’alma i sensi,
Onde cessiate di garrirmi intorno.
Odio al par della porte atre di Pluto400
Colui ch’altro ha sul labbro, altro nel core:
Ma ben io dirò netto il mio pensiero.
Nè il grande Atride Agamennón, nè alcuno
Me degli Achivi piegherà. Qual prezzo,
Qual ricompensa delle assidue pugne?405
Di chi poltrisce e di chi suda in guerra
Qui s’uguaglia la sorte: il vile usurpa
L’onor del prode, e una medesma tomba
L’infingardo riceve e l’operoso.
E io che tanto travagliai, che a tanti410
Rischi di Marte la mia vita esposi,
Che guadagni, per dio, che guiderdone
Su gli altri ottenni? In vero il meschinello
Augel son io, che d’esca i suoi provvede
Piccioli implumi, e sè medesmo obblía.415
Quante, senza dar sonno alle palpébre,
Trascorse notti! quanti giorni avvolto
In sanguinose pugne ho combattuto
Per le ree mogli di costor! Conquisi
Guerreggiando sul mar dodici altere420
Cittadi; ne conquisi undici a piede
Dintorno ai campi d’Ilïon; da tutte
Molte asportai pregiate spoglie, e tutte
All’Atride le cessi, a lui che inerte
Rimasto indietro, nell’avare navi425
Le ricevea superbo, e dividendo
Altrui lo peggio riserbossi il meglio;
O s’alcun dono agli altri duci ei fenne,
Nol si ritolse almeno. Io sol del mio
Premio fui spoglio, io solo; egli la donna430
Del mio cor si ritiene, e ne gioisce.
A che mai questa degli Achei co’ Teucri
Cotanta guerra? a che raccolse Atride
Qui tant’armi? Non forse per la bella
Elena? Ma l’amor delle consorti435
Tocca egli forse il cor de’ soli Atridi?
Ogni buono, ogni saggio ama la sua,
E tienla in pregio, siccom’io costei
Carissima al mio cor, quantunque ancella.
Or ch’egli dalle man la mi rapío440
Con fatto iniquo, di piegar non tenti
Me da sue frodi ammaestrato assai.
Teco, Ulisse, e co’ suoi re tanti ei dunque
Consulti il modo di sottrar l’armata
Alle fiamme nemiche. E quale ha d’uopo445
Ei del mio braccio? Senza me già fece
Di gran cose. Innalzato ha un alto muro,
Lungo il muro ha scavato un largo e cupo
Fosso, e nel fosso un gran palizzo infisse.
Mirabil opra! che dal fiero Ettorre450
Nol fa sicuro ancor, da quell’Ettorre
Che, mentre io parvi fra gli Achei, scostarsi
Non ardìa dalle mura, o non giugnea
Che sino al faggio delle porte Scee.
Sola una volta ei là m’attese, e a stento455
Potè sottrarsi all’asta mia. Ma nullo
Più conflitto vogl’io con quel guerriero,
Nullo: e offerti dimani al sommo Giove
E agli altri numi i sacrifici, e tratte
Tutte nel mare le mie carche navi,460
Sì, dimani vedrai, se te ne cale,
Coll’aurora spiegar sull’Ellesponto
I miei legni le vele, ed esultanti
Tutte di lieti remator le sponde.
Se di prospero corso il buon Nettunno465
Cortese mi sarà, la terza luce
Di Ftia porrammi su la dolce riva.
Ivi molta lasciai propria ricchezza
Qua venendo in mal punto, ivi molt’altra
Ne reco in oro, e in fulvo rame, e in terso470
Splendido ferro e in eleganti donne,
Tutto tesoro a me sortito. Il solo
Premio ne manca che mi diè l’Atride,
E re villano mel ritolse ei poscia.
Torna dunque all’ingrato, e gli riporta475
Tutto che dico, e a tutti in faccia, ond’anco
Negli altri Achei si svegli una giust’ira
E un avvisato diffidar dell’arti
Di quel franco impudente, che pur tale
Non ardirebbe di mirarmi in fronte.480
Digli che a parte non verrò giammai
Nè di fatto con lui nè di consiglio;
Che mi deluse; che mi fece oltraggio;
Che gli basti l’aver tanto potuto
Sola una volta, e che mal fonda in vane485
Ciance la speme d’un secondo inganno.
