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Dante. Le rime

In questro settecentesimo anniversario della morte di Dante mi sono assunto il piacevole impegno di rileggermi tutte le sue opere; da poco ho completato la lettura delle RIME in una edizione commentata da Claudio Giunta.

dante 5
Dante di Andrea del Castagno


LE RIME

Le Rime sono un gruppo di liriche composte da moderni editori i quali riuniscono la produzione dantesca e legate alle varie esperienze esistenziali e stilistiche di Dante. Non si tratta di un canzoniere organico costruito dal poeta secondo un disegno, ma di una serie di componimenti molto diversi, raccolti e ordinati successivamente dai critici moderni. Tale raccolta riunisce il complesso della produzione lirica dantesca dalle prove giovanili sino a quelle dell'età matura. Purtroppo i diversi curatori dell'opera hanno dato, ciascuno, una numerazione differente alle varie liriche, pertanto è facile fare un po' confusione.

L'ordinamento di tutte le poesie delle Rime proposto da Michele Barbi (1921) segue una categorizzazione tematico-formale:

1) Liriche della Vita Nuova, come "A ciascun’alma presa e gentil corer" o "Ne li occhi porta la mia donna Amore" o come "Deh peregrini che pensosi andate".

A ciascun’alma presa e gentil core

A ciascun’alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.

Già eran quasi che atterzate l’ore
del tempo che onne stella n’è lucente,
quando m’apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.

Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.

Poi la svegliava, e d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.

Ne li occhi porta la mia donna Amore,

Ne li occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch’ella mira;
ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,

sì che, bassando il viso, tutto smore,
e d’ogni suo difetto allor sospira:
fugge dinanzi a lei superbia ed ira.
Aiutatemi, donne, farle onore.

Ogne dolcezza, ogne pensero umile
nasce nel core a chi parlar la sente,
ond’è laudato chi prima la vide.

Quel ch’ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile.

Deh peregrini che pensosi andate,

Deh peregrini che pensosi andate,
forse di cosa che non v’è presente,
venite voi da sì lontana gente,
com’a la vista voi ne dimostrate,

che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone che neente
par che ’ntendesser la sua gravitate?

Se voi restaste per volerlo audire,
certo lo cor de’ sospiri mi dice
che lagrimando n’uscireste pui.

Ell’ha perduta la sua beatrice;
e le parole ch’om di lei pò dire
hanno vertù di far piangere altrui.


2) Liriche del tempo della Vita Nuova, come "Deh, Violetta, che in ombra d'Amore" o come "Amor mi fa sì fedelmente amare".

Deh, Violetta, che in ombra d'Amore

Deh, Violetta, che in ombra d’Amore
negli occhi miei sì subito apparisti,
aggi pietà del cor che tu feristi,
che spera in te e disiando more.
Tu, Violetta, in forma più che umana,

foco mettesti dentro in la mia mente
col tuo piacer ch’io vidi;
poi con atto di spirito cocente
creasti speme, che in parte mi sana
là dove tu mi ridi.

Deh non guardare perché a lei mi fidi,
ma drizza gli occhi al gran disio che m’arde,
ché mille donne già per essere tarde
sentiron pena de l’altrui dolore.

Amor mi fa sì fedelmente amare

Amor mi fa sì fedelmente amare
e sì distretto m’have en suo disire,
che solo un’ora non poria partire
lo core meo da lo suo pensare.

D’Ovidio ciò mi son miso a provare
che disse per lo mal d’Amor guarire,
e ciò ver me non val mai che mentire;
per ch’eo mi rendo a sol merzé chiamare.

E ben conosco omai veracemente
che ’nverso Amor non val forza ned arte,
ingegno né leggenda ch’omo trovi,

mai che merzede ed esser sofferente
e ben servir; così n’have omo parte.
Provedi, amico saggio, se l’approvi.

3) Tenzone con Forese Donati, in cui i due amici, nei modi della lirica "comico-realistica", si scambiano ingiurie; come in "Chi udisse tossir la mal fatata".

Chi udisse tossir la mal fatata

Chi udisse tossir la mal fatata
moglie di Bicci vocato Forese,
potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata
ove si fa ’l cristallo in quel paese.

Di mezzo agosto la truovi infreddata;
or sappi che de’ far d’ogni altro mese!
E non le val perché dorma calzata,
merzé del copertoio c’ha cortonese.

La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia
no l’addovien per omor ch’abbia vecchi
ma per difetto ch’ella sente al nido.

Piange la madre, c’ha più d’una doglia,
dicendo: "Lassa, che per fichi secchi
messa l’avre’ ’n casa del conte Guido!".


4) Rime allegoriche e dottrinali, comprese le canzoni del Convivio, come "Parole mie che per lo mondo siete".

Parole mie che per lo mondo siete,

Parole mie che per lo mondo siete,
voi che nasceste poi ch’io cominciai
a dir per quella donna in cui errai
"Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete".

andatevene a lei, che la sapete,
chiamando sì ch’ell’oda i vostri guai;
ditele: "Noi siam vostre, ed unquemai
più che noi siamo non ci vederete".

Con lei non state, ché non v’è Amore;
ma gite a torno in abito dolente
a guisa de le vostre antiche sore.

Quando trovate donna di valore,
gittatelevi a’ piedi umilemente,
dicendo: "A voi dovem noi fare onore".



5) Rime per la cosiddetta pargoletta ( come in "I' mi son pargoletta" - o come in "Chi guarderà già mai sanza paura"), scesa dal cielo per mostrare la sua bellezza e restia all'innamoramento, a causa della sua giovanezza scontrosa.

I’ mi son pargoletta

«I’ mi son pargoletta bella e nova,
che son venuta per mostrare altrui
de le bellezze del loco ond’io fui.
I’ fui del cielo, e tornerovvi ancora
per dar de la mia luce altrui diletto;
e chi mi vede e non se ne innamora
d’amor non averà mai intelletto,
ché non mi fu in piacer alcun disdetto
quando Natura mi chiese a Colui
che volle, donne, accompagnarmi a vui.
Ciascuna stella ne li occhi mi piove
del lume suo e de la sua vertute;
le mie bellezze sono al mondo nove,
però che di là su mi son venute:
le quai non posson esser canosciute
se non da canoscenza d’omo in cui
Amor si metta per piacer altrui».
Queste parole si leggon nel viso
d’un’angioletta che ci è apparita;
e io, che per veder lei mirai fiso,
ne sono a rischio di perder la vita:
però ch’io ricevetti tal ferita
da un ch’io vidi dentro a li occhi sui,
ch’i’ vo piangendo e non m’acchetai poi.

Chi guarderà già mai sanza paura

Chi guarderà già mai sanza paura
ne li occhi d’esta bella pargoletta,
che m’hanno concio sì, che non s’aspetta
per me se non la morte, che m’è dura?

Vedete quanto è forte mia ventura,
che fu tra l’altre la mia vita eletta
per dare essemplo altrui, ch’uom non si metta
in rischio di mirar la sua figura.

Destinata mi fu questa finita
da ch’un uom convenia esser disfatto,
perch’altri fosse di pericol tratto;

e però, lasso!, fu’ io così ratto
in trarre a me ’l contrario de la vita,
come vertù di stella margherita.


6) Rime "petrose", ovvero dedicate a una donna indicata come Pietra, per la sua insensibilità e il suo rifiuto dell'amore, come "Amor, tu vedi ben che questa donna".

Amor, tu vedi ben che questa donna

Amor, tu vedi ben che questa donna
la tua vertù non cura in alcun tempo
che suol de l’altre belle farsi donna;
e poi s’accorse ch’ell’era mia donna
per lo tuo raggio ch’al volto mi luce,
d’ogne crudelità si fece donna;
sì che non par ch’ell’abbia cor di donna
ma di qual fiera l’ha d’amor più freddo;
ché per lo tempo caldo e per lo freddo
mi fa sembiante pur come una donna
che fosse fatta d’una bella petra
per man di quei che me’ intagliasse in petra.

E io, che son costante più che petra
in ubidirti per bieltà di donna,
porto nascoso il colpo de la petra,
con la qual tu mi desti come a petra
che t’avesse innoiato lungo tempo,
tal che m’andò al core ov’io son petra.
E mai non si scoperse alcuna petra
o da splendor di sole o da sua luce,
che tanta avesse né vertù né luce
che mi potesse atar da questa petra,
sì ch’ella non mi meni col suo freddo
colà dov’io sarò di morte freddo.

Segnor, tu sai che per algente freddo
l’acqua diventa cristallina petra
là sotto tramontana ov’è il gran freddo
e l’aere sempre in elemento freddo
vi si converte, sì che l’acqua è donna
in quella parte per cagion del freddo:
così dinanzi dal sembiante freddo
mi ghiaccia sopra il sangue d’ogne tempo,
e quel pensiero che m’accorcia il tempo
mi si converte tutto in corpo freddo,
che m’esce poi per mezzo de la luce
là ond’entrò la dispietata luce.

In lei s’accoglie d’ogni bieltà luce:
così di tutta crudeltate il freddo
le corre al core, ove non va tua luce:
per che ne li occhi sì bella mi luce
quando la miro, ch’io la veggio in petra,
e po’ in ogni altro ov’io volga mia luce.
Da li occhi suoi mi ven la dolce luce
che mi fa non caler d’ogn’altra donna:
così foss’ella più pietosa donna
ver me, che chiamo di notte e di luce,
solo per lei servire, e luogo e tempo!
Né per altro disio viver gran tempo.

Però, Vertù che se’ prima che tempo,
prima che moto o che sensibil luce,
increscati di me, c’ho sì mal tempo:
entrale in core omai, ché ben n’è tempo,
sì che per te n’esca fuor lo freddo
che non mi lascia aver, com’altri, tempo;
ché se mi giunge lo tuo forte tempo
in tal stato, questa gentil petra
mi vedrà coricare in poca petra
per non levarmi se non dopo il tempo,
quando vedrò se mai fu bella donna
nel mondo come questa acerba donna.

Canzone, io porto ne la mente donna
tal, che con tutto ch’ella mi sia petra,
mi dà baldanza, ond’ogni uom mi par freddo;
sì ch’io ardisco a far per questo freddo
la novità che per tua forma luce,
che non fu mai pensata in alcun tempo.



7) Rime varie del tempo dell'esilio (più elevata e più nota, fra tutte, è "Tre donne intorno al cor mi son venute" - "Detta della Giustizia" - VEDI SOTTO).

Tre donne intorno al cor (Canzone detta della Giustizia).

