Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
IL GIUDIZIO DI PARIDE DI PETER PAUL RUBENS. ( Da questo episodio nasce tutta la storia narrata da Omero)
L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”. Le varie edizioni non erano probabilmente molto discordanti tra di loro.
Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine.
L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini.
Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò.
Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi.
Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto.
Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana.
Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C.
L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente.
Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo.
L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti.
L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto.
L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future.
Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane.
Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari. Nel racconto Omero da buon greco parteggia palesemente per i greci; basti notare che quando il grande eroe troiano Ettore entra in battaglia, spesso, o scappa o è aiutato da Apollo.
Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti. . Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlava di un uomo cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende riguardanti Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le tematiche che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.
In realtà non sono proprio grandi eroi; le loro vicende sono spesso stimolate, incoraggiate o scoraggiate dall'intervento degli dei dell'Olimpo. Questi si presentano spesso sotto false sembianze, infondono forza e coraggio entrando nei corpi del proprio campione, atterriscono l'avversario con immagini spaventose, deviano le lance o le saette che colpisconi il proprio protetto.
Devo infine ricordare che l'Iliade è un vorticoso turbinio di miti che illudono, affascinano e appassionano (in alcuni casi ci rendono emotivamente partecipi alle vocende), ma la storia e la filologia ci insegnano che in molti miti può quasi sempre esservi un'ombra di verità; si pernsi a esempio ai miti di Medea, Edipo, Ulisse .... .
Patroclo e Briseide. Affresco pompeiano
RIASSUNTO XXII LIBRO
Essendosi i Troiani rinchiusi nella città, il solo Ettore rimane sotto le mura ad attendere Achille il piè veloce. Timore e parole di Priamo e di Ecuba. Ettore si pone in fuga alla vista d’Achille, che, riconosciuto l'inganno di Apollo, ritorna verso Troia. Giove pesa le sorti dei due capitani. Minerva sotto la figura di Deifobo instiga Ettore a cimentarsi con Achille. Combattimento degli eroi. Ettore, ferito a morte, supplica il nemico di rendere il suo cadavere ai genitori. Dura risposta di Achille. Parole e morte di Ettore; eppure nonostante Achille fosse supoeriore a Ettore, ancora interviene Minerva ad aiutare Achille nell'uccidere Ettore. Insulti d’Achille sull’estinto e vana baldanza dei Greci. Achille dispogliato il cadavere e legatolo dietro il suo cocchio, lo fa girare intorno alle mura della città. Costernazione e lamenti di Ecuba, di Priamo e d'Andromaca.
Ade il dio degli inferi e Cerbero, il cane con tre teste
TESTO LIBRO XXII
Così, quai cervi paurosi, i Teucri
Nella città fuggían confusamente,
E davano appoggiati agli alti merli
Al sudor refrigerio e alla sete,
Mentre gli Achei con inclinati scudi 5
Si fan sotto alle mura. Ma la Parca
Dinanzi ad Ilio su le porte Scee
Rattenne immoto, come stretto in ceppi,
Lo sventurato Ettór. Fece ad Achille
L’arciero Apollo allor queste parole: 10
""Perchè mortale un Immortal persegui,
O figlio di Peléo? Non anco avvisi,
Cieco furente, che un Celeste io sono?
Dei fugati Troiani e nel riparo
D’Ilio già chiusi ogni pensier ponesti, 15
E qua svïasti il tuo furor. Che speri?
Uccidermi? Son nume."" - ""E nume infesto,
E di tutti il peggior (rispose acceso
Di grand’ira il Pelíde). A questa parte
M’hai devïato dalle mura, e tolto 20
Che molti, prima d’arrivar là dentro,
Mordessero la polve. Ah mi rapisti
Un gran vanto, e quei vili in salvo hai messo
Perchè non temi la vendetta mia;
Ma la farei ben io, se la potessi."" 25
Tacque, e drizzossi alla città volgendo
Terribili pensieri, e il piè movea
Rapido come vincitor de’ ludi
Animoso destrier che per l’arena
Fa le ruote volar. Primo lo vide 30
Precipitoso correre pel campo
Príamo, e da lungi folgorar, siccome
L’astro che cane d’Orïon s’appella,
E precorre l’Autunno: scintillanti
Fra numerose stelle in densa notte 35
Manda i suoi raggi; splendissim’astro,
Ma luttuoso e di cocenti morbi
Ai miseri mortali apportatore.
Tal del volante eroe sul vasto petto
Splendean l’armi. Ululava, e colle mani 40
Alto levate si battea la fronte
Il buon vecchio, e chiamava a tutta voce
L’amato figlio supplicando: e questi
Fermo innanzi alle porte altro non ode
Che il desío di pugnar col suo nemico. 45
Allor le palme il misero gli stese,
E questi profferì pietosi accenti:
""Mio diletto figliuolo, Ettore mio,
Deh lontano da’ tuoi da solo a solo
Non affrontar costui che di fortezza 50
D’assai t’è sopra. Oh fosse in odio il crudo
Agli Dei quanto a me! Pasto di belve
Ei giacería qui steso (e del mio petto
Avría fine l’angoscia), ei che di tanti
Orbo mi fece valorosi figli, 55
Quale ucciso, qual tratto alle remote
Rive e venduto. E or fra i qui rinchiusi
Teucri i due figli, ahi lasso! ancor non veggo,
Che l’esimia consorte Laotóe
A me produsse, Polidoro io dico 60
E Licaon. Se prigionieri ei sono,
Con auro e bronzo ne farem riscatto,
Ch’io n’ho molte conserve, e molto avere
Diè l’egregio vegliardo Alte alla figlia.
