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Dante, Paradiso, Canto XXI. San Pier Damiani

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XXI

Il Canto è dedicato come parte del successivo alla descrizione del Cielo di Saturno, in cui a Dante si manifestano le anime di coloro che in vita, subendo l'influsso di questa stella, si diedero alla vita contemplativa e alla meditazione religiosa: sarà san Benedetto a spiegarlo con chiarezza nel canto XXII, mentre protagonista di questo Canto è il camaldolese san Pier Damiani che era forse la figura di spicco del monachesimo al tempo del poeta, che tuttavia (come si vedrà) mostra di non avere informazioni accurate sulla sua biografia. L'ascesa a questo Cielo non è avvertita da Dante contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, neppure grazie all'accresciuto splendore di Beatrice, la quale infatti spiega che il suo sorriso ridurrebbe il poeta in cenere e questa è la stessa ragione per cui i beati non cantano (sarà Pier Damiani a precisare la cosa su domanda di Dante). Alcuni interpreti hanno visto nell'insolito silenzio di questo Cielo una similitudine con la pace e la tranquillità dei monasteri dove gli spiriti contemplanti hanno vissuto sulla Terra, mentre fin troppo chiara è la simbologia della scala dorata che si alza verso l'alto a perdita d'occhio e lungo la quale scendono le luci dei beati per parlare con Dante: sempre san Benedetto spiegherà che essa ha termine nell'Empireo dove queste anime normalmente risiedono e che si tratta della stessa scala vista in sogno da Giacobbe in Gen., XXVIII, 12 ss., generalmente interpretata come immagine della vita contemplativa.
Anche l'insieme dei movimenti compiuti dalla anime intorno ai gradini della scala dorata rimandano a quelli degli angeli che Giacobbe vide scendere lungo quella sognata, senza per forza voler vedere una simbologia troppo precisa in ognuno di essi (come nella similitudine delle pole, i corvi grigi accostati forse agli eremiti per la loro natura solitaria) ed è da ricordare che il simbolo della scala verso il Cielo era assai frequente nella letteratura religiosa dei secc. XIII-XIV e anche nella tradizione benedettino-camaldolese, tanto che i monaci morti lontano dal loro eremo erano portati in chiesa sopra una scala. Altri commentatori hanno visto nel movimento delle luci che vanno e vengono, così come gli angeli del sogno di Giacobbe, un richiamo alla vera natura del monachesimo, che non deve sprofondarsi nella meditazione senza all'occorrenza prodigarsi in concrete azioni per aiutare il prossimo, come in effetti fece in vita Pier Damiani che, non a caso, è il protagonista di questo episodio.
Il beato si avvicina a Dante e alla sua guida manifestando il suo amore per lui con un maggiore splendore, il che suscita la curiosità di Dante circa il motivo di questa particolare attenzione: è questa la sua prima domanda allo spirito, mentre la seconda riguarda il motivo del silenzio di cui già si è detto (ed è anche la prima a cui il santo dà una risposta). La soluzione dell'altro dubbio dà invece modo a Pier Damiani di affrontare la prima importante questione del Canto, ovvero la predestinazione, in quanto lo spirito afferma che non un particolare affetto per Dante lo ha condotto da lui, ma che a tale compito è stato designato dal volere divino per manifestargli la gioia di tutte le anime di questo Cielo. Alla successiva domanda del poeta, cioè per quale motivo proprio lui sia stato sortito a questo particolare ufficio, il santo risponde con il consueto richiamo all'imperscrutabilità del disegno divino, dicendo che neppure il Serafino più vicino a Dio potrebbe dare una risposta soddisfacente: nessun essere creato può comprendere razionalmente il giudizio divino e ciò riprende il concetto tante volte espresso nel poema, dal discorso di Virgilio di Purg., III, 31-45 fino a quello dell'aquila di Par., XX, 130-138, con la differenza che qui non si parla del destino ultraterreno ma, piuttosto, dell'influsso astrale che indirizza gli uomini alle loro scelte di vita sulla Terra a seconda dei criteri insondabili della saggezza divina.
Ciò si rifà alla teoria degli influssi celesti più volte toccata, specie da Carlo Martello in Par., VIII, 97-148 e che sarà ripresa da Dante alla fine del Canto seguente con l'accenno alla costellazione dei Gemelli a cui, dirà, deve tutto il suo ingegno poetico; il richiamo all'umiltà e il duro monito agli uomini affinché non presumano di capire con la sola ragione i misteri divini è invece un implicito riferimento al cosiddetto «traviamento» intellettuale di Dante, che proprio questo aveva tentato di fare in una fase precedente della sua esperienza filosofico-letteraria e che infatti qui lascia la quistione impregiudicata, limitandosi a chiedere umilmente l'identità del beato. L'accenno alla predestinazione è dunque di segno molto diverso rispetto al discorso del Canto precedente e dà modo a Pier Damiani di entrare nell'altro tema che occupa la parte finale di questo, ovvero la condanna del lusso dei prelati per la quale egli prende spunto dalla descrizione dell'eremo dove trascorse gran parte della sua vita, un tempo foriero di anime sante per il Paradiso e ora fatto vano a causa della corruzione della Chiesa (anche questo tema è in fondo collegato alla predestinazione, in quanto il santo fu chiamato alla vita contemplativa dalla sua personale inclinazione e dall'influsso del Cielo di Saturno).
L'autopresentazione di Pier Damiani si apre con una dettagliata descrizione geografica dell'ubicazione del monastero di Fonte Avellana, secondo uno schema che si ripete spesso in questa Cantica (IX, 82-96, la prosopopea di Folchetto di Marsiglia; XI, 43-54, la descrizione del luogo natale di san Francesco; XII, 46-57, la descrizione di Calaruega, patria di san Domenico), quindi prosegue con il racconto della vita monastica del santo, in cui spicca soprattutto la scelta della povertà, di servire Dio accontentandosi di cibi di liquor d'ulivi in contrasto col lusso sfrenato dei cardinali contro cui si appunteranno le critiche del beato subito dopo. A ciò Pier Damiani giunge attraverso l'evento centrale della sua scarna biografia, ovvero la dignità cardinalizia cui fu elevato in tarda età (qui Dante mostra di ignorare i fatti, poiché il santo divenne porporato a quindici anni dalla morte), mentre al tempo di Dante tale onore tocca a individui degeneri, dediti ai piaceri corporali e alla ricchezza assai più che alla meditazione: è quasi scontato il paragone per contrasto con Pietro e Paolo, che vissero poveramente e accettando elemosine (il riferimento è anche a Francesco e alla sua severa Regola, qui non espressamente citato e che sarà invece nominato da san Benedetto nel Canto XXII), mentre i cardinali del Trecento vivono nel lusso più sfarzoso e si circondano di servi il cui compito è aiutarli in ogni sorta di movimento, tale è la grassezza flaccida di questi cattivi pastori. Il discorso di Pier Damiani è sferzante e ironico, col dire che i mantelli porporini dei prelati coprono i loro cavalli e che sotto la stessa cappa cardinalizia stanno in realtà due bestie, anticipando l'invettiva altrettanto dura di san Benedetto contro la corruzione del suo Ordine (XXII, 43-96) e quella dai toni corrosivi e virulenti di san Pietro del Canto XXVII, diretta contro Bonifacio VIII e i papi simoniaci e che sarà sottolineata dal colore rossastro che assumerà il Cielo delle Stelle Fisse, simbolo dello sdegno condiviso da tutta la corte celeste. Anche qui le ultime vibranti parole di Pier Damiani sono sottolineate dal movimento delle altre anime, che scendono dalla scala e ruotano attorno al santo come se approvassero il suo rimprovero, per poi esplodere in un grido fragoroso che sembra a Dante un tuono e il cui significato non riesce ad afferrare: Beatrice affermerà nel Canto seguente che si è trattato del preannuncio della futura punizione divina, che gli interpreti hanno letto come la morte di Bonifacio VIII o di Clemente V, mentre è più probabile che Dante alluda semplicemente a un prossimo evento destinato a riportare la giustizia sulla Terra e già tante volte evocato nel corso del poema, dalla profezia del «veltro» a quella del «DXV», sino alle parole consolatorie e minacciose di Cacciaguida relative a Cangrande Della Scala. Di sicuro la figura di Pier Damiani è «propedeutica» a quella assai più autorevole di san Benedetto, che occuperà il Canto seguente e che col suo discorso proporrà un raffronto tra il monachesimo delle origini e quello degenere dei tempi di Dante, tema che (come si è visto) è già stato toccato soprattutto nei Canti XI-XII, col panegirico dei fondatori degli altri due Ordini religiosi più importanti del Medioevo e in cui l'attacco ai frati corrotti era parte importante delle parole di san Tommaso e di san Bonaventura.

