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Dante, Paradiso, Canto XXV. Dante interrogato sulla Speranza

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XXV

giacomo rubens

San Giacomo di Peter Paul Rubens.

Dopo l'esame condotto dan San Pietro sulla Fede, questo Canto è dedicato all'esame sulla Speranza cui Dante è sottoposto, questa volta, da san Giacomo. Il Cantop si apre con una delle affermazioni più alte e orgogliose dell'autoscienza poetica dell'autore, il quale si augura di ricevere l'incoronazione poetica dell'alloro nel Battistero di S. Giovanni della sua Firenze, se mai la fama che il poema gli ha conquistato vincerà la crudeltà dei suoi avversari politici che lo costringono a un ingiusto esilio: più che una concreta speranza di rientrare in patria, cosa ormai improbabile dopo il 1315 e come testimoniato dall'Epistola XII all'amico fiorentino, si tratta della personale affermazione della propria grandezza, suscitata dalla sua presenza in Paradiso e dall'esame appena superato sul possesso della fede, con l'approvazione solenne di san Pietro; in S. Giovanni, del resto, Dante era stato battezzato e dunque gli era stata infusa la fede su cui il santo lo ha appena interrogato, girandogli intorno tre volte come a coronarlo con una sorta di alloro ideale, e qui lui vorrebbe tornare come poeta definitivamente consacrato, con altra voce e dunque votato a una poesia ben più alta e impegnata di quella prodotta prima dell'esilio, anche se sa perfettamente che ciò sarà nei fatti impossibile (il poema è ormai quasi terminato, per cui è ipotizzabile che questo Canto risalga agli anni intorno al 1319-1320, gli stessi delle due Egloghe e, probabilmente, dell'Epistola XIII a Cangrande).
La speranza tutta umana e terrena del rientro in patria è destinata a essere delusa, ma essa è in qualche modo sostituita da quella ben più alta e importante della beatitudine eterna, alla quale Dante sa con certezza di essere destinato e che gli viene dimostrata con il viaggio straordinario nell'Oltretomba, privilegio irripetibile che proprio per i suoi meriti di poeta gli è stato concesso dalla grazia; poco oltre, del resto, Beatrice alluderà a ciò dicendo che Dante può lasciare l'esilio dell'Egitto per visitare anzitempo la Gerusalemme celeste, ovvero è stato chiamato dall'esilio sulla Terra al viaggio ultraterreno (la metafora era frequente nella letteratura religiosa), che è un modo per dire che la patria terrena, Firenze, può averlo bandito ingiustamente, ma il poeta nutre la sicura speranza di essere ormai cittadino della città celeste che è il Paradiso, e proprio su questa virtù è d'altronde incentrata buona parte dell'episodio (Dante è ormai totalmente separato dalle questioni politiche e di parte ed è proiettato totalmente verso il destino ultraterreno, suo e dei lettori cui il poema si rivolge).
Il Canto è dunque occupato dall'esame sulla speranza, affidato a san Giacomo Maggiore che di quella virtù era considerato dagli esegeti figura allegorica, come la stessa Beatrice afferma nel rivolgersi al santo e accostandolo di fatto a Pietro e Giovanni (i tre erano gli Apostoli prediletti da Cristo, ai quali il Figlio di Dio rivolse maggior benevolenza), mentre è ancora la donna a esortare il beato a esaminare Dante sul possesso di questa virtù.
Tre sono le domande cui il poeta dovrà rispondere, ovvero che cos'è la speranza, quanta lui ne possieda (e non se ne sia in possesso, come nel caso della fede, perché tutti gli uomini sperano) e da dove a lui venga: alla seconda domanda risponde Beatrice, col dire che Dante spera più di ogni altro fedele e per non dargli motivo di vantarsi, cosa che del resto il poeta ha già fatto nel solenne inizio del Canto; agli altri due punti risponde personalmente Dante, nuovamente paragonandosi a un allievo che sostiene un esame di fronte al maestro e defininendo la speranza secondo la celebre formula di Pietro Lombardo, cioè come l'attesa certa della futura gloria, della felicità eterna, che in maniera evidente si contrappone alla gloria personale e terrena alla quale egli ha in qualche modo rinunciato a causa dell'esilio.
