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Omero, Iliade Libro XXIII. Giochi in onore di Patroclo.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

paride 4
IL GIUDIZIO DI PARIDE DI PETER PAUL RUBENS. ( Da questo episodio nasce tutta la storia narrata da Omero)

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”. Le varie edizioni non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari. Nel racconto Omero da buon greco parteggia palesemente per i greci; basti notare che quando il grande eroe troiano Ettore entra in battaglia, spesso, o scappa o è aiutato da Apollo.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti. . Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlava di un uomo cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende riguardanti Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le tematiche che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.
In realtà non sono proprio grandi eroi; le loro vicende sono spesso stimolate, incoraggiate o scoraggiate dall'intervento degli dei dell'Olimpo. Questi si presentano spesso sotto false sembianze, infondono forza e coraggio entrando nei corpi del proprio campione, atterriscono l'avversario con immagini spaventose, deviano le lance o le saette che colpisconi il proprio protetto.
Devo infine ricordare che l'Iliade è un vorticoso turbinio di miti che illudono, affascinano e appassionano (in alcuni casi ci rendono emotivamente partecipi alle vocende), ma la storia e la filologia ci insegnano che in molti miti può quasi sempre esservi un'ombra di verità; si pernsi a esempio ai miti di Medea, Edipo, Ulisse .... .

patroclo 3
Patroclo e Briseide. Affresco pompeiano

RIASSUNTO XXIII LIBRO

Lamento dei Mirmidoni sul corpo di Patroclo. Achille strascina vicino al morto amico il cadavere di Ettore. I Mirmidoni sono a banchetto sulla nave d’Achille. Questi acconsente di sedere a mensa nella tenda d’Agamennone. Dopo il convito sdraiasi sulla spiaggia del mare: visione dell’eroe addormentato. Rogo di Patroclo e cerimonie funebri. Giochi in onore del morto (Vedi sotto).

merone

Copia del discobolo di Mirone - Lancellotti .... Il Discobolo è una scultura realizzata intorno al 455 a.C. da Mirone. La statua originale era in bronzo, oggi è nota solo da copie marmoree dell'epoca romana, tra cui la migliore è probabilmente la versione Lancellotti. Dell'opera si conoscono diverse versioni. Tra le più importanti, oltre a quella Lancellotti, ne esiste una integra al British Museum detta Townley che si distingue per un trattamento della testa più adrianeo, dai capelli più lunghi; inoltre lo scultore, possedendo una tecnica più avanzata, ridusse il tronco d'appoggio a lato della figura. L'atleta venne raffigurato nel momento in cui il suo corpo, dopo essersi rannicchiato per prendere slancio e radunare le forze, sta per aprirsi e liberare la tensione imprimendo al lancio maggiore energia. Subito dopo girerà su se stesso e scaglierà il disco, accompagnando il gesto con tutto il corpo. Gli storici d'arte dell'antichità lodarono Mirone per la sua maestria nel ritmo e nella simmetria. L'espressione di serenità, priva di sentimenti e accennante solo una tenue concentrazione, fu criticata da Plinio. L'opera godette fin da subito di fama internazionale nell'Europa colta e intellettuale, anche grazie all'eccezionale stato di conservazione. Per fama era pari solo all'Apollo del Belvedere, alla Venere de' Medici, al Laocoonte o ai Cavalli di San Marco. Fu quindi tra le prime opere oggetto di spoliazione napoleoniche, tant'è che una stampa presso la Biblioteca Nazionale di Parigi mostra l'arrivo del primo convoglio con i beni confiscati al termine della Campagna d'Italia di Napoleone. Il Discobolo tornò a Roma con il Congresso di Vienna. La bellezza della statua colpì inoltre Adolf Hitler che, durante il suo viaggio in Italia nel maggio 1938, vedendo nella bellezza e nella perfezione fisica dell’atleta il mito della razza ariana, si fece "gentilmente concedere" dal governo italiano l'opera. Sebbene il Consiglio superiore delle Scienze e delle Arti si fosse opposto, Hitler compra l'opera tramite compravendita privata tra Goering e il principe Lancellotti per 5 milioni di lire. Essendo un'opera notificata alle Belle Arti, la sua esportazione era tuttavia vietata, ma grazie alle pressioni del ministro degli esteri Galeazzo Ciano, la statua riuscì ad arrivare in Germania nel giugno 1938. Il Discobolo restò così in Germania fino alla fine della guerra, quando lo storico dell'arte Rodolfo Siviero riuscì a convincere il Governo Militare Alleato che l'opera, insieme a tanti altri capolavori, era stata acquisita illegalmente dai nazisti grazie all'alleanza tra due regimi tirannici. Così - nonostante molte opposizioni, ricorsi giuridici e svariati ritardi da parte della Repubblica Federale Tedesca - il 16 novembre 1948 il Discobolo tornò in Italia, insieme ad altri 38 capolavori che erano stati esportati illegalmente tra il 1937 e il 1943.