Tre donne intorno al cor mi son venute
e seggonsi di fore:
ché dentro siede Amore,
lo quale è in segnoria de la mia vita.
Tanto son belle e di tante vertute
che ’l possente segnore,
dico quel ch’è nel core,
a pena del parlar di lor s’aita.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca
e cui vertute né beltà non vale.
Tempo fu già nel quale,
secondo il loro parlar, furon dilette;
or sono a tutti in ira ed in non cale.
Queste così solette
venute son come a casa d’amico:
ché sanno ben che dentro è quel ch’io dico.
Dolesi l’una con parole molto,
e ’n su la man si posa
come succisa rosa:
il nudo braccio, di dolor colonna,
sente l’oraggio che cade dal volto;
l’altra man tiene ascosa
la faccia lagrimosa:
discinta e scalza, e sol di sé par donna.
Come Amor prima per la rotta gonna
la vide in parte che il tacere è bello,
egli, pietoso e fello,
di lei e del dolor fece dimanda.
«Oh di pochi vivanda»,
rispose in voce con sospiri mista,
«nostra natura qui a te ci manda:
io, che son la più trista,
son suora a la tua madre, e son Drittura;
povera, vedi, a panni ed a cintura».
Poi che fatta si fu palese e conta,
doglia e vergogna prese
lo mio segnore, e chiese
chi fosser l’altre due ch’eran con lei.
E questa, ch’era sì di pianger pronta,
tosto che lui intese,
più nel dolor s’accese,
dicendo: «A te non duol de gli occhi miei?»
Poi cominciò: «Sì come saper dei,
di fonte nasce il Nilo picciol fiume
quivi dove ’l gran lume
toglie a la terra del vinco la fronda:
sovra la vergin onda
generai io costei che m’è da lato
e che s’asciuga con la treccia bionda.
Questo mio bel portato,
mirando sé ne la chiara fontana,
generò questa che m’è più lontana».
Fenno i sospiri Amore un poco tardo;
e poi con gli occhi molli,
che prima furon folli,
salutò le germane sconsolate.
E poi che prese l’uno e l’altro dardo,
disse: «Drizzate i colli:
ecco l’armi ch’io volli;
per non usar, vedete, son turbate.
Larghezza e Temperanza e l’altre nate
del nostro sangue mendicando vanno.
Però, se questo è danno,
piangano gli occhi e dolgasi la bocca
de li uomini a cui tocca,
che son a’ raggi di cotal ciel giunti;
non noi, che semo de l’etterna rocca:
ché, se noi siamo or punti,
noi pur saremo, e pur tornerà gente
che questo dardo farà star lucente».
E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi
così alti dispersi,
l’essilio che m’è dato, onor mi tegno:
ché, se giudizio o forza di destino
vuol pur che il mondo versi
i bianchi fiori in persi,
cader co’ buoni è pur di lode degno.
E se non che de gli occhi miei ’l bel segno
per lontananza m’è tolto dal viso,
che m’àve in foco miso,
lieve mi conterei ciò che m’è grave.
Ma questo foco m’àve
già consumato sì l’ossa e la polpa
che Morte al petto m’ha posto la chiave.
Onde, s’io ebbi colpa,
più lune ha volto il sol poi che fu spenta,
se colpa muore perché l’uom si penta.
Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom mano,
per veder quel che bella donna chiude:
bastin le parti nude;
lo dolce pome a tutta gente niega,
per cui ciascun man piega.
Ma s’elli avvien che tu alcun mai truovi
amico di virtù, ed e’ ti priega,
fatti di color’ novi,
poi li ti mostra; e ’l fior, ch’è bel di fori,
fa disïar ne li amorosi cori.
Canzone, uccella con le bianche penne;
canzone, caccia con li neri veltri,
che fuggir mi convenne,
ma far mi poterian di pace dono.
Però nol fan che non san quel che sono:
camera di perdon savio uomo non serra,
ché ’l perdonare è bel vincer di guerra.



La cronologia di Contini (1939)
Rispetto all'edizione Barbi del '21, che suddivideva le rime in sezioni tematiche, il corpus stabilito da Gianfranco Contini cerca di rispettare l'ordine cronologico nella misura del possibile, secondo criteri di "sottrazione" e negazione, che in parte correggono le ragioni generiche e "inclusive" di Barbi. L'edizione del '39, infatti, raccoglie solo le rime "estravaganti", quelle, cioè che rimasero esterne alla Vita Nova e al Convivio, e incorpora, in una sezione a parte, tutte quelle liriche considerate "dubbie". Ne deriva un corpus apparentemente disorganico, che però trova risposta nella costante tensione sperimentale di Dante poeta. Secondo Contini, l'evoluzione tecnica di Dante è costantemente associata alla sua evoluzione spirituale: la discontinuità stilistica riflette un "processo di inquietudine permanente" che costituisce la vera linea unitaria delle Rime. A partire giustamente dal processo sperimentale di Dante è possibile, tuttavia, ipotizzare per il corpus una cartografia dinamica per nuclei stilistici e ideologici.

Le rime giovanili comprendono componimenti che riflettono le varie tendenze della lirica cortese del tempo.

- Fase guittoniana, quella dello scambio di sonetti con Dante da Maiano, in cui si discutono le ragioni di Amore. Si tratta della primissima fase di apprendimento poetico di Dante, guittoniana per il tecnicismo, per l'uso di rime equivoche e difficili (in -oco o -aggio, ad esempio), topoi specifici della casistica provenzale (la camicia, la ghirlanda, ad esempio) e un linguaggio particolarmente ricco di provenzalismi (bieltate, certanamente, riccore etc.), anche se non mancano alcuni toni già stilnovistici, come in

" Se Lippo amico se’ tu che mi leggi" VEDI SOTTO)

Se Lippo amico se’ tu che mi leggi,

Se Lippo amico se’ tu che mi leggi,
davanti che proveggi
a le parole che dir ti prometto,
da parte di colui che mi t’ha scritto
in tua balia mi metto

e recoti salute quali eleggi.
Per tuo onor audir prego mi deggi
e con l’udir richeggi
ad ascoltar la mente e lo ’ntelletto:
io che m’appello umile sonetto,

davanti al tuo cospetto
vegno, perché al non caler [non] feggi.
Lo qual ti guido esta pulcella nuda,
che ven di dietro a me sì vergognosa,
ch’a torno gir non osa,

perch’ella non ha vesta in che si chiuda:
e priego il gentil cor che ’n te riposa
che la rivesta e tegnala per druda,
sì che sia conosciuda
e possa andar là ’vunque è disiosa.


- Fase guinizzelliana con i motivi tipicamente stilnovistici della donna salvifica, della potenza miracolosa dello sguardo di lei, come in "Perchè ti vedi giovinetta e bella "

Perchè ti vedi giovinetta e bella

Perché ti vedi giovinetta e bella,
tanto che svegli ne la mente Amore,
pres’hai orgoglio e durezza nel core.
Orgogliosa se’ fatta e per me dura,
po’ che d’ancider me, lasso!, ti prove:

credo che ’l facci per esser sicura
se la vertù d’Amore a morte move.
Ma perché preso più ch’altro mi trove,
non hai respetto alcun del mi’ dolore.
Possi tu spermentar lo suo valore!


- Fase cavalcantiana, quella dell'amore doloroso e paralizzante. Tra le rime di questa fase ricordiamo la canzone 20 (E' m'incresce di me sì duramente - VEDI SOTTO) la canzone 21 (Lo doloroso amor che mi conduce), in cui l'Amore diventa motivo di pena e di morte, e il sonetto 25 (Un dì si venne a me Malinconia VEDI SOTTO), che preannuncia attraverso la prosopopea della Malinconia e di Amore vestito di nero, la morte della donna amata: tutte escluse dalla Vita Nova probabilmente perché questo carattere mortifero dell'amore era incompatibile con le qualità luminose e salutifere della esperienza amorosa, che con quest'opera Dante vuole rendere assoluta e paradigmatica.

E’ m’incresce di

E’ m’incresce di me sì duramente
ch’altrettanto di doglia
mi reca la pietà quanto ’l martiro,
lasso, però che dolorosamente
sento contro mia voglia
raccoglier l’aire del sezza’ sospiro
entro ’n quel cor che i belli occhi feriro
quando li aperse Amor con le sue mani
per conducermi al tempo che mi sface.
Oïmè, quanto piani,
soavi e dolci ver’ me si levaro,
quand’elli incominciaro
la morte mia, che tanto mi dispiace,
dicendo: «Nostro lume porta pace».
«Noi darem pace al core, a voi diletto»,
diceano a li occhi miei
quei de la bella donna alcuna volta;
ma poi che sepper di loro intelletto
che per forza di lei
m’era la mente già ben tutta tolta,
con le insegne d’Amor dieder la volta,
sì che la loro vittorïosa vista
poi non si vide pur una fïata:
ond’è rimasta trista
l’anima mia che n’attendea conforto,
e ora quasi morto
vede lo core a cui era sposata,
e partir la convene innamorata.
Innamorata se ne va piangendo
fora di questa vita
la sconsolata, ché la caccia Amore.
Ella si move quinci sì dolendo
ch’anzi la sua partita
l’ascolta con pietate il suo fattore.
Ristretta s’è entro il mezzo del core
con quella vita che rimane spenta
solo in quel punto ch’ella si va via;
e ivi si lamenta
d’Amor, che fuor d’esto mondo la caccia;
e spessamente abbraccia
li spiriti che piangon tuttavia,
però che perdon la lor compagnia.
L’imagine di questa donna siede
su ne la mente ancora,
là ’ve la pose quei che fu sua guida;
e non le pesa del mal ch’ella vede,
anzi vie più bella ora
che mai e vie più lieta par che rida;
e alza li occhi micidiali, e grida
sopra colei che piange il suo partire:
«Vanne, misera, fuor, vattene omai».
Questo grida il desire
che mi combatte così come sole,
avvegna che men dole,
però che ’l mio sentire è meno assai
ed è più presso al terminar de’ guai.
Lo giorno che costei nel mondo venne,
secondo che si trova
nel libro de la mente che vien meno,
la mia persona pargola sostenne
una passïon nova,
tal ch’io rimasi di paura pieno;
ch’a tutte mie virtù fu posto un freno
subitamente, sì ch’io caddi in terra,
per una luce che nel cuor percosse:
e se ’l libro non erra,
lo spirito maggior tremò sì forte
che parve ben che morte
per lui in questo mondo giunta fosse:
ma or ne incresce a quei che questo mosse.
Quando m’apparve poi la gran biltate
che sì mi fa dolere,
donne gentili a cu’ i’ ho parlato,
quella virtù che ha più nobilitate,
mirando nel piacere,
s'accorse ben che 'l suo male era nato;
e conobbe il disio ch'era creato
per lo mirare intento ch’ella fece;
sì che piangendo disse a l’altre poi:
«Qui giugnerà, in vece
d’una ch’io vidi, la bella figura,
che già mi fa paura;
che sarà donna sopra tutte noi,
tosto che fia piacer de li occhi suoi».
Io ho parlato a voi, giovani donne,
che avete li occhi di bellezze ornati
e la mente d’amor vinta e pensosa,
perché raccomandati
vi sian li detti miei ovunque sono:
e ’nnanzi a voi perdono
la morte mia a quella bella cosa
che me n’ha colpa e mai non fu pietosa.

Lo doloroso amor ...

Lo doloroso amor che mi conduce
a fin di morte per piacer di quella
che lo mio cor solea tener gioioso,
m’ha tolto e toglie ciascun dì la luce
che avâan li occhi miei di tale stella
che non credea di lei mai star doglioso:
e ’l colpo suo, c’ho portato nascoso,
omai si scopre per soverchia pena,
la qual nasce del foco
che m’ha tratto di gioco,
sì ch’altro mai che male io non aspetto;
e ’l viver mio (omai esser de’ poco)
fin a la morte mia sospira e dice:
«Per quella moro c’ha nome Beatrice».
iQuel dolce nome, che mi fa il cor agro,
tutte fïate ch’i’ lo vedrò scritto
mi farà nuovo ogni dolor ch’io sento;
e de la doglia diverrò sì magro
de la persona, e ’l viso tanto afflitto,
che qual mi vederà n’avrà pavento.
E allor non trarrà sì poco vento
che non mi meni, sì ch’io cadrò freddo;
e per tal verrò morto,
e ’l dolor sarà scorto
con l’anima che sen girà sì trista;
e sempre mai con lei starà ricolto,
ricordando la gio’ del dolce viso,
a che nïente par lo paradiso.
Pensando a quel che d’Amore ho provato,
l’anima mia non chiede altro diletto,
né il penar non cura il quale attende;
ché, poi che ’l corpo sarà consumato,
se n’anderà l’amor che m’ha sì stretto
con lei a Quel ch’ogni ragione intende;
e se del suo peccar pace no i rende,
partirassi col tormentar ch’è degna,
sì che non ne paventa;
e starà tanto attenta
d’imaginar colei per cui s’è mossa,
che nulla pena avrà ched ella senta;
sì che, se ’n questo mondo l’ho perduto,
Amor ne l’altro men darà tributo.
Morte, che fai piacere a questa donna,
per pietà, innanzi che tu mi discigli,
va’ da lei, fatti dire
perché m’avvien che la luce di quegli
che mi fan tristo, mi sia così tolta:
se per altrui ella fosse ricolta,
falmi sentire, e trarra’mi d’errore,
e assai finirò con men dolore.

Un dì si venne a me Malinconia

Un dì si venne a me Malinconia
e disse: «Io voglio un poco stare teco»;
e parve a me ch’ella menasse seco
Dolore e Ira per sua compagnia.