Se poi ne’ regni già passâr di Pluto, 65
Alto sarà su la lor morte il pianto
Della madre e il mio, ma brevi i lutti
Del popolo, ove spento tu non cada
Dal Pelíde, tu pur. Rïentra adunque,
Mio dolce figlio, nelle mura, e i Teucri 70
Conservane e le spose. Al diro Achille
Non lasciar sì gran lode: abbi pensiero
Della cara tua vita, abbi pietade
Di me meschino a cui non tolse ancora
La sventura il sentir, di me che misi 75
Già nelle soglie di vecchiezza il piede,
Dall’alta condannato ira di Giove
Di ria morte a perir, vista di mali
Prima ogni faccia, trucidati i figli,
Rapite le fanciulle, i casti letti 80
Contaminati, crudelmente infranti
Contro terra i bambini, e strascinate
Dall’empio braccio degli Achei, le nuore.
E ultimo me pur su le regali
Porte trafitto e spoglia abbandonata 85
Voraci i cani sbraneran, que’ cani
Che custodi io nudría del regio tetto
Alla mia mensa io stesso; e allor da ingorda
Rabbia sospinti disputar vedransi
Il mio sangue; e di questo alfin satolli 90
Ne’ portici sdraiarsi. Ah, bello è in campo
Del giovine il morir! Coperto il petto
D’onorate ferite, onta non avvi,
Non offesa che morto il disonesti.
Ma che ludibrio sia degli affamati 95
Mastini il capo venerando e il bianco
Mento d’un veglio indegnamente ucciso,
Che sia bruttato il nudo e verecondo
Suo cadavere, ah! questo, è questo il colmo
Dell’umane sventure.""!. E sì dicendo, 100
Strappasi il veglio dall’augusto capo
I canuti capei; ma non si piega
L’alma d’Ettorre. Desolata accorse
D’altra parte la madre, e lagrimando
E nudandosi il seno, la materna 105
Poppa scoperse, e, ""A questa abbi rispetto,
Singhiozzante sclamava, a questa, o figlio,
Che calmò, lo ricorda, i tuoi vagiti.
Rïentra, Ettore mio, fuggi cotesto
Sterminatore, non istargli a petto, 110
Sciaurato! Non io, s’egli t’uccide,
Non io darti potrò, caro germoglio
Delle viscere mie, su la funébre
Bara il mio pianto, nè il potrà l’illustre
Tua consorte: e tu lungi appo le navi 115
Giacerai degli Achivi, esca alle belve."".
Questi preghi di lagrime interrotti
Porgono al figlio i dolorosi, e nulla
Persuadon l’eroe che fermo attende
Lo smisurato già vicino Achille. 120
Quale in tana di tristi erbe pasciuto
Fero colúbro il vïandante aspetta,
E gonfio di grand’ira, orribilmente
Guatando intorno, nelle sue latébre
Lubrico si convolve; e tale il duce 125
Troian, di sdegni generosi acceso,
Appoggiato lo scudo a una sporgente
Torre, sta saldo; e nel gran cor rivolge
Questi pensieri: ""Che farò? Se metto
Là dentro il piè, Polidamante il primo 130
Rampognerammi acerbo, ei che la scorsa
Notte esortommi alla città ritrarre,
Comparso Achille, i Teucri; e io nol feci:
E sì quest’era il meglio. Or che la mia
Pertinacia fatal tutti li trasse 135
Nella ruina, sostener l’aspetto
Più non oso de’ Troi nè dell’altere
Troiane, e parmi già i peggiori udire:
Ecco là quell’Ettór che di sue forze
Troppo fidando il popolo distrusse. 140
Così diranno, e meglio allor mi fia
Combattere, e redir, prostrato Achille,
Nella cittade, o per la patria mia
Aver qui morte glorïosa io stesso.
Pur se deposto e scudo e lancia ed elmo, 145
Io medesmo mi fessi incontro a questo
Magnanimo rivale, e la spartana
Donna cagion di tanta guerra, e tutte
Gli promettessi le con lei portate
Da Paride ricchezze, ed altre ancora 150
Da partirsi agli Achei, quante ne chiude
Questa città; se con tremendo giuro
Quindi i Troiani a rivelar stringessi
I riposti tesori, ed in due parti
Dividendoli tutti... Oh che vaneggia 155
Mai la mia mente! Io supplice, io dimesso
Presentarmi? Il crudel, nulla m’avendo
Nè pietà nè rispetto (ov’io dell’armi
Nudo a lui vada), disarmato ancora,
Qual donna imbelle, metterammi a morte, 160
Ch’ei non è tale da poter con esso
Novellar dal querceto o dalla rupe
Come amanti garzoni e donzellette.
A donzellette adunque e a garzoni
Le dolci fole, a me la pugna; e tosto 165
Vedrassi cui darà Giove la palma"".