La fonte della speranza è individuata poi nei testi sacri, a cominciare dai Salmi (l'autore, David, è indicato come sommo cantor del sommo duce) e dall'Epistola che ai tempi di Dante era attribuita a san Giacomo Maggiore, mentre oggi l'autore riconosciuto è l'omonimo Apostolo figlio di Alfeo: in essa non c'è una vera e propria trattazione della speranza ma solo alcuni accenni al premio che Dio assicura a chi vince le tentazioni, per cui Dante può parlare di stille, gocce di sapienza che lo hanno riempito di questa virtù, tanto che può farla ricadere come pioggia salutare sui lettori (è questa la sua missione poetica, esplicitamente ricordata dallo stesso Giacomo).
L'esame si conclude con la definizione rigorosa di ciò che è oggetto della speranza, ovvero la beatitudine eterna che Dante definisce ancora col ricorso alle fonti scritturali e, in particolare, a Isaia e san Giovanni, il fratello di Giacomo autore del Vangelo e dell'Apocalisse: proprio da questo libro profetico Dante cita il passo in cui si parla delle anime dei beati vestiti di bianco di fronte al trono dell'Altissimo, ovvero rivestiti del corpo di cui ognuno rientrerà in possesso il Giorno del Giudizio, come affermato del resto dallo stesso Isaia (è la ripresa del tema già affrontato nei Canti VII e XIV, toccato poi alla fine di questo Canto in seguito all'apparizione dello stesso san Giovanni). Le parole di Dante suscitano l'approvazione solenne di tutto il Paradiso, come già avvenuto nel Canto precedente, e risuona il versetto del Salmo IX prima evocato dal poeta parlando di David, che fa da preludio all'apparizione di Giovanni che dovrà esaminare il poeta sul possesso della terza virtù teologale, la carità.
L'arrivo di Giovanni suscita in Dante un dubbio e una curiosità, legata strettamente alla questione della resurrezione dei corpi e dunque conseguente al discorso prima affrontato riguardo alla doppia vesta di cui i beati saranno rivestiti in futuro: era diffusa infatti la leggenda che voleva san Giovanni asceso in Cielo col proprio corpo mortale come Cristo e Maria, fatto che lo stesso san Tommaso giudicava non impossibile e che tuttavia Dante respinge sulla scorta di altri passi dottrinali, soprattutto la teologia francescana che ammetteva la sola assuzione del corpo della Vergine.
Dante ha appreso da Salomone (XIV, 43-60) che il corpo dei beati sarà visibile nella luce della loro anima, come il carbone avvolto dalla fiamma, per cui il poeta fissa l'eccezionale splendore della luce di san Giovanni nella vana speranza di intravederne la figura (come del resto gli è stato concesso nel caso di Cristo, XXIII, 31-33): l'abbagliamento e la temporanea cecità di cui resta vittima, come se avesse fissato il sole, sono segno evidente della vanità della sua credenza e il santo si affretta a precisare che il suo corpo giace sulla Terra come quello di tutti gli altri beati, a eccezione di Cristo e Maria al cui trionfo Dante ha assistito nel Canto XXIII.
Non sappiamo per quale particolare motivo il poeta si senta in dovere di sfatare questa leggenda, se non forse per smontare false superstizioni che circolavano su Giovanni e su altri santi nel Medioevo, ma è certo che il dubbio aveva natura dottrinale e a lume di teologia è stato risolto, come dimostrerà il fatto che sarà Beatrice (allegoria della grazia e della teologia rivelata) a restituire la vista a Dante nel Canto seguente, dopo il positivo superamento dell'esame sul possesso della carità. Il Canto si chiude infatti con lo smarrimento di Dante che non è più in grado di vedere il volto della sua guida, quindi in un'atmosfera di incertezza e di attesa che verrà sciolta solo all'inizio del Canto XXVI, allorché san Giovanni esorterà il poeta a parlare della carità e a dimostrare che la sua vista è smarrita e non defunta, avendo Beatrice la capacità di restituirgliela come Anania fece con san Paolo.