Digli che senza più turbarmi corra
Alla ruina a cui l’incalza Giove
Che di senno il privò: digli che abborro
Suoi doni, e spregio come vil mancipio490
Il donator. Nè s’egli e dieci e venti
Volte gli addoppii, nè se tutto ei m’offra
Ciò ch’or possiede, e ciò ch’un dì venirgli
Potría d’altronde, e quante entran ricchezze
In Orcoméno e nell’egizia Tebe495
Per le cento sue porte e li dugento
Aurighi co’ lor carri a ciascheduna;
Mi fosse ei largo di tant’oro alfine
Quanto di sabbia e polve si calpesta,
Nè così pur si speri Agamennóne500

ira achille
L'ira di Achille di Leon Benouville

La mia mente inchinar prima che tutto
Pagato ei m’abbia dell’offesa il fio.
Non vo’ la figlia di costui. Foss’ella
Pari a Minerva nell’ingegno, e il vanto
Di beltà contendesse a Citerea,505
Non prenderolla in mia consorte io mai.
Serbila ad altro Acheo che al grand’Atride
Più di grado s’adegui e di possanza.
A me, se salvo raddurranmi i numi
Al patrio tetto, a me scerrà lo stesso510
Peléo la sposa. Han molte Ellade e Ftia
Figlie di regi assai possenti: e quale
Di lor vorrò, legittima e diletta
Moglie farolla, e mi godrò con essa
Nella pace, a cui stanco il cor sospira,515
Il paterno retaggio. E parmi in vero
Che di mia vita non pareggi il prezzo
Nè tutta l’opulenza in Ilio accolta
Pria della giunta degli Achei, nè quanto
Tesor si chiude nel marmoreo templo520
Del saettante Apollo in sul petroso
Balzo di Pito. Racquistar si ponno
E tripodi e cavalli e armenti e greggi;
Ma l’alma, che passò del labbro il varco,
Chi la racquista? chi del freddo petto525
La riconduce a ravvivar la fiamma?
Meco io porto (la Dea madre mel dice)
Doppio fato di morte. Se qui resto
A pugnar sotto Troia, al patrio lido
M’è tolto il ritornar, ma d’immortale530
Gloria l’acquisto mi farò. Se riedo
Al dolce suol natío, perdo la bella
Gloria, ma il fiore de’ miei dì non fia
Tronco da morte innanzi tempo, e io
Lieta godrommi e dïuturna vita.535
Questa m’eleggo, e gli altri tutti esorto
A rimbarcarsi e abbandonar di Troia
L’impossibil conquista. Il Dio de’ tuoni
Su lei stese la mano, e rincorârsi
I suoi guerrieri. Itene adunque, e come540
Di legati è dover, le mie risposte
Ai prenci achivi riferendo, dite
Che a preservar le navi e il campo argivo
Lor fa mestiero ruminar novello
Miglior partito, chè il già preso è vano.545
Inesorata è l’ira mia. Fenice
Qui rimanga e riposi: al nuovo giorno
Seguirammi, se il vuole, alla diletta
Patria. Di forza nol trarrò giammai.
   Disse: e l’alto parlare e l’aspro niego550
Tutti li fece sbalorditi e muti.
Ruppe alfin quel silenzio il cavaliero
Veglio Fenice, e sul destin tremando
Delle argoliche navi, e ai sospiri
Mescendo i pianti, così prese a dire:555
   Se in tuo pensiero è fissa, inclito Achille,
La tua partenza, se nell’ira immoto
Di niuna guisa allontanar non vuoi
Gli ostili incendi dalla classe achea,
Come, ahi come poss’io, diletto figlio,560
Qui restar senza te? Teco mandommi
Il tuo canuto genitor Peléo
Quel giorno che all’Atride Agamennóne
Invïotti da Ftia, fanciullo ancora
Dell’arte ignaro dell’acerba guerra,565
E dell’arte del dir che fama acquista.
Quindi ei teco spedimmi, onde di questi
Studi erudirti, e farmi a te nell’opre
Della lingua maestro e della mano.