E io le dissi: «Partiti, va’ via»;
ed ella mi rispose come un greco:
e ragionando a grande agio meco,
guardai e vidi Amore, che venia

vestito di novo d’un drappo nero,
e nel suo capo portava un cappello;
e certo lacrimava pur di vero.

Ed eo li dissi: «Che hai, cattivello?»
Ed el rispose: «Eo ho guai e pensero,
ché nostra donna mor, dolce fratello».



Tra questo gruppo di testi Dante aveva già raccolto quelli che dovevano entrare a far parte della Vita nuova, opera incentrata sulla figura di Beatrice, che infatti non rientrano nella raccolta delle Rime.

Rime allegoriche e dottrinali
Dopo la morte di Beatrice nel 1290 e la composizione della "Vita Nuova", nei temi della poesia di Dante ha luogo una svolta. Nel Convivio, Dante racconta come fosse sorta in lui una passione ardente per la filosofia, identificata allegoricamente con la donna gentile che aveva consolato il suo dolore. Da questo nuovo amore nascono alcune canzoni in cui perdura lo stile dolce della fase precedente ma si afferma un'impostazione esclusivamente allegorica, per cui, sotto l'immagine della donna di cui il poeta canta l'amore, si cela in realtà un'astrazione. È evidente che si tratta di riorganizzazioni ideologiche e stilistiche operate dopo la composizione delle rime. Sempre secondo la cronologia di Contini, la canzone 30 "Poscia ch'amor del tutto m'ha lascato " (detta della Leggiadria - VEDI SOTTO), la 47 "Tre donne intorno al cor" (della Giustizia) e la 49 "Doglia mi reca nello core ardire" (della Liberalità -VEDI SOTTO) erano probabilmente destinate all'inclusione nei capitoli del Convivio che non furono mai scritti.

Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato,

Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato,
non per mio grato,
ché stato non avea tanto gioioso,
ma però che pietoso
fu tanto del meo core
che non sofferse d’ascoltar suo pianto;
i’ canterò così disamorato
contra ’l peccato,
ch’è nato in noi, di chiamare a ritroso
tal ch’è vile e noioso
con nome di valore,
cioè di leggiadria, ch’è bella tanto
che fa degno di manto
imperïal colui dov’ella regna:
ell’è verace insegna
la qual dimostra u’ la vertù dimora;
per ch’io son certo, se ben la difendo
nel dir com’io la ’ntendo,
ch’Amor di sé mi farà grazia ancora.
Sono che per gittar via loro avere
credon potere
capere là dove li boni stanno,
che dopo morte fanno
riparo ne la mente
a quei cotanti c’hanno canoscenza.
Ma lor messione a’ bon’ non pò piacere,
perché tenere
savere fora, e fuggiriano il danno,
che si aggiugne a lo ’nganno
di loro e de la gente
c’hanno falso iudicio in lor sentenza.
Qual non dirà fallenza
divorar cibo ed a lussuria intendere?
ornarsi, come vendere
si dovesse al mercato di non saggi?
ché ’l saggio non pregia om per vestimenta,
ch’altrui sono ornamenta,
ma pregia il senno e li genti coraggi.

Doglia mi reca ne lo core ardire

Doglia mi reca ne lo core ardire
a voler ch’è di veritate amico;
però, donne, s’io dico
parole quasi contra a tutta gente,
non vi maravigliate,

ma conoscete il vil vostro disire;
che la beltà d’Amore in voi consente,
a vertù solamente
formata fu dal suo decreto antico,
contra ’l qual voi fallate.

Io dico a voi che siete innamorate
che se vertute a noi
fu data, e beltà a voi,
e a costui di due potere un fare,
voi non dovreste amare,

ma coprir quanto di biltà v’è dato,
poi che non c’è vertù, ch’era suo segno.
Lasso! a che dicer vegno?
Dico che bel disdegno
sarebbe in donna, di ragion laudato,

partir beltà da sè per suo commiato.
Omo da sè vertù fatto ha lontana;
omo no, mala bestia ch’om simiglia.
O Deo, qual maraviglia
voler cadere in servo di signore,

o ver di vita in morte!
Vertute, al suo fattor sempre sottana,
lui obedisce e lui acquista onore,
donne, tanto che Amore
la segna d’eccellente sua famiglia

ne la beata corte:
lietamente esce da le belle porte,
a la sua donna torna;
lieta va e soggiorna,
lietamente ovra suo gran vassallaggio;

per lo corto viaggio
conserva, adorna, accresce ciò che trova;
Morte repugna sì, che lei non cura.
O cara ancella, e pura,
colt’hai nel ciel misura;

tu sola fai segnore, e quest’è prova
che tu se’ possession che sempre giova.
Servo non di signor, ma di vil servo
si fa chi da cotal serva si scosta.
Vedete quanto costa,

se ragionate l’uno e l’altro danno,
a chi da lei si svia:
questo servo signor tant’è protervo,
che gli occhi ch’a la mente lume fanno
chiusi per lui si stanno,

sì che per gir ne convene a colui posta,
ch’adocchia pur follia.
Ma perché lo meo dire util vi sia,
discenderò del tutto
in parte ed in costrutto

più lieve, sì che men grave s’intende;
ché rado sotto benda
parola oscura giugne ad intelletto;
per che parlar con voi si vole aperto:
ma questo vo’ per merto,

per voi, non per me certo,
ch’abbiate a vil ciascuno e a dispetto,
ché simiglianza fa nascer diletto.
Chi è servo è come quello ch’è seguace
ratto a segnore, e non sa dove vada,

per dolorosa strada;
come l’avaro seguitando avere,
ch’a tutti segnoreggia.
Corre l’avaro, ma più fugge pace:
oh mente cieca, che non pò vedere

lo suo folle volere
che ’l numero, ch’ognora a passar bada,
che ’nfinito vaneggia!
Ecco giunta colei che ne pareggia:
dimmi, che hai tu fatto,

cieco avaro disfatto?
Rispondimi, se puoi altro che nulla.
Maladetta tua culla,
che lusingò cotanti sonni invano!
Maladetto lo tuo perduto pane,

che non si perde al cane!
ché da sera e da mane
hai raunato e stretto ad ambo mano
ciò che sì tosto si rifà lontano.
Come con dismisura si rauna,

così con dismisura si distringe:
questo è quello che pinge
molti in servaggio; e s’alcun si difende,
non è sanza gran briga.
Morte, che fai? che fai fera Fortuna,

che non solvete quel che non si spende?
se ’l fate, a cui si rende?
Non so, poscia che tal cerchio ne cinge
che di là su ne riga.
Colpa è de la ragion che nol castiga.

Se vol dire "I’ son presa",
ah com poca difesa
mostra segnore a cui servo sormonta!
Qui si raddoppia l’onta,
se ben si guarda là dov’io addito,

falsi animali, a voi ed altrui crudi,
che vedete gir nudi
per colli e per paludi
omini innanzi cui vizio è fuggito,
e voi tenete vil fango vestito.

Fassi dinanzi da l’avaro volto
vertù, che i suoi nimici a pace invita,
con matera pulita,
per allettarlo a sé; ma poco vale,
ché sempre fugge l’esca.

Poi che girato l’ha chiamando molto,
gitta ’l pasto ver lui, tanto glien cale;
ma quei non v’apre l’ale:
e se pur vene quand’ell’è partita,
tanto par che li ’ncresca

come ciò possa dar, sì che non esca
dal benefizio loda.
I’ vo’ che ciascun m’oda:
chi con tardare, e chi con vana vista,
chi con sembianza trista

volge il donare in vender tanto caro
quanto sa sol chi tal compera paga.
Volete udir se piaga?
Tanto chi prende smaga,
che ’l negar poscia non li pare amaro.

Così altrui e sé concia l’avaro.
Disvelato v’ho, donne, in alcun membro
la viltà de la gente che vi mira,
perché l’aggiate in ira;
ma troppo è più ancor quel che s’asconde

perché a dicerne è lado.
In ciascun è di ciascun vizio assembro,
per che amistà nel mondo si confonde;
ché l’amorose fronde
di radice di ben altro ben tira,

poi sol simile è in grado.
Vedete come conchiudendo vado:
che non dee creder quella
cui par bene esser bella,
esser amata da questi cotali;

che se beltà tra i mali
volemo annumerar, creder si pone,
chiamando amore appetito di fera.
Oh cotal donna pera
che sua biltà dischiera

da natural bontà per tal cagione,
e crede amor fuor d’orto di ragione!
Canzone, presso di qui è una donna
ch’è del nostro paese;
bella, saggia, e cortese

la chiaman tutti, e neun se n’accorge
quando suo nome porge,
Bianca, Giovanna, Contessa chiamando:
a costei te ne va chiusa ed onesta;
prima con lei t’arresta,

prima a lei manifesta
quel che tu se’ e quel per ch’io ti mando;
poi seguirai secondo suo comando.


Le Rime "Petrose"
Si tratta di un ciclo di quattro componimenti (43-46 dell'edizione Contini): due canzoni, una sestina e una sestina doppia, che tematizzano l'amore per la donna "Petra" che secondo alcune interpretazioni potrebbe essere un'allegoria della filosofia o una personificazione allegorica. Queste rime che prendono il nome dalla stessa donna (reale o allegorica) a cui sono dedicate si caratterizzano per il nuovo concetto di amore che viene proposto da Dante: infatti i versi si caricano di un amore passionale e carnale in cui si sprigiona una grande forza erotica, molto lontano dall'amore ideale e spirituale che Dante prova per Beatrice. Queste caratteristiche dei versi segnalano un ritorno di Dante al primo provenzalismo, a quel "trobar clus" di Arnaut Daniel non riciclato dai guittoniani, a un poetare oscuro, crudo, drammatico che mette in forma la durezza e la crudeltà dell'amore di "Pietra". L'asprezza di questa parola poetica, la difficoltà a verbalizzare, seppur liricamente, la realtà tale che si presenta nelle Petrose (cupamente invernale, inorganica, deserta) anticiperebbe alcune atmosfere visive e stilistiche dell'Inferno. Per quanto riguarda una possibile datazione delle Petrose, la perifrasi astrologica che si articola nella fronte della prima stanza della canzone 43 segnalerebbe il dicembre 1296. Madonna Petra viene presentata come dura, insensibile, refrattaria all'amore del poeta. Così nel mio parlar voglio esser aspro (VEDI SOTTO).

Così nel mio parlar voglio esser aspro

Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda,
e veste sua persona d’un dïaspro
tal che per lui, o perch’ella s’arretra,
non esce di faretra
saetta che già mai la colga ignuda;
ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda
né si dilunghi da’ colpi mortali,
che, com’avesser ali,
giungono altrui e spezzan ciascun’arme:
sì ch’io non so da lei né posso atarme.
Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi
né loco che dal suo viso m’asconda:
ché, come fior di fronda,
così de la mia mente tien la cima.
Cotanto del mio mal par che si prezzi
quanto legno di mar che non lieva onda;
e ’l peso che m’affonda
è tal che non potrebbe adequar rima.
Ahi angosciosa e dispietata lima
che sordamente la mia vita scemi,
perché non ti ritemi
sì di rodermi il core a scorza a scorza
com’io di dire altrui chi ti dà forza?
Ché più mi triema il cor qualora io penso
di lei in parte ov’altri li occhi induca,
per tema non traluca
lo mio penser di fuor sì che si scopra,
ch’io non fo de la morte, che ogni senso
co li denti d’Amor già mi manduca:
ciò è che ’l pensier brucala
lor vertù, sì che n’allenta l’opra.
E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra
con quella spada ond’elli ancise Dido,
Amore, a cui io grido
merzé chiamando, e umilmente il priego:
ed el d’ogni merzé par messo al niego.
Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida
la debole mia vita, esto perverso,
che disteso a riverso
mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco:
allor mi surgon ne la mente strida;
e ’l sangue, ch’è per le vene disperso,
fuggendo corre verso
lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco.
Elli mi fiede sotto il braccio manco
sì forte che ’l dolor nel cor rimbalza;
allor dico: «S’elli alza
un’altra volta, Morte m’avrà chiuso
prima che ’l colpo sia disceso giuso».
Così vedess’io lui fender per mezzo
lo core a la crudele che ’l mio squatra;
poi non mi sarebb’atra
la morte, ov’io per sua bellezza corro:
ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo
questa scherana micidiale e latra.
Oimè, perché non latra
per me, com’io per lei, nel caldo borro?
ché tosto griderei: «Io vi soccorro»;
e fare’l volentier, sì come quelli
che ne’ biondi capelli
ch’Amor per consumarmi increspa e dora
metterei mano, e piacere’le allora.
S’io avessi le belle trecce prese,
che fatte son per me scudiscio e ferza,
pigliandole anzi terza,
con esse passerei vespero e squille:
e non sarei pietoso né cortese,
anzi farei com’orso quando scherza;
e se Amor me ne sferza,
io mi vendicherei di più di mille.
Ancor ne li occhi, ond’escon le faville
che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,
guarderei presso e fiso,
per vendicar lo fuggir che mi face;
e poi le renderei con amor pace.
Canzon, vattene dritto a quella donna
che m’ha ferito il core e che m’invola
quello ond’io ho più gola,
e dàlle per lo cor d’una saetta:
ché bell’onor s’acquista in far vendetta.