damiani 2
Pier Damiani, dipinto da Andrea Barbiani

Note
- Il v. 6 allude al mito di Semele (Ovidio, Met., III, 253 ss.), la figlia di Cadmo re di Tebe che divenne amante di Giove. Vedi sotto.
- I vv. 14-15 si riferiscono al fatto che Saturno nel marzo-aprile del 1300 era in congiunzione con la costellazione del Leone.
- I vv. 25-27 alludono al mito secondo cui Saturno, dopo essere stato spodestato dal figlio Giove, regnò nel Lazio durante l'età dell'oro in cui l'umanità era felice.
- I vv. 28-30 sono stati interpretati in due modi: nel senso che la scala dorata scintilla ai raggi del sole, oppure che essa è trasparente ed è attraversata da essi (più probabile la prima). L'immagine deriva da Gen., XXVIII, 12 ss., secondo quanto detto da san Benedetto nel Canto XXII, ovvero la descrizione del sogno di Giacobbe: viditque in somnis scalam stantem super terram et cacumen illius tangens caelum angelos quoque Dei ascendentes et descendentes per eam («e vide in sogno una scala poggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo, mentre gli angeli di Dio salivano e scendevano attraverso di essa»).
- Le pole  (v. 35) sono i corvi grigi, accostati agli eremiti per il loro carattere solitario e anche perché secondo una leggenda raccolta da Pier Damiani i corvi furono assai cari a san Benedetto e lo seguirono da Subiaco a Montecassino, dove nidificarono.
- Al v. 78 consorte  è plur. femm. e significa «consorti», le anime che condividono la stessa sorte di Pier Damiani.
- Il v. 81 indica che la luce del beato inizia a ruotare orizzontalmente sul proprio asse, come la macina (mola) di un mulino.
- Al v. 84 m'inventro  è probabile neologismo dantesco, derivato da «ventre» e significa «sto chiusa», «sto avvolta».
- L'alma  citata al v. 91 è probabilmente Maria, colei che più a fondo legge nella mente divina.
- I Serafini (v. 92) sono la gerarchia angelica associata al IX Cielo del Primo mobile, quindi è la più vicina a Dio.
- I vv. 101-102 vogliono dire: «dunque guarda come può la mente umana in Terra comprendere quelle cose che non può capire neppure quando è accolta in Cielo».
- I vv. 106-111 indicano gli Appennini (i sassi), nel tratto Tosco-emiliano posto tra le coste del Tirreno e dell'Adriatico (Tra' due liti d'Italia), non molto distanti in effetti da Firenze e dove alcune cime raggiungono quota 2000 metri (quindi i tuoni cadono più bassi delle vette). Qui sorge il monte Catria, sotto il quale venne costruito l'eremo di Fonte Avellana in cui visse Pier Damiani. Làtria (la pronuncia esatta è latrìa) significa «culto riservato a Dio» e il vocabolo era forse noto a Dante attraverso Isidoro di Siviglia, Etym., VIII, 11.
- Al v. 115 cibi di liquor d'ulivi  indicano cibi di magro, adatti a chi vive di penitenza e preghiera.
- Il v. 120 allude a una prossima rivelazione del fatto che simili monasteri ora sono vuoti, ma non sappiamo a cosa Dante si riferisca.
- La terzina ai vv. 121-123 è assai tormentata, per l'ambiguo significato di fu' che può voler dire «fui» o «fu» e quindi per l'incertezza dell'identità di Pietro Peccatore: potrebbe trattarsi di un altro personaggio effettivamente vissuto nella chiesa ravennate di S. Maria in Porto, un tempo accostato alla famiglia degli Onesti, oppure dello stesso Pier Damiani che talvolta si firmava Petrus peccator monacus (la questione è aperta). Il lito adriano (v. 123) è la costa adriatica.
- Non risponde a verità quanto detto ai vv. 124-125, poiché Pier Damiani divenne cardinale nel 1057 e dunque quindici anni prima della morte, avvenuta nel 1072 (Dante aveva sicuramente notizie incerte sulla sua biografia). Il cappello (v. 125) è il copricapo rosso simbolo della dignità cardinalizia, ma questa è un'altra inesattezza in quanto esso fu istituito solo nel 1252 da papa Innocenzo IV, anche se forse il personaggio vi allude in modo metaforico.
- Cefàs (v. 127) è il nome dato a Simone (san Pietro) da Gesù e vuol dire «pietra» in aramaico; il gran vasello / de lo Spirito Santo è invece san Paolo, detto così dall'espressione Vas electionis («strumento della scelta»: cfr. Inf., Secondo, 28).
- L'espressione chi di rietro li alzi (v. 132) può alludere sia ai caudatari, i servi che sollevavano l'ampio strascico dei prelati, sia agli staffieri che li aiutavano a montare in groppa al cavallo; i palafreni  (v. 133) sono in effetti le cavalcature.


TESTO DEL CANTO XXI

Già eran li occhi miei rifissi al volto 
de la mia donna, e l’animo con essi, 
e da ogne altro intento s’era tolto.                                   3

E quella non ridea; ma «S’io ridessi», 
mi cominciò, «tu ti faresti quale 
fu Semelè quando di cener fessi;                                   6

ché la bellezza mia, che per le scale 
de l’etterno palazzo più s’accende, 
com’hai veduto, quanto più si sale,                                9

se non si temperasse, tanto splende, 
che ‘l tuo mortal podere, al suo fulgore, 
sarebbe fronda che trono scoscende.                          12

Noi sem levati al settimo splendore, 
che sotto ‘l petto del Leone ardente 
raggia mo misto giù del suo valore.                              15

Ficca di retro a li occhi tuoi la mente, 
e fa di quelli specchi a la figura 
che ‘n questo specchio ti sarà parvente».                    18

Qual savesse qual era la pastura 
del viso mio ne l’aspetto beato 
quand’io mi trasmutai ad altra cura,                              21

conoscerebbe quanto m’era a grato 
ubidire a la mia celeste scorta, 
contrapesando l’un con l’altro lato.                                24

Dentro al cristallo che ‘l vocabol porta, 
cerchiando il mondo, del suo caro duce 
sotto cui giacque ogne malizia morta,                           27

di color d’oro in che raggio traluce 
vid’io uno scaleo eretto in suso 
tanto, che nol seguiva la mia luce.                                 30

Vidi anche per li gradi scender giuso 
tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume 
che par nel ciel, quindi fosse diffuso.                            33

E come, per lo natural costume, 
le pole insieme, al cominciar del giorno, 
si movono a scaldar le fredde piume;                           36

poi altre vanno via sanza ritorno, 
altre rivolgon sé onde son mosse, 
e altre roteando fan soggiorno;                                       39

tal modo parve me che quivi fosse 
in quello sfavillar che ‘nsieme venne, 
sì come in certo grado si percosse.                              42

E quel che presso più ci si ritenne, 
si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando: 
‘Io veggio ben l’amor che tu m’accenne.                      45

Ma quella ond’io aspetto il come e ‘l quando 
del dire e del tacer, si sta; ond’io, 
contra ‘l disio, fo ben ch’io non dimando’.                    48

Per ch’ella, che vedea il tacer mio 
nel veder di colui che tutto vede, 
mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».                                51

E io incominciai: «La mia mercede 
non mi fa degno de la tua risposta; 
ma per colei che ‘l chieder mi concede,                       54

vita beata che ti stai nascosta 
dentro a la tua letizia, fammi nota 
la cagion che sì presso mi t’ha posta;                          57

e di’ perché si tace in questa rota 
la dolce sinfonia di paradiso, 
che giù per l’altre suona sì divota».        

