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Dante, Paradiso, Canto XXVI. Dante interrogato sulla Carità.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XXVI

Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali corrisponde all'esame di san Giovanni circa il possesso della Carità, dopo gli esami sulla Fede e sulla Speranza, con il riacquisto della vista da parte di Dante, mentre la seconda introduce sulla scena il personaggio di Adamo, al quale il poeta rivolge quattro domande concernenti la sua permanenza nell'Eden e la natura del peccato originale (la risposta di Adamo corregge alcune errate convinzioni di Dante, precedentemente espresse nel De vulgari eloquentia).
I due momenti del Canto sembrano nettamente separati, ma c'è in realtà un sottile collegamento che spiega anche l'accostamento del primo progenitore ai tre santi simbolo delle virtù teologali, poiché Adamo è stato l'unico uomo in cui tali virtù fossero naturalmente infuse, mentre in seguito alla sua cacciata dall'Eden fu necessario attendere la morte di Cristo per restituirle all'umanità: inoltre Adamo spiega che il suo peccato fu non di gola ma di superbia, non essendosi attenuto al divieto divino che limitava la sua conoscenza, il che ci riporta al peccato di natura intellettuale che Dante riconosceva nel suo «traviamento» e che forse è rappresentato dalla perdita momentanea della vista nel Canto precedente, dovuto al fissare troppo intensamente la luce di san Giovanni.
Il gesto di Dante era dovuto alla curiosità di vedere se il santo fosse in Cielo col corpo mortale, secondo una diffusa leggenda che Giovanni stesso ha sfatato in quanto contraria alla dottrina, ma non è improbabile che Dante indicasse in tale atteggiamento la volontà di scorgere delle verità inconoscibili alla ragione umana, il che è stato punito con il suo abbagliamento e la perdita temporanea della vista, che sarà Beatrice a ridargli al termine del suo esame sul possesso della carità.
La donna è inoltre esplicitamente paragonata da Giovanni ad Anania, l'uomo che per volontà di Dio restituì la vista a san Paolo, quindi c'è un accostamento fra l'Apostolo e Dante che non è cosa nuova nel poema e ribadisce ulteriormente che il viaggio dantesco è voluto dalla grazia divina, proprio come quello di san Paolo che fu rapito in estasi al III Cielo per diffondere sulla Terra il messaggio evangelico.
L'esame sulla carità fa da cerniera fra la prima e la seconda parte del Canto, in quanto l'amore verso Dio è la virtù opposta al peccato di superbia che originò la disobbedienza di Adamo al suo Creatore e la ribellione di Lucifero, ovvero la radice di tutto il male presente nel mondo: il colloquio sull'argomento è alquanto diverso rispetto agli esami su fede e speranza, poiché non viene sollecitato da Beatrice e non riguarda la definizione della carità, ovvia secondo la formula di san Tommaso per cui charitas est amor Dei, e si concentra dunque sull'oggetto della carità e la sua fonte, indicata da Dante nell'insegnamento dei filosofi e nelle fonti scritturali, incluso il Vangelo giovanneo che a differenza di quelli sinottici è di argomento prevalentemente teologico.
Dante subordina la filosofia naturale alla dottrina rivelata, secondo lo schema teorico che costituisce l'ossatura del poema, indicando Dio come il bene supremo cui ogni intelletto sano non può che tendere naturalmente e precisando che la carità viene in lui stimolata dall'opera grandiosa della creazione, nonché dal sacrificio di Cristo sulla croce (dovuto, non a caso, proprio a cancellare il peccato di Adamo) e dalla speranza di vita eterna, per cui egli ama tutte le creature in quanto amate anch'esse da Dio.
Alcuni hanno osservato che tale professione di carità sembra frutto di un ragionamento filosofico e non di slancio generoso dell'animo, addirittura che l'amore per il prossimo è concentrato in pochi versi e subordinato all'amore per Dio, ma ciò si accorda perfettamente con l'intento da parte di Dante di corroborare le verità teologiche con la descrizione delle cose vedute, per cui non stupisce che l'ardore mistico lasci qui il posto a una sottile discettazione filosofica, come del resto era avvenuto per le altre due virtù teologali.
Dante vuole mettere l'accento sulla ragione e, soprattutto, sui limiti che ad essa sono imposti dalla volontà divina e che lui, proprio come Adamo, ha voluto infrangere con un atto di superbia intellettuale che poteva costargli la dannazione e che lo ha portato a smarrirsi nella selva oscura; non a caso nella sua professione il poeta dichiara che gli stimoli alla carità lo hanno tratto del mar de l'amor torto facendolo approdare alla riva del diritto, ovvero lo hanno distolto dalla ricerca dei beni terreni indirizzandolo a quelli celesti, e alla fine delle sue parole i beati e Beatrice alzeranno un inno a Dio approvando le sue parole, prima che la donna gli ridoni la vista a significare che il suo «traviamento» è definitivamente superato e che il suo sguardo può ora figgersi nelle verità e nei misteri divini, consapevole dei limiti che in nessuno caso i mortali possono permettersi di valicare.
Non sorprende che al termine dell'esame a Dante si presenti proprio Adamo, colui che per primo venne creato dall'amore di Dio e che per primo tentò di superare i decreti divini in materia di conoscenza, come lui stesso spiegherà rispondendo alle quattro domande del poeta che arde dal desiderio di apprendere la verità sulla sua esperienza. Adamo afferma anzitutto di vedere la voglia di Dante nella mente di Dio, paragonata a uno specchio di verità che riflette ogni cosa senza poter essere a sua volta riflesso, segno del rapporto incommensurabile fra conoscenza umana e divina; spiega poi che la cacciata dall'Eden fu dovuta ad un peccato di superbia intellettuale assai simile per certi versi a quello di Ulisse che oltrepassò le Colonne d'Ercole, salvo che all'eroe causò la morte mentre Adamo poté ascendere al Paradiso dopo una lunghissima attesa nel Limbo, durata qualcosa come seimila anni (tempo rispetto al quale quello trascorso nell'Eden è stato un batter di ciglia, appena sette ore in tutto).
La quarta domanda di Dante riguarda la lingua parlata da Adamo nell'Eden e qui il poeta corregge l'opinione precedentemente espressa nel DVE, in cui si diceva che la lingua di Adamo era l'ebraico e che tale lingua, immutabile in quanto concreata da Dio nel primo uomo, rimase identica sino alla confusione babelica che originò la mutevolezza delle lingue nel tempo e nello spazio: Adamo spiega che la lingua è sempre mutevole in quanto atto dell'intelletto umano, quindi nega che la sua lingua fosse concreata da Dio e spiega che essa era già tutta spenta al momento della costruzione di Babele, così come smentisce che la sua prima parola fosse il nome ebraico di Dio, 'El', che assunse solamente in seguito poiché nella lingua originale il nome di Dio era 'I'. Dante, pertanto, rifiuta l'idea che gli uomini parlassero una stessa lingua, dono che si sarebbe perso con la costruzione della torre di Babele.
La quesione può apparire marginale agli occhi di noi moderni, ma è invece centrale rispetto al discorso sulla conoscenza che è al centro del Canto, poiché Dante riafferma che alla perfetta verità si arriva grazie alla rivelazione divina, non alla speculazione intellettuale che è sempre passibile di errore, come nel caso delle affermazioni del DVE che Adamo smentisce in quanto unico testimone di quanto avvenne realmente nell'Eden; Dante corregge affermazioni fatte in precedenza e risalenti al periodo del suo cosiddetto «traviamento», come quelle del Convivio sulle macchie lunari e sull'angelologia che sono state e saranno confutate da Beatrice al lume della teologia, rispetto alla quale la ragione dei filosofi è del tutto insufficiente quando non fonte di equivoci e fraintendimenti che possono causare seri pericoli sul piano della salvezza spirituale.
La quesione può apparire marg L'episodio di Adamo non fa che riaffermare la necessità che la filosofia sia subordinata alla teologia, ciò che è ribadito a più riprese in tutta la III Cantica, e dunque il colloquio col primo padre conclude degnamente l'esame superato da Dante circa il possesso delle tre virtù teologali che solo la grazia divina può donare all'uomo, preparando il poeta a proseguire il viaggio che lo porterà alla visione finale di Dio.