TESTO LIBRO XXIII

Mentre in Troia si piange, all’Ellesponto
Giungon gli Achivi, esi disperdevano ciascuno
Alla sua nave. Ma l’andar dispersi
Non permise il Pelíde ai bellicosi
Suoi Mirmidóni, di farlo e disse: 5
   ""Miei diletti compagni e cavalieri,
Non distacchiamo per ancor dai cocchi
I corridori: procediam con questi
A piagnere Patróclo, a tributargli
L’onor dovuto ai trapassati. E quando 10
Avrem del pianto al cor dato il diletto,
Sciolti i destrieri, appresterem le cene"".
   Disse, e tutti innalzâr ristretti insieme
Il fúnebre lamento, Achille il primo.
Corser tre volte colle bighe intorno 15
All’estinto ululando, e ne’ lor petti
Destò Teti di pianto alto desío.
Si bagnava di lagrime l’arena,
Di lagrime gli usberghi; cotant’era
Il desiderio dell’eroe perduto. 20
Ma fra tutti piagnea dirottamente
Achille, e poste le omicide mani
Dell’amico sul cor, ""Salve, dicea,
Salve, caro Patróclo, anco sotterra.
Tutto io voglio compir che ti promisi. 25
D’Ettore il corpo al tuo piè strascinato
Farò pasto de’ cani, e alla tua pira
Dodici capi troncherò d’eletti
Figli de’ Teucri, di tua morte irato"".
   Disse; e opra crudel contra il divino 30
Ettor volgendo in suo pensiero, il trasse
Per la polve boccon presso al ferétro
Del figliuol di Menézio: e gli altri intanto
Scinsero le corrusche armi, e staccati
Gli annitrenti corsier, folti sull’alta 35
Capitana d’Achille a lauto desco
S’assisero. Muggían sotto la scure
Molti candidi buoi, molte belando
Cadean capre scannate e pecorelle,
E molti di pinguedine fiorenti 40
Cinghiai sannuti alle vulcanie vampe
Venían distesi a brustolarsi. Il sangue
Scorrea dintorno al morto in larghi rivi.
   Al sommo Atride intanto i duci achei
Scortâr vinto da’ preghi, e per l’amico 45
Sempre d’ira infiammato il re Pelíde.
Giunti i duci alla tenda, immantinente
Ai prodi araldi Agamennón comanda
Che alle fiamme un gran tripode si metta,
Onde il Pelíde indur, se gli rïesca, 50
A lavarsi del sangue ogni sozzura.
Recusollo il feroce, e fermamente
Giurò: ""Non sia per Giove ottimo e sommo
Che lavacro mi tocchi anzi ch’io ponga
L’amico mio sul rogo, e gli consacri 55
Sull’eretto sepolcro il crin reciso.
Ah! mai pari dolor, fin ch’io mi viva,
In questo petto non cadrà, giammai.
Nondimeno si segga all’abborrita
Mensa: ma tu, supremo Atride, imponi 60
Alla tua gente che domán per tempo
Molta selva qua porti; e qual conviensi
A illustre defunto che nell’atra
Notte discende, le cataste appresti,
Onde rapido il foco lo consumi, 65
E tolto agli occhi il doloroso obbietto,
Tornin le schiere ai consueti offici"".
   Obbedîr tutti al detto, e prontamente
Poste le mense, a convivar si diero,
E vivandò ciascuno a suo talento. 70
Del cibarsi e del ber spenta la voglia,
Tutti andaron alle lor tende, e al sonno
offriron i lor corpi. Ma del mar sonante
Lungo il lido si stese in mezzo ai folti
Tessali Achille su la nuda arena, 75
Di cui l’onda gli estremi orli lambía.
Ivi stanco di gemiti e sospiri
E della molta inseguendo Ettorre
Sostenuta fatica, il dolce sonno
Alleggiator dell’aspre cure il prese, 80
Soavemente circonfuso. Ed ecco
Comparirgli del misero Patróclo
In visïon lo spettro, a lui del tutto
Ne’ begli occhi simíle e nella voce,
Nella statura, nelle vesti, e tale 85
Sovra il capo gli stette, e così disse:
  "" Tu dormi, Achille, nè di me più pensi.
Vivo m’amasti, e morto m’abbandoni.
Deh tosto mi sotterra, onde mi sia
Dato nell’Orco penetrar. Respinto 90
Io ne son dalle vane ombre defunte,
Nè meschiarmi con lor di là dal fiume
Mi si concede. Vagabondo io quindi
M’aggiro intorno alla magion di Pluto.
Or deh porgi la man, chè teco io pianga 95
Anco una volta: perocchè consunto
Dalle fiamme del rogo a te dall’Orco
Non tornerò più mai. Più non potremo
Vivi entrambi, e lontan dagli altri amici
Seduti in dolci parlamenti aprire 100
I segreti del cor: chè preda io sono
Della Parca crudele a me nascente
Un dì sortita. E a te pur anco, Achille,
A te che un Dio somigli, è destinato
Il perir sotto le dardanie mura. 105
Ben ti prego, o mio caro, e raccomando
Che tu non voglia, se mi sei cortese,
Dal tuo disgiunto il cener mio. Noi fummo
Nella tua reggia allor nudriti insieme
Che Menézio d’Opunte a Ftia condummi 110
Giovinetto quel dì che per la lite
Degli astragali irato e fuor di senno
D’Anfidamante a morte misi il figlio,
Mio malgrado. M’accolse il re Peléo
Ne’ suoi palagi umanamente, e posta 115
Nell’educarmi diligente cura,
Mi nomò tuo donzello. Una sol’urna
Chiuda adunque le nostre ossa, quell’urna
Che d’ôr ti diè la tua madre divina"".
  "" A che ne vieni, o anima diletta? 120
Gli rispose il Pelíde; e a che m’ingiungi
Partitamente queste cose? Io tutto
Che comandi farò: ma deh t’appressa,
Ch’io t’abbracci, chè stretti almen per poco
Gustiam la trista voluttà del pianto"".125
   Così dicendo, coll’aperte braccia
Amoroso avventossi, e nulla strinse,
Chè stridendo calò l’ombra sotterra,
E svanì come fumo. In piè rizzossi
Sbalordito il Pelíde, e palma a palma 130
Battendo, in suono di lamento disse:
  "" Oh ciel! dell’Orco gli abitanti han dunque
Spirito ed ombra, ma non corpo alcuno?
Del misero Patróclo in questa notte
Sovra il capo mi stette il sospiroso 135
Spettro piangente, tutto desso al vivo,
E più cose m’ingiunse ad una ad una"".
   Ridestâr delle lagrime la brama
Queste parole: raddoppiossi il lutto
Sul miserando corpo, e l’Alba intanto 140
Col roseo dito l’Orïente apría.
   Da tutte parti allor fece l’Atride
Dalle trabacche uscir giumenti e turbe
Per lo trasporto del funereo bosco,
Duce il valente Merïon, del prode 145
Idomenéo scudier. Givan costoro
Di corde armati e di taglienti scuri
Co’ giumenti dinanzi. E per distorti
Aspri greppi montando e discendendo
E rimontando, agli erti boschi alfine 150
Giunser dell’Ida che di fonti abbonda.
Qui dier súbita man con affilate
Bipenni al taglio dell’aeree querce
Che strepitose al suol cadeano, e poscia
Legavansi spaccate in su la schiena 155
De’ giumenti, che ratte orme stampando
Scendean bramosi d’arrivar pe’ folti
Roveti alla pianura: e li seguiéno
Carchi il dosso di ciocchi i tagliatori;
Chè tal di Merïon era il precetto. 160
Giunti sul lido, scaricâr le some,
Ne fêr catasta al luogo ove il Pelíde
Un tumulo sublime al morto amico
E a sè stesso disegnato avea.
E tutta apparecchiata in questa guisa 165
L’immensa selva, riposâr seduti,
Nuovi cenni aspettando. Intanto Achille
Ai bellicosi Mirmidón comanda
Di porsi in armi, e aggiogar ciascuno
Alle bighe i destrier. Sursero quelli 170
Frettolosi, e fur tutti in tutto punto.
Montan su i cocchi aurighi e duci, e danno
Alla pompa principio. Immenso un nembo
Di pedoni li segue, e a questi in mezzo
Di Patróclo procede il cataletto 175
Da’ compagni portato, che sul morto