pollaiolo

LA SPERANZA del Pollaiolo

NOTE

- Ai vv. 4-6 Dante paragona la sua città all'ovile in cui ha dormito come agnello, ovvero in cui è nato e cresciuto, mentre i suoi nemici politici che fanno guerra a Firenze sono detti lupi, con evidente contrasto di si gnificato (l'immagine è di ascendenza biblica). Al v. 5 ovile ov'io presenta una paronomàsia con ripetizione dei primi tre suoni (ovi-).
- I vv. 7-9 sono stati variamente interpretati, ma è probabile che Dante voglia dire che, nel caso di un suo ritorno a Firenze, sarà un poeta dotato di altra voce e fama rispetto al passato, mentre il vello allude forse ai capelli incanutiti. Il cappello è ovviamente l'alloro poetico.
- Ai vv. 14-15 la primizia / che lasciò Cristo d'i vicari suoi  è san Pietro, primo fra i papi successori di Cristo.
- Al v. 18 l'accenno alla Galizia  si riferisce al sepolcro di san Giacomo Maggiore, che si trova a Santiago de Compostela, in Spagna. Vicita è forma attestata per «visita».
- Il paragone (vv. 19-24) tra Pietro e Giacomo e due colombi che tubano è parso ad alcuni crtitici irriverenti, ma è una comparatio domestica  non così insolita nel Paradiso; la colomba era, del resto, simbolo dello Spirito Santo.
- Al v. 27 ignito  è latinismo per «infuocato».
- Al v. 29 larghezza (alcuni mss. leggono allegrezza) indica la generosità del Paradiso, la nostra basilica, di cui fa cenno l'Epistola un tempo attribuita a san Giacomo Maggiore.
- I vv. 40-43 paragonano il Paradiso a una corte in cui l'Imperadore è Dio, i suoi conti sono i più illustri fra i beati, mentre l'aula più segreta potrebbe essere l'Empireo, o gli ultimi due Cieli, oppure (ma è meno probabile) tutto il Paradiso. La terminologia è di derivazione feudale, come il titolo barone attribuito qui a Giacomo e in XXIV, 115 a Pietro.
- Al v. 57 militar indica la vita terrena, vista appunto come «milizia».
- Al v. 64 discente e dottor  indicano rispettivamente l'allievo e il docente (è linguaggio universitario, come nel Canto XXIV).
- La definizione della speranza ai v. 67-69 è la traduzione letterale di Pietro Lombardo, Sententiae, III, 26: Spes est certa expectatio futurae beatitudinis, veniens ex Dei gratia et ex meritis praecedentibus, ripresa anche da san Tommaso in Summa theol. (cfr. X, 106-108).
- I vv. 71-75 alludono a David, considerato autore di molti Salmi e per questo definito sommo cantor del sommo duce: la teodia è letteralmente il «canto rivolto a Dio» e si tratta di una parola di derivazione greca, probabile neologismo dantesco (il poeta conosceva le due parole greche theos, «Dio» e odé, «canto», attraverso i lessici medievali). Dante traduce il versetto 11 del Salmo IX, Sperent in te qui noverunt nomen tuum, che è lo stesso citato al v. 98.
- Al v. 77 la pìstola è l'Epistola attribuita a Giacomo Maggiore e in realtà scritta da Giacomo Minore, in cui ci sono accenni al premio promesso da Dio a chi vince le tentazioni.
- Al v. 78 replùo  è lat. che vuol dire «ripiovo», «faccio ricadere». Tutta la terzina insiste sull'immagine delle gocce e della pioggia, paragonate alla speranza.
- Il v. 84 allude al martirio di san Giacomo, che secondo gli Atti degli Apostoli  morì a Gerusalemme di cui la palma è simbolo; la morte è l'uscita dalla milizia della vita, quindi dal campo. Giacomo precisa di nutrire ancora speranza perché i beati, per ragioni opposte ai dannati, ne sono ormai privi avendo raggiunto la felicità eterna.
- I vv. 88-90, alquanto aggrovigliati, prob. devono essere interpretati così: «Il Vecchio e il Nuovo Testamento esprimono il termine cui giungono le anime che Dio ha eletto e questo termine mi indica ciò che la speranza promette».
- I vv. 91-93 citano e interpretano Isaia, LXI, 7, dove il profeta parla di coloro che nella loro terra possiederanno il «doppio» e la loro felicità sarà eterna: il «doppio» viene ad essere l'unione di corpo e anima dopo il Giudizio Universale e la terra è il Paradiso.
- Ai vv. 94-96 Dante allude a san Giovanni, autore dell'Apocalisse e fratello di Giacomo, che in Apoc., VII, 9 descrive le anime di fronte al trono di Dio come vestite di «bianche stole»: Dante le interpreta come le anime rivestite del corpo dopo la resurrezione.
- La similitudine ai vv. 100-102 indica l'ipotesi assurda che la costellazione del Cancro si arricchisca di una stella luminosa al pari della luce di san Giovanni: se così fosse, in inverno (quando il Sole è nel Capricorno e il Cancro è visibile sull'orizzonte solo di notte) ci sarebbe un giorno della durata di un mese, perché al tramonto del Sole sorgerebbe il Cancro luminosissimo).
- Al v. 105 la novizia  è la sposa novella.
- I vv. 112-114 si riferiscono al passo evangelico (Ioann., XIII, 23) in cui si narra che Giovanni durante l'Ultima Cena appoggiò il capo sul petto di Cristo: questi è detto pellicano  perché anticamente si credeva che questo uccello risorgesse e e nutrisse i suoi figli squarciandosi il petto, come in un certo senso fece Gesù con il martirio (cfr. Salmo CI, 7).
- I vv. 127-129 intendono dire che solo Cristo e Maria sono stati assunti in cielo con le due stole, ovvero i corpi mortali (anche se il dogma dell'Assunzione della Vergine è stato fissato dalla Chiesa solo nel 1950). Dante non fa cenno ad Enoc ed Elia, per cui è probabile che respingesse anche la leggenda circa l'assunzione in Cielo dei due profeti (l'accenno in Inf., XXVI, 35 ha solo valore metaforico). Quanto alla leggenda su san Giovanni, essa trae origine da un passo del suo Vangelo (XXI, 21-23) in cui tra gli Apostoli si sparse la voce che non dovesse morire.

