Sezioni   Naviga Articoli e Testi
stampa

 

        Inserisci una voce nel rettangolo "ricerca personalizzata" e premi il tasto rosso per la ricerca.

Dante, Paradiso Canto XXVII. Invettive contro la corruzione della Chiesa.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XXVII

Il Canto è suddiviso in due parti distinte, il cui filo conduttore è la rampogna della corruzione del mondo e il preannuncio di un futuro intervento divino destinato a ristabilire la giustizia: nella prima, infatti, san Pietro prorompe in una violenta invettiva contro la corruzione della Chiesa e i papi simoniaci, in particolare Bonifacio VIII già più volte bersaglio delle accuse di Dante, mentre nella seconda (dopo l'ascesa al Primo Mobile e la descrizione del IX Cielo) è Beatrice a rimproverare la cupidigia degli uomini, contro la quale si abbatterà la punizione divina come sui pontefici corrotti.
L'episodio si apre del resto con il grandioso spettacolo del Gloria intonato da tutte le anime, che riempie Dante di ebbrezza e lo spinge a inneggiare alla vera felicità che proviene dalla beatitudine eterna, in contrasto con le ricchezze materiali: le sue parole preparano il terreno all'invettiva di Pietro, sottolineata dal colore rossastro che assume la sua luce come quella di tutti gli altri beati e dello stesso VIII Cielo, che simboleggia lo sdegno provato da tutto il Paradiso per la vergogna della Chiesa corrotta (Dante rappresenta la scena con la similitudine paradossale di Giove e Marte, paragonati a due uccelli che si scambino le piume, e con quella naturalistica della nube colorata di rosso all'alba o al tramonto).
Le parole di Pietro vengono sottolineate dal silenzio di tutti i beati e si qualificano come un durissimo attacco anzitutto a Bonifacio VIII, il papa presente sul soglio pontificio al momento dell'immaginario viaggio (primavera del 1300), che il santo accusa di «usurpare» il suo posto come successore indegno e di aver tramutato il Vaticano in cui lui è sepolto in una cloaca / del sangue e de la puzza: il riferimento è alle circostanze in cui Bonifacio succedette a Celestino V e forse all'illegittimità della sua elezione, mentre di sicuro Pietro rinfaccia al papa di sfruttare la sua carica per arricchirsi illecitamente, tanto da procurare piacere coi suoi atti a Lucifero che dal Cielo venne precipitato al centro della Terra.
Il linguaggio crudo e a tratti volgare di Pietro è ripreso poco oltre, dopo la descrizione del «trascolorare» di tutto il Cielo e di Beatrice, attraverso il paragone con l'oscuramento del Sole il giorno della morte di Cristo (il rosso è anche il colore del sangue, più volte evocato nel discorso del santo, mentre non va scordato che il papa è appunto il vicario di Cristo in Terra): Pietro crea un contrasto fra se stesso e i primi papi, che vennero martirizzati per costruire la Chiesa delle origini, e i papi attuali, per i quali la sposa di Cristo serve unicamente come fonte di guadagno illecito, per cui l'effigie di Pietro compare sui documenti papali con cui si fa compravendita di cose sacre e il simbolo delle chiavi fregia i vessilli con cui si fa guerra ai battezzati anziché agli infedeli, come nel recente assedio di Palestrina ad opera proprio di Bonifacio.
I papi simoniaci sono definiti lupi rapaci con immagine scritturale, come del resto pieno di furore biblico è l'intero discorso (con accenti simili all'invettiva di Dante contro Niccolò III in Inf., XIX) e Pietro profetizza anche le ruberie di due successori di Bonifacio VIII, Clemente V e Giovanni XXII che Dante ha già duramente e più volte attaccati, preconizzando la futura dannazione del primo fra i simoniaci della III Bolgia dell'VIII Cerchio e rivolgendo al secondo la tremenda invettiva che chiudeva il Canto XVIII del Paradiso.
Il discorso di Pietro, stilisticamente sostenuto e con numerosi artifici retorici (la triplice ripetizione di il luogo mio..., l'anafora di Non fu..., il polisindeto del v. 44), si chiude con il preannuncio di un futuro e ormai prossimo intervento divino, che la Provvidenza sta preparando così come fece al tempo di Scipione per difendere la gloria di Roma: il riferimento alla storia romana non è casuale, poiché è noto che Dante considerava l'autorità imperiale come la necessaria guida politica per assicurare le leggi e la giustizia nel mondo, in accordo con l'autorità spirituale rappresentata dai papi che dovevano naturalmente essere esenti dalle gravi colpe qui rinfacciate loro da san Pietro.
Tale intervento provvidenziale andrà inteso come la profezia di una prossima palingenesi della società ad opera di un personaggio non meglio identificato, come il «veltro», ed è quasi certo che la stessa indeterminatezza avrà anche la parallela profezia di Beatrice alla fine del Canto, più sfumata nei toni in quanto non rivolta contro bersagli particolari ma in generale alla corruzione umana che pervade l'intera società (in entrambi i casi Dante è chiamato a riferire ciò che ha udito una volta tornato sulla Terra, missione poetica di cui è altamente ed esplicitamente investito dallo stesso Pietro).
Il passaggio dalla prima alla seconda parte dell'episodio è rappresentato dall'ascesa delle anime dei beati all'Empireo, ancora con una similitudine naturalistica in quanto paragonati a fiocchi di neve che salgono lentamente verso l'alto, quindi l'ascesa al Primo Mobile è anticipata dallo sguardo di Dante alla Terra vista nuovamente nella sua piccolezza e ancora definita aiuola, con un parallelismo rispetto a XXII, 133 ss. (i due momenti aprono e chiudono la descrizione del Cielo delle Stelle Fisse, benché in questo caso Dante si limiti a osservare la Terra con una complessa e discussa rappresentazione geografica).
Come già nel passaggio dal VII all'VIII Cielo, anche in questa circostanza è Beatrice col suo sguardo a spingere il poeta nel Primo Mobile, che si presenta come una sfera trasparente e perfettamente uniforme in ogni suo punto: la complessa spiegazione circa la sua natura e il suo funzionamento, per cui Dante si rifà strettamente alla teoria di Tolomeo poi recepita dalla dottrina tomistica e base di tutta la costruzione astronomica del poema, dà modo a Beatrice di inneggiare alla perfezione dell'Universo e all'infinito amore di Dio, che regola con la sua saggezza i movimenti delle sfere celesti, per cui il successivo trapasso alla rampogna contro la cupidigia degli uomini non è così improvviso come è parso a vari commentatori (l'umanità dovrebbe levare lo sguardo alla bellezza dei Cieli invece di rivolgerlo ai beni terreni, secondo quanto detto da Virgilio in Purg., XIV, 142-151).
Beatrice rimarca il fatto che l'uomo è creato da Dio e nasce naturalmente inclinato al bene, ma poi crescendo perde la sua innocenza e si corrompe, come le sosine vere che la pioggia trasforma in frutti guasti e privi di ogni qualità: la causa di ciò è individuata dalla donna nella mancanza di una guida spirituale e politica nel mondo, con allusione alla corruzione ecclesiastica (cui si aggiungerà presto anche la cattività avignonese) e all'assenza di un'autorità imperiale, fonte per Dante di tutti i problemi politici della società del suo tempo. L'accusa si collega quindi a quella di san Pietro contro i papi corrotti, proprio come il preannuncio della futura punizione che chiude il Canto e in cui Beatrice usa ancora l'immagine del vero frutto che dovrà nascere dal fiore e della flotta che sarà rimessa nella giusta rotta dal volere di Dio, poiché in Terra non è chi governi (il riferimento è forse proprio all'assenza di una guida politica, come in Purg., VI con l'immagine dell'Italia nave sanza nocchiere in gran tempesta): la donna usa gli stessi accenti profetici che caratterizzeranno alcuni dei momenti conclusivi della Cantica, specie in XXX, 130-148, quando indicherà a Dante il seggio della rosa dei beati già destinato ad Arrigo VII di Lussemburgo e condannerà ancora la cieca cupidigia che ammalia gli uomini, profetizzando tra l'altro nuovamente la dannazione di Bonifacio VIII e Clemente V fra i simoniaci della III Bolgia (quelle saranno le ultime parole di Beatrice a Dante come sua guida, prima che il suo posto sia preso da san Bernardo che avrà l'incarico di preparare Dante alla visione di Dio che concluderà in modo solenne il viaggio nell'Oltretomba).
La rampogna di Beatrice contro la cupidigia umana prepara inoltre il terreno alla successiva disquisizione circa le gerarchie angeliche, il cui ordine armonioso sarà in certa misura contrapposto al disordine politico e morale del mondo terreno e che occuperà con insolita estensione entrambi i Canti seguenti, il XXVIII e il XXIX, con quest'ultimo che conterrà una nuova invettiva rivolta ai falsi predicatori che, talvolta per avidità di guadagno, diffondono false dottrine circa gli angeli e le loro qualità, alimentando leggende infondate sui loro poteri (la polemica contro la corruzione ecclesiastica lega dunque insieme gran parte dei Canti conclusivi del Paradiso).

bonifacio 1

Statua di Bonifacio VIII, opera di Arnolfo di Cambio (1298).