A niun conto vorrei dunque, mio caro,570
Dispiccarmi da te, no, s’anco un Dio,
Rasa la mia vecchiezza, mi prometta
Rinverdir le mie membra, e ritornarmi
Giovinetto qual era allor che il suolo
D’Ellade abbandonai, l’ira fuggendo575
E un atroce imprecar del padre mio
Amintore d’Orméno. Era di questa
Ira cagione un’avvenente druda
Ch’egli, sprezzata la consorte, amava
Follemente. Abbracciò le mie ginocchia580
La tradita mia madre, e supplicommi
Di mischiarmi in amor colla rivale,
E porle in odio il vecchio amante. Il feci.
Reso accorto di questo il genitore,
Mi maledisse, e invocò sul mio585
Capo l’orrendi Eumenidi, pregando
Che mai concesso non mi fosse il porre
Sul suo ginocchio un figlio mio. L’udiro
Il sotterraneo Giove e la spietata
Proserpina, e il feral voto fu pieno.590
Carco allor della sacra ira del padre,
Non mi sofferse il cor di più restarmi
Nelle case paterne. E servi e amici
E congiunti mi fean con caldi preghi
Dolce ritegno, e in allegre mense595
Stornar volendo il mio pensier, si diero
A far macco d’agnelle e di torelli,
A rosolar sul foco i saginati
Lombi suíni, a tracannar del veglio
L’anfore in serbo. Nove notti al fianco600
Mi fur essi così con veglie alterne
E con perpetui fuochi, un sotto il portico
Del ben chiuso cortil, l’altro alle soglie
Della mia stanza nell’andron. Ma quando
Della decima notte il buio venne,605
L’uscio sconfissi, e della stanza evaso
Varcai d’un salto della corte il muro,
Nè de’ custodi alcun nè dell’ancelle
Di mia fuga s’avvide. Errai gran pezza
Per l’ellade contrada, e giunto ai campi610
Della feconda pecorosa Ftia,
Trassi al cospetto di Peléo. M’accolse
Lietamente il buon sire, e mi dilesse
Come un padre il figliuol ch’unico in largo
Aver gli nasca nell’età canuta:615
E di popolo molto e di molt’oro
Fattomi ricco, l’ultimo confine
Di Ftia mi diede ad abitar, commesso
De’ Dolopi il governo alla mia cura.
Son io, divino Achille, io mi son quegli620
Che ti crebbi qual sei, che caramente
T’amai; nè tu volevi bambinello
Ir con altri alla mensa, nè vivanda
Domestica gustar, ov’io non pria
Adagiato t’avessi e carezzato625
Su’ miei ginocchi, minuzzando il cibo,
E porgendo la beva che dal labbro
Infantil traboccando a me sovente
Irrigava sul petto il vestimento.
Così molto soffersi a tua cagione,630
E consolava le mie pene il dolce
Pensier che, i numi a me negando un figlio
Generato da me, tu mi saresti
Tal per amore divenuto, e tale
M’avresti salvo un dì da ria sciagura.635
Doma dunque, cor mio, doma l’altero
Tuo spirto: disconviene una spietata
Anima a te che rassomigli i numi:
Chè i numi stessi, sì di noi più grandi
D’onor, di forza, di virtù, son miti;640
E con vittime e voti e libamenti
E odorosi olocausti il supplicante
Mortal li placa nell’error caduto.
Perocchè del gran Giove alme figliuole
Son le Preghiere che dal pianto fatte645
Rugose e losche con incerto passo
Van dietro ad Ate ad emendarla intese.
Vigorosa di piè questa nocente
Forte Dea le precorre, e discorrendo
La terra tutta l’uman germe offende.650
Esse van dopo, e degli offesi han cura.
Chi rispettoso queste Dee riceve,
Ne va colmo di beni ed esaudito;
Chi pertinace le respinge indietro,
Ne spermenta lo sdegno. Esse del padre655
Si presentano al trono, e gli fan prego
Ch’Ate ratta inseguisca, e al fio suggetti
L’inesorato che al pregar fu sordo.
Trovin dunque di Giove oggi le figlie
Appo te quell’onor ch’anco de’ forti660
Piega le menti. Se al tuo piè di molti
Doni l’offerta non mettesse Atride
Coll’impromessa di molt’altri poscia,
E persistesse in suo rancor, non io
T’esorterei di por giù l’ira, e all’uopo665
Degli Achivi volar, comunque afflitti;
Ma molti di presente egli ne porge,
E altri poi ne profferisce, e i duci
Miglior trascelti tra gli Achei t’invía,
E a te stesso i più cari a supplicarti.670
Non disprezzarne la venuta e i preghi,
Onde l’ira, che pria giusta pur era,
Non torni ingiusta. Degli andati eroi
Somma laude fu questa, allor che grave
Li possedea corruccio, alle preghiere675
Placarsi, nè sdegnar supplici doni.