Venían gittando le recise chiome,
Di che tutto il coprían. Di retro Achille
Colla man gli reggea la tremolante
Testa, e plorava sui fúnebri onori 180
Con che all’Orco spedía l’illustre amico.
   Giunti al luogo lor detto, il mesto incarco
Deposero, e a ribocco intorno a quello
Adunâr pronti la funerea selva.
Recatosi in sè stesso, un altro avviso 185
Fece allora il Pelide. Allontanossi
Dal rogo alquanto, e il biondo si recise,
Che allo Sperchio nudría, florido crine,
E al mar guardando con dolor, sì disse:
  "" Sperchio, invan ti promise il padre mio 190
Che tornando al natío dolce terreno
Io t’avrei tronco la mia chioma, e offerto
Una sacra ecatombe, e immolato
Cinquanta agnelli accanto alla tua fonte
Ov’hai delubro, ed odorati altari. 195
Del canuto Peléo fu questo il voto:
Tu nol compiesti. Poichè dunque or tolto
N’è alla patria il ritorno, abbia il mio crine
L’eroe Patróclo, e lo si porti seco"".
   Così detto, alla man del caro amico 200
Pose la chioma, e rinnovossi il pianto
De’ circostanti: e tra gli omei gli avría
Colti il cader della dïurna luce,
Se non si fea davanti al grande Atride
Il figlio di Peléo con questi accenti: 205
   ""Agamennón, di lagrime potremo
Satollarci altra volta. Or tu, cui tutti
Obbediscono gli Achei, tu li congeda
Da questa pira, e a ristorar li manda
Colla mensa le membra. Avrem del resto 210
Noi la cura, chè nostro innanzi a tutti
Dell’esequie è il pensiero, e rimarranno
Nosco, a tal uopo di pietade, i duci"".
   Udito questo, Agamennón disperse
Tosto le schiere per le tende, e soli 215
Vi restaro gli addetti al ministero
Dell’esequie e del rogo. Essi una pira
Cento piedi sublime in ogni lato
Innalzâr primamente, e sovra il sommo,
D’angoscia oppressi, collocâr l’estinto; 220
Poi davanti alla pira una gran torma
Scuoiâr di pingui agnelle e di giovenchi,
E traendone l’adipe il Pelíde
Copríane il morto dalla fronte al piede,
E le scuoiate vittime dintorno 225
Gli accumolò. Da canto indi gli pose
Colle bocche sul féretro inclinate
Due di miele e d’unguento urne ricolme.
Precipitoso ei poscia e sospiroso
Sulla pira gittò quattro corsieri 230
D’alta cervice, e due smembrati cani
Di nove che del sir nudría la mensa.
Preso alfin da spietata ira, le gole
Di dodici segò prestanti figli
De’ magnanimi Teucri, e sulla pira 235
Scagliandoli, destò del fuoco in quella
L’invitto spirto struggitor, che il tutto
Divorasse, e chiamò con dolorosi
Gridi l’amico:""Addio, Patróclo, addio
Ne’ regni anche di Pluto. Ecco adempite 240
Le mie promesse: dodici d’illustre
Sangue Troiani si consuman teco
In queste fiamme, ed Ettore fia pasto
Delle fiamme non già, ma delle belve"".
   Queste minacce ei fea; ma gl’incitati 245
Mastin la salma non toccâr d’Ettorre,
Chè notte e dì sollecita la figlia
Di Giove Citerea gli allontanava,
E il cadavere profumava d’una celeste
Rosata essenza che impedía del corpo 250
Strascinato l’offesa. Intanto Apollo
Sul campo indusse una cerulea nube
Che tutto intorno ricopría lo spazio
Dal cadavere ingombro, onde alle membra
E de’ nervi al tessuto innocua fosse 255
Dell’igneo Sole la virtute attiva.
   Ma del morto Patróclo il rogo ancora
Non avvampa. Allor prende altro consiglio
Il divo Achille. Trattosi in disparte,
Ai due venti Ponente e Tramontana 260
Supplicando, solenni ostie promette,
E in aurea coppa ad ambedue libando,
Di venirne li prega, e intorno al morto
Sì le fiamme animar, che in un momento
Lo si struggano tutto, esso e la pira. 265
Udito la veloce Iride il prego,
Ai venti lo recò, che accolti insieme
Nella reggia di Zefiro un festivo
Tenean convito. S’arrestò la Diva
Su la marmorea soglia, e alla sua vista 270
Sursero tutti frettolosi: ognuno
A sè chiamolla, ognun le offerse il seggio,
Ma ricusollo la Taumánzia, e disse:
   ""Di seder non è tempo: alle correnti
Dell’Oceáno ritornar mi deggio 275
Nell’etíope terreno ove s’appresta
Agl’Immortali un’ecatombe, e bramo
Ne’ sacrifici aver mia parte io pure.
Ma il Pelíde te, Borea, e te, sonoro
Zefiro, prega di soffiar nel rogo 280
Su cui giace di Pátroclo la spoglia
Dagli Achei tutti deplorata, e molte
Vittime ei v’offre, se avvampar lo fate"".
   Così detto, disparve; e quei levârsi
Con immenso stridor, densate innanzi 285
A sè le nubi. Si sfrenâr soffiando
Sulla marina, sollevaro i flutti,
E di Troia arrivati alla pianura,
Riunâr su la pira; e strepitoso
Immane incendio si destò. Dai forti 290
Soffii agitata divampò sublime
Tutta notte la fiamma, e tutta notte
Il Pelíde da vasto aureo cratere
Il vino attinse con ritonda coppa,
E spargendolo al suol devotamente, 295
N’irrigava la terra, e l’infelice
Ombra invocava dell’estinto amico.
Come un padre talor piange bruciando
L’ossa d’un figlio che morì già sposo,
E morendo lasciò gli sventurati 300
Suoi genitori di cordoglio oppressi;
Così dando alle fiamme il suo compagno,
Geme il Pelíde, e alti sospiri
Traendo, intorno al rogo si strascina.
Come poi nunzio della luce al mondo 305
Lucifero brillò, dopo cui stende
Sul pelago l’Aurora il croceo velo,
Morì la vampa sul consunto rogo,
E per lo tracio mar, che rabbuffato
Muggía, tornaro alle lor case i venti. 310
   Stanco allora il Pelíde, e dalla pira
Scostatosi, sdraiossi, e dolce il sonno
L’occupò. Ma il tumulto e il calpestío
De’ capitani, che all’Atride in folla
Si raccogliean, destollo; ei surse, e assiso 315
Così loro parlò: ""Supremo Atride,
E voi primati degli Achei, spegnete
Voi tutti or meco con purpureo vino
Di tutto il rogo in pria le brage, e poscia
Raccogliam di Patróclo attentamente 320
Le sacrate ossa; e scernerle fia lieve,
Imperocchè nel mezzo ei si giacea
Della catasta, e gli altri all’orlo estremo
Separati, fur arsi alla rinfusa
E uomini e cavalli. Indi d’opimo 325
Doppio zirbo ravvolte, in urna d’oro
Le riporremo, finchè vegna il giorno
Ch’io pur di Pluto alla magion discenda.
Non vo’ gli s’erga una superba tomba,
Ma modesta. Potrete ampia e sublime 330
Voi poscia alzarla, o duci achei, che vivi
Dopo me rimarrete a questa riva"".
   Del Pelíde al comando obbedïenti
Con larghi sprazzi di vermiglio bacco
Di tutto il rogo ei spensero alla prima 335
Le vive brage, e giù cadde profonda
La cenere. Adunâr quindi piangendo
Del mansueto eroe le candid’ossa;
Le composer nell’urna avvolte in doppio
Adipe, e dentro il padiglion deposte, 340
Di sottil lino le coprîr. Ciò fatto,
Disegnâr presti in tondo il monumento,
Ne gittaro dintorno all’arsa pira
I fondamenti, v’ammassâr di sopra
Lo scavato terreno, e a fin condotta 345
La tomba, si partían. Ma li rattenne
Il Pelíde, e lì fatto in ampio agone
Il popolo seder, de’ ludi i premii
Fe’ dai legni recar; tripodi e vasi
E destrieri e giumenti e generosi 350
Tauri e captive di gentil cintiglio
E forbite armature. E primamente