NOTE

- Le quattro face del v. 10 sono le anime di san Pietro, san Giacomo, san Giovanni e Adamo, mentre quella che pria venne (v. 11) è san Pietro, la cui luce diventa rossastra.
- La bizzarra similitudine dei vv. 13-15 si basa sul fatto che il pianeta Marte è di colore rosso, mentre Giove è argenteo.
- Il vb. usurpa del v. 22 ha fatto pensare che Dante contestasse la legittimità dell'elezione papale di Bonifacio VIII, ipotesi confermata in parte da Inf., XIX, 52-57, mentre altri sostengono che il poeta alluda semplicemente all'indegnità del pontefice come vicario di Cristo (cfr. Purg., XX, 86-90, in cui l'oltraggio di Anagni è duramente condannato).
- Al v. 25 il cimitero  è il Vaticano, dove Pietro fu martirizzato e, secondo la tradizione, sepolto; esso è trasformato da Bonifacio in una fogna in cui si raccoglie il sangue sparso per le contese interne al mondo cristiano e la puzza della corruzione della Curia (cfr. anche IX, 139 ss.).
- Il perverso (v. 26) è Lucifero.
- La similitudine ai vv. 31-36 allude al trascolorare di Beatrice che arrossisce (secondo altri impallidisce) come una donna onesta che ascolta le parole peccaminose di altri; il Cielo diventa rosso come il Sole quando si oscurò il giorno della morte di Cristo, la supprema possanza (Luc., XXIII, 45).
- Ai vv. 41 ss. Pietro cita alcuni dei primi papi della Chiesa primitiva: Lino di Volterra fu il suo primo successore, ucciso il 23 sett. del 78 d.C.; Cleto (o Anacleto) fu martirizzato sotto Domiziano, mentre Sisto I durante il principato di Adriano; Pio I, di Aquileia, morì forse nel 149, mentre Calisto I nel 222 sotto Alessandro Severo; infine Urbano I, successore di Calisto, subì il martirio nel 230.
- Al v. 45 fleto  è lat. per «pianto».
- I vv. 46-48 alludono all'immagine degli eletti e dei reprobi che, il Giorno del Giudizio, siederanno rispettivamente alla destra e alla sinistra di Cristo, per cui i papi corrotti pretendono di anticipare tale sentenza coi loro atti simoniaci (specie attraverso la vendita delle indulgenze).
- Il sigillo del v. 52 è quello papale su cui è tuttora raffigurata l'effigie di san Pietro; i privilegi venduti e mendaci (v. 53) sono le indulgenze e le cariche ecclesiastiche di cui i papi simoniaci facevano commercio.
- I lupi rapaci del v. 55 rimandano a Matth., VII, 15: Attendite a falsis prophetis qui veniunt ad vos in vestimentis ovium, intrinsecus autem sunt lupi rapaces («Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi nelle sembianze di pecore e nell'animo sono invece lupi rapaci»). Il v. 57 riecheggia invece Ps., XLIII, 24: Exsurge, quare obdormis, Domine?
- I vv. 58-59 alludono a Clemente V e Giovanni XXII, originari rispettivamente della Guascogna e di Cahors: gli abitanti di quest'ultima città avevano fama di usurai (Inf., XI, 50).
- I vv. 67-69 si riferiscono alla stagione invernale, quando la capra del ciel (la costellazione del Capricorno) è in congiunzione col Sole e i fiocchi di neve cadono a terra. L'etera è l'VIII Cielo.
- I vv. 79-81 alludono alla divisione della Terra in sette climi operata dagli antichi geografi: erano delle fasce parallele che andavano dall'Equatore alle zone fredde, corrispondenti ai vari climi della zona abitabile del globo, aventi una longitudine di 180 gradi; Dante intende dire di aver ruotato insieme al Cielo delle Stelle Fisse dal centro alla fine del primo clima, quindi di 90 gradi.
- Al v. 82 Gade  è Cadice, in Spagna, a occidente della quale si scorge il varco / folle d'Ulisse (l'oceano da lui percorso). Ai vv. 83-84 il lido è la Fenicia, dove secondo il mito la nin fa Europa salì in groppa a Giove tramutatosi in toro, che in tal modo la rapì; si obietta che in base alla complessa descrizione astronomica la Fenicia dovrebbe essere in ombra e non visibile a Dante dalla sua posizione, ma la sua indicazione è forse più generica oppure il poeta confondeva la Fenicia con Creta dove Europa venne portata (cfr. Ovidio, Met., II, 833 ss.).
- Al v. 88 donnea  vuol dire «vagheggia amorosamente».
- Al v. 98 il bel nido di Leda  è la costellazione dei Gemelli, così detta in quanto Castore e Polluce, la cui figura è ricordata dal segno zodiacale, nacquero dall'uovo di Leda fecondato da Giove tramutatosi in cigno.
- Al v. 108 meta si riferisce probabilmente alla colonnina che nel circo dell'antica Roma segnava il punto in cui i carri dovevano girare durante la corsa: Dante intende dire che il Primo Mobile è il principio e la fine del mondo sensibile.
- I vv. 109-111, variamente interpretati, vogliono dire: «Questo Cielo (il Primo Mobile) non ha altra collocazione se non la mente divina (che corrisponde all'Empireo), in cui si accendono l'amore che lo fa ruotare e la virtù che esso esercita». Il X Cielo non è un luogo fisico ma corrisponde alla mente di Dio, Luce e amor (v. 112) che circondano il IX Cielo e imprimono ad esso il movimento.
- Il v. 117 intende dire che tutti i movimenti fisici sono commisurati a quello del Primo Mobile, come il numero dieci è commisurato al cinque e al due (suoi sottomultipli).
- Al v. 118 testo è lat. per «vaso».
- I vv. 125-126 si rifanno forse all'antico proverbio secondo cui «Quando piove la domenica di Passione, ogni susina va in bozzacchione»: i bozzacchioni sono le susine vuote e guaste, mentre la pioggia fuor di metafora è l'ambiente corrotto che influisce negativamente sugli uomini.
- I vv. 136-138 sono una delle cruces  interpretative del poema, poiché non è chiaro a cosa alluda Dante con la bella figlia / di quel ch'apporta mane e lascia sera: potrebbe trattarsi dell'Aurora, la figlia mitologica di Iperione, oppure la Chiesa, figlia di Dio, o ancora Circe, figlia del Sole nel mito. La terzina vuol forse dire che la pelle bianca, al primo apparire della luce dell'Aurora, diventa scura, quindi (fuor di metafora) gli uomini nascono inclini al bene e poi si corrompono. La questione è tutt'altro che conclusa.
- I vv. 142 ss. vogliono dire che, prima che passino migliaia di anni (litote per dire «fra breve») avverrà l'intervento divino: Dante allude alla necessaria riforma del calendario adottato da Giulio Cesare nel 46 a.C., che prevedeva un anno bisestile ogni quattro ma lasciava 12 minuti di eccedenza l'anno, per cui l'anno civile restava in lieve ritardo rispetto a quello astronomico. Senza una modifica (che sarebbe avvenuta nel 1582 col calendario gregoriano, tuttora in vigore) l'equinozio di primavera sarebbe caduto 90 giorni prima, quindi a gennaio che sarebbe uscito dall'inverno (ciò sarebbe avvenuto in realtà 90 secoli dopo il 1300). La centesma è la centesima parte del giorno, appunto i 12 minuti di eccedenza rispetto all'anno astronomico.
- Al v. 142 gennaio è bisillabo per trittongo.
- Al v. 145 fortuna può voler dire «fortunale», «tempesta», ma anche (più probabilmente) «Provvidenza».
- Al v. 147 classe è lat. per «flotta».

Bonifacio 2

Bonifacio indice il Giubileo nel 1300. Affresco di Giotto.


TESTO DEL CANTO XXVII

‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’, 
cominciò, ‘gloria!’, tutto ’l paradiso, 
sì che m’inebriava il dolce canto.                                     3

Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso 
de l’universo; per che mia ebbrezza 
intrava per l’udire e per lo viso.                                         6

Oh gioia! oh ineffabile allegrezza! 
oh vita intègra d’amore e di pace! 
oh sanza brama sicura ricchezza!                                    9

Dinanzi a li occhi miei le quattro face 
stavano accese, e quella che pria venne 
incominciò a farsi più vivace,                                           12

e tal ne la sembianza sua divenne, 
qual diverrebbe Iove, s’elli e Marte 
fossero augelli e cambiassersi penne.                        15

La provedenza, che quivi comparte 
vice e officio, nel beato coro 
silenzio posto avea da ogne parte,                                18

quand’io udi’: «Se io mi trascoloro, 
non ti maravigliar, ché, dicend’io, 
vedrai trascolorar tutti costoro.                                        21

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, 
il luogo mio, il luogo mio, che vaca 
ne la presenza del Figliuol di Dio,                                  24

fatt’ha del cimitero mio cloaca 
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso 
che cadde di qua sù, là giù si placa».                           27

Di quel color che per lo sole avverso 
nube dipigne da sera e da mane, 
vid’io allora tutto ’l ciel cosperso.                                    30

E come donna onesta che permane 
di sé sicura, e per l’altrui fallanza, 
pur ascoltando, timida si fane,                                        33

così Beatrice trasmutò sembianza; 
e tale eclissi credo che ’n ciel fue, 
quando patì la supprema possanza.                             36

Poi procedetter le parole sue 
con voce tanto da sé trasmutata, 
che la sembianza non si mutò piùe:                              39