NOTE CANTO XXVI

- Al v. 4 il vb. ti risense, probabile neologismo dantesco, significa «riprendi il senso» della vista.
- Ai vv. 7-8 san Giovanni chiede a Dante dove tenda la sua anima, ovvero quale sia l'oggetto della sua carità.
- I vv. 10-12 alludono a un passo degli Atti degli Apostoli (IX, 8-18), in cui si narra che Anania, uomo di Damasco tra i primi seguaci di Cristo, ridiede la vista a san Paolo folgorato dall'apparire di Dio, imponendo le mani sul suo capo.
- I vv. 16-18 sono di difficile interpretazione, ma intendendo Amore come soggetto e dando a scrittura il senso di «affetto» vogliono dire probabilmente che Dio è principio e fine di quell'affetto che l'amore insegna (legge) a Dante, più o meno intensamente. Alfa e O sono la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco (cfr. Apoc., I, 8: Ego sum Alfa et omega, principium et finis, dicit Dominus Deus).
- Ai vv. 22-23 san Giovanni invita Dante a rendere più chiaro il suo pensiero usando un vaglio, un setaccio più fine.
- I vv. 37-39 alludono certamente a un filosofo, ma è arduo ipotizzare a chi Dante voglia riferirsi: l'opinione più diffusa è che si tratti di Aristotele, ma si è pensato anche a Platone, Dionigi Areopagita, persino a Virgilio (potrebbe essere l'autore del De causis, trattato erroneamente attribuito ad Aristotele e citato da Dante nel Convivio).
- I vv. 40-42 si riferiscono ad Exod., XXXIII, 19 in cui Dio risponde a Mosè, che gli chiedeva di mostrargli tutta la sua gloria, Ego ostendam omne bonum tibi.
- I vv. 43-45 sono una probabile allusione al Vangelo di Giovanni, che proprio all'inizio afferma il dogma dell'incarnazione del divino nell'umano: altri pensano all'Apocalisse, ma è ipotesi meno probabile.
- Nei vv. 46-48 Giovanni intende dire che il principale degli amori di Dante, ovvero la carità, guarda a Dio, quindi il vb. guarda  è indicativo e non imperativo come alcuni intendono.
- Al v. 53 Giovanni è detto aguglia di Cristo, in quanto l'aquila era simbolo dell'Evangelista.
- Le fronde citate al v. 64 sono le creature di Dio, l'ortolano etterno.
- Al v. 69 il canto di Beatrice riprende probabilmente quello liturgico della Messa: Sanctus, sanctus, sanctus, dominus Deus Sabaoth.
- Al v. 70 si disonna  vuol dire «ci si desta».
- Al v. 73 aborre deriva probabilmente da «aborrare», che vuol dire «non distinguere chiaramente» (cfr. Inf., XXXI, 24), anche se l'uscita in -e non è del tutto spiegabile; la stimativa (v. 75) è la facoltà percettiva che permette di riconoscere ciò che si vede.
- Al v. 76 quisquilia è lat. per «pagliuzza», ovvero l'offuscamento degli occhi di Dante.
- Ai vv. 92-93 Dante vuol dire che ogni donna è figlia di Adamo in quanto discende da lui, e ne è nuora in quanto sposata a un suo discendente.
- Nei vv. 95-102 Adamo è paragonato a un animale avvolto da un involucro (forse un cane, o un porcellino, o ancora un falcone con un cappuccio sulla testa) che si dimena sotto la copertura, come il beato manifesta la sua letizia con l'accresciuto fulgore della luce che lo fascia.
- Ai vv. 118-123 Adamo spiega di aver atteso nel Limbo, da dove Beatrice evocò l'anima di Virgilio, 4302 anni e di essere vissuto sulla Terra per 930 anni: Cristo trionfante trasse dal Limbo le anime dei patriarchi dopo la sua morte, avvenuta seconda la tradizione seguita da Dante nel 34 d.C., quindi da allora sono trascorsi 1266 anni poiché siamo nell'anno 1300. Dunque 4302 + 930 + 1266 = 6498, gli anni che sono trascorsi dalla creazione di Adamo (Dante si attiene ai dati della Genesi).
- Ai vv. 121-122 i lumi / de la... strada  del Sole sono i segni dello Zodiaco.
- L'ovra inconsummabile (v. 125) è la costruzione della Torre di Babele, attribuita secondo una falsa tradizione al gigante Nembrod (essa è definita impossibile da portare a termine).
- I vv. 133-138 correggono quanto detto da Dante in DVE, I, 4, in cui si affermava che la prima parola pronunciata da Adamo fu 'El', il nome ebraico di Dio; il nome 'I' qui citato dal beato è una probabile invenzione dantesca.
- Ai vv. 139-142 Adamo spiega di essere rimasto nell'Eden dall'ora prima a quella che segue (seconda) l'ora sesta, cioè mezzogiorno, quando il Sole muta quadrante (quadra), quindi dalle sei di mattina alle tredici, sette ore in tutto (il Sole, passato il mezzogiorno, passa dal primo quadrante al secondo).

adamo

Adamo ede Eva cacciati dakll'Eden - Masaccio


TESTO DEL CANTO XXVI

Mentr’io dubbiava per lo viso spento, 
de la fulgida fiamma che lo spense 
uscì un spiro che mi fece attento,                                    3

dicendo: «Intanto che tu ti risense 
de la vista che hai in me consunta, 
ben è che ragionando la compense.                              6

Comincia dunque; e di’ ove s’appunta 
l’anima tua, e fa’ ragion che sia 
la vista in te smarrita e non defunta:                               9

perché la donna che per questa dia 
region ti conduce, ha ne lo sguardo 
la virtù ch’ebbe la man d’Anania».                                 12

Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo 
vegna remedio a li occhi, che fuor porte 
quand’ella entrò col foco ond’io sempr’ardo.              15

Lo ben che fa contenta questa corte, 
Alfa e O è di quanta scrittura 
mi legge Amore o lievemente o forte».                          18

Quella medesma voce che paura 
tolta m’avea del sùbito abbarbaglio, 
di ragionare ancor mi mise in cura;                               21

e disse: «Certo a più angusto vaglio 
ti conviene schiarar: dicer convienti 
chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio».                               24

E io: «Per filosofici argomenti 
e per autorità che quinci scende 
cotale amor convien che in me si ‘mprenti:                  27

ché ‘l bene, in quanto ben, come s’intende, 
così accende amore, e tanto maggio 
quanto più di bontate in sé comprende.                       30

Dunque a l’essenza ov’è tanto avvantaggio, 
che ciascun ben che fuor di lei si trova 
altro non è ch’un lume di suo raggio,                            33

più che in altra convien che si mova 
la mente, amando, di ciascun che cerne 
il vero in che si fonda questa prova.                               36

Tal vero a l’intelletto mio sterne 
colui che mi dimostra il primo amore 
di tutte le sustanze sempiterne.                                      39

Sternel la voce del verace autore, 
che dice a Moisè, di sé parlando: 
‘Io ti farò vedere ogne valore’.                                          42

Sternilmi tu ancora, incominciando 
l’alto preconio che grida l’arcano 
di qui là giù sovra ogne altro bando».                           45

E io udi’: «Per intelletto umano 
e per autoritadi a lui concorde 
d’i tuoi amori a Dio guarda il sovrano.                           48

Ma di’ ancor se tu senti altre corde 
tirarti verso lui, sì che tu suone 
con quanti denti questo amor ti morde».                      51

Non fu latente la santa intenzione 
de l’aguglia di Cristo, anzi m’accorsi 
dove volea menar mia professione.                              54

Però ricominciai: «Tutti quei morsi 
che posson far lo cor volgere a Dio, 
a la mia caritate son concorsi:                                        57

ché l’essere del mondo e l’esser mio, 
la morte ch’el sostenne perch’io viva, 
e quel che spera ogne fedel com’io,                             60

con la predetta conoscenza viva, 
tratto m’hanno del mar de l’amor torto, 
e del diritto m’han posto a la riva.                                   63

Le fronde onde s’infronda tutto l’orto 
de l’ortolano etterno, am’io cotanto 
quanto da lui a lor di bene è porto».                              66

Sì com’io tacqui, un dolcissimo canto 
risonò per lo cielo, e la mia donna 
dicea con li altri: «Santo, santo, santo!».                      69

E come a lume acuto si disonna 
per lo spirto visivo che ricorre 
a lo splendor che va di gonna in gonna,                       72

e lo svegliato ciò che vede aborre, 
sì nescia è la sùbita vigilia 
fin che la stimativa non soccorre;                                   75

così de li occhi miei ogni quisquilia 
fugò Beatrice col raggio d’i suoi, 
che rifulgea da più di mille milia:                                    78

onde mei che dinanzi vidi poi; 
e quasi stupefatto domandai 
d’un quarto lume ch’io vidi tra noi.                                  81

E la mia donna: «Dentro da quei rai 
vagheggia il suo fattor l’anima prima 
che la prima virtù creasse mai».                                     84

Come la fronda che flette la cima 
nel transito del vento, e poi si leva 
per la propria virtù che la soblima,                                 87

fec’io in tanto in quant’ella diceva, 
stupendo, e poi mi rifece sicuro 
un disio di parlare ond’io ardeva.                                   90

E cominciai: «O pomo che maturo 
solo prodotto fosti, o padre antico 
a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,                             93

divoto quanto posso a te supplìco 
perché mi parli: tu vedi mia voglia, 
e per udirti tosto non la dico».                                         96