cocchi

Corsa con i cocchi da un'anfora panatenaica


Alla corsa de’ cocchi il premio pose:
Una leggiadra in bei lavori esperta
Donzella a chi primier tocca la meta, 355
Con un tripode a doppia ansa, e capace
Di ventidue misure. Una giumenta
Che al sest’anno già venne, ancor non doma,
E il sen già grave di bastarda prole
Al secondo. Un lebéte (una sorta di scaòldavivande) intatto e bello 360
E di quattro misure al terzo auriga;
Al quarto un doppio aureo talento, e al quinto
Una coppa dal foco ancor non tocca.
   Surto in piedi allor disse: Atride, Argivi,
Gioventù bellicosa, a voi dinanzi 365
Ecco i premii che attendono nel circo
Degli aurighi il valor. S’altra cagione
Questi ludi eccitasse, i primi onori
Miei per certo sarían, chè la prestezza
De’ miei destrieri non ha pari, e voi 370
Lo vi sapete: perocchè son essi
Immortali, e donolli il re Nettunno
Al mio padre Peléo, che a me li cesse.
Queto io dunque starommi, e queti insieme
I miei cavalli. I miseri perduto 375
Hanno il lor forte condottiero e mite,
Che lavarne solea le belle chiome
Alla chiara corrente, e irrorarle
Di liquid’olio rilucente; e ora
Piangonlo immoti, colle meste giubbe 380
Al suol diffuse, e il cor di doglia oppresso.
Chïunque degli Achei pertanto ha speme
Ne’ cocchi e ne’ destrier, si metta in punto.
   Ciò disse appena, che animosi e pronti
Presentârsi gli aurighi; Eumelo il primo, 385
Regal germe d’Admeto, e delle bighe
Perito agitator. Mosse secondo
Il gagliardo Tidíde Dïoméde
Co’ destrieri di Troe tolti ad Enea,
Cui da morte campò l’opra d’Apollo. 390
Il biondo Menelao, sangue di Giove,
Levossi il terzo, e sotto al giogo addusse
Due veloci cavalli, il suo Podargo,
Ed Eta, del fratello una puledra,
Dell’aringo bramosa a meraviglia. 395
Donata al rege Agamennón l’avea
L’Anchisíade Echepólo, onde francarsi
Dal seguitarlo a Troia, e neghittoso
Nell’opulenta Sicïon sua stanza
Rimanersi a fruir le concedute 400
Dal saturnio Signor molte ricchezze.
Del magnanimo Néstore buon figlio
Antíloco aggiogò quarto i criniti
Suoi cavalli di Pilo, ancor del cocchio
Buoni al tiro. Si trasse il vecchio padre 405
A lui già saggio per sè stesso, e un saggio
Utile avviso gli porgea dicendo:
   ""Antíloco, te amâr Giove e Nettunno
Giovane ancora, e t’erudîr di tutta
L’arte equestre: perciò poco fia l’uopo 410
D’ammaestrarti, perocchè sai destro
Girar la meta: ma son tardi al corso
I tuoi destrieri, e qualche danno io temo.
Destrier più ratti han gli altri, ma non arte
Nè scïenza maggior. Dunque, o mio caro, 415
Tutti richiama al cor gli accorgimenti,
Se vuoi che il premio da tue man non fugga.
L’arte più che la forza al fabbro è buona;
Coll’arte in mar da venti combattuto
Regge il piloto la sua presta nave, 420
E coll’arte il cocchier passa il cocchiero.
Chi sol del cocchio e de’ corsier si fida,
Qua e là s’aggira senza senno; incerti
Divagano i cavalli, ed ei non puote
Più governarli. Ma l’esperto auriga, 425
Benchè meno valenti i suoi sospinga,
Sempre ha l’occhio alla meta, e volta stretto,
E sa come lentar, sa come a tempo
Con fermi polsi rattener le briglie,
E osserva il rival che lo precede. 430
Or la meta, perchè tu senza errore
La distingua, dirò. Sorge da terra
Alto sei piedi un tronco di laríce
O di quercia che sia, secco e da pioggia
Non putrefatto ancor. Stan quinci e quindi, 435
Dove sbocca la via, due bianche pietre
Da cui si stende tutto piano in giro
De’ cavalli lo stadio. O che sepolcro
Questo si fosse d’un illustre estinto,
O confin posto dalla prisca gente, 440
Meta al corso lo fece oggi il Pelíde.
Tu fa di rasentarla, e vi sospingi
Vicin vicino il cocchio e i corridori,
Alcun poco piegando alla sinistra
La persona, e flagella e incalza e sgrida 445
Il cavallo alla dritta, e gli abbandona
Tutta la briglia, e fa che l’altro intanto
Rada la meta sì che paia il mozzo
Della ruota volubile toccarla;
Ma vedi, ve’, che non la tocchi, infranto 450
N’andrebbe il carro, offesi i corridori,
E tu deriso e di disnor coperto.
Sii dunque saggio e cauto. Ove la meta
Trascorrer netto ti rïesca, alcuno
Non fia che poi t’aggiunga o ti trapassi, 455
No, s’anco a tergo ti venisse a volo
Quel d’Adrasto corsier nato d’un Dio,
Il veloce Arïone, o quei famosi
Che qui Laomedonte un dì nudría"".
   Divisate al figliuol distintamente 460
Queste avvertenze, si raccolse il veglio
Nell’erboso suo seggio. Ultimo intanto
Con bella coppia di corsier superbi
Merïon nella lizza era venuto.
   Montati i carri, si gittâr le sorti. 465
Agitolle il Pelíde, e uscì primiero
Antíloco; indi Eumelo, indi l’Atride,
Fu quarto Merïon, quinto il fortissimo
Dïomede. Locârsi in ordinanza
Tutti, e Achille mostrò lor lontana 470
Nel pian la meta a cui giudice avea
Posto del padre lo scudier Fenice
Venerando vegliardo, onde notasse
Le corse attento, e riferisse il vero.
   Stavano tutti colle sferze alzate 475
Su gli ardenti destrieri, e dato il segno,
Lentâr tutti le briglie, e co’le fruste
E co’ gridi animaro i generosi
Corsier che ratti si lanciâr nel campo,
E dal lido spariro in un baleno. 480
Sorge sotto i lor petti alta la polve
Che di nugolo a guisa o di procella
Si condensa, e al vento abbandonate
Svolazzano le giubbe. Or vedi i cocchi
Rader bassi la terra, e or sublimi 485
Balzarsi, nè perciò perde mai piede
Degli aurighi veruno, e batte a tutti
Per desiderio della palma il core;
E in un nembo di polve ognun dà spirto
A’ suoi volanti alipedi. Varcata 490
La meta, e preso il rimanente corso
Di ritorno alle mosse, allor rifulse
Di ciascun la prodezza, allor si stese
Nello stadio ogni cocchio. Innanzi a tutti
Le puledre volavano veloci 495
Del Ferezíade Eumelo; e dopo queste,
Ma di poco intervallo, i corridori
Di Troe, guidati dal Tidíde, e tanto
Imminenti che ognor parean sul carro
Montar d’Eumelo, a cui co’ fiati ardenti 500
Già scaldano le spalle, e già le toccano
Colle fervide teste. E oltrepassato
Forse l’avrebbe, o pareggiato almeno,
Se al figlio di Tidéo Febo la palma
Invidïando, non gli fea sdegnoso 505
Balzar dal pugno la lucente sferza.
Lagrime d’ira e di dolor le gote
Inondâr dell’eroe, vista d’Eumelo
Lontanarsi più rapida la biga,
E per difetto di flagel più lenta 510
Correr la sua. Ma Pallade d’Apollo
Scorta la frode, e del Tidíde il danno,
Presta a lui corse, e alla sua man rimessa
La sferza, aggiunse ai corridor la lena.
Indi al figlio d’Admeto avvicinossi 515
Irata, e il giogo gli spezzò. Turbate
Si svïar le cavalle, andò per terra
Il timon, riversossi il cavaliero
Presso alla ruota, e il cubito e la bocca
Lacerossi e le nari, e su le ciglia 520
N’ebbe pesta la fronte: le pupille
S’empîr di pianto, s’arrestò la voce,
E Dïomede il trapassò sferzando
Gli animosi destrier che innanzi a tutti
Scappan di molto, perocchè Minerva 525
Gli afforza, e vincitor vuole il Tidíde.
   Vien dopo questi Menelao cui preme
Di Néstore il figliuol che confortando
I paterni destrier, grida: ""Correte,
Stendetevi prestissimi: non io 530
Già vi comando gareggiar con quelli
Del forte Dïoméde, a’ quai Minerva
Diè l’ali al piede, e a lui la palma: solo
Raggiungete l’Atride, e non soffrite
Restando addietro, ch’Eta, una giumenta, 535
Vi sorpassi di corso e disonori.
Che lentezza s’è questa? ov’è l’antica
Vostra prestanza? Io lo vi giuro, e il giuro
S’adempirà; se pigri un premio vile
Riporterem, negletti, anzi trafitti 540
Da Néstore sarete. Or via, volate,
Ch’io di astuzia giovandomi senz’erro
Trapasserò l’Atride nello stretto"".
   Antíloco sì disse, e quei temendo
Le sue minacce rinforzaro il corso; 545
Ed ecco dopo poco il passo angusto
Del concavo cammin. V’era una frana