«Tu hai l’udir mortal sì come il viso», 
rispuose a me; «onde qui non si canta 
per quel che Beatrice non ha riso.                                 63

Giù per li gradi de la scala santa 
discesi tanto sol per farti festa 
col dire e con la luce che mi ammanta;                        66

né più amor mi fece esser più presta; 
ché più e tanto amor quinci sù ferve, 
sì come il fiammeggiar ti manifesta.                             69

Ma l’alta carità, che ci fa serve 
pronte al consiglio che ‘l mondo governa, 
sorteggia qui sì come tu osserve».                                72

«Io veggio ben», diss’io, «sacra lucerna, 
come libero amore in questa corte 
basta a seguir la provedenza etterna;                           75

ma questo è quel ch’a cerner mi par forte, 
perché predestinata fosti sola 
a questo officio tra le tue consorte».                              78

Né venni prima a l’ultima parola, 
che del suo mezzo fece il lume centro, 
girando sé come veloce mola;                                        81

poi rispuose l’amor che v’era dentro: 
«Luce divina sopra me s’appunta, 
penetrando per questa in ch’io m’inventro,                  84

la cui virtù, col mio veder congiunta, 
mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio 
la somma essenza de la quale è munta.                     87

Quinci vien l’allegrezza ond’io fiammeggio; 
per ch’a la vista mia, quant’ella è chiara, 
la chiarità de la fiamma pareggio.                                  90

Ma quell’alma nel ciel che più si schiara, 
quel serafin che ‘n Dio più l’occhio ha fisso, 
a la dimanda tua non satisfara,                                      93

però che sì s’innoltra ne lo abisso 
de l’etterno statuto quel che chiedi, 
che da ogne creata vista è scisso.                                 96

E al mondo mortal, quando tu riedi, 
questo rapporta, sì che non presumma 
a tanto segno più mover li piedi.                                     99

La mente, che qui luce, in terra fumma; 
onde riguarda come può là giùe 
quel che non pote perché ‘l ciel l’assumma».            102

Sì mi prescrisser le parole sue, 
ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi 
a dimandarla umilmente chi fue.                                   105

«Tra ‘ due liti d’Italia surgon sassi, 
e non molto distanti a la tua patria, 
tanto che ‘ troni assai suonan più bassi,                     108

e fanno un gibbo che si chiama Catria, 
di sotto al quale è consecrato un ermo, 
che suole esser disposto a sola latria».                      111

Così ricominciommi il terzo sermo; 
e poi, continuando, disse: «Quivi 
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,                                   114

che pur con cibi di liquor d’ulivi 
lievemente passava caldi e geli, 
contento ne’ pensier contemplativi.                              117

Render solea quel chiostro a questi cieli 
fertilemente; e ora è fatto vano, 
sì che tosto convien che si riveli.                                   120

In quel loco fu’ io Pietro Damiano, 
e Pietro Peccator fu’ ne la casa 
di Nostra Donna in sul lito adriano.                              123

Poca vita mortal m’era rimasa, 
quando fui chiesto e tratto a quel cappello, 
che pur di male in peggio si travasa.                           126

Venne Cefàs e venne il gran vasello 
de lo Spirito Santo, magri e scalzi, 
prendendo il cibo da qualunque ostello.                     129

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi 
li moderni pastori e chi li meni, 
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.                              132

Cuopron d’i manti loro i palafreni, 
sì che due bestie van sott’una pelle: 
oh pazienza che tanto sostieni!».                                  135

A questa voce vid’io più fiammelle 
di grado in grado scendere e girarsi, 
e ogne giro le facea più belle.                                        138

Dintorno a questa vennero e fermarsi, 
e fero un grido di sì alto suono, 
che non potrebbe qui assomigliarsi;

né io lo ‘ntesi, sì mi vinse il tuono.                                142

damiano 3
La grotta di Pier Damiani, presso il monastero di Avellana

PARAFRASI CANTO XXI

I miei occhi erano ormai nuovamente fissi al volto della mia donna, e insieme ad essi il mio animo, privo di qualunque altro interesse.

E Beatrice non sorrideva; ma cominciò a dirmi: «Se io sorridessi, tu diventeresti tale quale divenne Semele quando fu incenerita;

infatti la mia bellezza, che accresce man mano che saliamo le scale del palazzo eterno (il Paradiso), come hai visto, se non fosse temperata splenderebbe a tal punto che la tua vista mortale, al suo fulgore, sarebbe un ramo abbattuto dal fulmine.

Noi siamo ascesi al VII Cielo, che sotto la costellazione ardente del Leone diffonde sulla Terra il proprio influsso mescolato a quello della costellazione stessa.

Ora guarda con estrema attenzione e fa' della tua mente uno specchio con cui osservare lo spettacolo di questo Cielo».

Chi conoscesse la beatitudine del mio sguardo nel fissare Beatrice, quando passai a osservare altro, saprebbe quanto mi era gradito obbedire alla mia guida celeste, poiché l'una cosa bilanciava l'altra.

Dentro il Cielo che, ruotando intorno alla Terra, porta il nome (Saturno) del dio sotto il quale ogni malizia fu stroncata (durante l'età dell'oro), io vidi una scala dorata e scintillante dei raggi del Sole che saliva verso l'alto, tanto che non ne potevo vedere la fine.

Vidi anche che scendevano lungo la scala tante luci, al punto che pensavo che ogni stella del cielo si diffondesse in essa.

E come i corvi grigi, per la loro naturale abitudine, all'alba si muovono a scaldare le loro fredde piume, poi alcuni vanno via senza tornare, altri tornano al punto da cui erano partiti, altri ancora volteggiano nello stesso posto, così mi sembrò che fosse il movimento di quelle luci scintillanti, non appena raggiungevano un gradino della scala.

E il beato che si fermò più vicino a noi, divenne così luminoso che io tra me pensavo: 'Io vedo bene l'amore che mi manifesti.

Ma colei (Beatrice) dalla quale aspetto che mi suggerisca quando parlare e quando tacere, non fa nulla; per cui io, pur contro il mio desiderio, faccio bene a non domandare'.

Allora lei, che vedeva le ragioni del mio silenzio nella mente di Colui (Dio) che vede tutto, mi disse: «Sciogli il tuo ardente desiderio».

E io iniziai: «Il mio merito non mi rende degno della tua risposta; ma in nome di colei che mi concede di domandare, o anima beata che ti nascondi dentro la tua stessa gioia, rendimi nota la ragione per cui ti sei avvicinato a me;

e dimmi perché in questo Cielo non si sente la dolce sinfonia del Paradiso che suona così devotamente negli altri inferiori».

Mi rispose: «Tu hai l'udito mortale come la vista; ecco perché qui non si canta, per la stessa ragione per cui Beatrice non ha sorriso.

Sono sceso lungo i gradini della scala santa solo per festeggiare la tua presenza, con parole e con la luce che mi avvolge;

non fui più sollecita per un particolare affetto per te; infatti, più in alto l'amore delle anime è pari o superiore al mio, come il loro splendore ti dimostra.