Talvolta un animal coverto broglia, 
sì che l’affetto convien che si paia 
per lo seguir che face a lui la ‘nvoglia;                          99

e similmente l’anima primaia 
mi facea trasparer per la coverta 
quant’ella a compiacermi venìa gaia.                          102

Indi spirò: «Sanz’essermi proferta 
da te, la voglia tua discerno meglio 
che tu qualunque cosa t’è più certa;                             105

perch’io la veggio nel verace speglio 
che fa di sé pareglio a l’altre cose, 
e nulla face lui di sé pareglio.                                        108

Tu vuogli udir quant’è che Dio mi puose 
ne l’eccelso giardino, ove costei 
a così lunga scala ti dispuose,                                      111

e quanto fu diletto a li occhi miei, 
e la propria cagion del gran disdegno, 
e l’idioma ch’usai e che fei.                                            114

Or, figluol mio, non il gustar del legno 
fu per sé la cagion di tanto essilio, 
ma solamente il trapassar del segno.                         117

Quindi onde mosse tua donna Virgilio, 
quattromilia trecento e due volumi 
di sol desiderai questo concilio;                                    120

e vidi lui tornare a tutt’i lumi 
de la sua strada novecento trenta 
fiate, mentre ch’io in terra fu’ mi.                                    123

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta 
innanzi che a l’ovra inconsummabile 
fosse la gente di Nembròt attenta:                                126

ché nullo effetto mai razionabile, 
per lo piacere uman che rinovella 
seguendo il cielo, sempre fu durabile.                        129

Opera naturale è ch’uom favella; 
ma così o così, natura lascia 
poi fare a voi secondo che v’abbella.                           132

Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia, 
I s’appellava in terra il sommo bene 
onde vien la letizia che mi fascia;                                 135

El si chiamò poi: e ciò convene, 
ché l’uso d’i mortali è come fronda 
in ramo, che sen va e altra vene.                                   138

Nel monte che si leva più da l’onda, 
fu’ io, con vita pura e disonesta, 
da la prim’ora a quella che seconda, 

come ‘l sol muta quadra, l’ora sesta».                        142

reni giovanni

San Giovanni Evangelista di Guido Reni

PARAFRASI CANTO XXVI

Mentre io ero incerto riguardo alla mia vista spenta, dalla luce splendente che l'aveva spenta (san Giovanni) uscì una voce che attirò la mia attenzione, dicendo: «Mentre tu riacquisti il senso della vista che hai consumato guardandomi, è opportuno che tu compensi questa mancanza esercitando la ragione.

Dunque inizia a dire dove tende la tua anima e tieni presente che la tua vista è solo smarrita e non persa del tutto:

infatti la donna (Beatrice) che ti guida per questa regione celeste, ha nel suo sguardo la virtù con cui Anania guarì san Paolo imponendogli le mani».

Io dissi: «Beatrice possa curare a suo piacimento, prima o dopo, i miei occhi, attraverso i quali lei entrò col fuoco di cui io ardo sempre (mi fece innamorare).

Il bene che allieta questa corte (Dio) è principio e fine di tutto l'affetto che l'Amore mi insegna, in modo più o meno intenso».

Quella stessa voce che mi aveva liberato dalla paura dell'improvviso abbagliamento, mi indusse a ragionare ancora;

e disse; «Certo ora è bene che tu chiarisca il tuo pensiero usando un setaccio più fine (in modo più approfondito): devi dire chi indirizzò il tuo arco a questo bersaglio (chi ti indusse alla carità)».

E io: «Questo amore si è impresso in me grazie ad argomenti filosofici e all'autorità (dei testi sacri) che scende da qui:

infatti il bene in quanto tale (Dio), non appena è compreso, accende amore di sé, tanto maggiore quanto maggiore è la bontà che contiene in se stesso.

Dunque la mente di tutti quelli che, amando, distinguono la verità su cui si fonda questa argomentazione, si indirizza soprattutto verso quell'essenza (Dio) che supera tutte le altre in bontà, al punto che ogni bene all'infuori di essa è solo un riflesso della sua luce.

Questa verità è spiegata al mio intelletto da quel filosofo (Aristotele?) che mi illustra il primo amore (Dio) di tutte le creature eterne (angeli e uomini).

Me lo spiega anche la voce del veridico autore (dell'Esodo) che parlando di sé a Mosè dice: 'Io ti mostrerò ogni bene'.

E me lo spieghi tu stesso, iniziando l'alto annuncio (nel Vangelo) che manifesta il mistero (dell'Incarnazione) da qui alla Terra, superando ogni altro messaggio».

Allora io sentii: «Attraverso l'intelletto umano e l'autorità delle Sacre Scritture che si accordano con esso, il principale dei tuoi amori guarda a Dio.

Ma dimmi ancora se tu senti altri stimoli che ti attirano verso Dio, così che tu manifesti con quanti denti sei morso da questo amore (tutte le fonti della tua carità)».

La santa volontà dell'aquila di Cristo (san Giovanni) non mi fu nascosta, anzi capii subito dove voleva condurre la mia professione di carità.

Dunque ricominciai: «Tutti quegli stimoli che possono portare il cuore a Dio hanno cooperato ad accendere in me la carità:

infatti l'esistenza del mondo e di me stesso, la morte di Cristo patita per la mia salvezza, ciò che ogni fedele spera come spero io, insieme alla conoscenza delle Scritture che ho detto prima, mi hanno tratto dal mare dell'amore mal diretto (dei beni terreni) e mi hanno fatto approdare alla riva di quello del retto amore (dei beni celesti).

Io amo le fronde (le creature) che abbelliscono tutto l'orto dell'ortolano eterno (Dio), tanto quanto esse sono amate da Dio».

Non appena smisi di parlare, risuonò nel cielo un canto dolcissimo, mentre la mia donna diceva insieme agli altri beati: «Santo, santo, santo!»

E come a una luce improvvisa ci si sveglia, per la facoltà visiva che corre incontro al bagliore che passa attraverso le membrane dell'occhio, e chi si sveglia non distingue bene ciò che vede, tanto è confuso il suo improvviso destarsi, finché la facoltà percettiva non viene in suo aiuto;

allo stesso modo Beatrice eliminò ogni impurità dai miei occhi col fulgore dei suoi, che risplendeva a mille miglia di distanza:

così vidi meglio di prima; e quasi stupefatto domandai chi fosse il quarto lume che vidi insieme a noi (
Adamo).

E la mia donna: «All'interno di quello splendore c'è la prima anima che la prima virtù (Dio) abbia mai creato, contemplata amorosamente dal suo Creatore (Adamo, il primo uomo)».

Come l'albero piega la sua cima quando è percosso dal vento, poi si solleva per la propria capacità di ergersi verso l'alto, così feci io mentre Beatrice parlava (piegai la testa), essendo pieno di stupore, e poi mi ridiede sicurezza (rialzai lo sguardo) un desiderio di parlare che mi tormentava.

E iniziai a dire: «O frutto che, unico, fosti prodotto già maturo (poiché non nascesti), o antico padre al quale ogni donna è figlia e nuora, con tutta la devozione che posso ti supplico di parlarmi: tu vedi il mio desiderio e per udirti presto non te lo manifesto».

A volte un animale avvolto da un sacco si dimena, così che manifesta il suo stato d'animo attraverso l'involucro che lo circonda;

e in modo simile la prima anima (Adamo) mi faceva capire attraverso la luce che lo fasciava quanto fosse lieta nel potermi rispondere.

Quindi disse: «Senza che tu me l'abbia espresso io comprendo il tuo desiderio più chiaramente di ogni cosa che ti è certa;

infatti io lo leggo nello specchio veridico (la mente di Dio) che riflette in sé tutte le cose, mentre nessuna cosa può rifletterlo.

Tu vuoi sapere quanto tempo è trascorso da quando Dio mi pose nel Giardino dell'Eden, dove Beatrice diede inizio alla tua ascesa in Paradiso, e quanto vi rimasi, e la vera causa dell'ira divina (per il peccato originale), e quale lingua io creai e usai.

Ora, figlio mio, la ragione della mia cacciata dall'Eden non fu la gola per aver assaggiato il frutto proibito, ma solo l'aver infranto i divieti divini (in materia di conoscenza).

Dal Limbo, da dove Beatrice evocò Virgilio, io desiderai di ascendere in Cielo per 4302 anni;

e vidi il Sole percorrere tutti i segni zodiacali per 930 volte, il tempo della mia vita terrena (vissi 930 anni).

La lingua che io parlai era già scomparsa prima che la gente di Nembrod si dedicasse all'opera che non poteva essere completata (la costruzione della Torre di Babele):

infatti nessun prodotto dell'intelletto umano fu mai durevole, a causa dell'arbitrio dell'uomo che si rinnova seguendo le influenze celesti.

Il fatto che l'uomo parli è cosa naturale, ma la natura lascia poi che voi uomini parliate in un modo o nell'altro, a seconda dei vostri desideri e preferenze.