Le caratteristiche dell’amore di Dante per Petra sono:
- La dama è rappresentata in termini concreti, reali, materiali;
- Vi è la totale mancanza di sublimazione e idealizzazione della donna;
- Il tipo di Amore che il poeta prova, caratterizzato esclusivamente come sensazione fisica e carnale.
- La violenza con cui il poeta si rivolge alla dama: egli desidera che lei provi lo stesso dolore che prova lui non essendo corrisposto e ha un forte desiderio di vendetta.
Le scelte formali e stilistiche che adotta il poeta riscontrano questa violenza:
- Ricerca di suoni aspri e disarmonici soprattutto in sede di rima;
- Utilizzo di termini sia rari che espressivi, concreti, materiali;
- Rime strane, insolite, preziose;
- Struttura sintattica non piana, ma articolata in subordinate con numerosi iperbati e anastrofi (inversioni).
Questo stile riprende in parte i caratteri del Tobar Clus provenzale, e si ritrova nei versi finali de "L'Inferno" della "Divina Commedia" che per questo vengono chiamati "rime aspre e chiocce".Questa serie di canzoni è un esempio di come i poeti medioevali, di cui Dante è il maggiore esponente, sapessero adeguare il proprio stile ai contenuti che volevano esprimere e non viceversa. "Io son venuto al punto della rota"

Io son venuto al punto de la rota

Io son venuto al punto de la rota
che l’orizzonte, quando il sol si corca,
ci partorisce il geminato cielo,
e la stella d’amor ci sta remota
per lo raggio lucente che la ’nforca
sì di traverso, che le si fa velo;
e quel pianeta che conforta il gelo
si mostra tutto a noi per lo grand’arco
nel qual ciascun di sette fa poca ombra:
e però non disgombra
un sol penser d’amore, ond’io son carco,
la mente mia, ch’è più dura che petra
in tener forte imagine di petra.

Levasi de la rena d’Etiopia
lo vento peregrin che l’aere turba,
per la spera del sol ch’ora la scalda;
e passa il mare, onde conduce copia
di nebbia tal, che, s’altro non la sturba,
questo emisperio chiude tutto e salda;
e poi si solve, e cade in bianca falda
di fredda neve ed in noiosa pioggia,
onde l’aere s’attrista tutto e piagne:
e Amor, che sue ragne
ritira in alto pel vento che pioggia,
non m’abbandona; sì è bella donna
questa crudel che m’è data per donna.

Fuggito è ogne augel che ’l caldo segue
del paese d’Europa, che non perde
le sette stelle gelide unquemai;
e li altri han posto a le lor voci triegue
per non sonarle infino al tempo verde,
se ciò non fosse per cagion di guai;
e tutti li animali che son gai
di lor notura, son d’amor disciolti,
però che ’l freddo lor spirito ammorta:
e ’l mio più d’amor porta;
ché li dolzi pensier non mi son tolti
né mi son dati per volta di tempo,
ma donna li mi dà c’ha picciol tempo.

Passato hanno lor termine le fronde
che trasse fuor la vertù d’Ariete
per adornare il mondo, e morta è l’erba;
ramo di foglia verde a noi s’asconde
se non se in lauro, in pino o in abete
o in alcun che sua verdura serba;
e tanto è la stagion forte ed acerba,
c’ha morti li fioretti per le piagge,
li quai non poten tollerare la brina:
e la crudele spina
però Amor di cor non la mi tragge;
per ch’io son fermo di portarla sempre
ch’io sarò in vita, s’io vivesse sempre.

Versan le vene le fummifere acque
per li vapor che la terra ha nel ventre,
che d’abisso li tira suso in alto;
onde cammino al bel giorno mi piacque
che ora è fatto rivo, e sarà mentre
che durerà del verno il grande assalto;
la terra fa un suol che par di smalto,
e l’acqua morta si converte in vetro
per la freddura che di fuor la serra:
e io de la mia guerra
non son però tornato un passo a retro,
né vo’ tornar; ché se ’l martiro è dolce,
la morte de’ passare ogni altro dolce.

Canzone, or che sarà di me ne l’altro
dolce tempo novello, quando piove
amore in terra da tutti li cieli,
quando per questi geli
amore è solo in me, e non altrove?
Saranne quello ch’è d’un uom di marmo,
se in pargoletta fia per core un marmo.


piccarda
Piccarda Donati fatta rapire dal fratello Corso dal suo convento. La Commedia


Un nuovo commento alle «Rime» di Dante - Di Cludio Giunta.
Paragone Letteratura, 81-82-83 (2009)
Nel 2010 è uscito per i Meridiani Mondadori, a mia cura, una nuova edizione commentata delle Rime di Dante. Quelle che seguono sono alcune considerazioni intorno al modo in cui ho cercato di procedere nel lavoro di commento e agli obiettivi che mi sono posto: considerazioni che, credo, possono interessare (non dico convincere) non solo gli esperti di Dante ma tutti gli studiosi di poesia medievale, se non di poesia tout court. Mi pare infatti che per molti aspetti il ‘caso’ delle Rime di Dante, sia generalizzabile.

1. Le Rime di Dante hanno commenti ottimi. Su tutti, quelli di Contini, Barbi-Maggini e Barbi-Pernicone, Foster e Boyde, De Robertis. Ma buoni spunti si trovano anche in commenti minori oggi meno frequentati: Mattalia, Zonta, Pézard. Data tanta abbondanza, la domanda che bisogna porsi per prima non è tanto «come fare un nuovo commento?» quanto piuttosto «quale commento occorre per questo testo pluricommentato? Su quali problemi soprattutto è bene concentrarsi?» Oppure, e meglio: «su quali problemi è ormai bene non concentrarsi, vuoi perché risolti, nella sostanza, dagli altri commentatori, vuoi perché marginali rispetto ai nostri attuali interessi circa Dante e la letteratura medievale, o vuoi semplicemente perché sin dapprincipio mal posti, cioè non veramente degni di essere presi in considerazione?».
Inizio proprio di qui, da ciò che secondo me in un nuovo commento non dovrebbe trovarsi, e inizio da qui per una ragione ovvia, che mentre il problema di che cosa includere si pone di volta in volta, testo per testo, e si precisa nel corso del lavoro a mano a mano che si ampliano le letture e si accumulano le schede, sicché lo si risolve davvero soltanto alla fine del commento o verso la fine, il problema di che cosa escludere si pone a priori, ancor prima di iniziare le ricerche: e la soluzione al problema non rispecchia i dati nella loro oggettività, posto che questi devono ancora essere trovati e interpretati, bensì il giudizio soggettivo del commentatore e la sua personale idea di ciò che, per l’interpretazione del Dante lirico, è o non è rilevante, i suoi partiti presi insomma.

2. Per cominciare, mi sembra abbia pochissimo interesse la questione dell’ordinamento dei testi, di cui invece molto si è discusso, soprattutto dopo l’edizione De Robertis. E c’è prima da fare un’osservazione generale. Le ricerche sui libri di poesia si sono moltiplicate in questi ultimi anni un po’ in tutti i settori degli studi letterari: dell’argomento si sono occupati i classicisti, i romanisti, i modernisti, e a volte i risultati sono stati interessanti. Si sono anche identificati talvolta, nella tradizione manoscritta, i resti di ‘canzonieri d’autore’, cioè sequenze di testi del cui ordinamento sarebbe responsabile il poeta stesso. Mi pare però che in qualche caso si sia andati troppo oltre, forzando i dati. La cosa è comprensibile: il numero dei poeti e delle poesie è un numero finito. Se parliamo di Medioevo, è un numero tutto sommato basso, e per dire qualcosa di nuovo rispetto a quelli che ci hanno preceduto cerchiamo – non potendo vedere altro – di vedere meglio di loro, di essere più sottili. La cosa è comprensibile, ma così si rischia di essere troppo sottili, di dare importanza a dettagli che non ne hanno, o di interpretare i pochi dati disponibili cercando di farli quadrare con l’idea che si ha già nella testa. Di un ‘libro d’autore’ si è parlato anche nel caso delle Rime di Dante, ma a me questo sembra proprio un caso in cui prove estremamente labili vengono usate per dimostrare una tesi preconcetta. Nelle Rime esistono certamente coppie o terne di testi connessi tra di loro, e che sarebbe assurdo voler separare nell’edizione: per esempio, ed è l’esempio più ovvio, i due sonetti Parole mie e O dolci rime, (VEDI SOTTO) dato che il secondo è la continuazione e la confutazione del primo; o per esempio le due canzoni Io son venuto e Al poco giorno, che se pure, ragionando in astratto, potrebbero risalire a epoche diverse, sono identiche nell’ambientazione invernale e nell’omaggio alla donna-petra. Ma al di là di queste mini-serie non mi pare si possa andare, e non mi pare che si possa dedurre l’esistenza di un originario libro d’autore ‘interpretando’ nel modo più acconcio la tradizione manoscritta. Comunque, in questi casi vedere poco è meglio che vedere troppo.

Parole mie ...

Parole mie che per lo mondo siete,
voi che nasceste poi ch’io cominciai
a dir per quella donna in cui errai:
«Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete»,
andatevene a lei, che la sapete,
chiamando sì ch’ell’oda i vostri guai;
ditele: «Noi siam vostre, ed unquemai
più che noi siamo non ci vederete».
Con lei non state, ché non v’è Amore,
ma gite a torno in abito dolente,
a guisa de le vostre antiche suore.
Quando trovate donna di valore,
gittatelevi a’ piedi umilemente,
dicendo: «A voi dovem noi fare onore».

O dolci rime ...

O dolci rime che parlando andate
de la donna gentil che l’altre onora,
a voi verrà, se non è giunto ancora,
un che direte: «Questi è nostro frate».
4Io vi scongiuro che non l’ascoltiate,
per quel signor che le donne innamora,
ché ne la sua sentenzia non dimora
cosa che amica sia di veritate.
8E se voi foste per le sue parole
mosse a venire inver’ la donna vostra,
non v’arrestate, ma venite a lei.
11Dite: «Madonna, la venuta nostra
è per raccomandarvi un che si dole,
dicendo: Ov’è ’l disio de li occhi miei?»


‘Canzoniere d’autore’ a parte, le Rime di Dante non sono neppure ordinabili secondo la cronologia di composizione, come almeno in parte è possibile fare per le poesie di Petrarca. I testi databili con sicurezza sono pochissimi, e non sono molti neppure quelli di cui si possa dire con certezza se siano stati composti prima o dopo l’esilio. Così, se non credo all’ordinamento ‘filologico’ di De Robertis, credo poco anche a quello cronologico di Barbi, che scandisce la carriera poetica di Dante in stagioni (Rime del tempo della «Vita nuova», Rime della maturità e dell’esilio, eccetera): della maggior parte delle poesie di Dante, Vita nova a parte, non si può fissare la data di composizione neanche approssimativamente. L’ideale sarebbe stato stampare i testi in ordine alfabetico, o raggruppandoli per genere metrico. Non l’ho fatto solo perché non ho voluto moltiplicare gli ordinamenti oltre necessità: ho seguìto Barbi, per le ragioni di: comodità e leggibilità, ma avrei anche potuto seguire De Robertis. Per me, semplicemente, quello dell’ordinamento non è un problema rilevante.