Ma l'alta carità, che ci rende pronte a obbedire al giudizio di Dio che governa il mondo, ci assegna alcuni compiti come tu osservi».

Io dissi: «Vedo bene, o sacra luce, come il libero amore in questo Cielo è sufficiente per eseguire il volere della Provvidenza eterna;

ma è proprio questo che mi sembra difficile da capire, perché tu sola sei stata destinata a questo particolare compito rispetto alle altre anime».

Non feci in tempo a pronunciare l'ultima parola, che la luce iniziò a ruotare orizzontalmente sul proprio asse come una veloce macina di mulino;

poi l'amore che vi era dentro rispose: «La luce di Dio penetra in me, attraverso questa luce dentro alla quale io sono avvolto, e la cui virtù, unita alla mia visione intellettuale, mi innalza a tal punto sopra di me che io vedo la suprema essenza (Dio stesso) da cui proviene.

Da qui viene la gioia di cui io risplendo; infatti il mio splendore eguaglia la mia visione di Dio, tanto quanto essa è luminosa.

Ma quell'anima nel Cielo che più è illuminata da Dio (Maria), quel Serafino che figge maggiormente il suo occhio in Dio, non potrebbe rispondere alla tua domanda, poiché ciò che chiedi si interna a tal punto nell'abisso del giudizio divino che è lontanissimo dallo sguardo di ogni creatura.

E quando sarai tornato sulla Terra, porta questo messaggio, affinché gli uomini non abbiano la presunzione di voler comprendere qualcosa di così inconoscibile.

La mente umana, che qui è illuminata, sulla Terra è offuscata; dunque, guarda come potrebbe fare laggiù quel che non riesce a fare neppure quando è accolta in Cielo».

Così mi ordinarono le sue parole, al punto che abbandonai la questione e mi limitai a chiedere umilmente chi fosse.

«Tra le due coste d'Italia (tirrenica e adriatica) ci sono delle montagne (l'Appennino Tosco-Emiliano), non molto distanti da Firenze, così alte che i tuoni cadono molto più bassi, e formano una cima chiamata Catria, al di sotto della quale è consacrato un eremo (Fonte Avellana) che solitamente è riservato al culto di Dio».

Così iniziò il suo terzo discorso; poi, continuando, disse: «Qui mi dedicai al servizio di Dio con tale dedizione, che trascorrevo facilmente estati e inverni mangiando cibi di magro, accontentandomi della contemplazione dei misteri divini.

Un tempo quel convento era solito fruttare un'abbondante messe di anime a questi Cieli; e ora è vuoto, al punto che ben presto ciò sarà rivelato.

In quel luogo fui Pier Damiani, e fui invece Pietro Peccatore nella chiesa di S. Maria di Ravenna in porto, sul lido adriatico.

Mi era rimasto poco da vivere, quando fui chiamato a indossare quel cappello (da cardinale) che oggi passa da un individuo indegno a uno peggiore.

San Pietro e san Paolo, magri e scalzi, andarono a predicare mendicando il cibo da chiunque glielo concedesse.

Ora i pastori moderni vogliono servi che li sorreggano da ambo i lati e che li trasportino, tanto sono pesanti, e che li alzino da dietro.

Con i loro mantelli coprono i cavalli, così che due bestie sono coperte dalla stessa pelle: oh, quanto è grande la pazienza di Dio che sopporta tutto questo!»

A queste parole vidi tante luci fiammeggianti che scendevano lungo i gradini della scala e ruotavano, e a ogni giro cresceva la loro bellezza.

Si fermarono intorno alla luce di Pier Damiani, ed emisero un grido fortissimo, tale che non potrebbe essere descritto; e io non ne compresi il senso, tanto mi assordò il tuono.

Boccaccio contro il lusso dei prelati: l'abate di Cluny
La polemica anti-ecclesiastica attraversa tutto il poema dantesco e assume particolare importanza soprattutto nella III Cantica, tuttavia Dante non è l'unico autore del Trecento a rivolgere le sue critiche alla corruzione della Chiesa e al lusso dei prelati: diversi sonetti del Canzoniere di F. Petrarca sono diretti contro la Curia papale di Avignone, descritta come empia Babilonia in cui alligna ogni vizio, e G. Boccaccio in molte novelle del Decameron critica vari aspetti della vita religiosa, in particolare l'ipocrisia dei chierici che si dimostrano avidi di ricchezze e dediti ai piaceri carnali. Interessante sotto questo punto di vista è la novella che vede protagonista l'abate di Cluny (X, 2), un ricchissimo prelato che si reca a Roma a rendere visita a papa Bonifacio VIII con tutto il suo seguito di servi e bagagli, ottenendo poi dal pontefice il permesso di recarsi ai bagni di Siena per curare il mal di stomaco di cui soffre, probabilmente per gli eccessi di gola a cui solitamente si abbandona. Il prelato si mette in viaggio con tutto il suo corteo di portatori e paggi, montando a cavallo come un nobile signore feudale, ma quando attraversa il territorio controllato dal famoso masnadiero Ghino di Tacco viene fatto prigioniero con tutto il seguito: Ghino era un nobile senese cacciato dalla sua città, che indusse la città di Radicofani a ribellarsi alla Chiesa di Roma e si diede al brigantaggio, citato anche dallo stesso Dante in Purg., VI, 13 come l'assassino del giudice Benincasa da Laterina posto fra i morti per forza dell'Antipurgatorio. All'inizio l'abate si mostra insofferente alla prigionia e minaccia severi castighi a Ghino, il quale gli si presenta senza rivelare la sua identità e, appresi i problemi di salute del prelato, lo aiuta a guarire facendogli mangiare pane arrostito e vernaccia: la dieta forzata ha il suo benefico effetto, tanto che le condizioni dell'abate migliorano e alla fine Ghino di Tacco si svela finalmente per quello che è, ospitando fra l'altro il prelato e tutto il suo seguito in un raffinato banchetto in cui fa sfoggio di magnificenza e liberalità (è questo il tema della Giornata conclusiva del Decameron). La vicenda dell'abate è una sorta di edificante apologo, poiché egli guarisce il suo stomaco astenendosi dai suoi stravizi culinari (il riferimento evangelico al pane e al vino ha un evidente significato religioso) e moderando anche il suo orgoglio nobiliare, al punto che non solo rinuncia ai suoi propositi vendicativi contro Ghino ma addirittura intercederà presso il papa Bonifacio VIII perché i due possano riconciliarsi, così che il papa nominerà il brigante frate dell'Ordine degli Spedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, in virtù delle buone cure prestate all'abate di Cluny. Quanto meno curioso è poi il giudizio benevolo che Boccaccio dà non solo di Ghino, descritto come un nobile e magnificente signore e non come assassino e predone, ma dello stesso Bonifacio VIII, definito colui che di grande animo fu, e vago (compiaciuto) de' valenti uomini, il che contrasta con la condanna terribilmente severa che contro questo pontefice Dante pronunciò a più riprese nella Commedia: segno che i tempi in cui visse l'autore del Decameron erano decisamente cambiati e lo scrittore del tardo Trecento poteva guardare certi personaggi e episodi storici con occhio meno critico, nonostante il culto che Boccaccio nutrì verso Dante e la sua opera (ben diversa, del resto, era la natura della polemica anticlericale di Boccaccio, rivolta non tanto alla simonia e alla corruzione ma all'ipocrisia dei comportamenti dei religiosi, specie in materia sessuale).