giovanni 6

San Giovanni. Miniatura del XIV Secolo


TESTO DEL CANTO XXV

Se mai continga che ‘l poema sacro 
al quale ha posto mano e cielo e terra, 
sì che m’ha fatto per molti anni macro,                          3

vinca la crudeltà che fuor mi serra 
del bello ovile ov’io dormi’ agnello, 
nimico ai lupi che li danno guerra;                                  6

con altra voce omai, con altro vello 
ritornerò poeta, e in sul fonte 
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;                          9

però che ne la fede, che fa conte 
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi 
Pietro per lei sì mi girò la fronte.                                     12

Indi si mosse un lume verso noi 
di quella spera ond’uscì la primizia 
che lasciò Cristo d’i vicari suoi;                                      15

e la mia donna, piena di letizia, 
mi disse: «Mira, mira: ecco il barone 
per cui là giù si vicita Galizia».                                        18

Sì come quando il colombo si pone 
presso al compagno, l’uno a l’altro pande, 
girando e mormorando, l’affezione;                               21

così vid’io l’un da l’altro grande 
principe glorioso essere accolto, 
laudando il cibo che là sù li prande.                              24

Ma poi che ‘l gratular si fu assolto, 
tacito coram me ciascun s’affisse, 
ignito sì che vincea ‘l mio volto.                                       27

Ridendo allora Beatrice disse: 
«Inclita vita per cui la larghezza 
de la nostra basilica si scrisse,                                      30

fa risonar la spene in questa altezza: 
tu sai, che tante fiate la figuri, 
quante Iesù ai tre fé più carezza».                                  33

«Leva la testa e fa che t’assicuri: 
che ciò che vien qua sù del mortal mondo, 
convien ch’ai nostri raggi si maturi».                             36

Questo conforto del foco secondo 
mi venne; ond’io levai li occhi a’ monti 
che li ‘ncurvaron pria col troppo pondo.                        39

«Poi che per grazia vuol che tu t’affronti 
lo nostro Imperadore, anzi la morte, 
ne l’aula più secreta co’ suoi conti,                                42

sì che, veduto il ver di questa corte, 
la spene, che là giù bene innamora, 
in te e in altrui di ciò conforte,                                          45

di’ quel ch’ell’è, di’ come se ne ‘nfiora 
la mente tua, e dì onde a te venne». 
Così seguì ‘l secondo lume ancora.                              48