«Non fu la sposa di Cristo allevata 
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, 
per essere ad acquisto d’oro usata;                              42

ma per acquisto d’esto viver lieto 
e Sisto e Pio e Calisto e Urbano 
sparser lo sangue dopo molto fleto.                              45

Non fu nostra intenzion ch’a destra mano 
d’i nostri successor parte sedesse, 
parte da l’altra del popol cristiano;                                 48

né che le chiavi che mi fuor concesse, 
divenisser signaculo in vessillo 
che contra battezzati combattesse;                                51

né ch’io fossi figura di sigillo 
a privilegi venduti e mendaci, 
ond’io sovente arrosso e disfavillo.                               54

In vesta di pastor lupi rapaci 
si veggion di qua sù per tutti i paschi: 
o difesa di Dio, perché pur giaci?                                  57

Del sangue nostro Caorsini e Guaschi 
s’apparecchian di bere: o buon principio, 
a che vil fine convien che tu caschi!                               60

Ma l’alta provedenza, che con Scipio 
difese a Roma la gloria del mondo, 
soccorrà tosto, sì com’io concipio;                                 63

e tu, figliuol, che per lo mortal pondo 
ancor giù tornerai, apri la bocca, 
e non asconder quel ch’io non ascondo».                   66

Sì come di vapor gelati fiocca 
in giuso l’aere nostro, quando ’l corno 
de la capra del ciel col sol si tocca,                               69

in sù vid’io così l’etera addorno 
farsi e fioccar di vapor triunfanti 
che fatto avien con noi quivi soggiorno.                        72

Lo viso mio seguiva i suoi sembianti, 
e seguì fin che ’l mezzo, per lo molto, 
li tolse il trapassar del più avanti.                                   75

Onde la donna, che mi vide assolto 
de l’attendere in sù, mi disse: «Adima 
il viso e guarda come tu se’ vòlto».                                78

Da l’ora ch’io avea guardato prima 
i’ vidi mosso me per tutto l’arco 
che fa dal mezzo al fine il primo clima;                          81
                   
sì ch’io vedea di là da Gade il varco 
folle d’Ulisse, e di qua presso il lito 
nel qual si fece Europa dolce carco.     

E più mi fora discoverto il sito 
di questa aiuola; ma ’l sol procedea 
sotto i mie’ piedi un segno e più partito.                       87

La mente innamorata, che donnea 
con la mia donna sempre, di ridure 
ad essa li occhi più che mai ardea;                               90

e se natura o arte fé pasture 
da pigliare occhi, per aver la mente, 
in carne umana o ne le sue pitture,                               93

tutte adunate, parrebber niente 
ver’ lo piacer divin che mi refulse, 
quando mi volsi al suo viso ridente.                              96

E la virtù che lo sguardo m’indulse, 
del bel nido di Leda mi divelse, 
e nel ciel velocissimo m’impulse.                                  99

Le parti sue vivissime ed eccelse 
sì uniforme son, ch’i’ non so dire 
qual Beatrice per loco mi scelse.                                 102

Ma ella, che vedea ‘l mio disire, 
incominciò, ridendo tanto lieta, 
che Dio parea nel suo volto gioire:                               105

«La natura del mondo, che quieta 
il mezzo e tutto l’altro intorno move, 
quinci comincia come da sua meta;                            108

e questo cielo non ha altro dove 
che la mente divina, in che s’accende 
l’amor che ‘l volge e la virtù ch’ei piove.                       111

Luce e amor d’un cerchio lui comprende, 
sì come questo li altri; e quel precinto 
colui che ‘l cinge solamente intende.                           114

Non è suo moto per altro distinto, 
ma li altri son mensurati da questo, 
sì come diece da mezzo e da quinto;                           117

e come il tempo tegna in cotal testo 
le sue radici e ne li altri le fronde, 
omai a te può esser manifesto.                                    120

Oh cupidigia che i mortali affonde 
sì sotto te, che nessuno ha podere 
di trarre li occhi fuor de le tue onde!                              123

Ben fiorisce ne li uomini il volere; 
ma la pioggia continua converte 
in bozzacchioni le sosine vere.                                      126

Fede e innocenza son reperte 
solo ne’ parvoletti; poi ciascuna 
pria fugge che le guance sian coperte.                        129

Tale, balbuziendo ancor, digiuna, 
che poi divora, con la lingua sciolta, 
qualunque cibo per qualunque luna;                           132

e tal, balbuziendo, ama e ascolta 
la madre sua, che, con loquela intera, 
disia poi di vederla sepolta.                                            135

Così si fa la pelle bianca nera 
nel primo aspetto de la bella figlia 
di quel ch’apporta mane e lascia sera.                        138

Tu, perché non ti facci maraviglia, 
pensa che ’n terra non è chi governi; 
onde sì svia l’umana famiglia.                                       141

Ma prima che gennaio tutto si sverni 
per la centesma ch’è là giù negletta, 
raggeran sì questi cerchi superni,                                144

che la fortuna che tanto s’aspett
le poppe volgerà u’ son le prore, 
sì che la classe correrà diretta; 

e vero frutto verrà dopo ’l fiore».                     148

bonifacio 3

Arresto di Bonifacio. Miniatura di Giovanni Villani

PARAFRASI CANTO XXVII

Tutto il Paradiso cominciò a inneggiare 'Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo!', in modo tale che il dolce canto mi inebriava.

Quello che io vedevo mi sembrava il sorriso dell'Universo, per cui l'ebbrezza penetrava in me attraverso l'udito e la vista.

Che gioia! che letizia indescrivibile! Che vita completa d'amore e di pace! Che ricchezza sicura, in grado di appagare ogni desiderio!

Davanti ai miei occhi le quattro luci stavano accese, e quella che era giunta per prima (san Pietro) iniziò a farsi più rossa, diventando nel suo aspetto tale quale diverrebbe Giove, se lui e Marte fossero uccelli e si scambiassero le penne.

La Provvidenza, che in Cielo suddivide per ognuno gli incarichi, aveva posto silenzio al coro dei beati in ogni punto, quando io sentii: «Se io cambio colore, non stupirti, dal momento che alle mie parole vedrai fare lo stesso a tutti questi beati.

Colui (Bonifacio VIII) che usurpa il mio posto, il mio posto, il mio posto che è vacante pur nella presenza di Cristo, ha trasformato il mio cimitero (il Vaticano) in una fogna dove si raccolgono il sangue e la puzza; per cui il malvagio (Lucifero) che cadde da quassù, laggiù ne gode».

Io vidi allora tutto il Cielo cosparso di quel colore (rossastro) che le nubi assumono per il sole opposto, a sera e al mattino.

E come una donna onesta che resta sicura di sé e ascoltando le parole peccaminose di altri arrossisce, così Beatrice mutò aspetto; e credo che in cielo ci fu una tale eclissi, il giorno in cui morì Cristo.

Poi le parole di san Pietro proseguirono, con una voce così alterata che il suo aspetto non mutò maggiormente:

«La sposa di Cristo (la Chiesa) non fu nutrita col sangue mio, di Lino, di Anacleto, per essere usata per arricchirsi, ma Sisto, Pio, Calisto e Urbano sparsero il loro sangue, dopo molto pianto, per guadagnare questa vita beata.

La nostra intenzione non era che il popolo cristiano sedesse in parte alla destra, e in parte alla sinistra dei nostri successori;

né che le chiavi che mi furono concesse diventassero simbolo su vessilli usati per combattere gente battezzata;

né che la mia effigie comparisse sul sigillo di privilegi falsificati e venduti, cosa per cui io spesso arrossisco e fremo di sdegno.

Da quassù si vedono per tutti i pascoli dei lupi famelici nelle vesti di pastori: o vendetta divina, perché tardi ad arrivare?

Papi originari di Cahors (Giovanni XXII) e di Guascogna (Clemente V) si preparano a bere del nostro sangue (ad arricchirsi con la Chiesa): o nobile principio, come sei destinato a cadere in basso!

Ma la Provvidenza divina, che con Scipione difese a Roma la gloria del mondo, interverrà presto, così come io prevedo;

e tu, figliolo, che tornerai sulla Terra col tuo corpo mortale, apri la bocca e non nascondere ciò che io non ti nascondo».

Come il nostro cielo fa cadere in basso i fiocchi di neve, quando il corno della capra del cielo (il Capricorno) è in congiunzione col Sole (d'inverno), così io vidi il Cielo diventare brillante e fioccare verso l'alto i beati trionfanti che si erano trattenuti qui con noi.

Il mio sguardo seguiva quelle luci e le seguì finché la distanza, che era notevole, gli impedì di spingersi più oltre.

Allora Beatrice, che vide che avevo cessato di guardare verso l'alto, mi disse: «China lo sguardo e osserva quanto tu hai ruotato con questo Cielo».

Dal momento in cui avevo guardato la prima volta, compresi che mi ero mosso per tutto l'arco meridiano che va dal centro alla fine del primo clima (di novanta gradi);

sicché io vedevo a occidente di Cadice il folle varco di Ulisse (l'oceano) e a oriente la costa della Fenicia dove Europa cavalcò Giove tramutato in toro.

E mi sarebbe stata mostrata una parte maggiore di questa aiuola (la Terra), ma il Sole procedeva sotto i miei piedi di oltre un segno zodiacale (più di trenta gradi, gettando l'ombra sulle altre regioni).