Ove l’acqua invernal, raccolta in copia,
Dirotta avea la strada, e tutto intorno
Affondato il terren. Per quella parte 550
Si drizzava l’Atride, onde il concorso
Ischivar delle bighe. Ivi si spinse
Antíloco pur esso; e devïando
Dalla carriera un cotal poco, e forte
Flagellando i corsier, lo stringe, e tenta 555
Prevenirlo. Temettene l’Atride,
E gridò: ""Dove vai, pazzo? rattieni,
Antíloco, i destrier: stretta è la via.
Aspetta che s’allarghi, e trapassarmi
Potrai: qui entrambi romperemo i cocchi"". 560
   Antíloco non l’ode, e stimolando
Più veemente i corridor, s’avanza.
Quanto è il tratto d’un disco da robusto
Giovin scagliato per provar sue forze,
Tanto trascorse la nestórea biga. 565
Iscansossi l’Atride, e volontario
I suoi destrieri rallentò, temendo
Che da quegli altri urtati in quello stretto
Non gli versino il cocchio, e al suol stramazzino
Essi medesmi nel voler per troppo 570
Amor di lode acccelerarsi. Intanto
Dietro al figlio di Néstore l’Atride
Gridar s’udiva: ""Antíloco, non avvi
Il più tristo di te: va pure: a torto
Noi saggio ti tenemmo: ma tu premio 575
Non toccherai, per dio! se pria non giuri.
   Quindi animando i suoi corsier, dicea:
Non v’impigrite, non mi state afflitti;
Pria di voi perderan quelli la lena,
Ch’ei son vecchi ambidue. - Così lor grida, 580
E docili i destrieri alla sua voce
Doppiaro il corso, e tosto li raggiunsero"".
   Nel circo assisi intanto i prenci achei
Stavansi attenti a osservar da lungi
I volanti cavalli che nel campo 585
Sollevavan la polve. Idomeneo
Re de’ Cretesi gli avvisò primiero,
Che fuor del circo si sedea sublime
A una vedetta. E di lontano udita
Del primo auriga che venía, la voce, 590
Lo conobbe, e distinse il precorrente
Destrier che tutto sauro in fronte avea
Bianca una macchia, tonda come luna.
Rizzossi in piedi, e disse: ""O degli Achei
Prenci amici, m’inganno, o ravvisate 595
Quei cavalli voi pure? Altri mi sembrano
Da quei di prima, e altro il condottiero.
Le puledre che dianzi eran davanti
Forse sofferto han qualche sconcio. Al certo
Girar primiere le vid’io la meta; 600
Or come che pel campo il guardo io volga,
Più non le scorgo. O che scappâr di mano
All’auriga le briglie, o ch’ei non seppe
Rattenerne la foga, e non fe’ netto
Il giro della meta. Ei forse quivi 605
Cadde, e infranse la biga, e le cavalle
Deviâr furïose. Or voi pur anco
Alzatevi e guardate: io non discerno
Abbastanza; ma parmi esser quel primo
L’étolo prence argivo Dïomede"". 610
   ""Che vai tu vaneggiando? aspro riprese
Aiace d’Oiléo. Quelle che miri
Da lungi a noi volar son le puledre.
Più non sei giovinetto, o Idomenéo:
La vista hai corta, e ciance assai, nè il farne 615
Molte t’è bello ov’altri è più prestante.
Quelle davanti son, qual pria, d’Eumelo
Le puledre, e ne regge esso le briglie"".
   E a lui cruccioso de’ Cretesi il sire:
""Malédico rissoso, in questo solo 620
Tra noi valente, e ultimo nel resto,
Villano Aiace, deponiam su via
Un tripode o un lebéte, e Agamennóne
Giudichi e dica che corsier sian primi,
E pagando il saprai"". Sorgea parato 625
A far risposta con acerbi detti
Lo stizzito Oilíde, e la contesa
Crescea: ma grave la precise Achille:
   ""Fine, o duci, a un ontoso e indecoro
Parlar che in altri biasmereste. In pace 630
Sedetevi e guardate. I gareggianti
Corridori son presso, e voi ben tosto
Chi sia primo saprete, e chi secondo"".
   Fra questo dire, a furia ecco il Tidìde
Avanzarsi, e le groppe senza posa 635
Tempestar de’ cavalli che sublimi
Divorano la via. Schizzi di polve
Incessanti percuotono l’auriga.
D’ôr raggiante e di stagno si rivolve
Dietro i ratti corsier sì lieve il cocchio 640
Che appena vedi della ruota il solco
Nella sabbia sottil. Giunto alle mosse,
Fra le plaudenti turbe il vincitore
Fermossi. Un rivo di sudor dal collo
E dal petto scorrea degli anelanti 645
Corsieri, ed esso dal lucente carro
Leggier d’un salto al suol gittossi, e al giogo
Lo scudiscio appoggiò. Nè stette a bada
Stenelo, il forte suo scudier, che pronto
Il tripode si tolse e la donzella 650
Premio del corso, e consegnato il tutto
Ai prodi amici, i corridor disciolse.
   Secondo giunse Antíloco che avea
Non per rattezza di destrier precorso
Menelao, ma per arte; e nondimeno 655
Questi a tergo gli è sì, che quasi il tocca.
Quanto si scosta dalla ruota il piede
Di corsier che pel campo alla distesa
Tragge sul cocchio il suo signor, lambendo
Co’ crini estremi della coda il cerchio 660
Del volubile giro che diviso
Da minimo intervallo ognor si volve
Dietro i rapidi passi; iva l’Atride
Sol di tanto discosto allor dal figlio
Di Néstore, quantunque egli da prima 665
Fosse rimasto un trar di disco indietro.
Ma dell’agamennónia Eta fu tale
La prestezza e il valor, che tosto il giunse.
E l’avría pure oltrepassato, e fatta
Non dubbia la vittoria, ove più lunga 670
Stata si fosse d’ambedue la corsa.
   Seguía l’Atride Merïon, preclaro
Scudier d’Idomenéo, distante il tiro
D’una lancia, perchè belli, ma pigri
I corridori egli ebbe, e perchè desso 675
Era il men destro nel guidar la biga.
Ultimo ne venía d’Admeto il figlio,
A stento il cocchio traendo, e dinanzi
Cacciandosi i destrieri. Lo compianse,
Come lo vide, Achille, e circondato 680
Dagli Achei, profferì queste parole:
   ""Ultimo giunge il più valente. Or via,
Diamgli il premio secondo; egli n’è degno.
Ma il primo al figlio di Tidéo si resti"".
Lodâr tutti il decreto, e fra gli applausi 685
Degli Achei sull’istante egli donata
La giumenta gli avría, se posta in campo
La sua ragione Antíloco al Pelíde
Non si volgea dicendo: ""Achille, io teco
Mi corruccio davver, se il tuo disegno 690
Metti a effetto. Perchè un Dio gli offese
I cavalli e il cocchio, e non gli valse
La sua prodezza, mi vorrai tu dunque
Il mio premio rapir? Chè non pors’egli
Prima ai numi i suoi voti? Ei non saría 695
Ultimo giunto nell’illustre aringo.
Chè se di lui pietà ti move, e questo
Al cor t’è grato, nella tenda hai molte
D’auro e bronzo conserve, hai molto gregge,
Hai fanciulle e cavalli. E tu il presenta 700
Di queste cose, e sian maggiori ancora,
Ma in altro tempo, o se il vuoi, pure adesso,
Onde ten vegna degli Achei la lode.
Ma questa io non vo’ darla, e dovrà meco
Sperimentarsi ogni uom che la pretenda "". 705
   Delle franche d’Antíloco parole
Compiaciuto, sorrise il divo Achille,
Cui caro amico egli era; e gli rispose:
""Antíloco, tu vuoi che s’abbia Eumelo
Di ciò che in serbo io tengo, altro presente; 710
E l’avrà. Gli darò d’Asteropeo
La di bronzo lorica, a cui dintorno
Scorre un bell’orlo di fulgente stagno;
Lavoro di gran pregio"". - E così detto,
Al suo fedele Automedonte impose 715
Di recar dalla tenda la lorica.
Volò quegli, e recolla al suo signore
Che in man la pose dell’allegro Eumelo.
   Contro Antíloco allor surse il cor pieno
Di doglia e d’ira Menelao. L’araldo 720
Misegli tosto nelle man lo scettro,
E silenzio intimò. Quindi l’eroe
Così a dir prese: ""O tu, che per l’innanzi
Grido avevi di saggio, che facesti?
Disonestasti, o Antíloco, la mia 725
Gloria, e cacciati per inganno avanti
Li tuoi corsieri assai da meno, i miei
Sconciamente offendesti. Or voi qui fate,
Prenci achivi, ragione ad ambedue
Senza rispetti; ch’io non vo’ che poi 730
Dica qualcuno degli Achei: L’Atride
Colle menzogne Antíloco aggravando
Via la giumenta si menò, vincendo
Di cavalli non già, ma di possanza
E di forza. Ma che? Senza paura 735
Di biasmo io stesso finirò la lite,
E fia retto il giudizio. Orsù, t’accosta,
Prode alunno di Giove, e giusta il rito
Statti innanzi alla biga, e d’una mano
Impugnando la sferza agitatrice, 740
E sì coll’altra i corridor toccando,