   Opportuno sovviemmi un fatto antico,
Che quale avvenne io qui fra tutti amici
Narrerò. Combattean ferocemente
Con gli Etóli i Cureti anzi alle mura680
Di Calidone, a espugnarla questi,
A difenderla quelli; e gli uni e gli altri,
Gente d’alto valor, con mutue stragi
Si distruggean. Commossa avea tal guerra
Di Dïana uno sdegno, e del suo sdegno685
Fu la cagione Enéo che, de’ suoi campi
Terminata la messe, e offerti ai numi
I consueti sacrifici, sola
(Fosse spregio od obblío) lasciato avea
Senza offerte la Diva. Ella di questo690
Altamente adirata un fero spinse
Cinghial d’Enéo ne’ campi, che tremendo
Tutte atterrava col fulmineo dente
Le fruttifere piante. Il forte Eníde
Meleagro alla fin, dalle propinque695
Città raccolto molto nerbo avendo
Di cacciatori e cani, a morte il mise;
Nè minor forza si chiedea: tant’era
Smisurata la belva, e tanti al rogo
N’avea sospinti. Ma la Dea pel teschio700
E per la pelle dell’irsuta fera
Tra i Cureti e gli Etóli una gran lite
Suscitò. Finchè in campo il bellicoso
Meleagro comparve, andâr disfatti,
Benchè molti, i Cureti, e approssimarse705
Unqua alle mura non potean. Ma l’ira,
Che anche i più saggi invade, il petto accese
Di Meleagro, e la destò la madre
Altéa che, forte pe’ fratelli uccisi
Crucciosa, il figlio maledisse, e il suolo710
Colle man percotendo inginocchiata
E forsennata con orrendi preghi
Di gran pianto confusi il negro Pluto
Supplicava e la rigida mogliera
Di dar morte all’eroe: nè dal profondo715
Orco fu sorda l’implacata Erinni.
Del materno furor sdegnato il figlio
Lungi dall’armi si ritrasse in braccio
Alla bella consorte Cleopatra,
Di Marpissa Evenina e del possente720
Ida figliuola, di quell’Ida io dico
Che tra’ guerrieri de’ suoi tempi il grido
Di fortissimo avea, tanto che contra
Lo stesso Apollo per la tolta ninfa
Ardì l’arco impugnar. Mutato poscia725
Di Cleopatra il nome, i genitori
La chiamaro Alcïon, perchè simíle
Alla mesta Alcïon gemea la madre
Quando rapilla il saettante Iddio.
   Con gran furore intanto eran le porte730
Di Calidone e le turrite mura
Combattute e percosse. Eletta schiera
Di venerandi vegli e sacerdoti
A Meleagro deputati il prega
Di venir, di respingere il nemico,735
A sua scelta offerendo di cinquanta
Iugeri il dono, del miglior terreno
Di tutto il caledonio almo paese,
Parte alle viti acconcio e parte al solco.
Molto egli pure il genitor lo prega,740
Dell’adirato figlio alle sublimi
Soglie traendo il senil fianco, e in voce
Supplicante del talamo picchiando
Alle sbarrate porte. Anche le suore,
Anche la madre già pentita orando745
Chiedean mercede; ed ei più fermo ognora
La ricusava. Accorsero gli amici
I più cari e diletti; e su quel core
Nulla poteva degli amici il prego:
Finchè le porte da sonori e spessi750
Colpi battute, lo fêr certo alfine
Che scalate i Cureti avean le mura,
E messo il foco alla città. Piangente
La sua bella consorte allor si fece
A deprecarlo, e alla mente tutti755
D’una presa città gli orrendi mali
Gli dipinse: trafitti i cittadini,
Arse le case, e in catene i figli
Strascinati e le spose. Si commosse
All’atroce pensier l’alma superba,760
Prese l’armi, volò, vinse, e gli Etóli
Salvò; ma solo dal suo cor sospinto.
Quindi alcun dono non ottenne, e il tardo
Beneficio rimase inonorato.