Così seco ragiona, e fermo aspetta.
Ed ecco Achille avvicinarsi, al truce
Dell’elmo agitator Marte simíle.
Nella destra scotea la spaventosa 170
Pelíaca trave; come viva fiamma,
O come disco di nascente Sole
Balenava il suo scudo. Il riconobbe
Ettore, e freddo corsegli per l’ossa
Un tremor, nè aspettarlo ei più sostenne, 175
Ma lasciate le porte, a fuggir diessi
Atterrito. Spiccossi a inseguirlo
Fidato Achille pie velocei;
Qual ne’ monti sparvier che, de’ volanti
Il più ratto, si scaglia impetuoso 180
Su pavida colomba: ella sen fugge
Vie più l’incalza con acuti stridi,
Di ghermirla bramoso: a questa guisa
L’ardente Achille vola 185
Dietro il trepido Ettór che in tutta fuga
Mena il rapido piè rasente il muro.
Trascorsero veloci la collina
Delle vedette, oltrepassâr, lunghesso
La callaia, il selvaggio aereo fico190
Sempre sotto alle mura; e già venuti
Son dell’alto Scamandro alle due fonti.
Calida è l’una, e qual di fuoco acceso
Spandesi intorno di sue linfe il fumo:
Fredda come gragnuola o ghiaccio o neve 195
Scorre l’altra anche d'estate: ambe son cinte
D’ampii lavacri di polita pietra,
A cui, pria che l’Acheo venisse i giorni
Della pace a turbar, solean de’ Teucri
Liete le spose e le avvenenti figlie 200
I bei veli lavar. Da questa parte
Volano i due campion, l’uno fuggendo,
L’altro inseguendo. Il fuggitivo è forte,
Ma più forte e più ratto è chi l’insegue,
E d’un tauro non già, nè della pelle 205
Si gareggia d’un bue, premio a veloce
Di corsa vincitor, ma della vita
Del grande Ettorre. E quale a vincer usi
Giran le mete corridori ardenti,
A cui proposto è di gentil donzella 210
O d’un tripode il premio, a onoranza
D’alcun defunto eroe; così tre volte
Dell’ilíaca città fêr questi il giro
Velocemente. A riguardarli intento
Stava il consesso de’ Celesti, e Giove 215
A dir si fece: ""Ahi sorte indegna! io veggo
D’Ilio intorno alle mura esagitato
Un diletto mortal; duolmi d’Ettorre
Che su l’idée pendici e sull’eccelsa
Pergámea rocca a me solea di scelte 220
Vittime offrire i pingui lombi, ed ora
Del minaccioso Achille il presto piede
L’incalza intorno alla città. Pensate,
Vedete, o numi, se per noi si debba
Dalla morte camparlo, o pur, quantunque 225
Così prode, il domar sotto il Pelíde."".
""Procelloso Tonante, oh che dicesti,
Gli rispose Minerva, e che t’avvisi?
Alla morte strappar lugubre gemito?
E tu lo salva. Ma non tutti al certo 230
Noi Celesti tal fatto assentiremo."".
""Aquetati, o figlia, replicò de’ nembi
L’adunator, ch’io nulla ho fermo ancora,
E nulla io voglio a te negar. Fa' com'è
il tuo disegno e non attender altro"". 235
Spronò quel detto la già pronta Diva
Che dall’olimpie cime impetuosa
Spiccossi, e scese. Alla dirotta intanto
Incalza Achille il fuggitivo Ettorre.
Come veltro cerviero alla montagna 240
Giù per convalli e per boscaglie insegue
Dalla tana destato un caprïuolo:
Sotto un arbusto il meschinel s’appiatta
Tutto tremante, e l’altro ne trovò
L’orme, e corre e ricorre irrequïeto 245
Finchè lo trova: così tutte Achille
Del sottrarsi a Ettór tronca le vie.
Quante volte sfilar diritto ei tenta
Alle dardanie porte, o delle torri
Sotto gli spaldi, onde co’ dardi aita 250
Gli dian di sopra i suoi, tante il Pelíde
Lo previene e il ricaccia alla pianura,
Vicino alla città. Come nel sogno
Talor ne sembra con lena affannata
Uom che fugge inseguir, nè questi ha forza 255
D’involarsi, nè noi di conseguirlo;
Così nè Achille aggiugner puote Ettorre,
Nè questi a quello dileguarsi. E intanto
Come schivar potuto avría la Parca
Di Príamo il figlio, se l’estrema volta 260
Nuovo al petto vigor non gli porgea
Propizio Apollo, e nuova lena al piede?
Accennava col capo il divo Achille
Alle sue genti di non far co’ dardi
Al fuggitivo offesa, onde veruno, 265
Ferendolo, l’onor non gli precida
Del primo colpo. Ma venuti entrambi
La quarta volta alle scamandrie fonti,
L’auree bilance sollevò nel cielo
Il gran Padre, e due sorti entro vi pose 270
Di mortal sonno eterno, una d’Achille,
L’altra d’Ettorre: le librò nel mezzo,
E del duce troiano il fatal giorno
Cadde, e vêr l’Orco dechinò. Dolente
Febo allora lasciollo in abbandono; 275
E al Pelíde fattasi vicina,
Sì Minerva parlò: ""Diletto a Giove
Inclito Achille, or sì che giunto io spero
Il momento in che noi su queste rive,
Spento alla fine il bellicoso Ettorre, 280
D’alta gloria andrem lieti. Ei più non puote
Scapparne ei no, quand’anche il Saettante,
Ai piè prostrato dell’Egíoco Padre,
Di liberarlo s’argomenti. Or tu
Qui sóstati e respira. Andronne io stessa 285
Al tuo nemico, e metterogli in core
Di venir teco a singolar conflitto."".