E quella pia che guidò le penne 
de le mie ali a così alto volo, 
a la risposta così mi prevenne:                                       51

«La Chiesa militante alcun figliuolo 
non ha con più speranza, com’è scritto 
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:                           54

però li è conceduto che d’Egitto 
vegna in Ierusalemme per vedere, 
anzi che ‘l militar li sia prescritto.                                    57

Li altri due punti, che non per sapere 
son dimandati, ma perch’ei rapporti 
quanto questa virtù t’è in piacere,                                   60

a lui lasc’io, ché non li saran forti 
né di iattanza; ed elli a ciò risponda, 
e la grazia di Dio ciò li comporti».                                   63

Come discente ch’a dottor seconda 
pronto e libente in quel ch’elli è esperto, 
perché la sua bontà si disasconda,                               66

«Spene», diss’io, «è uno attender certo 
de la gloria futura, il qual produce 
grazia divina e precedente merto.                                   69

Da molte stelle mi vien questa luce; 
ma quei la distillò nel mio cor pria 
che fu sommo cantor del sommo duce.                       72

‘Sperino in te’, ne la sua teodìa 
dice, ‘color che sanno il nome tuo’: 
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?                                  75

Tu mi stillasti, con lo stillar suo, 
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno, 
e in altrui vostra pioggia repluo».                                    78

Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno 
di quello incendio tremolava un lampo 
sùbito e spesso a guisa di baleno.                                81

Indi spirò: «L’amore ond’io avvampo 
ancor ver’ la virtù che mi seguette 
infin la palma e a l’uscir del campo,                              84

vuol ch’io respiri a te che ti dilette 
di lei; ed emmi a grato che tu diche 
quello che la speranza ti ‘mpromette».                         87

E io: «Le nove e le scritture antiche 
pongon lo segno, ed esso lo mi addita, 
de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.                           90

Dice Isaia che ciascuna vestita 
ne la sua terra fia di doppia vesta: 
e la sua terra è questa dolce vita;                                   93

e ‘l tuo fratello assai vie più digesta, 
là dove tratta de le bianche stole, 
questa revelazion ci manifesta».                                    96

E prima, appresso al fin d’este parole, 
Sperent in te’ di sopr’a noi s’udì; 
a che rispuoser tutte le carole.                                        99

Poscia tra esse un lume si schiarì 
sì che, se ‘l Cancro avesse un tal cristallo, 
l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì.                        102

E come surge e va ed entra in ballo 
vergine lieta, sol per fare onore 
a la novizia, non per alcun fallo,                                     105

così vid’io lo schiarato splendore 
venire a’ due che si volgieno a nota 
qual conveniesi al loro ardente amore.                        108

Misesi lì nel canto e ne la rota; 
e la mia donna in lor tenea l’aspetto, 
pur come sposa tacita e immota.                                  111

«Questi è colui che giacque sopra ‘l petto 
del nostro pellicano, e questi fue 
di su la croce al grande officio eletto».                         114

La donna mia così; né però piùe 
mosser la vista sua di stare attenta 
poscia che prima le parole sue.                                    117

Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta 
di vedere eclissar lo sole un poco, 
che, per veder, non vedente diventa;                            120

tal mi fec’io a quell’ultimo foco 
mentre che detto fu: «Perché t’abbagli 
per veder cosa che qui non ha loco?                           123

In terra è terra il mio corpo, e saragli 
tanto con li altri, che ‘l numero nostro 
con l’etterno proposito s’agguagli.                               126

Con le due stole nel beato chiostro 
son le due luci sole che saliro; 
e questo apporterai nel mondo vostro».                      129

A questa voce l’infiammato giro 
si quietò con esso il dolce mischio 
che si facea nel suon del trino spiro,                           132

sì come, per cessar fatica o rischio, 
li remi, pria ne l’acqua ripercossi, 
tutti si posano al sonar d’un fischio.                             135