La mia mente innamorata, che vagheggia sempre la mia donna, desiderava più che mai di riportare a lei lo sguardo;

e se mai la natura o l'arte produssero opere tanto belle, nei corpi umani o nei dipinti, da attirare lo sguardo per sedurre la mente, tutte radunate insieme sembrerebbero poca cosa rispetto alla bellezza divina di Beatrice che splendette a me, quando mi rivolsi al suo viso sorridente.

E la virtù che s'irradiò a me dal suo sguardo mi portò via dalla costellazione dei Gemelli, spingendomi nel Cielo più veloce (il Primo Mobile).

Le sue parti luminosissime e altissime sono così uniformi, che io non saprei dire in quale di esse Beatrice mi fece penetrare.

Lei, tuttavia, che vedeva il mio desiderio, iniziò a dire, sorridendo con tale gioia che sembrava che Dio si allietasse nel suo viso:

«La natura dell'Universo, che tiene la Terra al centro, immobile, e fa ruotare tutto il resto intorno, comincia da qui come suo principio e sua fine;

e questo Cielo (il Primo Mobile) non ha nessun'altra collocazione se non la mente di Dio, in cui si accendono l'amore che lo fa ruotare e la virtù che esso esercita.

La luce e l'amore divino lo circondano, proprio come questo Cielo circonda gli altri; e quell'involucro è compreso solamente da Colui che lo cinge (da Dio).

Il suo movimento non è misurato dagli altri, ma gli altri moti sono commisurato a questo, come il dieci lo è dal cinque e dal due;

e ormai ti può essere chiaro come il tempo abbia le sue radici in questo vaso (nel IX Cielo), e negli altri Cieli le sue foglie.

Oh, cupidigia che immergi i mortali sotto di te, al punto che nessuno riesce a spingere lo sguardo fuori dalle tue onde!

La buona volontà fiorisce negli uomini, ma la continua pioggia trasforma le vere susine in frutti vuoti e guasti.

Fede e innocenza si ritrovano solo nei fanciulli; poi esse fuggono via, prima che le guance siano coperte di pelo (prima della pubertà).

Alcuni, quando ancora non sanno parlare, osservano i digiuni religiosi, poi, quando hanno la lingua sciolta (diventano adulti), divorano qualunque cibo in qualunque periodo dell'anno:

altri, quando ancora non sanno parlare, amano e rispettano la propria madre, mentre quando diventano grandi desiderano  vederla morta.

Così la pelle bianca diventa scura al primo apparire dell'Aurora, figlia di Iperione, colui che porta il mattino e fa cessare la sera (gli uomini nascono buoni e poi si corrompono).

Tu, per non stupirti troppo, pensa che sulla Terra manca una autorità di governo, per cui l'umanità viene sviata.

Ma prima che gennaio esca del tutto dall'inverno per la centesima parte del giorno che è trascurata sulla Terra, queste ruote celesti irradieranno il mondo a tal punto che la Provvidenza, che è tanto attesa, volgerà le poppe dove ora sono le prue, cosicché la flotta tornerà sulla giusta rotta; e il fiore tornerà a produrre un vero frutto».

bonifacio 4

L'oltraggio di Sciarra Colonna verso Bonifacio. Incisione francese del XIX secolo.