3. Commentando i versi di Dante ho cercato prima di tutto di spiegare quello che vogliono dire. Come nel caso di molti altri testi premoderni, la parafrasi è la cosa più importante e più difficile da fare, e in più punti la difficoltà non è vinta, e si prospettano due o più possibili parafrasi, o si confessa di non capire bene: su questi punti, non soltanto lo studioso ma anche il semplice lettore è chiamato a riflettere, a collaborare. Ho cercato invece di non dare troppo spazio alle analogie puramente formali, cioè a quei ‘rapporti intertestuali’ che collegherebbero le poesie di Dante ad altre opere di altri autori. Le ricerche del tipo ‘gli echi dello scrittore x nello scrittore y’ sono ormai da troppo tempo il passe-partout prediletto di una critica accademica sempre più povera d’anima e – per il lettore che non sia vittima della stessa mania – d’interesse. Negli ultimi anni si sono aggiunte le banche dati elettroniche, che hanno reso l’esercizio ancora più facile. E come risultato abbiamo avuto commenti quasi inservibili, tanto traboccano di rinvii a fantomatici luoghi paralleli che una volta si sarebbero liquidati – a ragione – come clichés, e da cui oggi si traggono invece conseguenze spropositate, interpretazioni spropositate. Ma questo significa venir meno a quello che è il primo dovere del commentatore: e cioè – una volta raccolti i dati – distinguere tra quello che è e quello che non è pertinente e significativo. La ricerca sui data-base rende sempre più facile la prima fase del lavoro: è la seconda, la scrematura e il giudizio, che fa la differenza. Nel caso delle Rime di Dante, a questa considerazione di ordine generale se ne aggiunge un’altra particolare. Il lettore del Canzoniere sa bene che la lirica di Petrarca si nutre spesso di altra lirica: è un codice ad alto tasso di ridondanza, un repertorio di parole e immagini piuttosto ristretto: e – per quante sfumature si vogliano introdurre in questo luogo comune, che nella sostanza è vero – un repertorio quasi per intero letterario, che Petrarca ha creato filtrando la tradizione lirica romanza. Il discorso vale a maggior ragione per i petrarchisti. Vale a dire per esempio che il lettore del primo sonetto delle Rime di Pietro Bembo, Piansi e cantai lo strazio e l'aspra guerra, deve sapere che l’incipit ricorda, e quasi cita, un verso di Petrarca, «Piansi e cantai: non so più mutar verso», altrimenti gli sfugge qualcosa di essenziale intorno al modo in cui Bembo e i suoi contemporanei intendono il fare letteratura. Le Rime di Dante non sono ancora, o sono in grado molto minore, lirica che si nutre di altra lirica. Certo, esistono testi che ricorrono a una topica stilnovista frequentata anche da Cino e da Cavalcanti. Ma come e più della memoria lirica conta, nella poesia di Dante, quella che chiamerei memoria culturale: di testi non solo poetici, o non solo letterari. Su questo tornerò più avanti.

4. Il mio commento si rivolge anche agli studiosi, ma non solo a loro. Perciò – continuo la lista delle rinunce – vorrei evitare di spaventare il lettore comune con schede metrico-retoriche troppo prolisse. Penso a quello che è probabilmente il migliore fra i commenti pubblicati negli ultimi anni, quello di Santagata al Canzoniere di Petarca. Nelle premesse ai singoli testi c’è molto, forse anche troppo. Si tratta sempre di osservazioni giuste, oggettive, in cui non s’inventa nulla. Ma una descrizione troppo minuziosa di quello che c’è, di come è fatto il testo, può lo stesso essere controproducente, può cioè portare ad attribuire ai poeti intenzioni che questi non hanno mai avuto, a vedere disegni, simmetrie o asimmetrie significative là dove non ce ne sono. È il vecchio problema delle iper-descrizioni strutturaliste dei testi, e non è strano che Santagata abbia cominciato a scrivere nel pieno di quella stagione (il libro giovanile Dal sonetto al canzoniere spiega a mio avviso certi aspetti del commento). «Dei dati che Lei reperisce – domandava Contini a Jakobson – quali possono essere considerati significativi, ‘pertinenti’ nel senso tecnico della parola, e quali invece accidentali? Questi ovviamente non sono reali, non sono fatti». È una domanda che resta opportuna, necessaria anzi, per il commentatore più ancora che per il critico. Lunghe e minuziose analisi metrico-retoriche hanno senso in un saggio sistematico (com’è in parte, per restare a Dante, quello di Patrick Boyde su Retorica e stile nella lirica di Dante): ne hanno molto meno quando si parla di individui, di singoli testi (e come risulta da quanto ho detto intorno al non-problema dell’ordinamento, è sempre con individui, mai con sistemi, che ha che fare il commentatore delle Rime).

5. Ho anche cercato di mettere un limite alla bibliografia secondaria, citando soltanto i contributi che ho effettivamente usato. Come altri grandi scrittori, Dante ha una bibliografia critica che, semplicemente, nessuno è più in grado di padroneggiare. Naturalmente le Rime non sono la Commedia, ma anche su alcune delle poesie di Dante (le canzoni petrose, per esempio) si è scritto tanto da rendere molto difficile l’aggiornamento. Molto difficile e, bisogna aggiungere, spesso poco proficuo, in sostanza per due ragioni. Da un lato, da quando la ‘dantistica’ è diventata, una provincia semi-autonoma degli studi (come, credo, la shakespearistica, la cervantistica, eccetera), di Dante hanno potuto scrivere anche studiosi completamente digiuni di nozioni relative alla letteratura o alla storia del Medioevo, alla filologia, e persino a Dante in generale: si isola un testo, o un verso, e su questo si costruisce un intero saggio. E dal momento che Dante è ovviamente patrimonio dell’umanità, non soltanto dell’Italia, un’umanità intera – cioè una parte consistente dell’umanità che si raccoglie nei dipartimenti di studi italiani o europei in giro per il mondo – si è sentita in diritto di dire la sua. Il risultato è stato un ammasso di studi per lo più inutili, o perché inutilmente ripetitivi o perché dedicati a questioni irrilevanti o perché, semplicemente, troppo scadenti per servire a qualche cosa. Dall’altro lato, Dante ha il grave torto di sollecitare le congetture brillanti: è pieno di passaggi oscuri, simboli, allusioni misteriose, crittogrammi che aspettano di essere sciolti e risolti. La Commedia è, si sa, la riserva ideale per questo genere di caccia. Ma anche certe poesie di Dante sono o hanno l’aria d’essere degli indovinelli, e così vengono trattati dagli studiosi. Chi è il messer Brunetto a cui è indirizzato il sonetto Messer Brunetto, questa pulzelletta? (VEDI SOTTO) E cos’è la «pulzelletta»? E cosa significa il sonetto ‘della Garisenda’? E chi sono le varie donne a cui Dante dedica le sue poesie – la pargoletta, Fioretta, Lisetta, eccetera? E quali di queste poesie può o deve essere letta in chiave allegorica, come le canzoni del Convivio? E qual è il segreto nascosto dentro poesie apparentemente chiare come Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (VEDI SOTTO) o come le canzoni ‘petrose’? Di qui il fatto che un buon numero degli interventi sulle Rime sono, in effetti, saggi di enigmistica piuttosto che di storia della letteratura. E l’enigmistica finisce sempre per produrre altri enigmi, o soluzioni più profonde e più vere degli enigmi antichi: e dunque altri saggi, comunicazioni ai congressi, tesi di laurea o di dottorato… In questa situazione, il commentatore ha due possibilità. La prima è dar conto di tutto e discutere tutte le proposte, anche le più assurde. All’inizio pensavo che fosse la cosa giusta da fare (non è questo che si chiede, anche, al Commentatore?), poi ho capito che questo desiderio di completezza è solo retorica, e che avrei dovuto riempire pagine e pagine di contro-argomentazioni rispetto a tesi che il più delle volte non valeva neanche la pena di prendere in considerazione. La seconda possibilità è citare soltanto quello che si adopera, e che serve al proprio discorso, e tacere sul resto.

Messer Brunetto ...

Messer Brunetto, questa pulzelletta
con esso voi si ven la pasqua a fare:
non intendete pasqua di mangiare,
ch’ella non mangia, anzi vuol esser letta.
La sua sentenzia non richiede fretta,
né luogo di romor né da giullare;
anzi si vuol più volte lusingare
prima che ’n intelletto altrui si metta.
Se voi non la intendete in questa guisa,
in vostra gente ha molti frati Alberti
da intender ciò ch’è posto loro in mano.
Con lor vi restringete sanza risa;
e se li altri de’ dubbî non son certi,
ricorrete a la fine a messer Giano.

Guido i' vorrei ...

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
1e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

6. Ciò detto su quello a cui, nel commento, ho deciso di concedere il minor spazio possibile, resta da dire di ciò che invece ho cercato di metterci. Come ho accennato, l’obiettivo principale per chi commenta un testo premoderno è spiegare che cosa il poeta ha voluto dire, cioè capire prima di tutto la lettera del testo. La spiegazione letterale delle Rime di Dante, come quella di qualsiasi altro testo coevo, deve fare i conti con due diversi tipi di difficoltà: difficoltà legate alla lezione dei testi da una parte e difficoltà legate all’ambiguo significato di parole o di frasi la cui lezione è sicura dall’altra. Faccio qualche esempio partendo dal primo genere di difficoltà – la lezione dei testi – per mostrare come anche dopo l’opera di Barbi e De Robertis ci sia ancora spazio per qualche riflessione e per qualche proposta di emendamento. Prendiamo dunque quella che nell’ed. Barbi era la prima delle dubbie (vv. 1-8):

Visto aggio scritto e odito cantare
d’Amor, che ’nfiamma ciascun suo servente;
e tal lodarsi d’esso, e tal biasmare
si sforza ciaschedun suo convenente;
ch’alcun gioioso diven per amare,
e altri amando languisce sovente:
6 se ciò diven d’Amor nol so pensare,
o d’altra cosa che d’amor non sente.
Perciò ritorno a voi, cortese e saggio,
che mi mandiate novelle d'Amore
e come avviene ciò che ditto v'aggio.
Parmi che di battaglia di signore
venga ciascun cui d'Amor cheriraggio:
che d'Amor dica s'ha bene o dolore.

Ma come bisogna intendere la prima quartina? ‘Ho visto scritto e ho sentito cantare dell’Amore […], e (ho visto e sentito) qualcuno rallegrarsi di esso e qualcuno si sforza di biasimare ogni suo fatto’, con il primo tal oggetto e il secondo tal soggetto? Oppure, con si sforza che regge entrambi gli infiniti del v. 3: ‘e qualcuno si sforza di rallegrarsi di esso, e qualcuno si sforza di biasimare ogni suo fatto’? Ma che senso ha dire che qualcuno si sforza di rallegrarsi? Direi che è meglio leggere sì sforza al posto di si sforza, con pausa forte, segnalata dai due punti, dopo biasmare (e lodarsi e biasmare vanno con cantare, tutti e tre retti da visto aggio). E il senso è: ‘Ho visto scritto e sentito cantare d’Amore, che infiamma tutti i suoi servitori, e (ho sentito) qualcuno compiacersi (lodarsi d’esso), qualcuno lamentarsi (biasmare): così, in questo modo (sì) il «suo convenente» costringe ciascuno a fare’, dove suo convenente può voler dire ‘la propria (dell’amante) condizione, situazione, stato’, oppure ‘le sue (di Amore) qualità, le sue caratteristiche’. Questo emendamento mi pare abbastanza sicuro da poterlo accogliere a testo: leggerò sì sforza, non si sforza, segnalando in nota il fatto che le edd. Barbi e De Robertis hanno una lezione diversa. In altri casi la questione è più complicata: c’è qualcosa, nel testo, che non va, ma è possibile proporre più di una rettifica. Nella terza stanza della canzone Lo doloroso amor, in una specie di replica del colloquio in cielo immaginato da Guinizzelli in Al cor gentil, Dante anticipa il momento del giudizio finale (vv. 32-37):

ché poi che ’l corpo sarà consumato
se n’anderà l’amor che m’ha sì stretto
con lei a Quel ch’ogni ragione intende;
e se del suo peccar pace no i rende,
partirassi col tormentar ch’è degna,
sì che non ne paventa.