avellana
Il monastero di Fonte Avellana


SAN PIER DAMIANI

San Pier Damiani o Pier di Damiano o Pietro Damiani (Ravenna, 1007 – Faenza, 21 febbraio 1072 è stato un teologo, vescovo e cardinale della Chiesa cattolica che lo venera come santo, proclamato dottore della Chiesa nel 1828. Fu grande riformatore e moralizzatore della Chiesa del suo tempo, autore di importanti scritti liturgici, teologici e morali ed uno dei migliori latinisti del suo tempo. Diceva di considerarsi Petrus ultimus monachorum servus (Pietro, ultimo servo dei monaci). Fonte principale per la ricostruzione della sua vita è la biografia realizzata dal discepolo prediletto Giovanni da Lodi, monaco e suo segretario personale, particolarmente erudito da essere soprannominato Grammaticus, poi divenuto suo successore come priore di Fonte Avellana e successivamente eletto vescovo di Gubbio. Numerosi accenni autobiografici sono poi rinvenibili tra le sue molte lettere.
Piero Damiani nacque a Ravenna tra la fine del 1006 o più probabilmente l'inizio del 1007. Se ne conosce con relativa precisione l'anno di nascita, fatto piuttosto raro per quei tempi, perché egli stesso riferisce in una delle sue numerose lettere di essere nato 5 anni dopo la morte dell'imperatore Ottone III. La sua famiglia era probabilmente, o era stata, di illustri origini, ma quando Piero nacque non era più di condizione agiata. Aveva sei fratelli: il più grande era Damiano, che divenne arciprete e poi monaco, poi un fratello anonimo, quindi Marino, Rodelinda, la prima sorella, Sufficia, e un'altra sorella anonima. Piero era l'ultimo nato. Rimase orfano di entrambi i genitori in giovanissima età. Fu allevato dapprima dalla sorella maggiore Rodelinda. Poi lo accolse in casa il fratello secondogenito, del quale non conosciamo il nome, che lo costrinse a durissimi servizi e lo maltrattò. Lasciò poi la casa del fratello e venne accolto dal fratello più grande Damiano, arciprete. Probabilmente per riconoscenza verso questo fratello Piero aggiungerà al suo nome "Damiani", cioè "di Damiano", che non va inteso dunque come patronimico.
Il fratello Damiano, arciprete di una grande ed importante pieve presso Ravenna, si occupò non solo del mantenimento, ma anche di fornire un'educazione al fratello Piero, cosa rara per quei tempi. Lo inviò a Faenza, poiché presumibilmente conosceva una scuola migliore di quelle disponibili allora a Ravenna, ma forse anche con l'intento di allontanarlo dal fratello malvagio. Arrivato a Faenza a 15 anni, Piero vi rimase per 4 anni, dal 1022 al 1025. Terminati gli studi a Faenza, si spostò a Parma, inviato dal fratello o di sua iniziativa, per studiare le arti liberali, cioè quelle cosiddette del trivio e quadrivio. Rimase a Parma negli anni 1026-1032, cioè tra i 19-25 anni.
Terminati gli studi a Parma tornò a Ravenna dove intraprese la carriera di insegnante, che lo occupò probabilmente dal 1032 al 1035, cioè fino a circa 28 anni. Divenne un rinomato maestro di arti liberali, con molti allievi e acquisendo fama e una certa agiatezza economica. È probabile che fosse anche chierico (diacono o un altro ordine minore), cosa allora comune per i maestri. L'ordinazione presbiterale probabilmente è da collocare durante il periodo di insegnamento a Ravenna, forse tra il 1034-35, ad opera dell'arcivescovo Gebeardo di Eichstätt (in cattedra 1027-1044).
Durante l'insegnamento maturò progressivamente l'idea di dedicarsi alla vita monacale. Mantenendo immutato lo stile di vita a stretto contatto con la società, cominciò a vivere interiormente come un monaco: sotto le vesti indossava il cilicio, digiunava, si prodigava in preghiere, veglie, digiuni, opere di carità. Come egli stesso raccontò, un fatto preciso lo incoraggiò ad abbracciare la vita monastica vera e propria. Solitamente invitava a mensa alcuni poveri. Un giorno si trovò solo con un cieco e gli offrì del pane scuro, di qualità peggiore, tenendo per sé un pane bianco. Una lisca di pesce si conficcò nella sua gola, rischiando di soffocarlo. Interpretò l'incidente come una giusta punizione per il suo egoismo e prontamente offrì al cieco il pane migliore: immediatamente la lisca scivolò in gola lasciandolo indenne. L'ingresso nella vita monastica avvenne quando conobbe a Ravenna due eremiti di Fonte Avellana, eremo nella Pentapoli bizantina fondato circa un decennio prima dal ravennate san Romualdo. Attratto dalla loro umile e composta modestia, li seguì nel loro eremo e vi si fece monaco. Era probabilmente l'anno 1035; Pier Damiani aveva compiuto 28 anni.
A Fonte Avellana, grazie al suo passato di maestro, gli venne chiesto di istruire i suoi fratelli in campo religioso ed esortarli alla vita monastica. Divenne ben presto anche magister dei novizi. In seguito, probabilmente nel 1040, l'abate di Pomposa Guido degli Strambiati chiese al priore di Fonte Avellana di inviargli Pier Damiani come magister per istruire anche la sua comunità, probabilmente avendone già conosciuta la fama che lo circondava a Ravenna e avendolo poi apprezzato personalmente a Fonte Avellana dal 1035 al 1040, periodo in cui Guido ne fu priore. Piero vi rimase circa due anni, tra il 1040 e il 1042. Nel 1042, per ordine del suo priore di Fonte Avellana, passò da Pomposa al monastero di san Vincenzo al Furlo (presso Urbino), per riformarne la disciplina secondo la riforma romualdina. Qui scrisse la Vita Romualdi attingendo alle notizie dirette di chi aveva personalmente conosciuto il monaco anacoreta: del testo è nota l'edizione forlivese del 1641. Qui inoltre incontrò, e talvolta si scontrò, con alcuni potenti nobili del tempo, come il marchese Bonifacio di Toscana o la dinastia dei Canossa.
A fine 1043, in occasione della morte del priore Guido, ritornò a Fonte Avellana, dove venne eletto dai suoi confratelli (circa venti monaci) come suo successore. Rimase priore per 14 anni, fino al 1057. Durante il suo priorato si adoperò nell'organizzazione e nella promozione della vita eremitica e di attuare gli ideali monastici nel suo monastero. Redasse una Regola in cui sottolineava fortemente il "rigore dell'eremo": nel silenzio del chiostro, il monaco è chiamato a trascorrere una vita di preghiera, diurna e notturna, con prolungati e austeri digiuni; deve esercitarsi in una generosa carità fraterna e in un'obbedienza al priore sempre pronta e disponibile. Pier Damiani qualificò la cella dell'eremo come «parlatorio dove Dio conversa con gli uomini». Curò anche l'ampliamento e la ristrutturazione di edifici esistenti e ne costruì di nuovi. Curò in particolare la biblioteca dell'eremo. Fondò, o comunque riorganizzò, all'interno della famiglia monastica di Fonte Avellana, diversi eremi e monasteri dell'ex Esarcato bizantino:
- monastero di San Salvatore di Monte Acuto, nel territorio di Umbertide;
- monastero di san Gregorio in Conca, nel territorio di Morciano di Romagna (da lui fondato nel 1060);
- eremo di Suavicino (fondato nel 1053);
- eremo di Preggio, nel territorio di Umbertide;
- eremo di Gamogna, sull'Appennino faentino (1053);
- cenobio di San Giovanni in Acereta (attualmente nota come Badia della Valle), sull'Appennino faentino (circa 1055);