Obbedì, s’appoggiò lieto al ferrato
Suo frassino il Pelíde, e dipartita
Da lui la Diva, al volto, alla favella 290
Dëífobo si fece, e all’anelante
Ettor venuta,"" O mio german, dicea,
Troppo costui dintorno a queste mura
Con piè ratto t’incalza e ti travaglia.
Or via restiamci, e difendiamci a fermo."". 295
Rispose Ettór: ""Dëífobo, di quanti
Mi diè fratelli Prïamo ed Ecúba,
Sempre il più caro tu mi fosti, e ora
Lo mi sei più che prima, e più mi traggi
Ad onorarti, perocchè tu solo 300
Da quelle mura osasti a mia difesa,
Tu solo uscir, veduto il mio periglio.
Fratello amato, replicò la Diva,
I venerandi genitori, e tutti
Stringendosi gli amici a’ miei ginocchi 305
Di non uscire mi pregâr, cotanto
Terror gl’ingombra: ma l’interno vinse,
Che per te mi struggea, fiero dolore.
Combattiam dunque arditamente, e nullo
Sia più d’aste risparmio, onde si vegga 310
S’egli, noi spenti, tornerà di nostre
Spoglie onusto alle navi, o se piuttosto
Qui cadrà per la tua lancia trafitto."".
Sì dicendo, la Diva ingannatrice
Precorse, e quelli l’un dell’altro a fronte 315
Divenuti, primier l’armi crollando
Fe’ questi detti l’animoso Ettorre:
""Più non fuggo, o Pelíde. Intorno all’alte
Ilíache mura mi aggirai tre volte,
Nè aspettarti sostenni. Ora son io 320
Che intrepido t’affronto, e darò morte,
O l’avrò. Ma gli Dei, fidi custodi
De’ giuramenti, testimon ne siéno,
Che se Giove l’onor di tua caduta
Mi concede, non io sarò spietato 325
Col cadavere tuo, ma renderollo,
Toltene solo le bell’armi, intatto
A’ tuoi. Tu giura in mio favor lo stesso."".
Non parlarmi d’accordi, maledetto
Nemico, ripigliò torvo il Pelíde: 330
Nessun patto fra l’uomo e il lïone,
Nessuna pace tra l’eterna guerra
Dell’agnello e del lupo, e tra noi due
Nè giuramento nè amistà nessuna,
Finchè l’uno di noi steso col sangue 335
L’invitto Marte non satolli. Or bada,
Chè n’hai mestiero, a richiamar la tutta
Tua prodezza, e a lanciar dritta la punta.
Ogni scampo è preciso, e già Minerva
Per l’asta mia ti doma. Ecco il momento 340
Che dei morti da te miei cari amici
Tutte ad un tempo sconterai le pene.""
Disse, e forte avventò la bilanciata
Lunga lancia. Vide Ettorre il tiro,
E piegato il ginocchio e la persona, 345
Lo schivò. Sorvolando il ferreo telo
Si confisse nel suol, ma lo strappò
Invisibile ad Ettore Minerva,
E tornollo al Pelíde. - ""Errasti il colpo,
Gridò l’eroe troian, nè Giove ancora, 350
Come dianzi dicesti, il mio destino
Ti fe’ palese. Dëiforme sei,
Ma cinguettiero, chè con vani accenti
Atterrirmi ti speri, e nella mente
Addormentarmi la virtude antica. 355
Ma nel dorso tu, no, non pianterai
L’asta a Ettorre che diritto viene
Ad assalirti, e ti presenta il petto;
Piantala in questo se t’assiste un Dio.
Schiva intanto tu pur la ferrea punta 360
Di mia lancia. Oh si possa entro il tuo corpo
Seppellir tutta quanta, e della guerra
Ai Teucri il peso allevïar, te spento,
Te lor funesta principal rovina."".
Disse, e l’asta di lunga ombra squassando, 365
La scagliò di gran forza, e del Pelíde
Colpì senza fallir lo smisurato
Scudo nel mezzo. Ma il divino arnese
La respinse lontan. Crucciossi Ettorre,
Visto uscir vano il colpo, e non gli essendo 370
Pronta altra lancia, chinò mesto il volto,
E a gran voce Dëífobo chiamando,
Una picca chiedea: ma lungi egli era.
Allor s’accorse dell’inganno, e disse:
""Misero! a morte m’appellâr gli Dei. 375
Credeami aver Dëífobo presente;
Egli è dentro le mura, e mi deluse
Minerva. Al fianco ho già la morte, e nullo
V’è più scampo per me. Fu cara un tempo
A Giove la mia vita, e al saettante 380
Suo figlio, ed essi mi campâr cortesi
Ne’ guerrieri perigli. Or mi raggiunse
La negra Parca. Ma non fia per questo
Che da codardo io cada: periremo,
Ma glorïosi, e alle future genti 385
Qualche bel fatto porterà il mio nome.""