BONIFACIO VIII

Bonifacio VIII, nato Benedetto Caetani (Anagni, 1230 circa – Roma, 11 ottobre 1303), è stato il 193º papa della Chiesa cattolica dal 1294 alla morte. Nel 1300 celebrò il primo Anno santo della storia. Fu discendente di un ramo dell'importante famiglia Caetani (o Gaetani), che poté acquisire ulteriori ricchezze e grandi latifondi sfruttando la sua carica pontificia.
Nel 1260, con il permesso di papa Alessandro IV, il Caetani assunse un canonicato a Todi, dove era vescovo suo zio Pietro Caetani, ed è possibile che nella cittadina umbra abbia iniziato gli studi di diritto, poi approfonditi e completati, con ogni probabilità, presso l'Università di Bologna, con una specializzazione in diritto canonico. La sua successiva carriera ecclesiastica nella Curia romana fu rapida e fortunata e lo portò a prendere parte a missioni diplomatiche molto importanti. Nel 1264 si recò presso la corte di Francia al seguito del cardinale Simon de Brion, futuro Martino IV, con lo scopo di sollecitare l'ascesa al trono napoletano di Carlo I d'Angiò. Dal 1265 al 1268 fu in Inghilterra con il cardinale Ottonano Fischi, futuro Adriano V; alla legazione in Inghilterra prese parte anche Tedaldo Visconti, il futuro Gregorio X La missione in Inghilterra fu, secondo molti storici, di grande significato per il futuro di Benedetto Caetani: in quel periodo, infatti, il Caetani e i suoi compagni furono imprigionati e rinchiusi nella Torre di Londra e ottennero la libertà solo grazie all'intervento del futuro re Edoardo I, per il quale, da quel momento, il Caetani manifesterà aperta simpatia, e da questo potrebbe certo essere derivata ostilità per lo storico avversario di Edoardo, Filippo IV di Francia, detto il Bello. Fu creato cardinale diacono, con titolo di San Nicola in Carcere, nel 1281 da Martino IV, all'età di circa cinquantuno anni.
Nel 1290 ebbe un grande rilievo la legazione svolta in Francia insieme al cardinale Gerardo Bianchi. Inviato da Niccolò IV presso la Chiesa gallica per dirimere un grave e annoso dissidio tra clero secolare e ordini religiosi, il Caetani mostrò determinazione, notevole competenza giuridica e beffarda eloquenza, che gli procurarono certamente successo, ma anche molte antipatie tra i francesi.
Nel 1291 fu consacrato sacerdote a Orvieto. Nello stesso anno cambiò titolo cardinalizio, optando per il titolo presbiterale dei Santi Silvestro e Martino ai Monti. Mantenne peraltro, come già aveva fatto in passato, i canonicati, le prebende e gli altri benefici che aveva man mano acquisito negli anni; riuscì in tal modo ad accumulare un ingentissimo patrimonio che, sommato con i beni già posseduti dai suoi familiari, fece diventare i Caetani una delle più potenti famiglie del suo tempo.
Durante il suo cardinalato Benedetto Caetani partecipò a 4 conclavi:
- conclave del 1285, che elesse papa Onorio IV
- conclave del 1287-1288, che elesse papa Niccolò IV
- conclave del 1292-1294, che elesse papa Celestino V
- conclave del 1294, dal quale venne eletto egli stesso
Il cardinale Benedetto Caetani fu certamente tra le figure più vicine a papa Celestino V nel momento in cui quest'ultimo meditava di rinunciare al soglio pontificio. Si favoleggiò, tra l'altro, che Celestino V, subito dopo l'elezione, avesse udito, nel silenzio della propria stanza, la voce di un angelo che, per ordine divino, lo invitava a rigettare la propria nomina pontificia; peraltro, occorre dire che il Caetani, essendo un profondo conoscitore del diritto canonico, offrì effettivamente la propria assistenza a Celestino V per trovare le necessarie ragioni legali per abbandonare il soglio di Pietro.
Celestino affidò al Caetani e a un altro cardinale, anch'egli notoriamente esperto di diritto canonico, Gerardo Bianchi, il quesito sulla legittimità dell'abdicazione per un papa: ne ebbe risposta positiva, cosicché emise la bolla Constitutionem, con la quale stabiliva che le norme da seguire per l'elezione di un nuovo pontefice, in caso di dimissioni, fossero le medesime indicate dalla Ubi Periculum nel caso di morte del papa, e tre giorni più tardi si dimise.
Contrariamente a quanto avvenuto spesso nel passato, il conclave successivo alla rinuncia di Celestino V fu radunato nella città di Napoli nei dieci giorni seguenti l'inizio della Sede vacante ed ebbe una durata molto breve. Tutto ciò fu dovuto alle disposizioni contenute nella costituzione apostolica Ubi Periculum sull'elezione pontificia, promulgata da papa Gregorio X (il piacentino Tedaldo Visconti), nel corso del XIV Concilio ecumenico tenutosi nella città di Lione (Concilio ecumenico lionese II) dal 7 maggio al 17 luglio 1274, sulla scorta dell'esperienza del celebre lunghissimo conclave viterbese che aveva portato proprio all'elezione di Gregorio X e nel corso del quale i cardinali erano stati pesantemente segregati.
La costituzione Ubi Periculum conteneva disposizioni molto precise, rigide e vincolanti per l'elezione papale, al fine di sottrarla ad ogni ingerenza che non fosse strettamente ecclesiastica. Prescriveva, infatti, l'obbligo del conclave per il Sacro Collegio, che avrebbe dovuto tenersi, obbligatoriamente, entro dieci giorni dall'inizio della Sede vacante, nella stessa città ove era scomparso il papa precedente. Passati i dieci giorni previsti, il Sacro collegio doveva essere segregato in conclave sotto la sorveglianza del Podestà, che diveniva il "custode del conclave". Inoltre, se entro tre giorni dall'apertura del conclave stesso il papa non fosse stato ancora eletto, si sarebbero dovute applicare norme gradualmente restrittive sui pasti e sul reddito dei porporati, fino a ridurli a pane e acqua.
Tutte queste disposizioni erano finalizzate non solo ad evitare che l'elezione del papa fosse condizionata dal popolo o dai nobili, ma anche ad impedire che l'elezione stessa si trasformasse in una lunga ed estenuante trattativa basata su operazioni di mercimonio, come frequentemente avveniva in quei tempi. La Ubi Periculum venne peraltro sospesa dopo soli due anni dalla sua promulgazione, nel luglio 1276, da papa Adriano V, su richiesta di diversi cardinali dopo alcune vessazioni patite - a opera di Carlo I d'Angiò - durante il conclave che aveva eletto lo stesso Adriano V, e quindi addirittura abrogata da papa Giovanni XXI, ma fu ripristinata quasi completamente da papa Celestino V, che voleva evitare le lungaggini e i problemi che avevano preceduto la sua elezione. Curiosamente, fu proprio Bonifacio VIII a inserire integralmente il testo della Ubi Periculum nel Liber sextus del Corpus iuris canonici nel 1298.
Appena dieci giorni dopo l'abdicazione di papa Celestino V, secondo quanto stabilito dalla Ubi Periculum, i componenti del Sacro Collegio si riunirono in conclave in Castel Nuovo, nella città di Napoli, il 23 dicembre 1294, per dare alla Chiesa il nuovo Pastore. Già il giorno successivo, vigilia di Natale, fu eletto papa, forse al terzo scrutinio, il cardinale Caetani, che fu poi incoronato nella basilica di San Pietro il 23 gennaio 1295 e assunse il nome pontificale di Bonifacio VIII. La scelta del nome rimandava a papa Bonifacio IV, il papa che aveva chiesto il permesso all'imperatore Foca di poter trasformare il Pantheon in una chiesa cristiana; ed esso divenne appunto il simbolo della Roma pagana divenuta cristiana: quindi tale scelta rivelava da parte di Bonifacio VIII sia un certo gusto per l'antichità, sia il desiderio di porsi simbolicamente al crocevia tra la Roma antica e la Roma cristiana. Aveva circa 64 anni.
Durante il papato di Bonifacio VIII e a partire dal 1295, Anagni diventò la base territoriale della famiglia Caetani, il centro solido e sicuro della propria signoria. Come primo atto del suo pontificato, dopo aver riportato la sede papale da Napoli a Roma per sottrarre l'istituzione all'influenza di re Carlo II d'Angiò, annullò o sospese tutte le decisioni assunte dal suo predecessore Celestino V, riconoscendo valida soltanto la creazione dei dodici nuovi cardinali. Immediatamente dopo, a causa dell'ostilità dei cardinali francesi, ebbe timore che il suo predecessore, Celestino, ritornato il semplice frate Pietro da Morrone, potesse essere cooptato dai porporati transalpini come antipapa; per evitare ciò, si rendeva necessario che il vecchio eremita rientrasse sotto il ferreo controllo del pontefice.
Bonifacio VIII, quindi, mentre Celestino tentava prima di tornare al suo eremo vicino a Sulmona, poi – sentitosi braccato – di fuggire verso la Grecia, lo fece arrestare da Carlo II d'Angiò, lo stesso monarca che pochi mesi prima ne aveva sostenuto l'elezione pontificia, e lo fece rinchiudere nella rocca di Fumone, di proprietà della famiglia Caetani, dove rimase fino alla morte. Nonostante si siano formulate varie ipotesi, non sembra che la morte di Celestino V sia stata violenta o, tanto meno, avvenuta per mano di Bonifacio VIII. Lo stato di detenzione voluto dal Caetani può tuttavia aver peggiorato la salute di un ottantasettenne già debilitato dalle fatiche dei precedenti mesi.
L'ampio foro rinvenuto sul cranio dell'eremita molisano sembra dovuto non a un chiodo conficcato a forza, ma a un ascesso cerebrale. Alla sua morte Bonifacio portò il lutto per lui, caso unico tra i papi, e celebrò una messa pubblica in suffragio per la sua anima. Poco dopo diede inizio al processo di canonizzazione, che fu accelerato e concluso pochi anni dopo da papa Clemente V su pressione del re di Francia Filippo IV il Bello e dei fedeli.