Ahi quanto ne la mente mi commossi, 
quando mi volsi per veder Beatrice, 
per non poter veder, benché io fossi 

presso di lei, e nel mondo felice!                                  139

giacomo

San Giacomo. Anonimo del XVII secolo

PARAFRASI CANTO XXV

Se mai avverrà che il poema sacro al quale hanno cooperato Cielo e Terra, e che mi ha consumato fisicamente per molti anni, vinca la crudeltà che mi bandisce dal bell'ovile (Firenze) in cui io dormii come agnello (in cui sono nato e cresciuto), nemico ai lupi che gli fanno guerra;

con voce ben diversa e i capelli canuti ritornerò lì come poeta, e cingerò le tempie con l'alloro poetico sul fonte del mio battesimo (nel battistero di S. Giovanni);

poiché fu lì che io entrai nella fede, che rende le anime vicine a Dio, e in seguito san Pietro girò intorno alla mia fronte dopo avermi esaminato su quella virtù.

Poi un altro spirito si mosse verso di noi da quella corona di anime da cui uscì il primo dei vicari che Cristo lasciò in Terra (san Pietro);

e la mia donna (Beatrice), piena di gioia, mi disse: «Guarda, guarda: ecco il santo (san Giacomo Maggiore) per cui sulla Terra si va in pellegrinaggio in Galizia (a Santiago de Compostela)».

Come quando il colombo si avvicina al suo compagno, e i due si girano attorno e tubano, manifestando il loro affetto reciproco, così io vidi ognuno dei due gloriosi beati accolto dall'altro, lodando il cibo spirituale (la beatitudine) che li nutre lassù.

Ma dopo la fine delle loro felicitazioni, ognuno dei due si fermò silenzioso vicino a me, talmente splendente che la mia vista non poteva sostenerne lo sguardo.

Allora Beatrice, sorridendo, disse: «O anima illustre, che scrivesti della liberalità del Paradiso, parla della speranza in questa altezza: tu la conosci bene, poiché la raffiguri tante volte quante Gesù mostrò a voi tre (Pietro, Giacomo, Giovanni) la sua predilezione».

«Alza la testa e rassicurati, poiché ciò che viene quassù dal mondo terreno deve perfezionarsi alla nostra luce».

Questo incoraggiamento venne a me dalla seconda luce (san Giacomo); allora io alzai gli occhi per guardare i monti che, prima, li piegarono col peso eccessivo (per guardare la loro luce).

«Giacché il nostro Imperatore (Dio) vuole per sua grazia che tu, prima della morte, ti incontri nella sua stanza più segreta coi suoi alti dignitari, cosicché, una volta vista la verità di questa corte (del Paradiso), tu possa confortare in te e negli altri la speranza, che fa innamorare del vero bene, dimmi cos'è questa virtù, di' in quale grado la possiedi e spiega da dove ti è venuta». Così mi disse il secondo beato.

E quella donna gloriosa che guidò le penne delle mie ali a un volo così elevato, mi precedette così nella risposta:

«La Chiesa militante non ha nessun altro figlio con maggiore speranza di Dante, come è scritto nel Sole (la mente divina) che illumina tutta la nostra schiera:

perciò gli è concesso venire dall'Egitto (dalla Terra) nella Gerusalemme celeste (in Cielo) per vedere, prima che la morte ponga fine alla sua milizia (alla sua vita terrena).

Io lascio a lui le altre due domande, che non gli sono state poste per conoscere, ma affinché egli riferisca al mondo quanto questa virtù ti aggrada: esse infatti non saranno difficili per lui, né gli daranno occasione di vantarsi; dunque risponda da solo e la grazia divina lo aiuti in questo».

Come un allievo che risponde al maestro con prontezza e buona volontà in ciò in cui è esperto, per manifestare la sua conoscenza, io dissi: «La speranza è l'attesa sicura della futura beatitudine, la quale è prodotta dalla grazia divina e dai meriti acquisiti.

Questa luce (virtù) mi viene da molte stelle (fonti); ma colui che per primo la fece entrare nel mio cuore fu il supremo cantore di Dio (David, autore dei Salmi).

Egli dice nel suo canto in onore di Dio: 'Sperino in Te, coloro che sanno il Tuo nome': e chi non lo sa, se possiede la mia fede?

Insieme a David anche tu mi infondesti la speranza con la tua Epistola, cosicché sono ripieno di questa virtù e posso diffonderla anche sugli altri».