Giura a Nettunno non aver volente
Nè con frode impedito il cocchio mio"".
  "" Re Menelao, mi compatisci, accorto
L’altro rispose: giovinetto ancora 745
Son io: tu d’anni e di virtù mi vinci,
E dell’etade giovanil ben sai
I difetti: cuor caldo e poco senno.
Siimi dunque benigno. Ecco a te cedo
L’ottenuta giumenta; e s’altro brami 750
Del mio, darollo di cuor pronto, e tosto,
Anzi che l’amor tuo per sempre, o prence,
Perdere e farmi ai sommi iddii spergiuro"".
   Sì dicendo, di Néstore il buon figlio
La giumenta condusse, e alle mani 755
La ponea dell’Atride a cui di gioia
Intenerissi il cor. Siccome quando
Su i sitibondi culti la rugiada
Spargesi e avviva le crescenti spighe:
A te del pari, o Menelao, nel petto 760
Si sparse la letizia, e dolcemente
Gli rispondesti: ""Antíloco, a te cedo,
Deposta l’ira, io stesso. Unqua non fosti
Nè leggier nè bizzarro. Oggi fu vinto
Da sconsigliata giovinezza il senno .765
Ma il ben guardarsi dagl’inganni è bello
Co’ maggiori. Nessun m’avría placato
Sì facilmente degli Achei: ma molto
Coll’egregio tuo padre e col fratello
Per mia cagion tu soffri, e molto sudi; 770
Perciò m’arrendo al tuo pregare, e questa,
Ch’è mia, ti dono, a fin che ognun si vegga
Che nè fier nè superbo ho il cor nel petto"".
   Diè, ciò detto, d’Antíloco al compagno
Nöemón la giumenta, indi si tolse 775
Il fulgido lebéte; e Merïone,
Che quarto giunse, i due talenti d’oro.
Restava il quinto guiderdon, la coppa.
La prese Achille, e traversando il pieno
Circo, accostossi al buon Nestorre, e lieto 780
Presentolla all’eroe con questi accenti:
""Tieni, illustre vegliardo, e questo dono
Ricordanza ti sia delle funébri
Pompe del nostro Pátroclo, cui, lasso!
Non rivedrem più mai. Questo vogl’io 785
Che gratuito sia, poichè del cesto,
E dell’arco il certame e della lotta,
E del corso pedestre a te si vieta
Dalla triste vecchiezza che ti grava"".
   Tacque, e la coppa fra le man gli mise. 790
Lieto il veglio accettolla, e sì rispose:
""Ben parli, o figlio: le mie forze tutte
Sono inferme, o mio caro: il piè va lento:
Dispossato mi pende dalle spalle
L’un braccio e l’altro. Oh! giovine foss’io 795
E intero di vigor siccome il giorno
Che in Buprasio gli Epei diero al sepolcro
Il rege Amarincéo, proposti i ludi
Dai regali suoi figli! Ivi nessuno
Nè degli Epei nè de’ medesmi Pilii 800
Pari mi stette di valor, nè manco
De’ magnanimi Etóli. Io vinsi al cesto
Il figliuolo d’Enópe Clitoméde,
Alceo Pleurónio nella lotta a cui
M’avea sfidato: superai nel corso 805
L’agile Ifíclo, e nel vibrar dell’asta
Polidoro e Filéo. Soli all’equestre
Lizza innanzi m’andâr d’Attore i figli,
Che due contr’un gelosi invidïârmi
Una vittoria d’infinito prezzo. 810
Indivisi gemelli, uno reggeva
Sempre sempre i destrier, l’altro di sferza
Li percotea. Tal fui già tempo: or lascio
Siffatte imprese ai giovinetti, e forza
M’è l’obbedire alla feral vecchiezza. 815
Ma tra gli eroi fui chiaro anch’io. Tu segui
Del morto amico a onorar la tomba
Co’ fúnebri certami. Il tuo bel dono
M’è caro, e il prendo. Mi gioisce il core
Al veder che di me, che t’amo, ognora 820
Sei memore, e sai quale al mio canuto
Crine si debba dagli Achivi onore:
Di ciò ti dien gli Dei larga mercede"".
   Tutta udita di Nestore la lode,
Entrò il Pelíde nella calca, e il duro 825
Pugilato propose. Addur si fece
E annodar nel circo una gagliarda
Infaticabil mula, a cui già il sesto
Anno fioría, non doma, e a domarsi
Malagevole: premio al vincitore. 830
Pel vinto pose una ritonda coppa.
Indi surse, e parlava: ""Atridi, Achei,
Ecco i premii alli due che valorosi
Vorranno al cesto perigliarsi. Quegli,
Cui doni amico la vittoria il figlio 835
Di Latona, e l’affermino gli Achei,
S’abbia la mula, e il perditor la coppa"".
   Disse, e un uom si levò forte, membruto,
Pugilatore assai perito, Epéo,
Di Panope figliuol. Stese alla mula 840
Costui la mano, e favellò: S’accosti
Chi vuol la coppa, chè la mula è mia.
Niun degli Achivi vincerammi, io spero,
Nel certame del cesto, in che mi vanto
Prestantissimo. E che? forse non basta 845
Che agli altri io ceda in battagliar? Non puote
A verun patto un solo esser di tutte
Arti maestro. Io vel dichiaro, e il fatto
Proverà ciò che dico: al mio rivale
Spezzerò il corpo e l’ossa. Abbia vicino 850
Molti assistenti a trasportarlo pronti
Fuor della lizza da mie forze domo"".
   Tacque, e tutti ammutiro. Eravi un figlio
Del Taleónio Mecistéo, di quello
Che un dì nell’alta Tebe ai sepolcrali 855
Ludi venuto del defunto Edippo,
Tutti vinse i Cadmei. Costui di nome
Eurïalo, e guerrier di divo aspetto,
Fu il solo che s’alzò. Molto dintorno
Gli si adoprava il grande Dïomede, 860
E co’ detti il pungea, lui desïando
Vincitore. Egli stesso al fianco il cinto
Gli avvinse, e il guanto gli fornì di duro
Cuoio, già spoglia di selvaggio bue.
Come in punto si furo, ambi nel mezzo 865
Presentârsi gli atleti, e sollevate
L’un contra l’altro le robuste pugna,
Si mischiâr fieramente. Odesi orrendo
Sotto i colpi il crosciar delle mascelle,
E da tutte le membra il sudor piove. 870
Il terribile Epéo con improvvisa
Furia si scaglia all’avversario, e mentre
Questi bada a mirar dove ferire,
Epéo la guancia gli tempesta in guisa,
Che il meschin più non regge, e balenando 875
Con tutto il corpo si rovescia in terra.
Qual di Borea al soffiar l’onda sul lido
Gitta il pesce talvolta, e lo risorbe;
Tale l’invitto Epéo stese al terreno
Il suo rivale, e tosto generosa 880
La man gli porse, e il rïalzò. Pietosi
Accorsero del vinto i fidi amici
Che fuor del circo lo menâr gittante
Atro sangue, e i ginocchi egri traente
Col capo spenzolato, e in disparte 885
Condottolo, il posâr de’ sensi uscito:
Ed altri intorno gli restaro, e altri
A tor ne giro la ritonda coppa.
   Tronco ogn’indugio, Achille il terzo giuoco
Propose, il giuoco della dura lotta, 890
E de’ premii fe’ mostra; al vincitore
Un tripode da fuoco, e a cui di dodici
Tauri il valore dagli Achei si dava,
Ed al perdente una leggiadra ancella
Quattro tauri estimata, e che di molti 895
Bei lavori donneschi era perita.
Rizzossi Achille, e a quegli eroi rivolto,
""Sorga, disse, chi vuole in questo ludo
Del suo valor far prova"". Immantinente
Surse l’immane Telamónio Aiace, 900
E il saggio mastro delle frodi Ulisse.
Nel mezzo della lizza entrambi accinti
Presentârsi, e stringendosi a vicenda
Colle man forti s’afferrâr, siccome
Due travi che valente architettore 905
Congegna insieme a sostener d’eccelso
Edificio il colmigno, agli urti invitto
Degli aquiloni. Allo stirar de’ validi
Polsi intrecciati scricchiolar si sentono
Le spalle, il sudor gronda, e spessi appaiono 910
Pe’ larghi dossi e per le coste i lividi
Rosseggianti di sangue. Ambi del tripode
A tutta prova la conquista agognano,
Ma nè Ulisse può mai l’altro dismuovere
E atterrarlo, nè il puote il Telamónio, 915
Chè del rivale la gran forza il vieta.
Gli Achei noiando omai la zuffa, Aiace
All’emolo guerrier fe’ questo invito:
  "" Nobile figlio di Laerte, in alto
Sollevami, o sollevo io te: del resto 920
Abbia Giove la cura"". E così detto,
L’abbranca, e l’alza. Ma di sue malizie
Memore Ulisse col tallon gli sferra,
Al ginocchio di retro ove si piega,
Tale un súbito colpo, che le forze 925
Sciolse ad Aiace, e resupino il gitta
Con Ulisse sul petto. Alto levossi
De’ riguardanti stupefatti il grido.
Tentò secondo il sofferente Ulisse
Alzar da terra l’avversario, e alquanto 930
Lo mosse ei sì, ma non alzollo. Intanto
L’altro gl’impaccia le ginocchia in guisa
Che sossopra ambedue si riversaro
E lordârsi di polve. E già risurti
Saríano al terzo paragon venuti, 935