Scomparso così un potenziale antipapa come avrebbe potuto essere Celestino V, il primo atto politico cui egli dovette adempiere fu la risoluzione della controversia in corso tra gli angioini e gli aragonesi per il possesso della Sicilia; controversia che si protraeva dall'epoca dei Vespri siciliani, cioè dal 1282. A Napoli governava Carlo II d'Angiò detto lo Zoppo e in Sicilia Federico III d'Aragona, fratello di re Giacomo II che, a sua volta, era passato nel 1291 al trono d'Aragona. Il 12 giugno del 1295, sotto pressione del papa il quale sosteneva il monarca angioino, Giacomo II sottoscrisse il trattato di Anagni, con il quale rinunciava a tutti i diritti sulla Sicilia in favore del papa che, a sua volta, li trasferiva a Carlo lo Zoppo. In cambio il papa gli avrebbe tolto la scomunica e accordato la licentia invadendi, ossia il consenso papale a conquistare la Sardegna e la Corsica, dando inizio alla conquista aragonese della Sardegna. Il trattato fu fortemente osteggiato dalla nobiltà locale in Sicilia, dove la casa angioina era fortemente impopolare; tale risentimento si tradusse in una rivolta popolare a favore del re Federico d'Aragona. Il papa dovette acconsentire, incoronando Federico re di Sicilia nella cattedrale di Palermo il 25 marzo 1296. L'incoronazione fu sanzionata successivamente e definitivamente mediante la celebre pace di Caltabellotta, stipulata alla fine di agosto del 1302 tra Roberto d'Angiò, figlio di Carlo II, e Carlo di Valois da una parte e Federico III di Aragona dall'altra. L'accordo stabiliva la distinzione politica fra il Regno di Sicilia, in mano agli angioini e limitato alla parte continentale dell'Italia meridionale, creando di fatto il Regno di Napoli, e il Regno di Trinacria, costituito dalla Sicilia e dalle isole adiacenti, con Federico III d'Aragona come re indipendente e assoluto. Il trattato di pace prevedeva anche, tra l'altro, la riunificazione del Regno alla morte di Federico, e il ritorno dello stesso sotto gli angioini, cosa che peraltro non avvenne mai; furono, anzi, gli aragonesi a conquistare anche il Regno di Napoli nel 1442 con Alfonso V il magnanimo. Tale conclusione della vicenda siciliana fu per Bonifacio VIII una grande sconfitta politica, visto il forte sostegno che il papa cercò di dare al monarca angioino.
Questo fu soltanto il primo di vari insuccessi riportati da Bonifacio in politica estera, la cui causa comune doveva essere ricercata nell'idea che il pontefice aveva in merito al ruolo del papato nel contesto degli stati d'Europa che, sul finire del Medioevo, si stavano ormai trasformando in vere e proprie nazioni. Bonifacio VIII riteneva infatti, più di suoi predecessori che si erano già orientati in questo senso, come Gregorio VII, Innocenzo III e Gregorio IX, che l'autorità del papa fosse al di sopra del potere dei regnanti, i quali, come battezzati, erano sottoposti come gli altri fedeli alla Chiesa. All'interno di questa si collocava la cosiddetta Christianitas, ossia la comunità socio-politica dei popoli cristiani, i quali vivono nel tempo secondo gli insegnamenti della loro fede.
Tale comunità, meno estesa della Chiesa stessa, è per forza di cose sottoposta alla sua autorità, della quale è parte integrante, anche se distinta e separata. Il capo naturale della Chiesa, cioè il papa, era perciò anche il capo della cristianità; data la concezione gerarchica del potere nel medioevo, ne derivava che quello spirituale potesse indirizzare e guidare il temporale in qualunque questione che implicasse il bene delle anime o la prevenzione e la repressione del peccato. È questa la concezione detta generalmente teocrazia pontificia, ma che più tecnicamente può essere considerata una ierocrazia, ossia un governo basato sulla "sacralità del potere", cioè sui presbiteri. Fino a quel momento il Papato - o, come si legge nella trattatistica medievale, il Sacerdotium - aveva lottato, per l'egemonia sulla Christianitas, con l'unico altro potere universale che avrebbe potuto contrastarlo, l'Impero, tecnicamente Imperium.
Avendolo espulso dalla sfera sacrale (in cui era dai tempi di Costantino), degradandolo di fatto a un'istituzione profana (anche se bisognosa della consacrazione religiosa per esercitare il suo potere), ora il Papato aveva come avversario l'autorità regia dei singoli stati sovrani, la regalis potestas. L'idea bonifaciana non era dunque nuova, ma nuovo era l'ambito di applicazione. Tra i teologi che maggiormente sostennero l'idea teocratica di Bonifacio vi furono i due studiosi agostiniani Egidio Romano e Giacomo da Viterbo: quest'ultimo, in particolare, con il suo trattato De regimine christiano -considerato il primo trattato sistematico sulla Chiesa- approfondì e sostenne i temi del potere temporale e del papato inteso come teocrazia.
La volontà del pontefice su questo argomento non riuscì mai, peraltro, a realizzarsi concretamente, aprendo viceversa la strada a lotte per il potere che proseguirono, in maniera pressoché ininterrotta, nei secoli successivi, vedendo impegnati di volta in volta pontefici e sovrani, mediante l'ingerenza di quelli negli affari di stato di questi e di questi negli affari ecclesiastici di quelli. Il primo atto ufficiale di Bonifacio avvenne con l'emanazione della bolla Clericis laicos, il 24 febbraio 1296, mediante la quale il papa ribadiva la proibizione ai laici, sotto la pena di scomunica, di tassare gli ecclesiastici, e a questi ultimi di pagare i tributi eventualmente richiesti, con sanzioni identiche per entrambi in caso di violazione del divieto.
Infatti, durante la sede vacante del 1292-1294, tale norma era stata violata in Francia e Inghilterra. Era il segnale di una rinnovata vigilanza in difesa delle prerogative sovra-nazionali della Chiesa. Il re di Germania Adolfo di Nassau - Vilburgo, candidato alla nomina imperiale, non si oppose per motivi di opportunità. Egli, infatti, mirava alla corona imperiale, per cui aveva bisogno dell'incoronazione papale. Anche in Inghilterra re Edoardo I Plantageneto, benché tendenzialmente contrario, dovette accettare formalmente il rifiuto dei vescovi al pagamento delle imposte, riservandosi di esercitare la propria autorità fiscale in base alle circostanze. La Francia assunse, invece, una posizione molto diversa. Il re Filippo IV non respinse la bolla papale (altrimenti sarebbe incorso nella scomunica latae sententiae), ma emise una serie di editti nei quali vietava a chiunque, laico o ecclesiastico che fosse, l'esportazione di denaro e preziosi. In questo modo le rendite percepite dalla Santa Sede in Francia, la nazione più ricca dell'Occidente, non sarebbero state consegnate a Roma. La mossa di re Filippo fu talmente astuta che il papa si vide costretto ad addivenire a un accordo, autorizzando il re francese a riscuotere le imposte dal clero, in caso di estrema necessità, anche senza la preventiva autorizzazione pontificia.
Il cedimento del papa di fronte alla ferma opposizione del re di Francia trovava peraltro la sua causa recondita in una riduzione dell'autorità del papa stesso proprio all'interno della Santa Sede. Infatti, a causa del suo atteggiamento arrogante e accentratore, il pontefice aveva provocato l'insorgere di uno schieramento a lui ostile, sia nella Curia che nell'aristocrazia romana. Questo schieramento era capeggiato dai cardinali Giacomo Colonna e Pietro Colonna, appartenenti alla famiglia romana dei Colonna - acerrima nemica della famiglia dei Caetani - i quali sostennero che la sua elezione era da ritenere "illegittima" poiché non doveva essere considerata valida l'abdicazione di papa Celestino V. Questa posizione, che poteva preludere a un possibile scisma, era fortemente appoggiata anche da tutto il movimento dei Francescani spirituali, i quali avevano in quel momento la loro espressione più alta nelle somme laudi di Jacopone da Todi che, a sua volta, definì il pontefice "novello anticristo".
La perdita di potere interno aveva, quindi, indotto il pontefice a essere più tollerante verso le resistenze di Filippo IV. Ai "Francescani spirituali" si aggregarono, contro Bonifacio, anche i Celestini: l'insieme di questi due gruppi di religiosi prese il nome di "Bizochi". La lotta all'interno delle istituzioni ecclesiastiche toccò il suo culmine nei primi giorni del maggio 1297, quando i due Colonna, alcuni loro familiari e amici e tre "Francescani spirituali" sottoscrissero un memoriale, il cosiddetto manifesto di Lunghezza, con il quale il papa veniva dichiarato decaduto, sempre a causa della sua illegittima elezione, con espresso invito ai fedeli a non portargli più obbedienza.
La durissima reazione del pontefice non si fece attendere: i due cardinali furono destituiti con la bolla In excelso throno del 10 maggio 1297, che evidenziava anche il disprezzo dell'intera famiglia Colonna verso le cose altrui, nonché i loro comportamenti superbi e oltraggiosi che, di conseguenza, meritavano addirittura la cancellazione dell'intera famiglia. Pochi giorni più tardi, dopo una risentita replica dei Colonna, Bonifacio promulgò la bolla Lapis abscissus (23 maggio), con la quale i due cardinali venivano scomunicati (fatto ritenuto di inaudita gravità) e i beni di famiglia confiscati. Si aprì così una vera e propria "guerra" tra il papa e i Colonna, nella quale questi ultimi speravano in un intervento del re di Francia in loro sostegno, cosa che non avvenne, in quanto il sovrano francese proprio in quel periodo stava perfezionando gli accordi con il pontefice per risolvere definitivamente il grave problema dei tributi agli ecclesiastici in Francia, motivo per cui - in quel particolare momento - Filippo il Bello non desiderava ulteriori contrasti con Bonifacio.
Le cronache dell'epoca riferiscono che, dopo lunghe trattative, condotte soprattutto attraverso la mediazione del cardinale Giovanni Boccamazza, molto vicino ai due Colonna, questi ultimi, nel settembre del 1298, si recarono al cospetto del papa, nella città di Rieti, nelle vesti di umili penitenti, in abiti da lutto, a piedi nudi, con la corda al collo e la testa scoperta. Chiedendo perdono e sottomettendosi all'autorità pontificia, riconobbero la piena legittimità di Bonifacio quale unico vero pontefice della Chiesa cattolica. Il papa accolse con benevolenza le dichiarazioni di contrizione dei Colonna e accordò loro il suo perdono, non senza aver prima preteso che i due cardinali restituissero i loro sigilli che furono debitamente distrutti. Inoltre tutta la famiglia fu inviata al soggiorno obbligato nella città di Tivoli, in attesa delle decisioni definitive del pontefice.
La tregua tra Bonifacio e i Colonna fu peraltro di durata assai breve, tant'è che il tribunale dell'Inquisizione della città di Bologna, facendo seguito a una decisione del pontefice, datata 12 aprile 1299, ordinò la confisca del palazzo del cardinale Giacomo Colonna. Di fatto, la conflittualità tra il papa e i suoi avversari non si attenuò in alcun modo e i Colonna, alla fine, dovettero riparare in Francia. Nel corso dei negoziati che avevano preceduto l'atto di sottomissione dei Colonna al papa in Rieti, era stato stabilito, tra l'altro, che la città di Palestrina, fulcro e roccaforte dei possedimenti dei Colonna, entrasse nel pieno possesso del papa. Non appena però il papa entrò nel possesso materiale della città, diede ordine di distruggerla e la fece radere al suolo completamente nella primavera del 1299: egli fece passare l'aratro su tutto il territorio della città, ne fece cospargere il suolo di sale e ne fece perfino cancellare il nome, trasferendo la popolazione in una nuova città più a valle, denominata "Città Papale".