Prima che io scendessi nell'angoscia infernale (nel Limbo), il bene supremo (Dio) da cui proviene la gioia che mi avvolge di luce, era chiamato in Terra 'I';

in seguito venne chiamato 'El': e ciò si accorda all'uso degli uomini, che come la foglia sul ramo va e viene continuamente (si muta).

Nel monte che si erge maggiormente sul mare (il Purgatorio, sulla cui cima è l'Eden) io soggiornai, in stato di innocenza e di colpa, dalla prima ora (le sei del mattino) fino a quella (le tredici) che segue l'ora sesta (il mezzogiorno), non appena il Sole cambia quadrante».

GIOVANNI EVANGELISTA

Giovanni (Betsaida, 10 circa – Efeso, 98 o anni immediatamente successivi) è stato un apostolo di Gesù. La tradizione cristiana lo identifica con l'autore del quarto vangelo e per questo gli viene attribuito anche l'epiteto di evangelista. Secondo le narrazioni dei vangeli canonici era il figlio di Zebedeo e Salomè e fratello dell'apostolo Giacomo il Maggiore. Prima di seguire Gesù era discepolo di Giovanni Battista. La tradizione gli attribuisce un ruolo speciale all'interno della cerchia dei dodici apostoli: compreso nel ristretto gruppo includente anche Pietro e Giacomo il Maggiore e lo identifica con «il discepolo che Gesù amava», partecipe dei principali eventi della vita e del ministero del maestro e unico degli apostoli presente alla sua morte in croce. Secondo antiche tradizioni cristiane Giovanni sarebbe morto in tarda età a Efeso, ultimo sopravvissuto dei dodici apostoli.
A lui la tradizione cristiana ha attribuito cinque testi neotestamentari: il Vangelo secondo Giovanni, le tre Lettere di Giovanni e l'Apocalisse di Giovanni; molti critici contemporanei, anche cristiani, ritengono invece che questi testi non siano probabilmente attribuibili all'apostolo Giovanni. Altra opera a lui attribuita è l'Apocrifo di Giovanni (non riconosciuto come testo divinamente ispirato dalla Chiesa cattolica né da quella ortodossa). Per la profondità speculativa dei suoi scritti è stato tradizionalmente indicato come "il teologo" per antonomasia, raffigurato artisticamente col simbolo dell'aquila, attribuitogli in quanto, con la sua visione descritta nell'Apocalisse, avrebbe contemplato la Vera Luce del Verbo, come descritto nel Prologo del quarto vangelo, così come l'aquila, si riteneva, può fissare direttamente la luce solare.
Il papiro 66 scritto in greco e paleograficamente datato attorno all'anno 125, è attualmente riconosciuto con certezza come il più antico documento riguardante Gesù che si sia conservato. Contiene frammentariamente Giovanni 18,31-33 nel recto e Giovanni 18,37-38 nel verso. Non esistono riferimenti archeologici diretti (come epigrafi) riferibili alla vita e all'operato di Giovanni, e nemmeno riferimenti diretti in opere di autori antichi non cristiani. Le fonti testuali conservatesi sono diverse:
- i quattro vangeli canonici e gli Atti degli apostoli, redatti in greco tra il I secolo e la prima metà del II, contengono gli unici riferimenti diretti alla vita di Giovanni - - gli altri scritti neotestamentari a lui attribuiti dalla tradizione, (le tre Lettere di Giovanni e l'Apocalisse di Giovanni, non forniscono informazioni dirette sulla sua vita);
- alcuni scritti non canonici a lui attribuiti o riferiti – Atti di Giovanni, Apocrifo di Giovanni, Interrogatio Johannis – che per la datazione tardiva e per il contenuto leggendario non sono considerati come vere e proprie fonti storiche, sebbene sia possibile che il più antico di questi, gli Atti, abbia raccolto alcuni dettagli storicamente fondati;
- alcuni accenni contenuti negli scritti di alcuni Padri della Chiesa, in particolare Tertulliano, Ireneo di Lione, Eusebio di Cesarea e Girolamo.
«Discepolo che Gesù amava». Come sopra indicato il quarto vangelo non nomina mai l'apostolo Giovanni. Di contro è presente in esso un personaggio assente negli altri testi neotestamentari, il «discepolo che Gesù amava». La tradizione cristiana ha identificato questo anonimo discepolo, indicato anche genericamente come «l'altro discepolo», con lo stesso Giovanni. In caso contrario sarebbe totalmente assente nel quarto vangelo un personaggio che è descritto come di primo piano negli altri tre vangeli e negli Atti degli apostoli. Tale interpretazione non è, comunque, condivisa e gli esegeti del Nuovo Grande Commentario Biblico osservano che "l'autore di Gv21 chiaramente non identifica il discepolo prediletto, che sta all'origine della tradizione giovannea, con Giovanni figlio di Zebedeo". Gv21,2 parla de «i (figli) di Zebedeo», mentre 21,7.20 parla del discepolo prediletto. .
Sebbene non sia chiamato mai direttamente «apostolo» (traslitterazione del greco «inviato»), Giovanni è presente in tutti e quattro gli elenchi apostolici del Nuovo Testamento. In un solo passo del Nuovo Testamento (Gal 2,9) Paolo di Tarso chiama Giovanni, assieme a Pietro e Giacomo il Giusto, «colonna» della Chiesa, per sottolinearne l'importante ruolo rivestito nella Chiesa di Gerusalemme dopo la morte di Gesù. L'apostolo Giovanni viene dalla tradizione anche detto evangelista e le più antiche indicazioni a proposito risalgono alla prima metà del II secolo.
Al pari degli altri personaggi neotestamentari, la cronologia e la vita di Giovanni non ci sono note con precisione. I testi evangelici lo indicano come un fedele seguace del maestro, ma il periodo precedente e seguente alla sua partecipazione al ministero itinerante di Gesù è ipotetico e frammentario. I dettagli circa la vita di Giovanni prima dell'incontro con Gesù sono in gran parte ipotetici, desumibili da alcuni accenni sparsi nei vangeli. Il luogo e la data di nascita non sono noti. La tradizione successiva che lo indica come il più giovane degli apostoli, o meglio come l'unico di questi morto in tardissima età, può indicare una data di nascita alcuni anni successiva all'inizio dell'era cristiana (attorno al 10?). Il luogo di residenza, e probabilmente anche di nascita, era Betsaida, una località galilea sita sul Lago di Genesaret. Il padre era Zebedeo, la madre forse Salomè e aveva almeno un fratello, Giacomo detto «il maggiore». Il fatto che nelle liste stereotipate degli apostoli nei sinottici (ma non negli Atti) Giovanni segua Giacomo, o che quest'ultimo venga spesso indicato come «figlio di Zebedeo», mentre Giovanni sia indicato come suo fratello, può lasciare concludere che Giacomo fosse un fratello maggiore. La famiglia era dedita alla pesca. Il padre aveva dei garzoni e i suoi figli sono detti soci di Simon Pietro, ed è possibile che la famiglia facesse parte di una sorta di cooperativa di pescatori. Questo potrebbe spiegare come mai l'"altro discepolo" presente al processo di Gesù, tradizionalmente identificato con Giovanni, fosse conosciuto "al sommo sacerdote", o meglio ai domestici del suo palazzo che lo fecero entrare: è verosimile che la sua famiglia gestisse un commercio ittico, e, pertanto, è possibile che godesse di tale conoscenza . Circa l'accenno di Policrate di Efeso (II secolo) allo stato sacerdotale di Giovanni (e della sua famiglia), la storicità è controversa. Se autentico, il particolare spiegherebbe la conoscenza di Giovanni da parte del sommo sacerdote. Sempre rimanendo nel campo delle ipotesi, si può supporre che la famiglia di Giovanni appartenesse al ceto medio, ed è possibile che la madre Salomè facesse parte del seguito di agiate donne che provvedevano alle necessità economiche del gruppo itinerante. La tradizione ha poi identificato in Giovanni l'«altro discepolo» che, con Andrea, faceva parte del seguito di Giovanni Battista ma seguì poi Gesù. A tale proposito c'è da rilevare che sono piuttosto numerosi i riferimenti che Giovanni, nel Vangelo a lui attribuito, fa del Battista, sottolineando la funzione di quest'ultimo come precursore di Gesù.
La chiamata di Giovanni da parte di Gesù è esplicitamente narrata dai tre vangeli sinottici. Matteo e Marco ne forniscono un sobrio resoconto: i due fratelli Giovanni e Giacomo vengono chiamati da Gesù "presso il Mare di Galilea" mentre sono sulla barca col padre Zebedeo, intenti a riparare le reti da pesca. Questa chiamata viene narrata subito dopo quella di Andrea e Pietro, avvenuta in simile contesto lavorativo. Luca invece inserisce la chiamata all'interno del miracolo della cosiddetta pesca miracolosa, e tace la presenza di Andrea. Il Vangelo di Giovanni invece, assumendo la tradizionale identificazione dell'"altro discepolo" con lo stesso evangelista, ambienta la chiamata a Betania, presso il fiume Giordano. Qui Giovanni e Andrea, discepoli di Giovanni Battista, furono da lui invitati a seguire Gesù con la frase "Ecco l'Agnello di Dio". Particolarmente vivo appare il dettaglio per cui l'apostolo, futuro evangelista narratore, ricorda con precisione il momento della sua vocazione: "l'ora decima", cioè le quattro del pomeriggio. Una possibile armonizzazione delle narrazioni evangeliche ipotizza una prima chiamata di Giovanni e degli altri futuri apostoli presso Betania, quindi il loro ritorno in Galilea, quindi la definitiva chiamata presso il Mare di Galilea. L'esegesi contemporanea, meno interessata a compiere armonizzazioni cronologiche (intento propriamente assente nei vangeli) e più attenta ai dati positivi contenuti nelle narrazioni evangeliche, si limita a riconoscere per Giovanni un passato di pescatore e un possibile discepolato verso il Battista prima della chiamata di Gesù.
Dopo la chiamata, durante gli anni del ministero itinerante di Gesù (probabilmente 28-30), Giovanni sembra rivestire un ruolo importante all'interno della cerchia dei dodici apostoli, secondo solo a Pietro e seguito da suo fratello Giacomo. I tre sono presenti durante alcuni dei principali eventi della vita del maestro, quando sono preferiti in maniera esclusiva agli altri apostoli:
- la risurrezione della figlia di Giairo;
- la trasfigurazione di Gesù;
- la preghiera nel Getsemani, dopo l'ultima cena e prima dell'arresto di Gesù.