Se il figlio di Peléo levato in piedi
Non l’impedía, dicendo: Oltre non vada
La tenzon, nè vi state, o valorosi,
A consumar le forze. Ambo vinceste,
E v’avrete egual premio. Itene, e resti 940
Agli altri Achivi libero l’aringo.
Obbedîr quegli al detto, e dalle membra
Tersa la polve, ripigliâr le vesti.
   Pose, ciò fatto, i premii alla pedestre
Corsa: al primo un cratere ampio d’argento, 945
Messo a rilievi, contenea sei metri,
Nè al mondo si vedea vaso più bello.
Era d’industri artefici sidonii
Ammirando lavoro, e per l’azzurre
Onde ai porti di Lenno trasportato 950
L’avean fenicii mercatanti, e in dono
Cesso a Toante. A Pátroclo poi diello
Il Giasónide Eunéo, prezzo del figlio
Di Príamo Licaone: e or l’espose
Premio il Pelíde al vincitor del corso 955
In onor dell’amico. Un grande e pingue
Tauro al secondo; all’ultimo d’ôr mette
Mezzo talento, e ritto alza la voce:
Sorga chi al premio delle corse aspira.
   E sursero di súbito il veloce 960
Aiace d’Oiléo, lo scaltro Ulisse,
E il Nestóride Antíloco, il più ratto
De’ giovinetti achei. Posti in diritta
Riga alle mosse, additò lor la meta
Il Pelíde, e diè il segno. In un baleno 965
S’avventâr dalla sbarra, e innanzi a tutti
L’Oilíde spiccossi: Ulisse a lui
Vicino si spingea quanto di snella
Tessitrice al sen candido la spola,
Quando presta dall’una all’altra mano 970
La gitta, e svolge per la trama il filo,
E sull’opra gentil pende col petto:
Così l’incalza Ulisse, e col seguace
Piè ne preme i vestigi anzi che s’alzi
Il polverío dintorno; e sì correndo 975
Gli manda il fiato nella nuca. Un grido
Sorge di plauso d’ogni parte, e tutti
Gli fan cuore alla palma a cui sospira.
   Eran del corso ormai presso alla fine,
Quando a Minerva l’Itaco dal core 980
Mandò questa preghiera: ""Odimi, o Dea,
E soccorri al mio piè"". - La Dea l’intese,
Gli fe’ lievi le membra, i piè, le braccia;
E come fur per avventarsi entrambi
Ad un tempo sul premio, l’Oilíde 985
Da Minerva sospinto sdrucciolò
In lubrico terren sparso del fimo
De’ buoi mugghianti dal Pelíde uccisi
Di Pátroclo alla pira. Ivi il caduto
Nari e bocca insozzossi. Il precorrente 990
Divo Ulisse il cratere ampio si prese,
E l’Oilíde il bue. Della selvaggia
Fera il corno impugnò l’eroe doglioso,
La lordura sputando, e fra la turba
Ruppe in questo lamento: ""Empio destino! 995
Per certo i piedi mi rubò la Dea
Che da gran tempo va d’Ulisse al fianco,
E qual madre sel guarda"". - Accompagnaro
Tutti il suo cruccio con un dolce riso.
   Ultimo giunto Antíloco si tolse 1000
L’ultimo premio, e sorridendo disse:
""Amici, i numi, lo vedete, onorano
I provetti mortali. Aiace innanzi
Mi va di poca etade: Ulisse al tempo
De’ nostri padri è nato, e nondimeno 1005
Egli è rubizzo e verde, e nullo al corso
Superarlo potría, tranne il Pelíde"".
   Questo sol disse: e l’esaltato Achille
Così rispose: ""Antíloco, non fia
Detta invan la tua lode. Eccoti d’oro 1010
Altro mezzo talento"". - E sì dicendo
Gliel porse, e quegli giubilando il prese.
   Dopo ciò, fe’ recarsi, e nell’arena
Depose Achille una lunghissim’asta,
Uno scudo e un elmo
, armi rapite 1015
Già da Patróclo a Sarpedonte; e ritto
Nel mezzo degli Achei, Vogliamo, ei disse,
Che per l’esposto guiderdone armati
Due guerrier de’ più forti con acuto
Tagliente acciar davanti all’adunanza 1020
Combattano. Chi pria punga la pelle
Dell’avversario, e rotte l’armi, il sangue
Ne tragga, avrassi questo brando in dono
Di tracia lama, e bello e tempestato
D’argentei chiovi. Di quest’arme io stesso 1025
Asteropéo spogliai. L’altre saranno
Premio comune. Ai combattenti io poscia
Nelle tende farò lauto banchetto"".
   Surse subitamente al fiero invito
Lo smisurato Telamónio Aiace, 1030
Surse del par l’invitto Dïoméde,
E armatisi in disparte ambo nel campo
Pronti alla pugna s’avanzâr gli eroi
Con terribili sguardi. Alto stupore
Tutti occupava i circostanti Achei. 1035
L’uno all’altro appressati a fiero assalto
Si disserrâr tre volte, e tre alla vita
Impetuosi s’investîr. Primiero
Aiace traforò di Dïoméde
Il rotondo brocchier, ma non la pelle 1040
Dall’usbergo difesa. Indi il Tidíde
Sopra la penna dello scudo all’altro
Spinse rapido l’asta, e nella strozza
Gliel’appuntò. D’Aiace al fier periglio
Spaventârsi gli Achivi, e della pugna 1045
Gridâr la fine, e premio egual. Ma il brando
Col bel cinto l’eroe diello al Tidíde.
   Grezzo, qual già dalla fornace uscío,
Un gran disco il Pelíde allor nel mezzo
Collocò.
Lo solea l’immensa forza 1050
Scagliar d’Eezïone; a costui morte
Diè poscia il divo Achille, e nelle navi
Con altre spoglie si portò quel peso.
Ritto alzossi, e gridò: ""Sorga chi brama
Così bel premio meritarsi. In questo 1055
Il vincitor s’avrà per cinque interi
Giri di Sole di che all’uopo tutto
Provveder de’ suoi campi anche remoti:
Nè suoi bifolchi nè pastori andranno
Per bisogno di ferro alla cittade, 1060
Chè questo ne darà quanto è mestiero"".
   Levossi il bellicoso Polipete;
Levossi Leontéo, forza divina;
Levossi Aiace Telamónio, e seco
Il muscoloso Epéo. Locârsi in fila, 1065
E primo Epéo scagliò l’orbe rotato,
Ma sì mal destro, che ne rise ognuno.
Il rampollo di Marte Leontéo
Fu secondo a lanciar: terzo il gran figlio
Di Telamone, che con man robusta 1070
Ogni segno passò: quarto alla fine
Con fermo polso Polipete il disco
Afferrò. Quanto lungi un pastorello
Gitta il vincastro che rotato in alto
Vola sopra l’armento; andò di tanto 1075
Fuor del circo il suo tiro. Applause tutto
Il consesso: affollârsi i fidi amici
Del forte Polipete, e alla sua nave
Portâr del disco la pesante massa.
   Invitò quindi i saettieri, e in mezzo 1080
Dieci bipenni espose e dieci accette;
E piantato lontano nell’arena
Un albero navale, avvinse a questo
Con sottil fune al piede una colomba,
Segno alle frecce. ""Le bipenni prenda 1085
Chi l’augel coglie, e le si porti. Quello
Che il fallisca, e a toccar vada la fune,
Essendo inferïor, s’abbia l’accette"".
   Ciò detto appena, presentossi il forte
Re Teucro, e Merïon d’Idomenéo 1090
Prode sergente, e in un sonoro elmetto
Agitate le sorti, uscì primiero
Teucro, e tosto lo stral tirò di forza.
Ma perché non aveva votata a Febo
Di primo-nati agnelli un’ecatombe, 1095
Sfallì l’augello (chè tal lode il Dio
Gl’invidïò); sol colse al piè la fune
Che legato il tenea. Tagliolla il dardo;
Libera la colomba a volo alzossi
Per lo cielo, e fuggì; cadde la fune, 1100
E di plausi sonar s’udía l’arena.
Ratto allora di mano a Teucro tolse
Merïon l’arco, e ben presa la mira
Colla cocca sul nervo, al saettante
Nume promise un’ecatombe; e in alto 1105
Adocchiata la timida colomba
Che in vario giro s’avvolgea, la colse
Sotto l’ala. Passolla il dardo acuto,
E ricadde, e s’infisse alto nel suolo
Di Merïone al piè. Ma la ferita 1110
Colomba si posò sovra l’antenna,
Stese il collo, abbassò l’ali diffuse,
E dal corpo volata la veloce
Alma, dal tronco piombò. Stupefatte
Guardavano le turbe. Allor si tolse 1115
Le scuri Merïon, Teucro l’accette.
   Produsse Achille all’ultimo nel mezzo
Una lunga lunga asta, e un lebéte
Non vïolato dalle fiamme ancora,
Del valore d’un tauro, e sculto a fiori, 1120
Premio alla prova delle lance. Alzossi
L’ampio-regnante Atride Agamennóne
E il compagno fedel del re cretese
Merïon. Ma levatosi il Pelíde,
Trasse innanzi, e parlò: ""Figlio d’Atreo, 1125
Sappiam noi tutti come tutti avanzi
E nel vibrar dell’asta e nella possa.
Prenditi dunque questo premio, e il manda
Alla tua nave. A Merïon daremo,
Se il consenti, la lancia; ed io ten prego"". 1130
   Acconsentì l’Atride. A Merïone
Diede Achille la lancia, e all’araldo
D’Agamennón lo splendido lebéte.