Così le edd. Barbi e De Robertis. Ma questa costruzione di degna con complemento diretto non sembra plausibile, nell’italiano antico così come oggi: si è degni di qualcosa, non si è degni qualcosa. Avevo pensato allora di leggere
partirassi col tormentar ch’E’ degna,
sì che non ne paventa
Dove E’ starebbe per Ei = Egli = Dio (di cui si parla appena prima con una perifrasi: «Quel ch’ogni ragione intende»). Cioè: ‘se ne andrà col tormento di cui Dio la ritiene degna’, con degna voce del verbo degnare, con lo stesso significato del latino dignor. Poi Marco Santagata mi ha suggerito una lezione alternativa, che collega i vv. 36 e 37:
partirassi col tormentar che degna
sì che non ne paventa
cioè (soggetto è «l’amor che m’ha sì stretto») ‘se ne andrà con un tormento che stima, considera tanto (cioè tanto poco) da non averne (del tormentar) paura’, dove degnare ha il senso, anch’esso attestato, di ‘giudicare con degnazione’. Qual è la lezione giusta? È difficile dire. Io propenderei per quest’ultima, ma è comunque giusto dar conto, nella nota, di tutte e tre le possibilità, in modo che il lettore possa formarsi un’opinione, e magari portare nuovi argomenti a favore dell’una o dell’altra lettura.
Intervenire si può anche, sempre, sulla punteggiatura. Si sa che nei manoscritti antichi i testi di solito non hanno punteggiatura, e quando ce l’hanno si tratta di segni che non corrispondono a quelli attuali, e che in ogni caso sarebbe sbagliato accogliere acriticamente, dato che è ben difficile che risalgano agli originali. Prendiamo per esempio la conclusione della prima stanza di Lo doloroso amor:

Lo doloroso amor che mi conduce
a fin di morte per piacer di quella
che lo mio cor solea tener gioioso
m'ha tolto e toglie ciascun dì la luce
ch'avean gli occhi miei di tale stella,
che non credea di lei mai star doglioso;
e ’l colpo suo, c’ho portato nascoso,
omai si scuopre per soperchia pena,
la qual nasce del foco
che m’ha tratto di gioco,
sì ch’altro mai che male io non aspetto;
e ’l viver mio – omai de’ esser poco –
fin a la morte mia sospira e dice:
«per quella moro c’ha nome Beatrice».


Questo è il testo secondo le edd. Barbi e De Robertis: ‘e la ferita [inferta dalla donna amata], che ho sopportato in silenzio, diventa evidente ormai per il troppo dolore, che nasce dal fuoco che mi ha negato ogni piacere, tanto che io non mi aspetto altro se non il male; e la mia vita – ormai dev’essere poca – sospira fino alla morte e dice: «Muoio per la donna che si chiama Beatrice»’. Ma basta cambiare un po’ l’interpunzione dei vv. 11 e 12, così:

sì ch’altro mai che male io non aspetto,
e ’l viver mio omai de’ esser poco:
fin a la morte mia sospira e dice:
«per quella moro c’ha nome Beatrice»,


perché il passo abbia un significato diverso, e credo più convincente: ‘(tanto che) io non mi aspetto altro se non il male, e (tanto che) la vita mia ormai dev’essere poca: (la vita) sospira fino alla morte’, eccetera. Casi del genere si contano a decine, ed è inutile moltiplicare gli esempi: basti aver coscienza del fatto che l’interpunzione dei testi antichi è sempre incerta, e può anch’essa, sempre, essere materia di discussione.
Nei casi appena visti si trattava semplicemente di leggere meglio: di aggiungere un accento, di separare diversamente le parole, di cambiare la punteggiatura, tutti interventi per cui era sufficiente leggere con attenzione il testo. Ma questa è piuttosto l’eccezione che la regola. Nel sonetto Poi ch’i’ fu, Dante, Cino da Pistoia spiega a Dante che l’esilio lo ha allontanato dalla donna più bella che sia mai stata creata da Dio:

Poi ch’i’ fu’, Dante, dal mio natal sito
fatto per greve essilio pellegrino
e lontanato dal piacer più fino
che mai formasse il Piacer infinito,
i’ son piangendo per lo mondo gito
sdegnato del morir come meschino,
e s'ho trovato a lui simil vicino,
dett'ho che questi m'ha lo cor ferito.
Nè da le prime braccia di Pietate,
onde'l fermato disperar m'assolve,
son mosso, perch'aiuto non aspetti;
ch'un piacer sempre mi lega ed involve,
il qual convien ch'a simil di beltatte
in molte donne sparte mi diletti.

Questa la lezione delle edd. Barbi e De Robertis: con Piacer del v. 4 che ripete il piacer del v. 3. Un antico lettore di Dante, Gian Giacomo Trivulzio, aveva proposto di leggere Poter al posto di Piacer, e questo non sulla base di considerazioni filologiche ma alla luce di un passo della canzone Dappoi ch’io ho perduta ogni speranza di Sennuccio del Bene: «come m’hai tolto dolce intendimento / di rivedere il più bel piacimento / che mai formasse natural potenza»: dove la natural potenza equivarrebbe appunto al ‘Potere (di Dio)’. Piacer sarebbe allora un errore dei manoscritti, una ripetizione del piacer del v. 3, ma una ripetizione che nell’originale non c’era. Messa così, quella del Trivulzio è solo un’osservazione plausibile, ma non conclusiva. Ora però, l’apparato dell’ed. De Robertis ci mostra che la lezione Potere è, in effetti, ben attestata nei manoscritti. Certo, potrebbe essere una banalizzazione. Ma la congruenza con i versi della canzone di Sennuccio lascia pensare che proprio questa possa essere la lezione giusta.

7. Questi erano esempi, alcuni fra i tanti, in cui il compito del commentatore confina o si confonde col compito del filologo: mettere in discussione la lezione tràdita, proporre delle alternative plausibili. La seconda difficoltà che il commentatore si trova di fronte quando cerca di fissare il significato letterale di un testo deriva, come ho detto sopra, dalla possibile ambiguità di parole o di sintagmi la cui lezione è sicura. Anche qui, faccio solo qualche esempio per mostrare come anche passi apparentemente ovvi possano celare delle difficoltà, dunque anche delle occasioni per il nuovo interprete, che può proporre nuove e diverse soluzioni.
Nella ballata Voi che savete ragionar d’Amore, il poeta descrive l’atteggiamento riservato della donna, che non permette a nessuno di guardarla negli occhi:

E certo i’ credo che così li guardi
Per vederli per sé quando le piace,
a quella guisa retta donna face
quando si mira per volere onore.


Ecco come i commentatori hanno parafrasato il v. 19:
- Retta ha una sfumatura di senso non facilmente traducibile, ma non lontano da onesta, nell’accezione dantesca (Contini). - Retta ha indubbiamente un significato molto vicino ad ‘onesta’, secondo l’uso dantesco […], ma giustamente è stato osservato dal Contini che «ha una sfumatura di senso difficilmente afferrabile» (Barbi-Pernicone). - Retta has more or less the sense which Dante gives to onesto (Foster-Boyde). Tutti intendono dunque in questo modo: ‘così come fa una donna onesta quando si specchia’. Ma l’aggettivo retta ‘onesta’ associato alla donna (e a una donna che si guarda allo specchio) non convince del tutto: se è vero che l’epiteto drecha, adrecha si trova qualche volta riferito alla donna, nella lirica dei trovatori, è anche vero che di donne rette non si trovano altri esempi nei testi italiani antichi. Va considerata allora (con Zingarelli e ora con Martelli la possibilità che retta non sia aggettivo che qualifica la donna bensì sostantivo complemento oggetto di face, dal momento che far retta poteva significare ‘far riparo, difesa, ergere una barriera’: cfr. GDLI, s.v. retta, con esempi a partire da Matteo Villani: «messer Malatesta non poté fare retta contro al legato» (e soprattutto, citato da Martelli, Lorenzo il Magnifico: «A’ tuoi colpi non posso più far retta»). Qui l’espressione sarebbe calzante per esprimere un contegno riservato e pudico: ‘a quel modo che una donna fa riparo (con la mano) quando si specchia’. D’altra parte, però: è ammissibile un iperbato così forte, ‘riparo la donna fa’? Si resta nel dubbio, ma nel commento vanno comunque prospettate le due (o più, se è il caso) possibilità, perché il lettore possa farsi una sua opinione. Nel caso appena visto, la possibilità di una lettura alternativa ci è stata suggerita dal dizionario: la parola retta poteva avere, nella lingua antica, un significato diverso rispetto a quello che ha oggi. In altri casi, i dubbi possono essere risolti (o aggravati!) con l’aiuto, oltre che del vocabolario, delle possibili fonti.
Nel sonetto Dante, i’ non so in quale albergo soni, Cino da Pistoia risponde a Dante, il quale aveva scritto all’amico di trovarsi in un luogo «sì rio / che ’l ben non truova chi albergo gli doni».
Cino scrive:

Dante, i’ non odo in quale albergo soni
lo ben, ch’è da ciascun messo in oblio:
è sì gran tempo che di qua fuggio,
che del contrario so· nati li troni;
ma per le variate condizioni
chi'l ben tacesse non risponde al fio:
lo ben, sa' tu, che predicava Iddio
o no'l tacea nel regno de' dimoni.
Dunque, s'al ben ciascun ostello è tolto
nel mondo in ogni parte ove ti giri,
vuo'li tu ancor far dispiacer molto?
Diletto frate mio, di pene involto,
mercè per quella donna che tu miri,
d'opra non star, se di fe' non s'è sciolto.


Questo il commento di Barbi-Pernicone al v. 4: che è nata una gran fama del contrario, cioè del male. Cfr. Storie pistoiesi, 181: «così missono la boce, e andò lo tuono per tutta Toscana». Del bene dunque non si sente neppure la voce, del male si sentono i tuoni! Nell’italiano antico, trono può significare infatti ‘tuono’, e anche ‘fulmine’; ma s’intende che trono esisteva anche nel significato attuale: scranno destinato al re, e a questa seconda accezione (trono = scranno regale, ovvero, fuor di metafora: il male si è insediato come un re) sembrano pensare Contini («è cominciato il dominio del male») e Marti («del contrario del bene [cioè del male] è qui nato il regno»). Mentre all’interpretazione di Barbi-Pernicone ritorna ora De Robertis: i troni sono «i fulmini, le saette: le manifestazioni del male». Quale delle due interpretazioni è da preferire? Da un lato, il rumore dei «troni» intesi come tuoni sarebbe coerente con il ‘suono del bene’ di cui si parla al primo verso. Dall’altro, però, ai «troni» come scranni fanno pensare la successiva menzione del «regno de’ dimoni» e, soprattutto, un’immagine della Bibbia che era senz’altro ben presente a Dante e a Cino: «Qui dicebas in corde tuo: “in caelum conscendam, super astra Dei exaltabo solium meum”» (Is 14, 13: parla Lucifero); «qui separati estis in diem malum, et adpropinquatis solio iniquitatis» (Am 6, 3: un passo che nel De doctrina cristiana, IV VII 18, Agostino interpreta come il presagio di un re iniquo). Dunque, probabilmente (ma sempre di probabilità si tratta, mai di sicurezza), ‘sono nati, hanno preso il potere i troni del male (il contrario del bene)’.
Ma ambigue non sono soltanto le parole. Più spesso ancora lo sono i sintagmi, le frasi intere. Un ultimo esempio, scelto tra i più semplici. A un certo punto della canzone Doglia mi reca, Dante maledice l’uomo avido, e precisamente, come si faceva nel Medioevo (basta ricordare il III canto dell’Inferno, coi dannati che maledicono «il loco e ’l tempo e ’l seme / di lor semenza e di lor nascimenti»), maledice il giorno della sua nascita, perché la sua vita è stata vana:

Maladetta tua culla
che lusingò cotanti sonni invano!
e maladetto il tuo perduto pane,
che non si perde al cane!