Ciò detto, scintillar dal fodero
Fe’ la spada che acuta e grande e forte
Dal fianco gli pendea. Con questa in pugno
Drizza il viso al nemico, e si raccoglie 390
Com’aquila che d’alto per le fosche
Nubi a piombo sul campo si precipita
A ghermir una lepre o un’agnelletta:
Tale, agitando l’affilato acciaro,
Si scaglia Ettorre. Scagliasi del pari 395
Gonfio il cor di feroce ira il Pelíde
Impetuoso. Gli ricopre il petto
L’ammirando brocchier: sovra il guernito
Di quattro coni fulgid’elmo ondeggia
L’aureo pennacchio che Vulcan v’avea 400
Sulla cima messo. E qual sfavilla
Nei notturni sereni in fra le stelle
Espero il più leggiadro astro del cielo;
Tale l’acuta cuspide lampeggia
Nella destra d’Achille che l’estremo 405
Danno in cor volge dell’illustre Ettorre,
E tutto con attenti occhi spïando
Il bel corpo, pon mente ove al ferire
Più spedita è la via. Chiuso il nemico
Era tutto nell’armi luminose 410
Che all’ucciso Patróclo avea rapite.
Sol, dove il collo all’omero s’innesta,
Nuda una parte della gola appare,
Mortalissima parte. A questa Achille
L’asta diresse con furor: la punta 415
Il collo trapassò, ma non offese
Della voce le vie, sì che precluso
Fosse del tutto alle parole il varco.
Cadde il ferito nella sabbia, e altero
esclamò sovr’esso il feritor divino: 420
""Ettore, il giorno che spogliasti il morto
Patroclo, in salvo ti credesti, e nullo
Terror ti prese del lontano Achille.
Stolto! restava sulle navi al mio
Trafitto amico un vindice, di molto 425
Più gagliardo di lui: io vi restava,
Io che qui ti distesi. Or cani e corvi
Te strazieranno turpemente, e quegli
Avrà pomposa dagli Achei la tomba.""
E a lui così l’eroe languente: ""Achille, 430
Per la tua vita, per le tue ginocchia,
Per li tuoi genitori io ti scongiuro,
Deh non far che di belve io sia pastura
Alla presenza degli Achei: ti piaccia
L’oro e il bronzo accettar che il padre mio 435
E la mia veneranda genitrice
Ti daranno in gran copia, e tu lor rendi
Questo mio corpo, onde l’onor del rogo
Dai Teucri io m’abbia e dalle teucre donne""!.
Con atroce cipiglio gli rispose 440
Il fiero Achille: ""Non pregarmi, iniquo,
Non supplicarmi nè pe’ miei ginocchi
Nè pe’ miei genitor. Potessi io preso
Dal mio furore minuzzar le tue
Carni, ed io stesso, per l’immensa offesa 445
Che mi facesti, divorarle crude.
No, nessun la tua testa al fero morso
De’ cani involerà: nè s’anco dieci
E venti volte mi s’addoppii il prezzo
Del tuo riscatto, nè se d’altri doni 450
Mi si faccia promessa, nè se Príamo
A peso d’oro il corpo tuo redima,
No, mai non fia che sul funereo letto
La tua madre ti pianga. Io vo’ che tutto
Ti squarcino le belve a brano a brano."" 455
""Ben lo previdi che pregato indarno
T’avrei, riprese il moribondo Ettorre.
Hai cor di ferro, e lo sapea. Ma bada
Che di qualche celeste ira cagione
Io non ti sia quel dì che Febo Apollo 460
E Paride, malgrado il tuo valore,
T’ancideranno su le porte Scee."".
Così detto, spirò. Sciolta dal corpo
Prese l’alma il suo vol verso l’abisso,
Lamentando il suo fato e il perduto 465
Fior della forte gioventude. E a lui,
Già fredda spoglia, il vincitor soggiunse:
""Muori; chè poscia la mia morte io pure,
Quando a Giove sia grado e agli altri Eterni,
Contento accetterò"". Così dicendo, 470
Svelse dal morto la ferrata lancia,
In disparte la pose, e dalle spalle
L’armi gli tolse insanguinate. Intanto
D’ogn’intorno v’accorsero gli Achivi
Contemplando d’Ettór maravigliosi 475
L’ammirande sembianze e la statura;
Nè vi fu chi di fargli una ferita
Non si godesse, al suo vicin dicendo:
""Per gli Dei, che a toccarsi egli s’è fatto
Più tenero che quando arse le navi:"" 480
E in questo dir coll’asta il ripungea.
Persefone e Ade, signore dell'oltretomba, vaso attico del IV secolo AC
Spoglio ch’ei l’ebbe, fra gli astanti Achei
Ritto Achille parlò queste parole:
""Amici e prenci e capitani, udite.