Testo di Vincenzo Monti.

Mi sono permesso di sostituire alcune parole desuete e di accettare solo la d eufonica.

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lotta

Scena di lotta su un'anfora del V secolo AC

Lo sport da Omero a oggi

L'attività sportiva dai poemi omerici a oggi: da attività competitiva ed elemento di esclusione a mezzo per migliorare la vita dei cittadini Dai poemi omerici provengono le prime testimonianze scritte di attività sportive: i giochi funebri in onore di Patroclo nell’Iliade e la competizione per ottenere la mano di Penelope tendendo l’arco di Ulisse nell’Odissea ne sono un chiaro esempio. E' interessante elencare i giochi effettuati in onore di Patroclo: corsa con i cocchi, pugilato, lotta libera, corsa, combattimento con elmo, lancia e scudo, lancio del disco, tiro con frecce per colpire una colomba, lancio dell'asta; si può supporre che Omero abbia tratto questo elenco dai giochi che si tenevano nelle arene di tutta la Grecia. In Grecia sono nate le Olimpiadi, che si tenevano ogni quattro anni e stabilivano la pace tra le poleis: nella prima guerra persiana non è un caso che Leonida debba recarsi alle Termopili con il suo solo seguito, senza l’esercito spartano, perché erano in corso i Giochi Olimpici. Nell’ambito artistico, a proposito di Olimpiadi, celebre è Il discobolo di Mirone. Senofane scrive che i vincitori delle competizioni ricevevano un cimelio, onori e vitto a spese pubbliche , lamentandosi perché « è davvero un’usanza irragionevole, né è giusto preferire la forza al pregio della sapienza». Dello stesso parere è Seneca, che ritiene "inutile perdere tempo nella cura del fisico, meglio sarebbe impiegare il tempo nello studio della filosofia". E’ sempre Seneca a denunciare il gusto per la violenza nei giochi che si tenevano in arene e anfiteatri romani, dove il pubblico si lamentava se non vedeva scontri sanguinosi. Il tema dei gladiatori è ripreso in Pollice Verso di Gèrome, dipinto nel 1872, dove c’è il mitico e antistorico gesto dell’imperatore che, inclinando il pollice in basso, inviterebbe il gladiatore a uccidere il vinto a terra. Senza dare giudizi morali, Tacito descrive i giochi dei Germani, quali la danza tra i coltelli: sembra chiaro che l’attività sportiva è connaturata dall’antichità all’essere umano, come forma di realizzazione nell’ambito competitivo della società. Questa tradizione agonistica continua a essere descritta nel ciclo bretone, con narrazioni di giostre e tornei tra cavalieri: i migliori impressionavano le dame di corte, conquistandole con le loro gesta.
Dall’epoca medievale all’Ottocento mancano grandi autori che parlino di competizioni sportive, ma è noto che si tenessero: nel Trecento nacque l’antenato del moderno tennis, e il calcio fiorentino ancora oggi praticato nacque poco dopo. La grande fioritura della competizione sportiva e la sua seconda età dell’oro sono da ricercare nel secondo Ottocento, con l’avvento della società di massa: lo sport venne alla portata di molti, nacquero le prime federazioni, si svilupparono le prime competizioni, si diffusero la bicicletta, il calcio, il cricket, il tennis, regolamentato nel 1875; nel 1893 nacque il Genoa Cricket e Football Club. Non deve stupire che d’Annunzio, ne Il Piacere, romanzo famoso appartenente al filone dell’Estetismo, narri di una vittoria sportiva in una corsa di cavalli, unita alla conquista di una delle molte donne da parte di Andrea Sperelli.
Lo sport rifiorì con il ritorno dei Giochi Olimpici ad Atene, nel 1896. Da allora l’attività sportiva entra nella vita di tutti, si sviluppano nuove attività e federazioni, nasce il CONI; la competizione sportiva diventa un banco di sfida alternativo alla guerra per le nazioni, e non è un caso che nel 1916, nel 1940 e nel 1944 non si siano tenuti i Giochi Olimpici: la guerra aveva colpito l’Europa e il mondo intero. Anche in periodi pacifici, le Olimpiadi divennero un pretesto politico: il nazismo, che tra i princìpi cardine ha la cultura del corpo, utilizzò i Giochi Olimpici di Berlino (1936) come efficacissimo mezzo di propaganda, attività letteraria efficace, che penetrò nelle coscienze di chi vide tutto questo. In campo architettonico, l’Olympiastadion fu un esempio dell’attività nazista in campo artistico. Proprio a Berlino l’attività di discriminazione razziale si estende al campo sportivo: più di un atleta tedesco con ambizioni da medaglia venne escluso dai giochi in quanto ebreo. Quando due anni dopo in Italia si proclamano le leggi razziali, esse sono estese anche allo sport, evidentemente una parte importante della vita del cittadino, se comportava un’esclusione dai circoli: Bassani, ne Il giardino dei Finzi-Contini, narra di una telefonata di Alberto Finzi-Contini, il quale invita il protagonista a giocare a tennis nel suo campo privato, siccome ha saputo che agli ebrei era stato precluso il circolo.
Un elemento di coesione come lo sport è utilizzato quindi per dividere, ma Saba ci dice che ha anche una straordinaria capacità di unire: in Goal il poeta descrive la gioia provata quando una squadra segna, dicendo che ci sono «pochi momenti come questo belli». Con lo sviluppo del giornalismo sportivo l’attività agonistica è raccontata dalla letteratura con biografie, narrazioni, resoconti, mentre l’arte utilizza soprattutto la fotografia, anche se col passare degli anni lo sport è sbarcato nell’ambito musicale e cinematografico: questo perché le competizioni hanno contribuito alla creazione di nuovi miti, nuovi eroi in un certo senso sostitutivi di quelli del mito che non sentiamo più nostri. Ecco quindi spiegata la mitizzazione di Maradona a Napoli, di Pelè in Brasile, di Michael Jordan negli Stati Uniti.
Le gesta sportive parlano per loro e hanno un importante peso politico. In Italia, dopo l’attentato a Togliatti, il paese era piombato in un clima surreale, sembrava che sarebbe scoppiata una nuova guerra civile: De Gasperi chiese a Bartali, che gareggiava nel Tour, di vincere per riunire gli italiani e farli desistere. Avvenne effettivamente questo, a evidenziare ancora una volta quanto la componente sportiva sia diventata importante nella vita.
Quanto ha detto Senofane è ancora vero? Si preferisce la forza alla sapienza ancora oggi? Non è vero questo, in primo luogo perché oltre alla componente fisica per vincere sono importanti qualità tecniche e intellettive di buon livello, ma oltre a ciò, lo sportivo oggi può far sentire la propria voce su innumerevoli temi, e sa che molti lo ascolteranno perché è famoso: è nata da qualche anno The Players’ Tribune, piattaforma online in cui le star possono parlare di ciò che desiderano, dalle tematiche prettamente connesse alla loro attività fino all’ambito sociale, economico, politico. Il problema tra polizia e afroamericani è stato più volte affrontato da giocatori NBA: se è vero che la qualità del loro scritto non può essere paragonabile all’attività artistica e letteraria di Mirone e d’Annunzio, è anche vero che la letteratura in ambito sportivo oggi, accanto a biografie e film, è costituita prevalentemente da articoli di giornale, dalla voce degli stessi atleti e dall’epica che si crea intorno ad essi.
Anche senza questo portale il gesto sportivo eclatante suscitava riflessioni: nel 1966, nel bel mezzo dei conflitti razziali negli Stati Uniti, Martin Luther King aveva pronunciato il suo celebre discorso, i Texas Western Miners vinsero il titolo NCAA, utilizzando una squadra con soli afroamericani, facendo capire al mondo l’inutilità del razzismo. Non è da ritenersi casuale che, dopo che sfilarono insieme le due Coree ai Giochi Olimpici Invernali del 2018, ora si prefigura una distensione dopo il clima di tensione dei mesi precedenti. Senofane ha ragione nel dire che se tra i cittadini di una polis c’è un abile pugile, non per questo all’interno di essa l’ordine sarà migliore; ma oggi, se quel pugile fa sentire la propria voce, inevitabilmente la polis potrebbe guadagnarne: la comunicazione di massa ha portato anche a questo.

Eugenio Caruso - 04-12 - 2021

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