- monastero di San Bartolomeo in Camporeggiano, presso Gubbio, da lui fondato nel 1057;
- monastero di San Vincenzo al Furlo, presso Acqualagna;
- abbazia e cenobio di Santa Maria in Sitria, presso Isola Fossara;
- abbazia e monastero di Sant'Emiliano in Congiuntoli, presso Sassoferrato;
- abbazia di San Michele Arcangelo, presso Cantiano;
- eremo di Luceoli, presso Cantiano;
- eremo di Ocri, presso Sarsina.
Intrattenne inoltre una notevole corrispondenza con i principali monasteri del centro Italia dell'epoca. Oltre ad adoperarsi nell'ambito monastico, fu uno dei principali e zelanti attuatori della riforma gregoriana della Chiesa. Si recò in visita in molte diocesi (per esempio Urbino, Assisi, Gubbio) per esortare o rimproverare i vescovi. In alcuni casi fece pressione sul Papa per far rimuovere vescovi indegni o simoniaci (a Pesaro, Fano, Osimo e Città di Castello). Nel 1046 assistette all'incoronazione dell'imperatore Enrico III a Roma ed entrò in contatto con l'ambiente di corte. I contatti avuti in seguito con la casa imperiale furono numerosi e cordiali; si recò più volte in Germania; l'imperatrice Agnese fu sua penitente. Nel 1047 fu presente al sinodo romano, celebrato alla presenza dell'imperatore e presieduto dal Papa, per affrontare e risolvere il problema della simonia. Partecipò anche ai sinodi romani del 1049, 1050, 1051, 1053. Nel 1049 compose il Liber Gomorrhianus, trattante i peccati contro natura. Col pontificato di papa Leone IX (1049-1054) si estese l'orizzonte d'azione riformatrice di Pier Damiani. Ebbe un ruolo attivo anche nel tentativo di trattenere Enrico IV dal divorzio da Berta. Dal 1050 in poi, Pier Damiani partecipò attivamente con scritti e interventi personali alla riforma ecclesiastica che vide in Leone IX il più energico fautore. Questo Papa lo nominò priore del convento di Ocri. La sua collaborazione proseguì con i successivi papati di Stefano IX, Niccolò II e Alessandro II.
Papa Stefano IX, nell'agosto-novembre 1057 o il 14 marzo 1058, lo nominò cardinale e vescovo di Ostia, cioè uno dei sette cardinali vescovi suburbicari a più stretto contatto con il Papa. Stando ai suoi scritti, Pier Damiani non accolse la nomina con favore: si sentiva portato alla vita eremitica, implicante solitudine, silenzio, penitenza, preghiera. Si trasferì per obbedienza a Roma, a stretto contatto col Papa e con la corte pontificia, dove rivestì un ruolo di primissimo piano.
Pier Damiani operò la sua azione riformatrice in diversi modi:
- si adoperò affinché il potere politico fosse privato delle connotazioni sacrali che aveva progressivamente assunto (e che avevano portato alla prassi aberrante della simonia, che diede origine alla cosiddetta lotta per le investiture);
- mise in risalto l'autorità del Papa, fulcro centrale della vita ecclesiale (questo da un lato per sottrarre i vescovi all'autorità dell'imperatore, dall'altro per non lasciarli sciolti da ogni istanza superiore, come invece chiedeva la corrente detta episcopalismo);
- cercò di riformare la vita dei chierici, combattendo il nicolaismo (interpretazione lassista del celibato ecclesiastico) e proponendo come modello la vita monastica.
Nel novembre 1059 Papa Niccolò II inviò Pier Damiani a Milano, assieme ad Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca nonché futuro papa sotto il nome di Alessandro II. In quella città lo scandalo della compravendita delle cariche religiose (simonia) era sotto gli occhi di tutti. Il matrimonio dei sacerdoti era prassi corrente, come lo era il comportamento licenzioso di molti religiosi. Le riforme avviate dal papato trovarono nella chiesa ambrosiana una forte opposizione. La chiesa ambrosiana rivendicava la sua autonomia e la sua particolarità. In controtendenza un gruppo di sacerdoti e diaconi, tra cui sant'Arialdo e i fratelli Landolfo ed Erlembaldo Cotta formarono nella città ambrosiana un movimento che gli oppositori soprannominarono Pataria, da patée che in dialetto milanese significa venditori di cianfrusaglie (sinonimo di "straccione"). Questo movimento si scagliava contro il concubinato del clero e contro il discredito che alcuni porporati gettavano sulla Chiesa - e non solo sulla Chiesa. I vescovi ambrosiani scomunicarono alcuni membri di questo movimento e provocarono l'intervento del papato per ristabilire l'ordine e l'obbedienza. Prima di Pier Damiani, si erano recati a Milano nel 1057 Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, e il monaco Ildebrando da Soana (futuro papa Gregorio VII), senza successo. Pier Damiani riunì tutto il clero in cattedrale e, richiamata l'autorità di Papa Niccolò, riuscì a strappare un accordo di accettazione del celibato del clero. Le tensioni rimasero comunque alte, e dopo la morte di Niccolò II le dispute ripresero e sfociarono nel 1066 nell'uccisione, da parte di due sacerdoti, di Sant'Arialdo. Nell'aprile 1060 Niccolò decise di mettere la diocesi di Velletri, vacante da due anni (dall'elezione del vescovo Giovanni Mincio come antipapa Benedetto X), sotto la giurisdizione della diocesi di Ostia, e quindi del Damiani: ciò raddoppiò il carico di lavoro e responsabilità del monaco. Dopo Pier Damiani, rimase prassi consolidata che Velletri fosse posta sotto la guida del vescovo di Ostia. Altre legazioni furono svolte da Pier Damiani a Cluny in Francia (giugno-ottobre 1063), a Firenze, a Mantova, a Ravenna sua città natale, e in numerose località dell'Italia centrale.
Pier Damiani continuò a non amare la vita di curia e chiese più volte a Papa Alessandro II di permettergli di ritornare al chiostro. Dieci anni dopo la nomina a vescovo, nel 1067, ottenne il permesso di tornare a Fonte Avellana, rinunciando a tutte le sue cariche. Ma dopo soli due anni venne richiamato per un'ultima missione: trattenere Enrico IV dal divorziare da Berta di Savoia. La missione fu coronata da temporaneo successo (Concilio di Magonza, 1069). La vita monastica da lui praticata a Fonte Avellana, e diffusa altrove, era tra le più dure conosciute dal monachesimo occidentale: autoflagellazione, penitenze, recita quotidiana del salterio, quantità minime di cibo, lavoro manuale (egli stesso dichiarò di essere stato particolarmente abile nella produzione di cucchiai di legno). Nel 1071 si recò a Montecassino per la consacrazione della chiesa abbaziale. Agli inizi dell'anno seguente si recò a Ravenna per ristabilire la pace con l'arcivescovo Enrico, che aveva appoggiato l'antipapa Clemente III provocando l'interdetto sulla città. Durante il viaggio di ritorno all'eremo di Gamogna (uno dei tanti da lui fondati), un'improvvisa malattia lo costrinse a fermarsi a Faenza. Fu ospitato nel monastero benedettino di Santa Maria Fuori le Mura (oggi conosciuta come Santa Maria Vecchia), dove spirò la notte tra il 21 e il 22 febbraio 1072. Trovò dapprima sepoltura nella chiesa del monastero e in seguito le sue ossa furono traslate nella cattedrale di Faenza, dove sono conservate tuttora. Da una recente ricognizione medica sono emerse grosse calcificazioni nelle ossa delle ginocchia, in cui i devoti vedono una testimonianza concreta della sua vita di penitenza. Queste sono le parole da lui scritte per coloro che avessero visitato il suo sepolcro:

«Io fui nel mondo quel che tu sei ora; tu sarai quel che io ora sono: non prestar fede alle cose che vedi destinate a perire; sono segni frivoli che precedono la verità, sono brevi momenti cui segue l'eternità. Vivi pensando alla morte perché tu possa vivere in eterno. Tutto ciò che è presente, passa; resta invece quel che si avvicina. Come ha ben provveduto chi ti ha lasciato, o mondo malvagio, chi è morto prima col corpo alla carne che non con la carne al mondo! Preferisci le cose celesti alle terrene, le eterne alle caduche. L'anima libera torni al suo principio; lo spirito salga in alto e torni a quella fonte da cui è scaturito, disprezzi sotto di sé ciò che lo costringe in basso. Ricordati di me, te ne prego; guarda pietoso le ceneri di Pietro; con preghiere e gemiti dì: "Signore, perdonalo"» (Pietro Peccatore)

Fu scrittore prolifico e intellettuale raffinato: si conoscono oltre settecento manoscritti contenenti le sue opere, segno della sua grande autorità e diffusione. Pier Damiani scrisse 180 lettere (alcune tanto ampie da essere dei veri e propri trattati, nonostante la forma epistolare); varie opere liturgiche ed eucologiche; sermoni da lui tenuti in varie occasioni; agiografie, tra le quali spicca la citata Vita Romualdi. Le sue opere furono raccolte e pubblicate per la prima vota dal religioso benedettino, padre Costantino Caetani, che le divise in quattro volumi usciti tra il 1606 e il 1640 (le Lettere nel 1606, Sermoni e vite dei santi nel 1608, Opuscoli nel 1615 e i carmina nel 1640).
L'espressione sancta simplicitas, nel linguaggio di Pier Damiani, designa il coraggio e la forza d'animo dei piscatores, uomini che partecipano con salda convinzione alla fede. E proprio ai pescatori si riferisce come modello di virtù nel De sancta semplicitate, lettera indirizzata ad un monaco di nome Ariprando, che gli aveva manifestato il turbamento di essersi fatto monaco troppo giovane, prima di aver studiato a sufficienza la grammatica. La sete di scienza è per Damiani, una forma di idolatria, che distoglie l'uomo dal vero bene, che è la contemplazione di Dio. È il tema della vana curiositas: dove il mondo è solo la manifestazione di Dio, una teofania, non c'è necessità di indagare il creato in quanto tale, ma solo di ammirarlo come "traccia" della potenza divina. La "cupidigia del sapere" è paragonata a una tentazione diabolica, come quella che spinse Eva a mangiare il frutto dell'Albero della Conoscenza. A sostegno di questa tesi Damiani porta appunto i brani della Bibbia e dei Vangeli, a mostrare che Dio affidò sempre la predicazione della sua parola a uomini ignoranti e semplici, come appunto i pescatori.
"Tu pure dai un più efficace incitamento a quelli che ti vedono correr sulle orme di Cristo, di quel che non avresti potuto fare se t'avessero udito cercar di persuaderli con gran numero di parole" La semplicità quindi è per un predicatore, non un difetto ma una dote. Al monaco si richiede il "sentire" e non le "lettere", queste ultime infatti traggono origine dal primo e non viceversa. Cita inoltre l'esempio di San Benedetto che "è mandato a studiar lettere; ma tosto si sente chiamare alla saggia stoltezza di Cristo" Nonostante quindi Pier Damiani fosse esperto di tutte le arti liberali, finge di disprezzarle affinché queste non divengano oggetto di idolatria e strumenti che nelle mani di uomini non abbastanza saggi sono in grado di condurre a eresie.
Lo spunto per l'epistola sulla divina onnipotenza viene a Pier Damiani dopo una visita al monastero di Montecassino, durante la quale, come lui stesso racconta, ebbe una discussione con un monaco di nome Desiderio che sosteneva, in base a una affermazione fatta da San Girolamo che Dio non fosse in grado di restituire la verginità a una donna che la avesse perduta. Ciò significava in pratica che Dio non può cambiare il passato. Argomentando contro S. Girolamo, Damiani dimostra di non sottostare al principio di autorità: « [...] io non guardo a chi ha detto una cosa, ma a che cosa si dica». Questo fatto colloca Damiani sul fronte opposto a quei dialettici che in quello stesso periodo del Medioevo andavano affermando nuovi modelli di razionalità, basati soprattutto sulla logica greco-antica (su tutti Aristotele, l'auctoritas per eccellenza), ma anche a un certo tipo di Patristica. L'attribuire un qualche tipo di impotenza a Dio, sembra a Pier Damiani una affermazione che non si può fare con leggerezza. Ciò che soprattutto gli preme è arrestare l'arroganza di quei teologi che ponevano la divinità al di sotto della Logica, dimenticando la totale trascendenza di Dio che è quindi al di fuori della portata della ragione umana. Ciononostante egli fa appello proprio alla ragione per mostrare che, se bene usata, essa può servire anche a riportare all'umiltà quelli che dicendosi sapienti, giungono a dire di Dio che non può fare qualcosa.
Il fatto che fino a ora nessuna vergine sia mai risorta dopo caduta, non è affatto prova che Dio non sia capace di farlo. Infatti, argomenta il Ravennate, fino a prima della nascita di Cristo si sarebbe potuto dire che Dio non era in grado di far partorire una vergine. L'unica cosa che Dio non può fare, né sa come fare è il male ma ciò non è da intendersi come una impotenza, bensì come rettitudine della volontà divina (inoltre era opinione diffusa, a partire da Agostino di Ippona, che il male fosse privo di positività ontologica, che cioè sia nulla). «Ma d'altra parte tutto quel che vuole, senza alcun dubbio, lo può.». Usando quelle che Damiani chiama "le invincibili ragioni della fede", egli argomenta che non solo Dio può far risorgere "nel merito" una vergine caduta, ma che può farlo anche fisicamente, cioè "nella carne": «Quei che ha formato una creatura che non esisteva, non potrà ripararne una che già esiste ma s'è guastata?». La questione di conseguenza si amplia: che rapporto ha Dio con il tempo? È in grado di cambiare il passato e far sì che ciò che è accaduto, non sia accaduto? A queste domande ancora una volta Pier Damiani cerca di rispondere con la ragione, fermo restando però il confronto continuo con la rivelazione del testo biblico. La legge del mutamento governa le cose e gli enti del mondo: nascono, durano, muoiono. Espressione del divenire è il tempo, scandito secondo il passato, il presente, il futuro. Ma per Dio questi sono la medesima cosa, trascende tali dimensioni: « [...] per rapporto alla sua eternità [...], il suo presente non si cangia mai in passato e il suo oggi non diventa mai domani, né altro momento del tempo». Dio può (o poteva) impedire l'accadimento delle cose, facendo sì che, ad esempio, Roma, la quale fu fondata in tempi antichi, non sia (o non fosse) fondata? La risposta dipende dal modo in cui si fa uso della categoria "tempo". In riferimento all'eternità, che gli è propria, Dio può; in relazione all'uomo, che vive e conosce mutamenti incessanti, Egli poteva: « [...] tutto quello che Dio poteva, questo anche può [...]. Quel potere, che aveva prima che Roma sorgesse, permane ognora immutabile[...] sicché, allo stesso modo che, di qualsiasi cosa, possiamo dire che Dio poteva farla, possiamo dire ugualmente che può farla per la ragione che il suo potere, che è coeterno a Lui, resta sempre fermo e immutabile.» In un'ottica deterministica come quella di Damiani, chi nega a Dio potere sul passato, glielo nega anche sul presente e futuro, poiché sono tutti egualmente necessari. Bisogna quindi ammettere che nella sua extra-temporalità sia parimenti onnipotente tanto sul passato quanto sul futuro. Ma non vi è un "prima" e un "dopo" nella dimensione divina, tutto ciò che Dio decide di cambiare lo fa nel suo "eterno oggi".