Non imitar cotesto esempio, o figlio,765
Nè vi ti spinga demone maligno:
Chè il soccorso indugiar, finchè le navi
S’incendano, maggior onta saría.
Vieni, imita gli Dei, gli offerti doni
Non disdegnar. Se li dispregi, e poscia770
Volontario combatti, egual non fia,
Benchè ritorni vincitor, l’onore.
   Qui tacque il veglio, e brevemente Achille
In questi detti replicò: Fenice,
Caro alunno di Giove, e a me caro775
Padre, di questo onor non ho bisogno.
L’onor ch’io cerco mi verrà da Giove,
E qui pure davanti a queste antenne
L’avrò fin che vitale aura mi spiri,
Fin che il piè mi sorregga. Altra or vo’ dirti780
Cosa che in mente riporrai. Per farti
Grato all’Atride non venir con pianti
Nè con lagni a turbarmi il cor più mai.
Non amar contra il giusto il mio nemico,
Se l’amor mio t’è caro, e meco offendi785
Chi m’offende, chè questo ti sta meglio.
Del mio regno partecipa, e diviso
Sia teco ogni onor mio. Riporteranno
Questi le mie risposte, e tu qui dormi
Sovra morbido letto. Al nuovo sole790
Consulterem se starci, o andar si debba.
   Disse; e a Patróclo fe’ degli occhi un cenno
D’allestire al buon veglio un colmo letto,
Onde gli altri a lasciar tosto la tenda
Volgessero il pensiero. In questo mezzo795
Vôlto a Ulisse il gran Telamoníde,
Partiam, diss’egli, chè per questa via
Parmi che vano il ragionar rïesca.
Benchè ingrata, n’è forza il recar pronti
La risposta agli Achei, che impazïenti,800
E forse ancora in assemblea seduti
L’attendono. Feroce alma superba
Chiude Achille nel petto: indegnamente
L’amistà de’ compagni egli calpesta,
Nè ricorda l’onor che gli rendemmo805
Su gli altri tutti. Dispietato! Il prezzo
Qualcuno accetta dell’ucciso figlio,
O del fratello; e l’uccisor, pagata
Del suo fallo la pena, in una stessa
Città dimora col placato offeso.810
Ma inesorata e indomata è l’ira
Che a te pose nel petto un dio nemico;
Per chi? per una donzelletta! e sette
Noi te n’offriamo a maraviglia belle,
E molt’altre più cose. Or via, rivesti815
Cor benigno una volta. Abbi rispetto
Ai santi dritti dell’ospizio almeno,
Ch’ospiti tuoi noi siamo, e dal consesso
Degli Achei ne venimmo, a te fra tutti
I più cari e amici. - Illustre figlio820
Di Telamone, gli rispose Achille,
Ottimo io sento il tuo parlar; ma l’ira
Mi rigonfia qualor penso a colui
Che in mezzo degli Achei mi vilipese
Come un vil vagabondo. Andate, e netta825
La risposta ridite. Alcun pensiero
Non tenterammi di pugnar, se prima
Il Prïamíde bellicoso Ettorre
Fino al quartier de’ Mirmidoni il foco
E la strage non porti. Ov’egli ardisca830
Assalir questa tenda e questa nave,
Saprò la furia rintuzzarne, io spero.
   Sì disse; e quegli, alzato il nappo e fatta
La libagion, partîrsi; e taciturno
Li precedeva di Laerte il figlio.835
   A’ suoi sergenti intanto e all’ancelle
Patroclo impone d’apprestar veloci
Soffice letto al buon Fenice; e pronte
Quelle obbedendo steser d’agnelline
Pelli uno strato, vi spiegâr di sopra840
Di finissimo lino una sottile
Candida tela, e su la tela un’ampia
Purpurea coltre; e qui ravvolto il vecchio
Aspettando l’aurora si riposa.
   Nel chiuso fondo della tenda ei pure845
Ritirossi il Pelíde, e al suo fianco
Lesbia fanciulla di Forbante figlia
Si corcò la gentil Dïomedea.
Dormì Patróclo in altra parte, e a lato
Ifi gli giacque, un’elegante schiava850
Che il Pelíde donògli il dì che l’alta
Sciro egli prese d’Enïeo cittade.