La motivazione del suo gesto è contenuta in una lettera datata 13 giugno 1299, nella quale il papa così si espresse: «...perché non vi resti nulla, nemmeno la qualifica o il nome di città». La distruzione della città ebbe come conseguenza anche la perdita del privilegio di essere una delle sette diocesi suburbicarie di Roma, che venne trasferito alla nuova città. Da notare che, proprio durante la distruzione di Palestrina, fu fatto prigioniero Jacopone da Todi, che si era rifugiato nella città e che scontò la sua storica avversità per Bonifacio con cinque anni di "carcere duro", oltre alla scomunica.
Lo sbigottimento degli storici davanti al comportamento tanto feroce di un pontefice contro un'intera città, che, per di più, era stata consegnata a lui dopo un negoziato, è espresso molto bene dal Gregorovius, che parla di vero «odio del papa contro i ribelli», di un «diluvio d'ira» e di una «folgore» che «schiantò realmente una delle città più antiche d'Italia», paragonando le terribili distruzioni operate da Bonifacio con le demolizioni e gli eccidi attuati da Lucio Cornelio Silla nell'82 a.C. contro la stessa città, allora chiamata Praeneste: il papa voleva così distruggere una stirpe, quella dei Colonna, che considerava "tirannica".
A conclusione della contesa con i Colonna, i due porporati, come sopra accennato, dovettero riparare in Francia sotto la protezione di Filippo il Bello, e i loro beni furono confiscati e divisi tra un ramo dei Colonna vicino al papa e la famiglia degli Orsini, anch'essi acerrimi nemici dei Colonna. Il 3 ottobre 1299 papa Bonifacio accettò dal libero comune di Velletri l'elezione a podestà per una legislatura (6 mesi), sia perché il comune di Velletri, da sempre fedele ai papi, aveva un rapporto di amicizia con Bonifacio, che da giovane aveva studiato per un certo periodo in questa città, sia perché la stessa Velletri doveva difendersi dai nobili (soprattutto dai Colonna) che la volevano sottomettere, e avere Bonifacio come podestà, oltre ad essere un motivo d'orgoglio, era anche un'ottima alleanza e un valido deterrente per i nemici; lo stesso valeva per Bonifacio, che poteva così contare sull'alleanza di un comune agguerrito e forte come quello di Velletri.
Uno dei più importanti successi del pontificato di Bonifacio fu senz'altro l'istituzione del Giubileo. Sul finire del 1299 moltissimi pellegrini si erano radunati a Roma, spinti da un vero e proprio "moto popolare spontaneo", che rendeva pieno di grandi aspettative il secolo che stava per iniziare. Prendendo così spunto da questa vasta iniziativa spontanea e ispirandosi sia alla leggenda dell'"Indulgenza dei Cent'anni", risalente almeno a papa Innocenzo III, che alla Perdonanza, voluta dal suo predecessore Celestino V, Bonifacio istituì l'Anno Santo, nel quale potevano lucrare l'indulgenza plenaria tutti i fedeli che avessero fatto visita alle basiliche di San Pietro e San Paolo fuori le mura. L'Anno Santo fu formalmente indetto il 22 febbraio 1300, con la bolla Antiquorum habet fida relatio, ma con indulgenze retroattive al 24 dicembre 1299; nella bolla era anche stabilito che l'Anno Santo si sarebbe ripetuto, in futuro, ogni cento anni. Il Giubileo ebbe un grande successo e l'afflusso di pellegrini a Roma fu enorme (il Villani parla di 300.000 pellegrini). A parte la diffusa e sentita necessità di "indulgenza" in quel periodo (anche la partecipazione alle crociate offriva questo stesso beneficio), l'arrivo dei pellegrini a Roma da tutto il mondo, oltre a significare un notevole apporto di denaro, esaltava la magnificenza della Città Eterna e consolidava il primato e il prestigio del pontefice.
Secondo molti storici, il Giubileo rappresentò per il papa «una breve ma felice parentesi di pace», che gli permise, tra l'altro, di rimpinguare le finanze pontificie. Il papa però non ricevette l'omaggio dei sovrani d'Europa e questo fu per lui motivo di grande delusione. Le assenze dei regnanti volevano in qualche modo significare che la sua aspirazione di riunire nelle sue mani sia il potere spirituale che quello temporale era probabilmente soltanto un'illusione. Nell'anno giubilare, Bonifacio VIII diede il beneplacito a Carlo II d'Angiò per l'eliminazione dell'ultima roccaforte islamica presente sul suo Regno, Luceria saracenorum, in arabo Lugarah. A metà agosto del 1300, Carlo organizzò una crociata contro il ricco e popoloso insediamento musulmano di Lucera, vista per lui anche come occasione per poter saldare i vari debiti con i banchieri fiorentini grazie alle ricchezze della città. Lucera, dopo un breve e astuto assedio condotto da Giovanni Pipino da Barletta, venne distrutta tra il 15 e il 25 agosto 1300: le mura e le moschee furono abbattute, la città venne completamente razziata e numerosissimi musulmani, uomini, donne e bambini, vennero trucidati, mentre circa 10.000 dei sopravvissuti furono incatenati e venduti al mercato degli schiavi o costretti a convertirsi al cristianesimo. La vittoria sui saraceni comportò il cambiamento di nome alla città, che Carlo ribattezzò "Civitas Sanctae Mariae" e in pochissimo tempo il borgo fu ripopolato di cristiani da ogni parte del regno.
In quegli stessi anni esplose con violenza la diatriba fiorentina tra le due parti della città, storicamente e tradizionalmente guelfa, ma divisa tra la famiglia dei Cerchi, di recente ricchezza commerciale e finanziaria, e quella dei Donati, di antica nobiltà oligarchica. I Cerchi furono identificati con i Bianchi e i Donati con i Neri. La controversia fra le due parti fu durissima e senza esclusione di colpi: il 18 aprile 1300 tre fiorentini residenti alla corte pontificia furono condannati per "alto tradimento"; il papa intervenne subito in loro difesa e inviò in città, anche dopo i gravi disordini di Calendimaggio del 1300, il cardinale Matteo d'Acquasparta, con poteri molto ampi. Peraltro il cardinale non ottenne i risultati sperati dal pontefice e fu, anzi, costretto, dopo un grave attentato alla sua persona, a lasciare Firenze, decretando la scomunica contro i maggiorenti cittadini e l'interdetto contro l'intera città. Bonifacio decise allora di mandare a Firenze Carlo di Valois, già accolto in Italia con grandi onori, che fu nominato, tra l'altro, "paciere" di Toscana, e intervenne nella città, con i suoi numerosi armati e con grande determinazione, tra il novembre 1301 e l'aprile 1302, portando alla supremazia della parte Nera (Donati), maggiormente gradita al pontefice.
Nello stesso periodo Dante Alighieri, che apparteneva alla parte Bianca e ricopriva importanti incarichi di governo nella città, si trovò più volte in contrasto con il papa: agli inizi del 1302 Dante venne inviato a Roma con un'ambasceria per trovare un accordo con Bonifacio, ma fu trattenuto presso la corte papale -anche con pretesti- per lunghissimo tempo, forse per ordine del pontefice, mentre, in quello stesso periodo, il nuovo podestà di Firenze, Cante Gabrielli, lo condannava al rogo e alla perdita delle proprietà. Dante, di fatto esiliato, non rientrò mai più in Firenze e maturò una forte avversione per il pontefice, che riteneva responsabile della sua disgrazia. Vi erano stati, nel frattempo, profondi cambiamenti nella situazione della Germania, ove vi era un nuovo Re dei Romani nella persona di Alberto I d'Asburgo, che aveva affrontato in battaglia Adolfo di Nassau, sconfiggendolo e uccidendolo. Il nuovo re tedesco aveva incontrato quasi subito Filippo IV nei pressi di Vaucouleurs, stringendo un accordo con lui (dicembre 1299). Questa alleanza contrastava con i desideri del papa che, da un lato, intendeva sottrarre la Chiesa francese al controllo di re Filippo e, dall'altro, temeva fortemente una ripresa delle mire dell'imperatore tedesco sull'Italia, mire che erano cessate con la fine della casa di Svevia nel 1266. Bonifacio VIII invitò allora il nuovo Re dei Romani a comparire alla sua presenza in Roma, ma Alberto d'Asburgo, anziché andare personalmente, inviò presso il pontefice un'ambasceria della quale, d'intesa con Filippo il Bello, facevano parte, oltre agli emissari tedeschi, anche alcuni giuristi francesi e un banchiere fiorentino amico del re di Francia. La cosa, ovviamente, irritò e preoccupò notevolmente Bonifacio VIII, anche perché Filippo, pochi mesi prima (luglio 1299), aveva accolto presso la sua corte i Colonna. Giungevano inoltre dalla Francia ulteriori allarmanti notizie sia di pesantissime tassazioni imposte dalla corona a molti ecclesiastici, sia di continui soprusi del re nella zona delle Fiandre: tutto ciò indicava con evidenza come il sovrano francese si stesse preparando ad un nuovo conflitto con il papa.
Si intrecciò con questi dissidi politici una vicenda più squisitamente religiosa, che acuì ulteriormente la crisi tra Bonifacio e Filippo IV di Francia: da diversi anni il papa era il "protettore", stimandolo grandemente, dell'abate francese Bernard Saisset, titolare dell'abbazia di Saint-Antonin, che a sua volta vantava storicamente importanti diritti sulla città di Pamiers. Usurpando tali diritti, nel marzo 1298 il conte Ruggero Bernardo IV di Foix si impadronì della città; la reazione del pontefice fu energica e rapida: scrisse al re una dura lettera in cui lo rimproverava per la sua inattività nella vicenda, minacciò di scomunica il conte e, finalmente, eresse a diocesi la città di Pamiers, nominandone vescovo proprio il Saisset. Per qualche tempo il re non reagì; poi, stimolato anche dal conte di Foix, nell'ottobre 1301 fece arrestare il Saisset con l'accusa di alto tradimento, confiscandogli anche il patrimonio.
La risposta di Bonifacio VIII non si fece attendere e giunse il 4 dicembre 1301 con la bolla Salvator Mundi, mediante la quale il papa abolì tutti i privilegi che egli aveva concesso a re Filippo allorquando lo aveva autorizzato a imporre le imposte agli ecclesiastici anche senza il consenso papale. Il giorno successivo il pontefice pubblicò una nuova bolla, la ben nota Ausculta fili, documento di grande vigore che rappresenta forse la summa degli ideali di Bonifacio sui rapporti tra papato e potere politico; in questa bolla convocò l'episcopato francese e lo stesso re a un sinodo, da tenersi a Roma l'anno seguente, al fine di definire una volta e per sempre i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, facendo intendere, a chiare lettere e con il supporto di molte citazioni bibliche, che il papa era l'autorità suprema, cui dovevano sottomettersi anche i sovrani, senza eccezione alcuna, e che solo al papa tutti dovevano rendere conto dei propri atti, sovrani compresi. Questo atteggiamento autoritario del pontefice, manifestato nelle citate bolle del 4 e, soprattutto, del 5 dicembre 1301, provocò l'immediata reazione di Filippo IV, il quale fece bruciare in segreto le due bolle e divulgò in Francia una versione ridotta e artatamente manipolata della Ausculta fili, dal falso titolo Deum time (o Scire te volumus), nella quale venivano adattate, in modo tendenziosamente peggiorativo, le parole del papa, con lo scopo evidente di suscitare indignazione e ostilità nei confronti di Bonifacio, cosa che in effetti avvenne.