Emergono qui i limiti della ragione umana dei quali Damiani è ben consapevole, infatti l'implicazione di questa teoria è che Dio sia svincolato dal principio di non-contraddizione. Questa capacità lo pone al di sopra della logica e rende quindi impossibile per l'uomo, che è invece soggetto all'ordine razionale, la comprensione piena del divino. Strumento tipico della filosofia è la dialettica: come affronta, questa, il tema dell'onnipotenza divina? Damiani condivide una tesi che vanta antiche e diffuse adesioni: la dialettica è disciplina formale, che mette ordine nelle idee e nel linguaggio, ma non ha la forza di penetrare nella essenza intima della realtà. Di qui i due corollari:
A. Il principio di non contraddizione, architrave della logica, implica il rispetto della "necessità", categoria per la quale tutto quello che fu, è necessario che sia stato, così come tutto ciò che è, fintanto che è, è necessario che sia.
B. Trasferire la "necessità" alla sfera della realtà naturale non è possibile; significherebbe negare che il mondo è l'effetto della libera - non vincolata- volontà di Dio. Il principio di non contraddizione non ha cittadinanza nella sfera del creazionismo. Damiani ha il conforto dei filosofi classici: « [...] disputarono circa la conseguenza della necessità o impossibilità secondo la mera virtù della sola arte, così da non fare alcuna menzione di Dio in tali dibattiti.» (De divina onnipotentia)
Le vicende del tempo fanno da sfondo alla dottrina politica che Pier Damiani sviluppa nel Liber Gratissimus e nella Disceptatio synodalis. Alla radice del suo discorso c'è la tesi secondo cui sono inconfondibili le funzioni che svolgono, rispettivamente, il giudice e il sacerdote: giudicare significa applicare la legge, che colpisce con la nuda sanzione gli atti aventi il profilo di reati; esercitare il magistero sacerdotale vuol dire disporsi verso il peccatore con lo spirito del perdono, secondo amorevole misericordia. Su questa diversità Pier Damiani incardina l'idea della distinzione fra autorità religiosa e potere politico. Egli, come canonista, in materia ecclesiastica afferma la signoria della personalità che regge le sorti della chiesa di Cristo: il romano pontefice. Nella veste di studioso del diritto civile, riconosce l'efficacia dei decreti emanati dal principe temporale. Sebbene Pier Damiani si fosse battuto per tutta la vita contro il clero simoniaco, la sua visione al riguardo fu più moderata rispetto a quella proposta dal grande teologo contemporaneso Umberto di Silva Candida. Per Pier Damiani il vero artefice del sacramento è Cristo e non chi lo amministrava, essendo quest'ultimo un mero strumento dello Spirito Santo. Pertanto, la validità dei sacramenti non prescindeva dalle doti morali di chi gli aveva impartiti e, di conseguenza, le ordinazioni gratuite effettuate da ecclesiastici simoniaci andavano considerate valide a tutti gli effetti. Tale posizione fu parzialmente accolta nel sinodo del 1061, in cui si decise che le ordinazioni gratuite fino ad allora impartite erano valide, indipendentemente da chi le aveva amministrate, ma quelle future provenienti da simoniaci sarebbero state nulle.
Riguardo al nicolaismo la posizione di Pier Damiani dovette mutare nel tempo. Inizialmente egli accettava il matrimonio dei diaconi che avevano, prima dell'ordinazione, dichiarato di non voler attenersi al celibato ma, successivamente al sinodo del 1059 in cui papa Leone IX aveva vietato ai fedeli di partecipare alle liturgie officiate da chierici concubinari, Pier Damiani affermò il suo impegno affinché «nessuno ascoltasse la messa da un presbitero, nessuno il Vangelo da un diacono, nessuno infine l'epistola da un suddiacono dei quali sappia che si mescolano con le donne».
Il gioco degli scacchi
Il codice 38 di Ivrea Braulionis Episcopi et Ysidori epistule “contenente scritti di Isidoro di Siviglia, copiato probabilmente durante l’episcopato di Warmondo, tra il 960 ed il 1001” è il più antico documento europeo nel quale si parla degli scacchi (shatranj), ed è custodito nella Biblioteca capitolare di Ivrea. Abbiamo poi il manoscritto di Einsiedeln, redatto probabilmente nell’alta Italia e la lettera di san Pier Damiani del 1061. E ancora la scacchiera posta sull’architrave della pieve San Paolo di Vico Pancellorum vicino a Bagni di Lucca, la scacchiera sulla parete di Sant’Agata nel Mugello, le scacchiere musive delle cattedrali di Piacenza, Pesaro e Otranto in più ci sono i giocatori di scacchi arabi ritratti nella Cappella Palatina a Palermo, tutte opere databili al XII secolo. Le cronache narrano che a Pisa, tra il 18 e il 24 gennaio 1168, ci si recava sull’Arno ghiacciato per giocare a scacchi. Con il XIII secolo le testimonianze di una presenza scacchistica in Italia si moltiplicano, segno di una veloce diffusione in tutta la penisola. A partire dal 1061 il cardinale Pietro Damiani scrive a papa Alessandro II per riferirgli di aver punito un vescovo fiorentino per avere trascorso la notte a giocare a scacchi, sorgono problemi con la Chiesa per via dell’alea (talvolta venivano giocati con l’ausilio dei dadi), delle scommesse in denaro e perché visti come “vanità”. Gli statuti municipali furono in genere più tolleranti e i divieti riguardavano soltanto le scommesse in denaro per ovvi motivi di ordine pubblico. In molti casi gli scacchi erano l’unico gioco ammesso. Nonostante i divieti gli scacchi ebbero una notevole fortuna, specie nei castelli e nelle corti, tanto da essere annoverati tra le conoscenze indispensabili dei cavalieri. Nel gennaio 1266 il conte Diego Novello, mentre le truppe fiorentine attaccarono Castelnuovo vicino a Cavriglia, invece di dar manforte ai suoi preferì rimanere al Bargello ad assistere all’esibizione di scacchi di un saraceno di nome Buzzecca, forse il sivigliano Abu Bakr Ibn Zubair, che giocò tre partite in simultanea, due delle quali senza vedere la scacchiera. Lo stesso Dante li cita nel canto XXVIII del Paradiso in cui paragona il numero degli angeli al doppiar degli scacchi mentre Sacchetti e Boccaccio ne fanno il filo conduttore di alcune novelle. Fu un frate domenicano, all’inizio del XIV secolo, a trarre dagli scacchi una serie di ammaestramenti morali in un’opera che ebbe larga diffusione per tutto il Medioevo, il Liber de moribus hominum et officiis nobilium super ludo scachorum. Il gioco ereditato dagli arabi era lento e poco adatto alle scommesse; per questa ragione nelle taverne si diffusero i partiti, specie di problemi su cui scommettere. Le raccolte di partiti più famose sono il Bonus Socius e il Civis Bononiae.

semele
Giove e Semele di Gustave Moreau

SEMELE
Semèle (in greco antico: Semèle) è un personaggio della mitologia greca. Era figlia di Cadmo e di Armonia e amante di Zeus, con cui concepì Dioniso. Il culto di Semèle potrebbe avere origini tracio-frigie ed essere connesso a una divinità ctonia.
«Supplichevole accostati al divino
figlio di Semele, nata da Cadmo.»

(Accio, Tereo framm.647)
Secondo il mito, Era, gelosa della relazione del suo sposo divino con Semèle, si trasformò in Beroe, nutrice della giovane e la convinse a chiedere a Zeus di apparirle come dio e non come mortale. Zeus, conscio del pericolo che Semèle correva, tentò di dissuaderla, ma Semèle insistette per vederlo in tutto il suo splendore. Così il dio, che le aveva promesso di accontentare ogni sua richiesta, si trasformò e Semèle morì folgorata dalla luce. Zeus riuscì a salvare il bambino che Semèle aveva in grembo e nascose il piccolo Dioniso nella coscia. Diventato immortale grazie al fuoco divino, Dioniso discese nell'Ade e portò la madre sull'Olimpo, dove fu resa immortale con il nome di Tione.

Eugenio Caruso - 04 - 11 - 2021

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