   Giunti i legati al padiglion d’Atride,
Sursero tutti e con aurate tazze
E affollate dimande i prenci achivi855
Gli accolsero. Primiero interrogolli
Il re de’ forti Agamennón: Preclaro
Della Grecia splendor, inclito Ulisse,
Parla: vuol egli dalle fiamme ostili
Servar l’armata? o d’ira ancor ripieno860
Il cor superbo, di venir ricusa?
   Glorïoso signor, rispose il saggio
Di Laerte figliuol, non che gli sdegni
Ammorzar, li raccende egli più sempre,
E te dispregia e i tuoi presenti, e dice865
Che del come salvar le navi e il campo
Co’ duci achivi ti consulti. Aggiunse
Poi la minaccia, che il novello sole
Varar vedrallo le sue navi; e gli altri
A rimbarcarsi esorta, chè dell’alto870
Ilio l’occaso non vedrem, dic’egli,
Giammai: la mano del Tonante il copre,
E rincorârsi i Teucri. Ecco i suoi sensi,
Che questi a me consorti, il grande Aiace
E i saggi araldi confermar ti ponno.875
Il vegliardo Fenice è là rimasto
Per suo cenno a dormir, onde dimani
Seguitarlo, se il vuole, al patrio lido:
Non farà forza al suo voler, se il niega.
   D’alto stupor percossi alla feroce880
Risposta, tutti ammutoliro i duci,
E lunga pezza taciturni e mesti
Si restâr. Finalmente in questi detti
Proruppe il fiero Dïomede: Eccelso
Sire de’ prodi, glorïoso Atride,885
Non avessi tu mai nè supplicato
Nè fatta offerta di cotanti doni
All’altero Pelíde. Era superbo
Egli già per sè stesso; or tu n’hai fatto
Montar l’orgoglio più d’assai. Ma vada,890
O rimanga, di lui non più parole.
Lasciam che il proprio genio, o qualche iddio
Lo ridesti alla pugna. Or secondiamo
Tutti il mio dir. Di cibo e di lïeo,
Fonte d’ogni vigor, vi ristorate,895
E nel sonno immergete ogni pensiero.
Tosto che schiuda del mattin le porte
Il roseo dito della bella Aurora,
Metti in punto, o gran re, fanti e cavalli
Nanzi alle navi, e a ben pugnar gl’istiga,900
E combatti tu stesso alla lor testa.
   Disse, e tutti applaudîr lodando a cielo
L’alto parlar di Dïomede i regi;
E fatti i libamenti, alla sua tenda
S’incamminò ciascuno. Ivi le stanche905
Membra accolser del sonno il dolce dono.

Traduzione di Vincenzo Monti

NESTORE
Figlio del re di Pilo Neleo e di Cloride, divenne re dopo l'uccisione del padre e dei fratelli da parte di Ercole. Fu il più vecchio e il più saggio tra i sovrani greci che, sotto la guida di Agamennone, assediarono Troia. Ancora oggi molti modi di dire lo citano come sinonimo di vecchio saggio. In gioventù Nestore fu un valente guerriero e partecipò a molte imprese importanti, tra le quali la lotta dei Lapiti contro i centauri, la caccia al cinghiale di Calidone sotto la guida di Meleagro e la ricerca del vello d'oro con gli Argonauti. Salito al potere a Pilo, Nestore sposò Anassibia (od Euridice, a seconda delle versioni), la quale gli diede numerosi figli: Antiloco (che morì a Troia), Trasimede (che fu tra coloro che entrarono nel cavallo di legno), Echefrone, Stratio, Perseo (omonimo dell'eroe figlio di Zeus), Areto, Pisistrato (che Omero ci dice essere l'unico scapolo), Pisidice e Policasta (la più giovane). Benché già anziano, quando iniziò la guerra di Troia partì con gli altri eroi greci per combattere contro i Troiani. Avendo governato per generazioni, godeva fama di uomo saggio e giusto e dispensò consigli ai Greci durante il conflitto. Dopo la caduta di Troia, Nestore ritornò a Pilo, dove ospitò Telemaco quando il giovane vi si recò per informarsi sul destino di suo padre Ulisse. Dopo questo punto non si hanno più fonti riguardo alla storia e al destino di Nestore. Il nome di Nestore ricorre anche in un'iscrizione poetica incisa su una coppa detta appunto di Nestore, il più antico documento di lingua greca, coevo ai poemi omerici.

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Eugenio Caruso - 30 - 08 - 2021

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