Mentre io dicevo questo, nella viva profondità di quella luce tremava un lampo intenso e frequente, come un balenìo di luce.

Poi mi disse: «L'amore che io provo ancora per la speranza che mi seguì fino al martirio e alla fine della mia vita terrena, vuole che io mi rivolga a te che di essa sei ripieno; e mi è gradito che tu dica ciò che la speranza ti promette».

E io: «L'Antico e il Nuovo Testamento indicano il termine, ed esso mi indica il fine, delle anime che hanno raggiunto la beatitudine.

Isaia dice che ciascuna di esse indosserà una doppia veste (l'anima e il corpo) nella sua terra, e la sua terra è questa vita beata in Paradiso;

e tuo fratello (san Giovanni Evangelista) ci rende manifesta questa rivelazione in modo ancor più chiaro, là (nell'Apocalisse) dove tratta delle stole bianche (i corpi uniti alle anime)».

E prima, subito dopo la fine di queste parole, sopra di noi si udì 'Sperino in Te', voce a cui si unirono tutte le corone di beati danzanti.

Poi tra di loro si fece splendente un lume, tale che se la costellazione del Cancro avesse una stella così luminosa, l'inverno avrebbe un giorno della durata di un mese.

E come una fanciulla lieta si alza ed entra nella danza, solo per rendere omaggio alla sposa novella e non per un intento superbo, così io vidi quella luce intensissima (san Giovanni Evangelista) avvicinarsi alle altre due che ruotavano e cantavano, in modo confacente al loro ardore di carità.

Entrò nella loro danza e si unì al loro canto; e la mia donna teneva lo sguardo fisso su di loro, proprio come una sposa silenziosa e immobile.

«Costui è quello (san Giovanni) che mise la testa sul petto di Cristo, e fu scelto dalla croce all'alto compito (di sostituire Gesù come figlio di Maria)».

Così disse Beatrice; tuttavia, prima e dopo aver parlato, non distolse lo sguardo dalle tre luci.

Come colui che osserva e tenta in ogni modo di vedere una parziale eclissi di sole, e che, per voler vedere, diventa cieco;

tale divenni io mentre fissavo quella terza luce, mentre il beato mi disse: «Perché ti abbagli per vedere una cosa che non è qui (il corpo mortale di san Giovanni)?

Il mio corpo si decompone sulla Terra, e resterà lì con tutti gli altri finché il numero di noi beati non raggiungerà il limite fissato dalla volontà divina.

Solo le due luci che sono salite all'Empireo (Cristo e Maria) si trovano in Paradiso con i loro corpi, e tu riferirai questo quando sarai tornato sulla Terra».

All'inizio di queste parole la danza delle tre luci si arrestò insieme con la dolce mescolanza del loro canto, proprio come tutti i rematori lasciano cadere i remi - con cui prima fendevano l'acqua - al fischio del timoniere, per porre fine alla fatica o evitare un pericolo.

Ahimè, quanto mi turbai quando mi voltai per vedere Beatrice, poiché non potevo vederla, anche se ero vicino a lei e nel mondo della beatitudine eterna (in Paradiso)!

Dante e l'alloro poetico

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Dante con la corona d'alloro.