Qui ci sono almeno due espressioni non del tutto chiare. Al v. 80, intanto, non bisogna intendere «il tuo perduto pane» come ‘il pane perduto da te’ bensì come ‘il pane sprecato per nutrire te’ (ancor oggi in Toscana un panperso è un fannullone, uno che non vale il pane che mangia). Il v. 81 è più difficile, anche se sulle prime non sembra. Secondo i commentatori il poeta vuol dire che il pane, sprecato (perduto) per nutrire l’avaro, non si spreca neppure quando si dà ai cani: «perché il cane è utile, ma quello che hai mangiato tu è andato perduto perché la tua vita è stata inutile» (BarbiPernicone). Ma il significato del verso è probabilmente opposto, cioè a si perde va dato un valore iussivo, non constativo: ‘che non bisogna dare, perdere, ai cani’, perché il poeta allude qui probabilmente al Vangelo: «non est enim bonum sumere panem filiorum et mittere canibus» (Mc 7, 27). E si veda infatti la traduzione e il commento di un contemporaneo di Dante, Giordano da Pisa: «Non è buono di tòrre il pane, che dee essere de’ figliuoli, e darlo a’ cani»; cioè, fuor di metafora, «male è a dare ai peccatori, ai cani, i beni e le cose del mondo»: che è precisamente ciò che dice Dante in questi versi: perduto è il pane che si dà all’avaro, eguagliato a un cane.

8. Fin qui abbiamo preso in considerazione casi nei quali si trattava di sostituire una lettura ritenuta giusta ad un’altra ritenuta sbagliata. È chiaro però che di solito la questione sta in termini diversi, e cioè si tratta di perfezionare o approfondire le letture correnti, o di difendere un punto di vista invece di un altro nell’interpretazione di un passo a proposito del quale i commentatori hanno espresso opinioni diverse. Tanti testi, dunque, tanti casi e problemi diversi, che non si possono riportare ad un’unica tipologia? In effetti è così: non esiste un protocollo, un metodo che possa andar bene in ogni occasione. Se però da una parte credo sia bene diffidare dei metodi, dall’altra ho un’idea di massima su ciò a cui nel commento alle Rime, a ciascuna delle Rime di Dante, bisogna fare attenzione. A due cose, in particolare.
La prima. Una delle differenze più grandi tra la poesia antica e medievale da un lato e la poesia moderna dall’altro sta nel fatto che la poesia antica e medievale seguono spesso, anche se non sempre, degli schemi tradizionali: vale a dire che il poeta, anziché essere a tutti i costi originale, com’è necessario essere oggi, ripete delle formule, delle situazioni, dei motivi che trova già codificati nella tradizione letteraria. Si pensi al genere dell’alba, diffuso nella poesia mediolatina e in quella romanza. Il motivo è sempre lo stesso, il congedo tra gli amanti dopo una notte d’amore: il nuovo poeta accetta questo schema-base e introduce soltanto delle piccole variazioni. O si pensi al genere della pastorella, che mette in scena l’incontro tra il poeta-amante e una pastorella: cambiano le parole, il metro, la musica, ma la situazione, il motivo-base dell’incontro non cambia. E se i generi puri, le forme fisse come l’alba e la pastorella sono pochi, la poesia antica è piena di clichés che rimbalzano da testo a testo: un certo modo, simile se non uguale, di disporre le parole e i concetti, di articolare gli argomenti, di abbellire l’espressione, tutto quell’insieme di cose, insomma, che fa sì che le poesie medievali sembrino – come suona la battuta famosa di Diez – l’opera di un unico autore che si nasconde sotto molti nomi diversi.
Alla lunga, queste forme oggettive e inautentiche di lirica verranno abbandonate. La poesia moderna non ha più i generi: è lirica e basta, e lirica che dev’essere originale, che può al massimo appoggiarsi alla tradizione, citarla, ma non riprodurla. Leopardi e la dissoluzione dei generi lirici, s’intitola un libro di Maurer, e Leopardi è in effetti colui col quale in Italia si compie questa dissoluzione: il poeta non segue più le regole, non tollera più le barriere, i confini – di genere, registro, linguaggio – che i suoi predecessori avevano tracciato per suddividere artificialmente il campo della poesia.
Dante si trova all’inizio di questo processo. Non scrive (come fa invece Cavalcanti) pastorelle, oppure albe, o congés: non scrive poesia ‘di genere’. E tuttavia l’esperienza dei generi affiora nelle sue liriche come una traccia, una memoria che si deposita nelle parole, nelle formule, nelle immagini. Di qui, per il commentatore, parecchie difficoltà, ma anche altrettante occasioni per ripensare le interpretazioni correnti.
Prendiamo un esempio ben noto. Si sa che un sonetto come Cavalcando l’altr’ier per un cammino recupera un’immagine e un linguaggio da pastorella. I commenti rinviano al genere, non a testi individuati: e invece si dovrebbe e si potrebbe essere più precisi, perché questa è probabilmente una delle rare occasioni in cui la fonte d’ispirazione va cercata piuttosto nella lirica d’oïl che in quella d’oc. Nell’antologia di romanze e pastorelle antico-francesi curata da Bartsch si trovano, di fatto, testi che assomigliano al sonetto di Dante, o almeno ai suoi primi versi, più di quanto gli somigli qualsiasi pastorella provenzale. La traccia del genere letterario permette qui di collegare non solo due testi ma due tradizioni letterarie e linguistiche differenti che però condividono la medesima retorica.
Ecco invece un caso un po’ più difficile, il sonetto Sonar bracchetti:

Sonar bracchetti e cacciatori aizzare,
lepri levare ed isgridar le genti,
e di guinzagli uscir veltri correnti, v per belle piagge volger e ’mboccare, 4
assai credo che deggia dilettare
libero core e van d’intendimenti.
Ed io, fra gli amorosi pensamenti,
d’uno sono schernito in tale affare, 8
e dicemi esto motto per usanza:
«Or ecco leggiadria di gentil core
per una sì selvaggia dilettanza 11
lasciar le donne e lor gaia sembianza!»
Allor, temendo non che ’l senta Amore,
prendo vergogna, onde mi ven pesanza.


Smarrito nei piaceri della caccia, il poeta viene riportato da un «amoroso pensamento» alle «donne e lor gaia sembianza», cioè all’amore. Come tante poesie, come quasi tutte le poesie medievali, anche questo sonetto parla d’amore. Ne parla però in un modo strano, perché quella che Sonar bracchetti presenta è chiaramente una situazione fittizia. Da un lato perché è poco plausibile che il poeta si dibatta davvero nell’incertezza tra il piacere di cacciare e la volontà-necessità di amare, che cioè a un certo punto della sua giornata gli si prospetti il dubbio su cosa fare, se l’una cosa o l’altra. Dall’altro lato, soprattutto, perché la situazione, il conflitto tra queste due attività, ha radici molto profonde nella tradizione letteraria. E si va da casi di semplice contiguità tra la caccia e l’amore, come nel IV libro dell’Eneide, quando una battuta di caccia propizia il primo incontro tra Didone e Enea in una caverna, o come nel poemetto mediolatino Manerius, in cui un giovane cacciatore, smarritosi per inseguire un cervo, incontra una vergine e se ne innamora. A casi nei quali la caccia è presentata come antiafrodisiaco, come nei Remedia amoris di Ovidio, in Orazio, Epodi II (descrive le pratiche della caccia, coi cani e con le reti, e conclude, 37-38 «Quis non malarum quas amor curas habet / haec inter obliviscitur?»), nell’egloga X di Virgilio (Gallo sceglie di vivere nei boschi cacciando per dimenticare l’amata Licoride, 56-61: «acris venabor apros; non me ulla vetabunt / frigora Parthenios canibus circumdare saltus. / … / Haec sit nostri medicina furoris, / aut deus ille malis hominum mitescere discat»). A casi, infine, nei quali proprio come in Sonar bracchetti l’amore distoglie – nei fatti, non in teoria – chi ne è vittima dalla caccia. È l’idea che si trova per esempio già nell’Epithalamium dictum Honorio Augusto et Mariae di Claudiano: «Non illi [all’innamorato] venator equus, non spicula curae, / non iaculum torquere libet; mens omnis aberrat / in vultus quos finxit Amor» (5-7); quindi nel primo dei cosiddetti Carmina Rivipullensia: reduce dalla caccia, il poeta viene apostrofato da Cupido, che lo invita a cambiare occupazione e ad abbandonarsi finalmente all’amore: «Dimittas moneo laborem, itaque; / non est conveniens hoc tali tempore / venari; potius debemus ludere. / Ignoras forsitan ludos Cupidinis, / sed valde dedecet si talis iuvenis / non ludit sepius in aula Veneris». La situazione iniziale, lo svolgimento e la conclusione sono, come si vede, quelli stessi di Sonar bracchetti. Naturalmente non si tratta di un rapporto puntuale, da testo-modello a copia, ma solo di una delle numerose testimonianze di un topos. Di nuovo, la traccia del genere, qui meglio sarebbe dire del cliché tematico-retorico, non avvicina due testi ma aiuta a tracciare i contorni di un’amplissima – perché duratura nel tempo ed estesa sull’intero spazio europeo – tradizione culturale.

9. Tra le cose a cui cerco di prestare attenzione nel commento, la prima sono dunque i generi e i clichés retorici e argomentativi, o meglio la loro memoria. Di qui la necessità di un confronto non solo con la poesia romanza ma anche con quella classica, mediolatina, in un paio di casi con quella tedesca. La memoria dei generi e dei clichés travalica, infatti le barriere linguistiche. La seconda cosa su cui è bene concentrare l’attenzione è la cultura extra-letteraria. Oggi, quando leggiamo una poesia, possiamo anche fare a meno di indagare tra le letture dell’autore: per capire o per apprezzare il testo di solito non ce n’è bisogno, e comunque la cultura dell’autore, se è un contemporaneo, non sarà molto diversa dalla nostra: possiamo contare su un patrimonio di idee e di conoscenze condiviso. Ma più indietro andiamo nel tempo, più antiche sono le opere d’arte di cui ci occupiamo, più abbiamo bisogno di imparare, ricostruendola, una cultura che non è la nostra. Tra queste opere d’arte ci sono anche le poesie, in sostanza perché buona parte delle poesie antiche e medievali non possiede «quel carattere di immediato, di dematerializzato, che noi a torto o a ragione siamo abituati a considerare criterio della lirica». Vale a dire che per capirle, per capire di che cosa parlano e perché ne parlano in questo modo, la lettura ingenua che può andar bene, mettiamo, per L’infinito o per Meriggiare pallido e assorto non basta, e non basta neppure il confronto con altre poesie: bisogna leggerle su uno sfondo culturale più ampio, perché solo su questo sfondo si comprendono il loro linguaggio e i loro concetti. Prendiamo la prima stanza della canzone Amor che movi:

Amor che movi tua vertù dal cielo
come ’l sol lo splendore,
che là s’apprende più lo suo valore
dove più nobiltà suo raggio trova,
e com’el fuga oscuritate e gelo, 5
così, alto signore,
tu cacci la viltà altrui del core
né ira contra te fa lunga prova;
da te convien che ciascun ben si mova
per lo qual si travaglia il mondo tutto, 10
sanza te è distrutto
quanto avemo in potenza di ben fare:
come pintura in tenebrosa parte,
che non si può mostrare
né dar diletto di color né d’arte. 15


Che cos’è questa? È certamente una canzone sull’amore: ma è anche una canzone d’amore? Fin qui, non si direbbe; fin qui, il poeta non ha ancora parlato di sé, non ha ancora detto io. Ha detto alcune cose molto generali non tanto sul sentimento che chiamiamo amore quanto sull’Amore come potenza cosmica che governa il creato. Ebbene, per capire che cosa dice Dante, e perché lo dice in questo modo, non serve aver molto amato, e neppure serve aver letto molte poesie d’amore. Serve sapere (quanto al modo) che la retorica adoperata da Dante non è una retorica libera ma ricalca quella in tre tempi – invocazione, elogio, preghiera – dell’innografia greca e latina, trapiantata poi nella liturgia cristiana. E serve sapere (quanto alla sostanza) che il contenuto dei versi, ciò che Dante dice, va messo anch’esso in relazione un tipo di discorso non poetico, il discorso della filosofia neoplatonica (un Principio dal quale derivano per emanazione «vita e virtù» sulle cose celesti e sulle cose terrene) e della teologia cristiana. Anche Amor che movi è dunque una poesia d’amore: ma per capirla e apprezzarla occorre far luce su un contesto più largo, occorre andare molto al di là del puro momento lirico.
Oppure prendiamo l’unico sonetto politico di Dante:

Se vedi gli occhi miei di pianger vaghi
per novella pietà che ’l cor mi strugge,
per lei ti priego che da te non fugge,
Signor, che tu di tal piacere i svaghi,

con la tua dritta man cioè che paghi
chi la giustizia uccide e poi rifugge
al gran tiranno, del cui tosco sugge
ch’elli ha già sparto e vuol che ’l mondo allaghi,

e messo ha di paura tanto gelo
nel cuor de’ tuo’ fedel che ciascun tace.
Ma tu, fuoco d’amor, lume del cielo,

questa virtù che nuda e fredda giace
levala su vestita del tuo velo,
ché sanza lei non è in terra pace.