giovanni

San Giovanni Evangelista di Vladimir Borivikovskijj

Nel quarto vangelo, come sopra indicato, Giovanni viene tradizionalmente identificato col "discepolo che Gesù amava". Durante l'ultima cena riveste un ruolo particolare a fianco del maestro, interrogandolo sull'identità del traditore. È testimone privilegiato del processo di Gesù. Nonostante fosse scappato con gli altri apostoli durante l'arresto nel Getsemani, è l'unico dei discepoli presenti durante la crocifissione di Gesù, il quale gli affida sua madre Maria. Dopo la risurrezione di Gesù corre con Pietro al sepolcro. Durante l'apparizione in Galilea è il primo a riconoscere il maestro risorto.
Negli Atti degli apostoli, che descrivono le vicende della Chiesa apostolica in un periodo compreso all'incirca tra il 30 e il 60, Giovanni gioca ancora un ruolo di primo piano, specialmente nella prima sezione (la seconda è focalizzata sull'operato di Paolo). In At 1,13 Giovanni è nominato dopo Pietro al secondo posto nella lista degli apostoli, davanti al fratello Giacomo che nelle liste contenute nei Vangeli lo precedeva. In At 3,1-11 (inizio anni trenta?) viene descritto un miracolo, la guarigione di un uomo storpio dalla nascita, compiuto da Pietro e Giovanni presso la porta "bella" del tempio di Gerusalemme. La grande risonanza dell'evento portò all'arresto dei due apostoli, che furono fatti comparire davanti al Sinedrio. Il consiglio però non li punì e li lasciò liberi. In At5,17-42 (metà anni trenta?) viene descritta l'incarcerazione da parte del sommo sacerdote degli "apostoli" (senza farne i nomi con l'eccezione di Pietro). Tradizionalmente Giovanni viene inserito nell'episodio, inclusione non sicura ma resa verosimile dal suddetto episodio analogo. Secondo il testo biblico l'incarcerazione si concluse nella notte stessa con una miracolosa liberazione. Seguì l'indomani un nuovo arresto e un secondo processo, con l'inatteso intervento in loro favore da parte del rabbino Gamaliele. Il Sinedrio li fece fustigare e poi li liberò. Durante la prima persecuzione contro i seguaci del Nazareno (attorno al 35-37?), che vide la morte di Stefano e l'attivo operato di Saulo, gli apostoli (e Giovanni) sembrano non essere coinvolti (At8,1). L'ultimo accenno esplicito di Atti a Giovanni è in At8,14-25, quando l'apostolo viene inviato assieme a Pietro in Samaria dove avvenne l'incontro con Simon Mago. Questa missione evangelizzatrice non sembra comunque aver troncato i legami con la chiesa madre di Gerusalemme.
In occasione degli eventi del Concilio di Gerusalemme, che lasciò liberi i pagani convertiti di non osservare i precetti della Torah, il ruolo svolto da Giovanni viene taciuto dagli Atti, che mettono in primo piano Pietro e Giacomo (non il "Maggiore" fratello di Giovanni, ucciso attorno al 44, ma il "fratello" di Gesù). Tuttavia nel resoconto paolino di Gal2,1-9 Giovanni viene collocato sullo stesso piano degli altri due discepoli: entrambi sono chiamati "colonne". Circa gli anni successivi agli eventi narrati negli Atti, le antiche tradizioni cristiane concordano nel collocare l'operato di Giovanni in Asia (cioè l'attuale Anatolia occidentale), in particolare a Efeso, con una breve parentesi di esilio nell'isola di Patmo. In particolare, Ireneo di Lione afferma che « [...] Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò pure sul petto di lui, anch'egli pubblicò un Vangelo, mentre soggiornava in Efeso d'Asia».
Policrate di Efeso riporta una tradizione altrettanto antica quando, intorno all'anno 190, scrisse al Vescovo di Roma, Vittore, per difendere la prassi pasquale quartodecimana in uso nelle chiese d'Asia affermando di averla appresa dai «grandi luminari che riposano in Asia [...] : Filippo...morto a Gerapoli...; Giovanni, che si era chinato sul petto del Signore, che fu sacerdote, che fu testimone e maestro, è morto ad Efeso» . A Policarpo di Smirne si riferisce Ireneo (a sua volta citato da Eusebio di Cesarea) nella lettera a Florino, collocando esplicitamente in Asia la predicazione di Policarpo in cui « [...] raccontava i suoi rapporti con Giovanni e con gli altri che avevano visto il Signore». Eusebio di Cesarea, inoltre, segnalando che il nome "Giovanni" è presente due volte nell'elenco dei nomi tratto da Papia di Gerapoli e da lui riportato, afferma: «Con ciò viene dimostrata la veridicità del racconto di coloro che dicevano che in Asia due persone avevano lo stesso nome, e ricordavano che ancora oggi esistono due tombe che portano il nome di Giovanni a Efeso». Papia di Gerapoli, infatti, nella sua opera Esposizione degli Oracoli del Signore, afferma di riportare ciò che aveva appreso dai presbiteri, « [...] coloro che tramandano la memoria dei precetti dati dal Signore...Se poi veniva qualcuno che era stato discepolo dei presbiteri, chiedevo le parole dei presbiteri...Che cosa aveva detto Andrea, Pietro (...) Giovanni o Matteo (...) e ciò che dicono Aristione e il presbitero Giovanni, discepoli del Signore».
Il contesto cronologico complessivo però è meno definito, e in particolare ignota è la data in cui Giovanni si è trasferito a Efeso, all'epoca la quarta metropoli dell'impero romano (dopo Roma, Alessandria e Antiochia). È possibile che l'apostolo si sia trasferito in Asia prima del Concilio di Gerusalemme (circa 49-50) e, soprattutto, prima del prolungato soggiorno nella città di Paolo (durato almeno due anni, dalle varie ipotesi cronologiche collocati tra il 52-58): in tal caso Giovanni sarebbe il fondatore di questa chiesa. A ogni modo, indipendentemente dalla sequenza cronologica (Giovanni poi Paolo oppure Paolo poi Giovanni), fu la figura di Giovanni a lasciare una netta impronta alle chiese asiatiche (vedi p.es. la questione quatordecimana sulla celebrazione della Pasqua). Accenni contenuti in testi patristici nominano alcuni discepoli di Giovanni che poi giocarono ruoli di primo piano nella storia e nella letteratura cristiana: Papia di Ierapoli e Policarpo di Smirne.
L'apocrifo Atti di Giovanni (seconda metà II secolo) descrive dettagliatamente alcuni eventi della vita di Giovanni nel periodo del suo soggiorno a Efeso con lo stile agiografico-leggendario proprio degli apocrifi. Secondo la versione lunga del testo, pervenutaci priva della parte iniziale, Giovanni si reca da Mileto a Efeso per un rivelazione divina. Qui incontra Licomede, un magistrato della città, e sua moglie Cleopatra. Dopo poco entrambi muoiono ma Giovanni li risuscita. L'apostolo poi guarisce pubblicamente molti malati nel teatro della città. Un giorno entra nel tempio di Artemide e metà di questo crolla, causando molte conversioni al cristianesimo. Per questo Giovanni rinuncia al suo proposito di recarsi a Smirne (ma il manoscritto tardivo Q. Paris Gr. 1468, dell'XI secolo, riferisce di un suo soggiorno lì con alcuni compagni per quattro anni). Quindi il testo riporta la miracolosa risurrezione della cristiana Drusiana, moglie di Andronico. La sezione successiva riporta un lungo discorso di Giovanni che descrive Gesù in chiave doceta, per cui la sua natura umana era solo apparente e lo stesso per i patimenti che gli si attribuiscono.
Alcune testimonianze latine (Abdia, Melito) aggiungono altri miracoli (ricompone miracolosamente i frammenti di un gioiello frantumato, trasforma pietre in gemme, risorge alcuni morti) accennando a una predicazione a Pergamo. Le varie versioni terminano col decesso dell'apostolo per cause naturali. In alcune versioni il corpo, dopo la sua sepoltura, non viene più ritrovato, lasciando ipotizzare un'assunzione al cielo. Secondo la versione breve del testo, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme (70), l'imperatore Domiziano (regno 81-95) sente parlare dell'apostolo e manda a chiamarlo da Efeso. Giunto al suo cospetto a Roma gli parla della fede cristiana nel Regno futuro di Gesù, figlio di Dio. L'imperatore gli chiede una prova e Giovanni chiede una coppa di veleno che beve rimanendo miracolosamente illeso. Domiziano dubita dell'efficacia del veleno e lo fa bere a un condannato a morte che muore all'istante, ma Giovanni lo risuscita. Poco dopo risuscita anche un servo dell'imperatore da poco deceduto. Domiziano dunque, che aveva fatto votare dal senato un decreto contro i cristiani ma non voleva applicarlo a Giovanni, ordina che sia esiliato nell'isola di Patmo. Qui ha la rivelazione della fine (Apocalisse). A Domiziano succede Nerva (96-98), che abolì gli esili forzati imposti dal predecessore, ma solo sotto Traiano (98-117) Giovanni ritorna a Efeso. Data la tarda età ordina come suo successore Policarpo. L'apocrifo termina con una lunga serie di preghiere di Giovanni in punto di morte e col suo decesso per cause naturali.