Poichè permisero gli Dei che domo alfine 485
Costui ne fosse, che d’assai più nocque
Che gli altri tutti insieme, alla cittade
Volgiam l’armi, e vediam se, spento Ettorre,
Fanno i Teucri pensier d’abbandonarla,
O, benchè privi di cotanto aiuto, 490
Coraggiosi resistere.... Ma quale
Vano consiglio mi ragiona il core?
Senza pianto sul lido e senza tomba
Giace il morto Patróclo. Insin che queste
Mie membra animerà soffio di vita, 495
Ei fia presente al mio pensiero; e s’anco
Laggiù nell’Orco obblivïon scendesse
Della vita primiera, anco nell’Orco
Mi seguirà del mio diletto amico
La rimembranza. Or via, dunque si rieda 500
Alle navi, e costui vi si strascini.
E voi frattanto, giovinetti achivi,
Intonate il peana: alto è il trïonfo
Che riportammo: il grande Ettór, dai Teucri
Adorato qual nume, è qui disteso"". 505
Disse, e contra l’estinto opra crudele
Meditando, de’ piè gli fora i nervi
Dal calcagno al tallone, e un guinzaglio
Insertovi bovino, al cocchio il lega,
Andar lasciando strascinato a terra 510
Il bel capo. Sul carro indi salito
Con l’elevate glorïose spoglie,
Stimolò collla frusta a tutto corso
I corridori che volâr bramosi.
Lo strascinato cadavere un nembo 515
Sollevava di polve onde la sparta
Negra chioma agitata e il volto tutto
Bruttavasi, quel volto in pria sì bello,
Allor da Giove abbandonato all’ira
Degl’inimici nella patria terra. 520
All’atroce spettacolo si svelse
La genitrice i crini, e via gittando
Il regal velo, un ululato mise,
Che alle stelle n’andò. Plorava il padre
Miseramente, e gemiti e singulti 525
Per la città s’udían, come se tutta
Dall’eccelse sue cime arsa cadesse.
Rattenevano a stento i cittadini
Il re canuto, che di duol scoppiando
Dalle dardánie porte a tutto costo 530
Fuor voleva gittarsi. S’avvolgea
Il misero nel fango, e tutti a nome
Chiamandoli e pregando, ""Ah! vi scostate,
Lasciatemi, gridava; è intempestivo
Ogni vostro timor; lasciate, amici, 535
Ch’io me n’esca, ch’io vada tutto solo
Alle navi nemiche. Io vo’ cadere
Supplichevole ai piè di quell’iniquo
Vïolento uccisor. Chi sa che il crudo
Il mio crin bianco non rispetti e senta 540
Pietà di mia vecchiezza. Ei pure ha un padre
D’anni carco, Peléo che generollo
E de’ Teucri nudrillo alla ruina;
Soprattutto alla mia, tanti uccidendo
Giovinetti miei figli: nè mi dolgo 545
Sì di lor tutti, ohimè! quanto d’un solo,
Quanto d’Ettór, di cui trarrammi in breve
L’empia doglia alla tomba. Oh fosse ei morto
Tra le mie braccia almen! così la madre,
Che sventurata partorillo, e io stesso 550
Sfogo avremmo di pianti e di sospiri."".
Questo ei dicea piangendo, e co’ lamenti
Facean eco al suo pianto i cittadini.
Dalle Tröadi intanto circondata,
In alti lai rompea la madre: ""Oh figlio! 555
Tu se’ morto, e io vivo? io giunta al sommo
Delle sventure te perdendo, ahi lassa!
Te che in ogni momento eri la mia
Gloria e il sostegno della patria tutta
Che t’accogliea qual nume. Ahi! ne saresti, 560
Vivo, il decoro; e ne sei, morto il lutto"".
Seguía questo parlar di pianto un fiume.
Ma del fato d’Ettór nulla per anco
Andrómaca sapea, chè nullo a lei
Del marito rimasto anzi alle porte 565
Recato avea l’avviso. Nell’interne
Regie stanze tessendo ella si stava
A doppie fila una lucente tela
Di diverso rabesco. E per suo cenno
Avean frattanto le leggiadre ancelle 570
Posto un tripode al fuoco, onde al consorte
Pronto fosse, al tornar dalla battaglia,
Caldo un lavacro. Non sapea, ignara!
Che da’ lavacri assai lungi domato
L’avea Minerva per la man d’Achille. 575
Ma come dalla torre un suon confuso
D’ululi intese e di lamenti, tutte
Le tremaro le membra, al suol le cadde
La spola, e volta alle donzelle, disse:
""Accorrete sollecite, seguitemi 580
Due di voi tosto: vo’ veder che avvenne.
Dell’onoranda suocera la voce
Mi percuote l’orecchio, e il cor mi balza
Con sussulto nel petto, e manca il piede.
Certo, qualche gran danno, ohimè! sovrasta 585
Di Príamo ai figli. Allontanate, o numi,
Questo presagio: ma ben forte io temo
Che il divo Achille all’animoso Ettorre
Non abbia del salvarsi entro le mura
Già tagliata la strada, e or pel campo 590
Lo m’insegua da tutti abbandonato;
E la bravura esizïal non domi
Che il possedea: restarsi egli non seppe
Mai nella folla, e sempre oltre si spinse,
A nessun prode di valor secondo."". 595
Così dicendo, della reggia uscío
Qual forsennata, e le tremava il core.