Questa è una poesia politica, ma non nel senso in cui sono politiche, per esempio, le poesie di Brecht. Le poesie di Brecht sono chiare. Parlano di politica, ma in termini così generali che può capirle anche chi non sa niente della storia tedesca tra le due guerre. Nomi quasi non se ne fanno; quello di cui si parla sono la giustizia e l’ingiustizia, la povertà e la ricchezza, la pace e la guerra. Anche in questo sonetto si parla di pace e di guerra, di giustizia e ingiustizia, ma questi Valori sono calati in un contesto molto preciso – preciso eppure sfuggente, perché il poeta allude a personaggi ed eventi che il lettore non conosce o non riconosce. Non occorre, qui, discutere di quale sia la giusta interpretazione di questo sonetto. Ciò che conta è che il commentatore deve tentare di dare un nome ai personaggi che qui vengono evocati (quello che uccide la giustizia, il gran tiranno, lo stesso Signore) e deve avanzare un’ipotesi sull’epoca in cui Dante ha scritto questi versi (il 1313, durante la discesa di Arrigo VII? Qualche anno prima? Ancora più indietro, negli anni di Bonifacio VIII?). Non gli basta, perciò, conoscere il linguaggio e le idee del poeta (quello che basta al lettore di Brecht): deve leggere libri di storia, deve avere confidenza con la retorica che le cronache adoperavano per descrivere l’imperatore, deve sapere che «fuoco d’amore» e «lume del cielo» sono attributi di Dio che si trovano nella Bibbia, deve ricordare che una stessa immagine di Tiranno che avvelena il mondo e schiaccia la Giustizia si vedrà, pochi anni dopo la morte di Dante, sulle pareti del Palazzo Pubblico di Siena, negli affreschi del Cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti... Insomma, deve sapere molte cose che, a rigore, non c’entrano con la poesia.

10. Qualche riflessione conclusiva. Una delle distinzioni che di solito si fanno quando si parla di scienze della natura e di scienze umane è questa: le prime si occupano di spiegare le cose, cioè di capirne le cause; le seconde si occupano di interpretare le cose, cioè di capirne il senso. Qualcosa del genere si può dire della differenza che passa tra studiare, commentare un’opera letteraria lontana da noi nel tempo, come le Rime di Dante, e studiare, commentare un’opera letteraria contemporanea. In questo secondo caso, non è in primo luogo di una spiegazione che abbiamo bisogno. Le sue cause ci sono note, sono le stesse che influenzano la nostra vita: l’universo da cui quell’opera sorge è il nostro stesso universo, l’umanità che vi viene rappresentata ci è familiare. Ciò significa che noi possiamo avvicinarci ad essa anche senza la mediazione di uno studioso o di un critico, poiché questi non farebbe altro che darci le chiavi di un mondo nel quale siamo già entrati, anzi nel quale viviamo sin dalla nascita. «Uno studioso di talento – ha scritto Auerbach – possiede ed è posseduto dallo spirito del suo tempo: e mi sembra perciò che non dovrebbe avere bisogno di un’istruzione accademica per appropriarsi dell’opera di Rilke o di Gide o di Yeats». Parlando di Francis Scott Fitzgerald, e della critica accademica su Fitzgerald, Gore Vidal ha detto una cosa simile in maniera più colorita: … Sembra quasi di sentire il professor Broccoli mentre fa schioccare le labbra nella sua premessa alle Lettere: «Sappiamo di Fitzgerald più di quanto sappiamo dei suoi contemporanei perché lui stesso ci ha conservato i suoi materiali […]. Il migliore studioso di Fitzgerald tra noi è stato F. Scott Fitzgerald». Mentre trascrivo queste parole ho l’impressione di una completa follia. Studioso di Fitzgerald? Uno vede il bisogno di studiosi di Dante, Rabelais, Shakespeare. Ma studiosi di un popolare scrittore contemporaneo che non ha bisogno di nessuna presentazione? Non è, tutto questo, un po’ sproporzionato? I mulini dell’Accademia sono ormai così giganteschi e così stupidi che ogni scrittore di medio talento e media notorietà diventa frumento, per loro? Che cosa ci lascia perplessi in giudizi di questo genere? Che romanzieri come Gide e poeti come Rilke e Yeats sono precisamente quegli scrittori che, pur essendo, come noi, ‘moderni’, noi troviamo più difficili da capire, quelli di fronte ai quali ci sentiamo smarriti, tanto da cercare affannosamente l’aiuto del critico, dello specialista che ci spieghi che cosa ha davvero voluto dire l’autore. La letteratura contemporanea, insomma, come l’arte contemporanea in generale, ci sembra molto più difficile della letteratura delle altre epoche, cioè molto più bisognosa di note a margine che portino un po’ di luce in opere spesso volutamente oscure. Questo è ovviamente vero. Da un lato, i mutamenti che hanno segnato la storia e la storia dell’arte dell’ultimo secolo sono stati tanto rapidi e tanto profondi da rendere incolmabile lo spazio che separa noi da, per esempio, Rilke: i decenni valgono come secoli, lo ‘spirito del tempo’ invocato da Auerbach non è più quello che soffiava quando Auerbach scriveva la pagina che ho citato. Dall’altro lato, l’arte del Novecento ha seguito traiettorie così complicate, e si è separata in modo così radicale dal linguaggio comune – linguaggio verbale, visivo, musicale – da rendere quasi indispensabile, per poterla avvicinare con cognizione di causa, un apprendistato o una guida. È il noto paradosso per cui proprio nell’età della sua completa autonomia le opere d’arte risultano inspiegabili se le si astrae da quella che i formalisti chiamavano la ‘serie artistica’ – la serie formata dalle opere che sono state ideate, scritte, composte dagli artisti del passato, un passato tanto più importante e influente quanto più prossimo alla nuova opera; e formata anche dai dibattiti, le riflessioni, le reazioni che quelle opere hanno suscitato tra i contemporanei e tra i posteri. Come lettori, noi abbiamo dunque bisogno di conoscere quello che, rubando di nuovo un’espressione alla sociologia, possiamo chiamare il valore di posizione, o meglio il significato di posizione di una poesia di Rilke o di Yeats, così come abbiamo bisogno di conoscere il valore o il significato di posizione di un quadro di Klee o di un brano di Webern. Questa spiegazione è opportuna. Ma bisogna tenere conto di due altri dati di fatto. Il primo è che questa esigenza di spiegazione, di collocazione in una serie letteraria, figurativa, musicale, noi l’avvertiamo soltanto per una parte piuttosto esigua delle opere d’arte contemporanee, e precisamente per quelle che si definiscono come sperimentali o d’avanguardia, e tra i cui intenti c’è insomma quello di modificare le norme tradizionali del linguaggio letterario, pittorico, musicale. Dal momento che il significato di queste opere non è immediatamente evidente, velato com’è da convenzioni che ci sono estranee, ci è utile conoscerne almeno il significato di posizione. Ma la gran parte delle opere d’arte moderne non viola alcuna regola e non sovverte alcuna tradizione. Esse parlano il nostro stesso linguaggio, possiedono e sono possedute – per usare l’immagine di Auerbach – dallo stesso spirito del tempo. In secondo luogo, una volta misurato questo scarto dalle regole che regolano il sistema delle arti moderne, una volta fissato il valore e il significato di posizione all’interno di una tradizione artistica, quello che noi chiediamo al critico non è tanto una spiegazione, verso per verso, di ciò che la poesia dice quanto un’interpretazione del suo significato complessivo: ciò che essa dice sul suo autore, sul suo e sul nostro mondo e, soprattutto, sulla nostra vita. Se il critico non riesce a collegare la poesia a questo orizzonte più largo significa che essa non offre spunti sufficienti per farlo, cioè che è una poesia mediocre, oppure che il critico non è capace di vederli, cioè che è un critico mediocre. Per questo noi definiamo scolastiche o accademiche quelle analisi di poesie moderne che si limitano a descrivere il testo – la sua struttura interna, le simmetrie o asimmetrie, il significato letterale dei suoi versi – mentre preferiamo quelle letture che si allontanano dal testo per portarci su altre strade, quelle che sanno trarre deduzioni di ordine generale dal caso particolare, dal testo particolare che hanno di fronte, quelle insomma che si servono delle parole del poeta come di un punto d’inizio a partire dal quale svolgere un loro discorso. Il rischio naturalmente è che il discorso vada troppo oltre, che tradisca il testo facendogli dire cose a cui l’autore non pensava. Ma una buona interpretazione può anche essere un’interpretazione un po’ infedele, se dice delle cose interessanti.
Le cose stanno diversamente con le opere premoderne. Qui il significato è quasi sempre univoco, non ambiguo. L’ambiguità del sonetto Se vedi gli occhi miei non sta nel suo significato: il suo significato non è oscuro. Oscure sono le allusioni all’uccisore della giustizia, al tiranno, ai fedeli del Signore: noi capiamo quello che si dice nel testo ma ignoriamo dei dati culturali che stanno al di fuori del testo. Gli stessi oscuri, inspiegabili dettagli potremmo trovarli in un trattato, in una lettera oppure, per stare a Dante, nella Commedia. E così come i trattati, o le lettere, o la Commedia, anche le poesie antiche, le liriche, devono essere innanzitutto spiegate, e prima ancora – questo è il verbo giusto – descritte. Bisogna parafrasarle, perché il loro linguaggio non è il linguaggio che parliamo oggi: e per parafrasarle occorre prima di tutto accertarsi che i testi che abbiamo di fronte siano attendibili, che non ci siano errori (e si vedano per questo gli esempi fatti nel § 6 di questo saggio), quindi capire bene il significato delle parole e delle frasi, vocabolario e fonti alla mano. E bisogna poi descriverle non tanto nella loro articolazione interna – questo è quasi sempre un esercizio superfluo, perché l’articolazione delle poesie antiche o medievali è quasi sempre ‘a vista’, non ha segreti – quanto nei loro rapporti con una tradizione retorico-letteraria secolare, e poi soprattutto con la storia, l’arte figurativa, il pensiero filosofico del loro tempo. Chi interpreta testi contemporanei è più libero, e dev’essere più originale, brillante, abile nell’argomentazione. Chi spiega testi premoderni ha la strada segnata, ma quella strada deve conoscerla molto bene. Se poi riesce anche a essere originale, brillante e abile tanto meglio: ma in questo campo, in linea di massima, un erudito un po’ ottuso è meglio di un dilettante di genio.

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Paolo e Francesca sorpresi da Giangiotto dipinto di Ingres. La Commedia

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Eugenio Caruso - 28 - 10 - 2021

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