Tertulliano accenna brevemente a un episodio secondo il quale Giovanni a Roma, sede del martirio di Pietro e Paolo, fu immerso nell'olio bollente ma non ne patì e fu esiliato in un'isola (Patmo). Il miracolo, che non trova riscontro in nessun'altra fonte storica e va probabilmente inteso come una leggenda tardiva, non è contestualizzato ma la tradizione cristiana lo ha localizzato presso la Chiesa di San Giovanni in Oleo, nei dintorni della Porta Latina, sotto l'imperatore Domiziano.
Sul sito a Efeso, considerato sede del sepolcro di Giovanni, fu costruita una basilica nel VI secolo, sotto l'imperatore Giustiniano, della quale oggi rimangono solo tracce. A Patmo una grotta detta "dell'Apocalisse" viene indicata come dimora dell'apostolo durante il suo momentaneo esilio. Dal 1999 è uno dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO, assieme al Monastero di San Giovanni. Ricerche archeologiche condotte alla fine del secolo scorso, sulla base delle visioni della monaca agostiniana Anna Katharina Emmerick (1774 - 1824), hanno permesso il ritrovamento a circa 9 km a sud di Efeso della casa di Maria (da non confondere con la "Santa Casa" di Loreto), dove sarebbero vissuti la madre di Gesù e l'apostolo Giovanni.
Giovanni rappresenta un caso particolare tra i dodici apostoli poiché la tradizione lo indica come l'unico morto per cause naturali e non per martirio, tanto che i paramenti liturgici per la sua festa sono bianchi e non rossi. Oltre agli Atti di Giovanni, alcune indicazioni patristiche sono concordi nel datare la morte a Efeso sotto l'impero di Traiano (98-117) e Girolamo specifica la data con precisione al 68º anno dopo la passione del Signore, cioè nel 98-99. Esiste comunque una secolare tradizione, riportata anche nella Legenda Aurea, secondo cui Giovanni fu martirizzato a Roma, presso porta Latina, durante la persecuzione di Domiziano; constatato che l'olio bollente non riusciva a bruciare il corpo dell'apostolo, Domiziano lo accecò e lo rimandò ad Efeso, dove poi morì. Come racconta il quarto vangelo, c'era tra le comunità cristiane la curiosa leggenda per cui Giovanni, l'apostolo prediletto, non sarebbe morto prima della parusia di Gesù. La leggenda traeva ispirazione dalla longevità dell'apostolo: un'età di 90-100 anni rappresentava per l'epoca un elevato traguardo. Assumendo inoltre l'autenticità giovannea dell'Apocalisse, testo che rivela la fine del mondo e il ritorno del Signore, poteva essere logico ipotizzare che all'apostolo sarebbe stato concesso di vivere quello che aveva visto estaticamente. Alla morte di Giovanni alcuni suoi discepoli hanno inserito in appendice il racconto per chiarire che la leggenda non aveva fondamento nella predicazione di Gesù. L'apocrifo Atti di Giovanni descrive una sua lunga preghiera d'addio e varie versioni (considerate tutte leggende tardive) divergono circa la sua fine:
- muore dicendo «La pace sia con voi, fratelli»
- viene avvolto da una luce abbagliante e muore, e dalla sua tomba ne esce della manna;
- il mattino seguente alla sepoltura i discepoli non ne trovano più il corpo (o ne trovano solo i sandali), lasciando ipotizzare un'assunzione al cielo. Questo particolare, sebbene abbia goduto di una certa fortuna artistica, non è stato accolto dalla tradizione teologica cristiana che riconosce l'"assunzione" solo a Elia e a Maria (per il caso di Gesù si parla propriamente di "ascensione").
A Giovanni la tradizione cristiana ha attribuito (ne è considerato l'autore) o riferito (è il soggetto della narrazione) alcune opere. Una divisione immediata è tra quelle canoniche, incluse tra i libri della Bibbia (nella fattispecie del Nuovo Testamento), e apocrife (cioè escluse dalla Bibbia).
CANONICHE
Per secoli la tradizione cristiana ha attribuito all'apostolo Giovanni il quarto vangelo, la prima lettera e l'Apocalisse. Nell'antichità qualche dubbio era sorto sulla paternità della seconda e terza lettera, che alcuni attribuivano a un Giovanni "presbitero" diverso dall'apostolo, ma la tradizione ha poi di fatto identificato i due Giovanni. In epoca contemporanea storici ed esegeti hanno rinunciato ad attribuire le cinque opere alla redazione di un unico personaggio e preferiscono parlare di una scuola (o circolo o tradizione) giovannea, che si rifà alla testimonianza e all'insegnamento dell'apostolo. La redazione delle opere, scritte in greco, è ipotizzata a Efeso verso fine I - inizio II secolo.
- Vangelo di Giovanni. Il quarto vangelo, che come gli altri tre non esplicita il nome dell'autore, è attribuito dalla tradizione cristiana all'apostolo Giovanni. Le più antiche testimonianze al riguardo risalgono al II secolo. Questa attribuzione può spiegare alcune caratteristiche biografiche riferite all'apostolo: l'enfasi con cui Giovanni Battista viene definito precursore e testimone di Gesù può essere relativa a un precedente discepolato dell'apostolo verso lui; l'enfasi su Gesù-Logos preesistente prima dell'incarnazione è in antitesi con l'insegnamento dell'adozionista Cerinto, col quale l'apostolo si scontrò verso la fine della sua vita a Efeso. Una parte minoritaria della critica contemporanea ammette come possibile una iniziale redazione giovannea, ma ritiene che il testo, che nella forma pervenutaci presenta alcuni doppioni e non sequitur, sia stato soggetto ad altre redazioni fino all'inizio del II secolo. Gli studiosi dell'interconfessionale Bibbia TOB sottolineano, invece, in merito a una redazione di tale vangelo fatta dallo stesso apostolo Giovanni, come "la maggior parte dei critici esclude questa eventualità" e anche gli esegeti della École biblique et archéologique française (i curatori della Bibbia di Gerusalemme) osservano che "simile identificazione, per quanto venerabile, non resta esente da difficoltà. Alcuni grandi esegeti cattolici, dopo averla ammessa, l'hanno abbandonata. Certamente sono stati indotti da seri motivi. Ci si può domandare perché l'apostolo Giovanni abbia omesso di raccontare alcuni episodi ai quali aveva assistito, episodi importanti come la risurrezione della figlia di Giàiro, la trasfigurazione, l'istituzione dell'eucaristia, l'agonia di Gesù al Getsèmani"; inoltre, gli studiosi del Nuovo Grande Commentario Biblico rilevano che "un'altra difficoltà per l'affermazione che Giovanni, il figlio di Zebedeo, sia l'autore del quarto vangelo, viene da quanto presuppone Mc10,39: tutti e due i fratelli avrebbero sofferto il martirio. Gv21,20-23 asserisce abbastanza chiaramente che il discepolo prediletto non morì martire come Pietro" e anche Raymond Brown - concordemente a molti altri studiosi, come l'esegeta John Dominic Crossan, è tra i cofondatori del Jesus Seminar, e lo storico e biblista Bart Ehrman - ritiene che il vangelo secondo Giovanni e i sinottici siano di autori ignoti e sottolinea altresì che tali autori non furono neppure testimoni oculari.
- Prima lettera di Giovanni. Il testo non esplicita il nome dell'autore, e anche in questo caso la tradizione lo attribuisce all'apostolo Giovanni. Tra gli studiosi contemporanei, comunque, "la maggioranza ritiene che non si tratti della stessa persona, ma di qualcuno che conosceva molto bene gli insegnamenti contenuti in quel Vangelo e che intendeva affrontare alcuni problemi sorti nella comunità in cui si leggeva quel Vangelo" e, concordemente, gli esegeti del Nuovo Grande Commentario Biblico ritengono che "un confronto tra 1Gv e il quarto vangelo indica che 1Gv (e di conseguenza 2 e 3Gv) non è opera dell'autore del vangelo". È costituita da un insieme di esortazioni alla vita cristiana e compare il tema dell'anticristo. Come per il quarto vangelo, anche in questa lettera appaiono affermazioni di tipo anti-doceta e anti-adozionista (v. in particolare l' incipit) che possono rimandare allo scontro tra Giovanni (e/o i suoi discepoli) e Cerinto.