La seguivan le ancelle; e fra le turbe
Giunta alla torre, s’arrestò, girando
Lo sguardo intorno dalle mura. Il vide, 600
Il riconobbe da corsier veloci
Strascinato davanti alla cittade
Verso le navi indegnamente. Oscura
Notte i rai le coperse, ed ella cadde
All’indietro svenuta. Si scomposero 605
I leggiadri del capo adornamenti
E nastri e bende e l’intrecciata mitra
E la rete e il vel che dielle in dono
L’aurea Venere il dì che dalle case
D’Eezïóne Ettór la si condusse 610
Di molti doni nuzïali ornata.
Affollârsi pietose a lei dintorno
Le cognate che smorta tra le braccia
Reggean l’afflitta di morir bramosa
Per immenso dolor. Come in sè stessa 615
Alfin rivenne, e l’alma al cor s’accolse,
Fe’ degli occhi due fonti, e così disse:
""Oh me deserta! oh sposo mio! noi dunque
Nascemmo entrambi col medesmo fato,
Tu nella reggia del tuo padre, ed io 620
Nella tebana Ipóplaco selvosa
Seggio d’Eezïón che pargoletta
Allevommi, meschino una meschina!
Oh non m’avesse generata! Ai regni
Tu di Pluto discendi entro il profondo 625
Sen della terra, e me qui lasci al lutto
Vedova in reggia desolata. Intanto
Del figlio, ohimè! che fia? Figlio infelice
Di miserandi genitor, bambino
Egli è del tutto ancor, nè tu puoi morto 630
Più farti suo sostegno, Ettore mio,
Ne egli il padre vendicar: chè dove
Pur sia che degli Achei la lagrimosa
Guerra egli sfugga, nondimen dolenti
Trarrà sempre i suoi giorni, e a lui l’avaro 635
Vicin mutando i termini del campo
Spoglierallo di questo. Abbandonato
Da’ suoi compagni è l’orfanello; ei porta
Ognor dimesso il volto, e lagrimosa
La smunta guancia. Supplice indigente 640
Va del padre agli amici, e all’uno il saio,
Tocca all’altro la veste. Il più pietoso
Gli accosta alquanto il nappo, e il labbro bagna,
Non il palato. Ed altro tal che lieto
Va di padre e di madre, alteramente 645
Dalla mensa il ributta, e lo percote,
E villano gli grida: Sciagurato,
Esci: il tuo padre qui non siede al desco.
Torna allor lagrimando Astïanatte
Alla vedova madre, egli che dianzi 650
D’eletti cibi si nudría, scherzando
Sul paterno ginocchio. E quando ei stanco
D’innocenti trastulli al dolce sonno
Chiudea le luci alla nudrice in grembo,
Dentro il suo letticciuol su molli piume, 655
Sazio di gioia il cor, s’addormentava.
E quanti or privo dell’amato padre,
Ahi quanti affanni soffrirà! nè punto
D’Astïanatte gioveragli il nome
Che gli posero i Troi, perchè le porte 660
Tu sol ne difendevi e l’ardue mura.
Or te sul lido fra le navi, e lungi
Da chi vita ti diè, lubrici vermi
Roderan, come sazio avrai de’ veltri
Nudo le gole; ahi nudo! e nella reggia 665
Tante avevi leggiadre ed esquisite
Vesti, lavoro dell’esperte ancelle.
Or poichè vane a te son fatte, e tolto
N’è il coprirti di queste in sul ferétro,
Tutte alle fiamme gitterolle io stessa, 670
Onde al cospetto de’ Troiani almeno
Questo segno d’onor ti sia renduto.""
Così dicea piangendo, e al suo pianto
Co’ sospiri facean eco le donne.
Testo di Vincenzo Monti
Pinax con Persefone e Ade su trono. Vaso attico del V secolo AC
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L'ADE DEI GRECI
Ade (in greco antico: Hádes) identifica il regno delle anime greche e romane (chiamato anche Orco o Averno). In realtà, è solo una trasposizione del nome del dio Hádes : si voleva identificare il regno col suo stesso re. Il regno dei morti greco/latino era un vero e proprio luogo fisico, al quale si poteva persino accedere in terra da alcuni luoghi impervi, difficilmente raggiungibili o comunque segreti e inaccessibili ai mortali.
Per quanto riguarda la geografia e la topografia degli Inferi, Omero (nell'Odissea) non gli dà un carattere di vero e proprio "regno" esteso, ma lo descrive solamente come una sfera fisica oscura e misteriosa, perlopiù preclusa ai viventi, dove soggiornano in eterno le ombre (e non le anime) degli uomini senza apparente distinzione tra ombre buone e ombre malvagie, e senza nemmeno un'assegnazione di pena o di premio in base ai meriti terreni.
Nella tradizione greca, uno degli ingressi all'Ade si trovava nel paese dei Cimmeri, che si trovava al confine crepuscolare dell'Oceano, e proprio in questa regione remota Odisseo dovette recarsi per discendere all'Ade e incontrare l'ombra dell'indovino Tiresia; nella tradizione romana, invece, uno degli ingressi infernali si trovava vicino al lago dell'Averno (che poi divenne il nome del regno infernale stesso), dal quale Enea discese insieme alla Sibilla cumana.