L'iconografia «ufficiale» raffigura Dante quasi sempre con la fronte coronata di alloro, tuttavia è noto che il poeta non ricevette mai tale riconoscimento nel corso di una pubblica cerimonia, nonostante egli lo desiderasse ardentemente: in Par., I, 22-33 egli invoca l'assitenza di Apollo per rendersi degno di indossare le foglie del diletto legno dell'alloro sacro al dio pagano, cosa che avveniva raramente in quei tempi per colpa e vergogna de l'umane voglie, mentre in XXV, 1 ss. l'autore della Commedia esprime l'auspicio, che sa bene irrealizzabile, di poter tornare un giorno a Firenze e ricevere la sospirata corona di alloro nel battistero di S. Giovanni, grazie alla fama conquistata col suo poema, benché questo non accadrà mai. La grandezza di Dante era ben conosciuta ai suoi tempi, ma le diatribe politiche non consentivano di incoronare un personaggio che poteva essere inviso a qualche potente.
Eppure Dante avrebbe potuto diventare «poeta laureato» se solo avesse voluto, accettando l'invito che il professore bolognese Giovanni Del Virgilio gli rivolse nel 1319-1320 a ricevere l'incoronazione in quella città: il retore lo esortava ad abbandonare la poesia volgare, giudicata di minore importanza, e a dedicarsi a quella latina celebrando in un poema epico qualche fatto contemporaneo, nel qual caso egli lo avrebbe presentato trionfalmente ai dotti dello Studio di Bologna (la posizione dello studioso riflette i pregiudizi dei pre-umanisti che anticipavano il pensiero di Petrarca nel XIV secolo).
Dante rispose con la prima delle due Egloghe scritte in esametri latini, nella quale finge un dialogo fra i pastori Titiro e Melibeo, il primo dei quali adombra lo stesso poeta che riceve un componimento da un terzo pastore, Mopso (ovvero il Del Virgilio) che lo invita a cessare di occuparsi umilmente delle sue bestie per cingersi la fronte di alloro, dedicandosi come lui a cantare di dei ed eroi alla maniera della poesia epica. La risposta di Titiro-Dante è che considera la poesia di Mopso troppo elevata per lui, per quanto quello lo abbia invitato a incoronarsi di alloro, e alla domanda di Melibeo se Titiro voglia continuare a fare l'umile pastore rinunciando a quell'alto onore, egli ribatte che il sacro nome dei «vati» è ormai svanito e a malapena Mopso gode dell'ispirazione delle Muse: Titiro spera di poter indossare il serto di alloro quando sarà tornato in patria, sulle rive dell'Arno, ponendolo sui capelli bianchi che un tempo erano biondi (questi versi sembrano la traduzione latina di quelli iniziali del Canto XXV del Paradiso); Melibeo lo ammonisce ricordandogli che il tempo vola e che Titiro sta invecchiando proprio come le loro caprette, ma il pastore-poeta afferma che accetterà l'alloro una volta che avrà terminato di descrivere «le anime che si aggirano intorno al mondo, gli abitanti del Cielo e quelli del mondo sotterraneo», ovvero, fuor di metafora, quando avrà completato la Commedia alla quale Dante sta dedicando tutto il suo impegno poetico.
Melibeo ricorda che tale poesia «comica» è disprezzata da Mopso, in quanto è degna delle labbra femminili e non è bene accetta dalle Muse, ma Titiro si dichiara pronto a inviare a Mopso dieci vasi pieni del latte prodotto da una delle sue pecore, che nella finzione poetica è l'Egloga presente che Dante invia a Giovanni Del Virgilio in risposta al suo invito, mentre il componimento si chiude con Titiro che esorta Melibeo a badare ai «capri lascivi» e a mordere coi denti il pane dalle «dure croste», ovvero ad avvezzarsi all'alta poesia latina per la quale il rozzo pastore non è ancora pronto.
Il componimento è interessante proprio per la difesa appassionata della poesia volgare da parte di Dante, che respinge le critiche del professore bolognese circa il fatto che gettasse le «perle ai porci» rivolgendo il suo altissimo canto ai lettori umili non in grado di comprenderne il senso, ma è anche l'orgogliosa affermazione della propria grandezza poetica e del fatto che a Firenze, non in altre città, egli avrebbe voluto ottenere l'ambito riconoscimento dell'alloro (per una poesia civilmente e politicamente impegnata, non per una produzione di versi alla maniera di Virgilio di cui Dante si dimostra capace con le due Egloghe, ma che è lontanissima dai problemi della giustizia e della storia che il poeta affronta con altissima coscienza nel poema e soprattutto nella III Cantica).
Dante non ricevette mai la «fronda peneia» come riconoscimento tangibile di questo suo impegno, ma possiamo affermare che la fama assicuratagli dopo la morte dalla Commedia è la migliore celebrazione della sua gloria di poeta, assai più di quanto avrebbe potuto essere la cerimonia ufficiale alla quale il Del Virgilio lo invitava a Bologna e che lui rifiutò con gli argomenti esposti nella prima Egloga, per cui non stupisce che la sua effigie sia stata poi quasi sempre raffigurata con le tempie cinte da quell'alloro che, fisicamente, non gli fu mai attribuito.

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Eugenio Caruso - 19 - 11 - 2021

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