- Seconda e Terza lettera di Giovanni. Questi brevi testi, secondo le indicazioni dei rispettivi incipit, sono dette opera di un anonimo "presbitero". Alcune indicazioni patristiche antiche attribuiscono all'anonimo il nome di Giovanni e collocano il suo operato a Efeso, ma lo distinguono dall'apostolo. La maggioranza degli studiosi attuali, anche cristiani, in merito alle le tre lettere attribuite a Giovanni - che, come precisato sopra per la Prima lettera, non sono considerate opera dell'apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo - ritiene che in tali lettere "espressioni parallele in apertura delle lettere («che io amo nella verità», 2Gv1; 3Gv1; «Mi sono rallegrato molto di aver trovato... camminando nella verità», 2Gv4; 3Gv3), e in chiusura (2Gv12; 3Gv13) mostrano che le lettere sono della medesima persona" ma "un confronto tra 1Gv e il quarto vangelo indica che 1Gv (e di conseguenza 2 e 3Gv) non è opera dell'autore del vangelo".
- Apocalisse di Giovanni. Nell'ultimo libro del canone cristiano l'autore dell'Apocalisse si identifica col nome di Giovanni e si dice residente nell'isola di Patmo. La successiva tradizione cristiana, a partire dall'inizio del II secolo, lo ha identificato con l'apostolo ed evangelista. Tale interpretazione, anche secondo gli esegeti del Nuovo Grande Commentario Biblico, non è però condivisa e "la causa a favore della paternità di uno dei Dodici per Ap non trova molti sostenitori. Si immagina che Giovanni, figlio di Zebedeo, si sia trasferito in Asia Minore e sia vissuto fino al 95 circa; tuttavia, non è molto probabile. La questione è complicata da una tradizione, secondo la quale Giovanni, figlio di Zebedeo, fu martirizzato probabilmente prima del 70" e "sembra più opportuno concludere che l'autore era un profeta appartenente alle prime comunità cristiane, di nome Giovanni, altrimenti sconosciuto"; tra il Vangelo Secondo Giovanni e l'Apocalisse, "inoltre, come i filologi antichi avevano già osservato, sono diversi la forma e lo stile. Studi approfonditi hanno mostrato che l'autore ha appreso il greco come seconda lingua ed era di madrelingua aramaica o, comunque, semitica. Il suo greco è alquanto sgraziato, talvolta anche sgrammaticato. Questo non è certo il caso del Vangelo di Giovanni, che va quindi attribuito a un altro autore". Il testo, al pari delle varie apocalissi giudaiche apocrife, si presenta come una visione estatica in cui vengono rivelate "le cose che devono presto accadere", facendo ampio ricorso a immagini e strutture numeriche. Per secoli il libro è stato inteso come fedele cronaca degli eventi relativi alla fine del mondo (parusia). L'esegesi contemporanea, più attenta alla contestualizzazione storica della redazione (Sitz im Leben), la intende come una rilettura allegorica della Chiesa dell'epoca, ora perseguitata dalla bestia (l'Impero romano), ma l'agnello (Cristo) risulterà infine vittorioso.
APOCRIFE
- Atti di Giovanni. Scritto in greco nella seconda metà del II secolo, pervenutoci sotto diverse redazioni con alcune variazioni, descrive alcuni eventi della vita di Giovanni nel periodo del suo soggiorno a Efeso con lo stile agiografico-leggendario proprio degli apocrifi. Presenta influenze docetiste e gnostiche.
- Apocrifo di Giovanni. Scritto in greco nel II secolo, prima del 185, contiene un dialogo privato (secretum) tra l'apostolo e Gesù dopo la sua risurrezione nel quale vengono rivelate verità di fede di tipo gnostico.
- Interrogatio Johannis. Composto nel XII secolo presso la setta manichea dei Bogomili della Bulgaria, ci è pervenuto in una traduzione latina. Contiene un dialogo privato tra Gesù e l'apostolo nel contesto dell'ultima cena e si presenta di matrice fondamentalmente manichea con influssi gnostici.
Pensiero
I cinque testi tradizionalmente attribuiti all'apostolo Giovanni mostrano, oltre a somiglianze di stile e vocabolario, anche temi concettuali e teologici comuni. Come sopra indicato l'esegesi contemporanea attribuisce la redazione definitiva dei testi non direttamente a Giovanni ma a una scuola di più autori-redattori che può aver raccolto l'insegnamento dell'apostolo. In tale ottica, la "teologia giovannea" deve essere vista non come il frutto diretto di un singolo pensatore ma come il condensato di una tradizione ecclesiologica a lui riferita. Nella sostanza la teologia giovannea non si differenzia da quella presente implicitamente o esplicitamente negli altri scritti cristiani neotestamentari. Alcuni concetti sono però introdotti o sviluppati in una maniera propria e particolare che non trova paralleli. La più nota peculiarità della teologia giovannea è la definizione di Gesù come Logos (vedi in particolare il prologo evangelico nel cap. 1, ma anche 1Gv1,1 e Ap19,13). Il termine greco è ampiamente polisemico e può significare "parola", "dialogo", "ragionamento", "progetto", "ragion d'essere". Nelle traduzioni bibliche, che non possono rendere la polisemia originaria, viene talvolta reso con "parola" (escludendo così gli altri campi semantici) oppure con "verbo" (traslitterazione della resa verbum, adottata dalla Vulgata di Girolamo, che però non ha nulla a che vedere con la forma grammaticale omonima). Al Logos giovanneo vengono attribuite esplicitamente alcune caratteristiche presenti anche in alcune lettere paoline, ma non esplicitate negli altri tre vangeli. Per questo Giovanni è stato dalla tradizione successiva indicato come l'evangelista teologo per eccellenza. In particolare, il Logos-Gesù è Dio (Gv1,1;20,28), è preesistente alla creazione del cosmo, e questo è stato fatto tramite lui (Gv1,3;1,10). Una particolare enfasi viene data al fatto che il Logos preesistente si è fatto carne (Gv1,14;1Gv1,1-3;2Gv7), in modo tale da essere ascoltato, visto, contemplato, toccato. Nel cosiddetto "discorso del pane" di Gv6, dove a Gesù viene attribuita una lunga esortazione eucaristica, viene poi adottato il verbo "masticare" (reso solitamente col più blando "mangiare") che vuole sottolineare la presenza reale-materiale, e non solo simbolica-spirituale, nel pane eucaristico. Questi accenni alla preesistenza e alla realtà materiale dell'incarnazione, dai biblisti e storici contemporanei, sono solitamente contestualizzati al panorama teologico delle chiese nelle quali i testi sono stati redatti (sitz in leben, situazione vitale): l'autore (l'apostolo Giovanni e/o i suoi discepoli) voleva con queste precisazioni contestare alcune correnti teologiche giudicate eretiche come l'adozionismo (per cui Gesù non era "figlio di Dio" dalla nascita ma solo una persona virtuosa "adottata" da Dio al momento del suo battesimo) e il docetismo (per cui Gesù non era umano ma lo era solo in modo apparente).
La figura di Giovanni Battista è presente anche negli altri tre vangeli. Mentre però in questi viene affermata solo una sorta di priorità cronologica su Gesù, lasciando al Battista un implicito ruolo di precursore, il vangelo di Giovanni afferma esplicitamente la sua inferiorità a Gesù, il messia atteso: "Lui deve crescere e io invece diminuire". Assumendo la tradizionale identificazione dell'"altro discepolo" di Gv1,35-40 con lo stesso Giovanni, questa preferenza di Gesù al Battista può avere un fondamento autobiografico. È possibile inoltre che alcune delle chiese cristiane di fine I secolo, a Efeso o altrove, si siano confrontate con singoli fedeli o gruppi che si rifacevano al movimento battista: è il caso p.es. di Apollo che era nativo di Alessandria e "conosceva il battesimo di Giovanni", ma che a Efeso aderì al cristianesimo. In tal caso questi accenti hanno uno scopo apologetico.