Per accedervi bisognava superare prima Cerbero, poi attraversare l'Acheronte versando un obolo al terribile Caronte e raggiungere i tre giudici Minosse, Eaco e Radamanto i quali emettevano il loro verdetto. Nell'Ade vi erano cinque fiumi: Stige, Cocito, Acheronte, Flegetonte e Lete, l'acqua di quest'ultimo aveva la caratteristica di far perdere la memoria a chi la beveva. Narra Platone, ne "La Repubblica", che le anime dei morti, ormai purificate dai peccati, vengono trasportate da vortici di fuoco e poggiate al suolo. Qui scelgono la loro prossima vita, e successivamente bevono l'acqua del fiume Lete. Si dice che Ulisse, avendo molto patito nella vita precedente per l'onere di essere re, scelse una vita semplice, agricola, che non avrebbe mai procurato fastidi. Agamennone, stanco per la diffidenza umana, decise di vivere tramutato in aquila.
L'Ade, che accoglie le ombre di tutti i defunti tranne i morti rimasti insepolti, alle volte viene confuso con una sua sezione, il Tartaro, il luogo in cui si trovano, sia i Titani e i Giganti, che invano tentarono di sconfiggere gli dei Olimpi, sia quei mortali puniti per i loro gravi misfatti come Tantalo, Sisifo, le Danaidi; e questo più che altro sulla base dell'iconografia cristiana relativa all'Inferno. Le anime di coloro che in vita non furono né malvagie né straordinariamente virtuose si aggirano invece sul Prato degli Asfodeli, un luogo bello ma debolmente illuminato: le anime più nobili, infine, accedono nei luminosissimi Campi Elisi, o secondo alcuni autori, alle Isole Fortunate, dette anche Isole dei Beati. Virgilio aggiunge i Campi del Pianto, riservati ai morti suicidi e a coloro che in vita furono travolti dalla passione, e una sezione che accoglie tutti i caduti in guerra d'animo non malvagio e onorevolmente sepolti.
I morti senza tomba, invece - tale fu la sorte di Icaro, Tarquito, Palinuro, Mimante, Oronte, Ennomo, Licaone, Asteropeo, forse anche Ippoloco, il figlio di Antimaco - vagano senza sosta al di fuori del regno, secondo alcuni autori per sempre, secondo altri per cento anni, sempre che qualcuno sulla terra non provveda a onorare i loro resti; qualora ciò succeda, essi possono finalmente varcare la soglia dell'Ade (fu quanto accadde a Polidoro, figlio di Priamo ed Ecuba, il cui corpo in un primo tempo era stato seppellito solo parzialmente) ed essere anche loro in grado, come tutti gli altri defunti, di scrutare ciò che succede tra i vivi, e gli eventi futuri (secondo Omero, invece, nessuno spirito ha questo potere, tranne l'indovino Tiresia). Questo presupposto ci aiuta a spiegare perchè nell'Iliade gli achei combattano con tanto furore per recuperare il corpo di Patroclo e Priamo si umilii con Achille per avere il corpo di Ettore: per consentire loro onorevoli esequie.
..... Di retro Achille
Colla man gli reggea la tremolante
Testa, e plorava sui fúnebri onori
Con che all’Orco spedía l’illustre amico.
Persefone, (dal grec Persephónē), detta anche Kore, Kora, o Core, è una figura della mitologia greca, fondamentale nei Misteri Eleusini, entrata in quella romana come Proserpina. Essendo la sposa di Ade, era la dea minore degli Inferi e regina dell'oltretomba. Secondo il mito principale, nei 6 mesi dell'anno (Autunno ed Inverno) che passava nel regno dei morti, Persefone svolgeva la stessa funzione del suo consorte Ade, cioè governare su tutto l'oltretomba; negli altri 6 mesi (Primavera ed Estate) tornava sulla Terra da sua madre Demetra.
La dea Persefone era venerata in due modi: come fanciulla, o Kore, e come regina degli Inferi.
- La pinax raffigura la dualità del personaggio:
- Kore è una giovane dea slanciata e bellissima, associata ai simboli della fertilità: il melograno, il grano, i cereali e il narciso, il fiore che la adescò.
- Come regina degli Inferi, Persefone è una donna matura, che regna sulle anime dei morti, guida i viventi agli Inferi e pretende per sé ciò che vuole.
Questa dualità genera due modelli archetipici. Kore rappresenta la giovane che ignora chi sia ed è ancora inconsapevole dei propri desideri o delle proprie forze. L’altro aspetto si propone come risultato dell’esperienza e della maturazione. Figurativa la fase di passaggio: benché la prima esperienza di Persefone nel mondo degli Inferi sia stata quella della vittima rapita, in un secondo tempo ne divenne la regina, la guida a chi visitava quei luoghi. Benché Persefone non fosse una delle dodici divinità dell'Olimpo, era la figura centrale dei Misteri Eleusini, che per duemila anni prima del cristianesimo furono la più importante religione dei greci, nei quali si viveva l’esperienza del ritorno, o del rinnovarsi della vita dopo la morte, attraverso la ricomparsa annuale di Persefone dall'oltretomba.
Eugenio Caruso - 01-12 - 2021
Tratto da