Lo scopo che il re si era prefisso fu raggiunto nel corso degli Stati Generali, riuniti a Parigi per la prima volta da Filippo il 10 aprile del 1302, quando egli ottenne l'approvazione unanime dell'assemblea alla stesura di una lettera indirizzata al papa, nella quale veniva stigmatizzata e fermamente respinta la posizione del pontefice, ritenuta offensiva e addirittura ingiuriosa nei confronti del re e della stessa Francia. Il re inoltre proibì ai vescovi francesi di recarsi a Roma per il sinodo. Nel corso del sinodo, al quale parteciparono trentanove vescovi francesi nonostante il divieto di Filippo il Bello, il 18 novembre 1302 Bonifacio VIII emanò la celebre bolla Unam Sanctam, nella quale veniva ribadito dogmaticamente il seguente concetto: «…nella potestà della Chiesa sono distinte due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa, quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote [...], la potestà spirituale deve ordinare e giudicare la potestà temporale [...], chi si oppone a questa suprema potestà spirituale, esercitata da un uomo ma derivata da Dio, nella promessa di Pietro, si oppone a Dio stesso. È quindi necessario per ogni uomo che desidera la sua salvezza assoggettarsi al vescovo di Roma». Ciò stava a significare la supremazia del potere spirituale su quello temporale: in caso di inosservanza di quanto decretato dal papa, la pena era la scomunica.
La bolla ebbe certamente i contributi di alcuni grandi teologi dell'epoca, tra cui il cardinale francescano Matteo d'Acquasparta e i due agostiniani Egidio Romano e Giacomo da Viterbo; in essa viene lucidamente sintetizzato e completato il pensiero teocratico espresso da Bonifacio VIII molte volte negli anni precedenti: a una prima parte, in cui si espone concretamente la stessa natura unitaria della Chiesa, fa seguito una seconda parte, nella quale si dice che solo al papa vanno attribuiti i pieni poteri, la cosiddetta plenitudo potestatis. Ne consegue, come sopra meglio precisato, il simbolo delle due spade, per cui tutta la cristianità è sotto il controllo del papa,«fonte e regola di ogni potere sulla terra».
La reazione di Filippo IV fu estremamente determinata e decisa anche questa volta, ma con scopi definitivi: infatti il suo obiettivo finale era ormai quello di mettere sotto processo il papa, invalidarne l'elezione, accusarlo di eresia, simonia e molte altre colpe, e procedere infine alla sua deposizione. In ciò gli furono molto utili le testimonianze dei Colonna, che erano stati scomunicati da papa Bonifacio e si trovavano ancora sotto la protezione del re. La decisione di processare il papa fu adottata da Filippo nel corso di una riunione del Consiglio di Stato da lui convocata al Louvre il 12 marzo 1303. Occorreva però la presenza del pontefice al processo. A tal fine il sovrano incaricò il Consigliere di Stato Guglielmo di Nogaret di catturare il papa e condurlo a Parigi. Il pontefice, venuto a conoscenza delle manovre del re, tentò di correre ai ripari. Prima inviò una lettera di scomunica al sovrano, che peraltro non sortì alcun effetto, poi cercò di guadagnare l'amicizia del Re dei Romani, Alberto I d'Asburgo, sottraendolo all'alleanza con il re di Francia. Convocò a tal fine un Concistoro per il 30 aprile del 1303, nel quale riconobbe Alberto ufficialmente come re di Germania, nonché "Sovrano di tutti i Sovrani", con la promessa dell'incoronazione imperiale in un futuro vicinissimo. Tutto ciò in cambio della difesa della persona del papa contro tutti i suoi avversari. Gli eventi successivi resero di fatto irrealizzabili questi propositi. Venuto a conoscenza che Alberto d'Asburgo era stato riconosciuto dal papa re di Germania e temendo di averne perso l'alleanza, re Filippo cercò di accelerare i tempi per la messa in stato di accusa del papa, convocando una nuova assemblea degli Stati Generali, al Louvre, nel mese di giugno, con lo scopo di avviare un'istruttoria che preparasse il processo al pontefice. Poiché il Consigliere di Stato Guglielmo di Nogaret era assente, in quanto si trovava in missione verso Roma, la pubblica accusa fu affidata ad un altro Consigliere di Stato, Guglielmo di Plaisians.
Numerose furono le accuse formulate verso il Caetani al Louvre il 14 giugno. Innanzi tutto quella di aver fatto assassinare il suo predecessore Pietro da Morrone, già papa Celestino V. Fu accusato poi di negare l'immortalità dell'anima e di aver autorizzato alcuni sacerdoti alla violazione del segreto confessionale. Fu accusato, infine, di simonia, di sodomia, di eresia e di molte altre colpe[54]. Sulla base di queste accuse, il re propose di convocare un concilio per la destituzione del pontefice e la sua proposta fu approvata anche dalla quasi totalità del clero francese. Papa Bonifacio, messo al corrente di questi ultimi avvenimenti, preparò una nuova bolla di scomunica contro il re di Francia, la Super Petri solio, che peraltro non ebbe il tempo di promulgare, poiché il Nogaret, insieme a tutta la famiglia Colonna, capeggiata da Sciarra Colonna, organizzò una congiura contro di lui, cui aderirono parte della borghesia di Anagni e molti componenti del Sacro Collegio cardinalizio. All'inizio di settembre del 1303 il Nogaret e Sciarra Colonna, entrati indisturbati in Anagni, riuscirono a catturare il papa dopo un assalto al palazzo pontificio (l'antico episcopio addossato alla cattedrale, oggi non più esistente) e per tre giorni Bonifacio restò nelle mani dei due congiurati, che non risparmiarono ingiurie alla persona del pontefice (l'episodio è noto come lo schiaffo di Anagni, anche se secondo alcuni il papa non sarebbe stato colpito fisicamente, ma pesantemente umiliato. Le numerose ingiurie inferte al papa, unitamente al contrasto tra il Nogaret e il Colonna sul destino del Caetani, che li rese dubbiosi e indecisi (il primo lo voleva infatti prigioniero a Parigi, il secondo lo voleva morto), indussero la città di Anagni a rivoltarsi contro i congiurati e a prendere le difese del papa concittadino. Vi fu pertanto un'inversione di rotta da parte della borghesia di Anagni, che mise in fuga i congiurati e liberò il papa, guadagnandosi la sua benedizione e il suo perdono.
Bonifacio rientrò a Roma il 25 settembre sotto la protezione degli Orsini. Aveva, però, perduto l'immagine del grande e potente pontefice che si era illuso di essere ed era fiaccato anche nel fisico per le molte sofferenze dovute alla gotta e, soprattutto, alla calcolosi renale che lo affliggeva da anni. Per curarsi si era rivolto persino al celebre medico Anselmo d'Incisa, originario di Boasi a Genova, a cui chiese aiuto anche il re di Francia Filippo IV. Morì l'11 ottobre del 1303 e fu sepolto nella basilica di San Pietro, nella cappella appositamente costruita da Arnolfo di Cambio, rivestito da sontuosi paramenti sacri, con una splendida mitra e un anello preziosissimo all'anulare destro. Attualmente non vi è traccia alcuna di questa cappella, che venne distrutta in occasione della edificazione della nuova basilica avvenuta per mano del Bramante prima e di Michelangelo poi. Le spoglie del pontefice, invece, furono sistemate nelle Grotte Vaticane, dove si trovano tuttora, nel bel sarcofago funerario realizzato da Arnolfo di Cambio.
Come sopra precisato, Filippo il Bello tenne, al Louvre, una prima riunione del Consiglio di Stato il 12 marzo 1303 per decidere e preparare il processo contro il pontefice, con la determinante collaborazione di Guglielmo di Nogaret. In una successiva riunione dello stesso Consiglio, tenutasi sempre al Louvre il 13 e 14 giugno dello stesso anno, il processo venne formalmente istruito con la formulazione delle accuse contro Bonifacio VIII, che furono puntualizzate dal consigliere Guglielmo di Plaisians, visto che il Nogaret si trovava in Italia probabilmente per condurre il papa al processo. Secondo quanto precedentemente specificato, i capi d'accusa contro il papa furono ben ventotto o addirittura ventinove: si passava da accuse gravissime, come eresia, idolatria, simonia, sodomia, omicidio, ad altre sconcertanti e problematiche, come magia, demonolatria, stregoneria, fino ad altre ancora, onestamente risibili, come avere "avvilito la dignità dei cardinali", "perseguitato gli ordini mendicanti", "tentato di far fallire la pace di Caltabellotta" e molte altre ancora. In realtà, in questa fase, lo scopo di Filippo era quello di neutralizzare il pontefice, con la sua abdicazione o deposizione, che, comunque, avrebbe dovuto essere decretata da un concilio. Dopo la morte di Bonifacio la situazione cambiò radicalmente, ma il re, anziché fermare il processo, capì che, continuandolo, avrebbe avuto in mano un'arma pesantissima contro il papato; così, qualche tempo dopo, le vicende del processo finirono per intrecciarsi strettamente con le vicende di papa Clemente V, che era stato eletto al soglio pontificio il 5 giugno 1305, al termine del lungo conclave perugino seguito alla morte di papa Benedetto XI, successore per soli otto mesi di Bonifacio VIII. Clemente V, che era francese e aveva trasferito in Francia la curia pontificia, finì per aderire alle incessanti pressioni di Filippo il Bello e riprese il processo contro Bonifacio tra il 1310 e il 1313, anno in cui riuscì a concludere il processo stesso senza che il defunto pontefice venisse condannato, pagando peraltro al re francese, per questo compromesso, un pesante tributo in termini di concessioni: furono infatti annullate tutte le sentenze di Bonifacio contro Filippo, contro la Francia e contro i Colonna; furono assolti da ogni accusa gli autori dell'oltraggio di Anagni; fu infine proclamato, con il decreto papale Rex gloriae virtutum, che, nelle azioni contro Bonifacio, il re di Francia era stato mosso da «zelo e giustizia». Per inciso, in quegli stessi anni Filippo otterrà da Clemente V anche la soppressione dell'Ordine dei Templari, dei cui ingentissimi beni il sovrano francese riuscirà ad impadronirsi.

Eugenio Caruso - 26 - 11 - 2021

LOGO


Tratto da

1

www.impresaoggi.com