Tutti i quattro vangeli concordano nel sostenere che il ministero di Gesù fu caratterizzato, dal punto di vista umano, da un sostanziale fallimento: le autorità ebraiche non lo riconobbero come il messia atteso, le folle passarono da un iniziale entusiasmo ad un progressivo abbandono (la cosiddetta "crisi galilaica"), al suo arresto anche gli apostoli lo abbandonarono per paura. Il quarto vangelo sottolinea in diversi loci questo rifiuto, opponendo alla rivelazione di Gesù-Logos incarnato il suo rifiuto da parte di due categorie, il mondo-cosmo e i Giudei, e in particolare durante il processo di Gesù nel c.18. Questa colorazione negativa in blocco dei "Giudei" ha portato alcuni a vedere in Giovanni un esplicito antisemitismo. Tuttavia questa categoria dev'essere intesa come una sorta di finzione letteraria, raggruppante gli oppositori di Gesù, e non come l'indicazione di un gruppo etnico. Tra i Giudei lo stesso vangelo riporta che diversi credettero in lui, e tutti i cristiani della prima ora erano Giudei, come lo stesso Gesù.
Come si è detto, il IV vangelo attribuito tradizionalmente all'apostolo Giovanni di Zebedeo fu completato nella sua forma attuale verosimilmente non più tardi del 100; anche se il Papiro 52 mostra che il vangelo era conosciuto in Egitto dal 130, tuttavia nella letteratura cristiana a noi nota c'è poca evidenza del suo uso al di fuori dei circoli gnostici prima del 170. L'unica citazione sicura prima degli scritti di Ireneo di Lione si trova nel testo di Teofilo d'Antiochia Ad Autolycum (ii.22), databile intorno al 170. Ignazio di Antiochia, morto verso il 107, potrebbe essere stato a conoscenza della tradizione teologica giovannea, che secondo alcuni autori avrebbe avuto una fase siriaca o antiochena di sviluppo, ma non cita il vangelo né vi allude; anzi, l'assenza di menzioni di Giovanni nella lettera alla chiesa di Efeso (luogo tradizionale dell'origine del vangelo) fa ancor più dubitare che Ignazio lo conoscesse. Giustino, morto verso il 165, non cita esplicitamente il vangelo, né vi allude con chiarezza, il che è sorprendente se si pensa al suo uso del concetto di logos. Benché questo concetto abbia primariamente affinità con il contemporaneo stoicismo, col medioplatonismo e la tradizione sapienziale giudaica, qualche riferimento al quarto vangelo avrebbe appropriatamente rafforzato l'argomentazione, sia nelle Apologie che nel Dialogo con Trifone Giudeo. La non utilizzazione del IV vangelo e il silenzio riguardo ad esso nei primi anni del II secolo, considerati solitamente "ortodossi", può indicare sia che il vangelo non era conosciuto, sia che si era esitanti nell'utilizzarlo per qualche sospetto in merito alla sua ortodossia. Le testimonianze disponibili, per quanto scarne, puntano in questa seconda direzione.
Tra il II e III secolo appare il primo commentario gnostico al vangelo secondo Giovanni a opera di quello che a detta di Clemente di Alessandria è il più importante esponente della scuola Valentiniana: Eracleone, maestro gnostico attivo dal 145 fino al 180. Una prova in più di quanta considerazione avesse il mondo variegato dello gnosticismo di matrice cristiana per il pensiero di Giovanni. A questo scritto fa subito seguito un commentario di Origene, in gran parte scritto in risposta a quello. Mentre nel commentario di Origene il Padre coincide con il Dio ebraico dell'Antico Testamento, per Eracleone invece questa coincidenza non è presente in quanto il Dio degli ebrei, ovverosia Javhè, è solo il Demiurgo, il dio del mondo e non coincide affatto con il Logos giovanneo, caratterizzato come Dio del tutto. In questo stesso periodo anche Ippolito di Roma, morto nel 235 e discepolo di Ireneo vescovo di Lione, si è dedicato all'interpretazione dei testi giovannei ma non in maniera così particolareggiata come invece hanno fatto Eracleone e Origene. Presumibilmente sul finire degli anni 300 è collocabile il Commentario al vangelo di Giovanni di Giovanni Crisostomo.
Sul finire dell'impero romano e l'annuncio delle invasioni barbariche che taluni interpretano come presagio dell'imminente apocalisse, anche il filosofo Agostino si cimenta in un commentario del testo giovanneo: In Johannis evangelium tractatus. Al IV e V secolo è databile la composizione del testo Atti di Giovanni del diacono Procoro. Scritto appunto dal diacono greco Procoro, è un romanzo di notevole estensione (50 lunghi capitoli) dedicato in gran parte a miracoli compiuti nell'isola di Patmo da Giovanni allorché lì era stato esiliato prima di fare ritorno nuovamente a Efeso per trascorrervi i suoi ultimi anni. L'autore conosceva gli antichi Atti del santo apostolo ed evangelista Giovanni il teologo ma si direbbe che pone molta attenzione a tenersene lontano. L'autore aveva ben poca cultura, forse era un tranquillo presbitero ammogliato, appartenente alla chiesa antiochena o palestinese; certo non era né un asceta né un monaco.
Tra il V e il VI secolo appare scritto in greco un testo che vuole essere attribuito a Giovanni, dal titolo Seconda Apocalisse di Giovanni. In questo testo, attestato per la prima volta da Dioniso Trace nel IX secolo, nella forma di una intervista, Gesù Cristo risorto spiega all'apostolo Giovanni i misteri che vuol far conoscere e le nuove pratiche da diffondere tra i fedeli. In quanto analogo in parte all'originaria apocalisse di Giovanni, il titolo di Seconda Apocalisse di Giovanni gli è stato dato da F. Nau tra il 1908 e il 1914 in appunto a uno scritto greco contenuto in un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Parigi che a sua volta era stato acquistato a Nicosia (Cipro) nel 1671. Il testo potrebbe verosimilmente essere anche più antico, ma la composizione a noi nota si colloca tra il VI e l'VIII secolo. Nel VI secolo sul sepolcro di Giovanni a Efeso viene costruita una Basilica in suo onore ad opera dell'imperatore Giustiniano. Al VI secolo-VII secolo è databile lo scritto Memorie Apostoliche di Abdia primo vescovo di Babilonia al cui interno figura un Libro V dedicato alle Gesta di San Giovanni Evangelista. Tra il VII e VIII secolo è approssimativamente databile un testo copto sahidico Misteri che Giovanni, l'apostolo santo e vergine, imparò in Cielo, il cui originale è conservato al British Museum di Londra, così chiamato dalla frase iniziale del manoscritto. Anche per questo testo è alquanto verosimile che la narrazione, in forma orale o scritta, possa essere più antica. In età carolingia i commentatori di Giovanni di maggior rilievo furono: Alcuino, Claudio di Torino, Rabano Mauro, Valafrido Strabone. Al IX secolo risale invece uno dei più importanti e particolareggiati commentari al solo incipit del vangelo giovanneo ad opera del filosofo irlandese Giovanni Scoto Eriugena: Omelia sul prologo di Giovanni. Questo scritto, che viene ritenuto una delle opere più eminenti della storia della letteratura latina, ha tra le altre cose la particolarità che il filosofo si spinge nella sua grande e spassionata considerazione per Giovanni a ritenerlo il rappresentante più evoluto della specie umana, addirittura al di sopra degli stessi angeli e delle relative gerarchie, sino a dire chiaramente che Giovanni per capire Dio in maniera così profonda doveva essere lui stesso Dio. E a rigore di logica il ragionamento del filosofo medievale è di una intelligibilità immediata. Il testo anonimo Interrogatio Johannis proviene alla setta dei Bogomili di Bulgaria, fiorita nell'oriente balcanico dal X al XIV secolo, emanazione, al pari dei catari, albigesi e patari dai pauliciani e da tendenze gnostiche come il marcionismo. Dell'abate e monaco cistercense Gioacchino da Fiore, peraltro su posizioni vicine all'eresia, ci è pervenuto un Commentario dell'Apocalisse e un Tractatus super quattuor evangelia. Tommaso d'Aquino scrisse un Commentario al vangelo di Giovanni (Lectura super Ioannem). Isaac Newton ha scritto un Trattato sull'Apocalisse di Giovanni.

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Eugenio Caruso - 19 - 11 - 2021

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