Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.
Cherubini - Raffaello
RIASSUNTO DEL CANTO XXVIII
Il Canto forma con quello che segue una sorta di «dittico» dedicato alla descrizione delle gerarchie angeliche e alle loro caratteristiche, affidata naturalmente alle parole di Beatrice che dapprima, nel XXVIII, descrive ed enumera gli ordini degli angeli confutando le opinioni già espresse da Dante nel Convivio, e in seguito (XXIX) affronta questioni più dettagliate sull'angelologia, attaccando duramente i falsi predicatori che diffondono falsità e leggende su questa delicata materia. L'insolita ampiezza della trattazione può stupire il lettore moderno, ma è chiaro che l'argomento riveste un'importanza tutta particolare nella dottrina cristiana del tempo, tanto più che sugli angeli circolavano parecchie nozioni errate che qui Dante intende almeno in parte correggere: gli angeli possono essere oggetto di speculazione filosofica, ma data la loro distanza dal mondo sensibile è impossibile che la sola ragione possa giungere a conclusioni attendibili sulla loro natura e le loro caratteristiche, per cui deve intervenire la rivelazione come fonte privilegiata di conoscenza (non a caso Beatrice cita proprio san Paolo che vide coi suoi occhi ciò che Dante stesso vede nel Primo Mobile, mentre le sue affermazioni nel Convivio si rivelano inesatte come quelle di Gregorio Magno).
Il Canto si apre infatti con la visione da parte del poeta di un punto infinitamente piccolo e luminosissimo, circondato da nove cerchi fiammeggianti che raffigurano Dio e gli ordini angelici: il poeta ne scorge in realtà il riflesso negli occhi di Beatrice-teologia, per poi voltarsi a osservare lo spettacolo direttamente (che è come dire che la dottrina rivelata ci fornisce un'ombra di verità su qualcosa che è impossibile comprendere col solo intelletto), e li descrive come tanto più veloci e lucenti quanto più si avvicinano al centro, cioè all'amore divino.
Si è molto discusso se Dante veda i cori angelici nel Primo Mobile o nell'Empireo attraverso la sfera trasparente del IX Cielo, oppure se tale visione sia infusa da Dio direttamente nella sua mente, ma quel che è certo è che la struttura di tale spettacolo suscita dubbi nel poeta, in quanto ciò che dev'essere il modello ideale per il mondo sensibile (ed è Beatrice stessa poco oltre a confermare questa corrispondenza) sembra differente rispetto alla struttura dell'Universo, in cui i Cieli sono tanto più ampi quanto più si allontanano dalla Terra. È ovviamente Beatrice a sciogliere il dubbio con la prima parte della sua spiegazione, su un argomento che non è mai stato affrontato prima da nessuno e per il quale l'intelletto di Dante è di per sé insufficiente: la soluzione sta nel fatto che non conta la dimensione dei cerchi luminosi, ma la maggiore o minore vicinanza a Dio, per cui non è strano che le sfere celesti (che sono corpi fisici, mentre le intelligenze angeliche sono esseri spirituali) siano tanto più ampie quanto maggiore è la virtù che contengono, fino al Primo Mobile che racchiude l'intero Universo sensibile.
La spiegazione è tutt'altro che banale, in quanto illustra il rapporto tra mondo ideale e mondo fisico, giustificando in fondo la struttura che costituisce l'impalcatura dottrinale dell'intero poema: più avanti Beatrice aggiungerà che ogni ordine angelico guarda a Dio come suo principio, diffondendo poi sulla Terra il proprio benefico influsso, per cui tutti tirati sono e tutti tirano (su questo rapporto di amore e virtù si regge tutto l'Universo, in quanto la gioia delle intelligenze angeliche è commisurata alla profondità con cui fruiscono della visione di Dio, e la loro letizia si riverbera poi su tutti gli elementi del Creato). L'importanza della disquisizione di Beatrice è sottolineata dalla complessa similitudine con cui Dante descrive la chiarezza che si produce nella sua mente, per cui come stella in cielo il ver si vide, che è anche l'alta coscienza di aver affrontato e sciolto un nodo dottrinale mai tentato prima da alcuno, nel che si ritrova il motivo del primus ego che tornerà varie volte nel finale di Cantica e soprattutto nel Canto XXXIII.
La seconda parte della spiegazione riguarda l'esatto ordine delle intelligenze angeliche e, dunque, dei Cieli che esse governano, materia nella quale Dante corregge le precedenti affermazioni di Conv., II, 5: lì il poeta si era rifatto alle teorie angelologiche di san Gregorio Magno, il quale però era in errore in quanto aveva basato il suo ragionamento solo sulla filosofia e non sulla verità rivelata, come invece fece Dionigi Areopagita (cui si attribuiva il De coelesti Hierarchia) a sua volta seguendo la testimonianza di san Paolo. Quest'ultimo vide gli ordini angelici coi propri occhi quando venne rapito in estasi in Cielo, esattamente come li vede ora Dante e come li vide lo stesso Gregorio dopo la morte, ridendo del proprio errore: per l'ennesima volta Dante ribadisce l'insufficienza della sola ragione nel dirimere complesse questioni dottrinali, che possono essere oggetto di fede ma non sempre di indagine filosofica, per cui solo nell'Oltretomba vedremo sensibilmente ciò che qui, sulla Terra, è invisibile e pertanto indimostrabile secondo i procedimenti della speculazione.
Tale spiegazione anticipa quelle più dettagliate che seguiranno nel Canto XXIX circa il numero degli angeli, la loro natura e le loro facoltà, volte anch'esse a ribadire che solo la rivelazione può dire una parola definitiva su argomenti tanto delicati e a condannare le vanità di filosofi e predicatori senza scrupoli: bersaglio polemico di Beatrice saranno non solo i ciarlatani che diffondono fole su questioni dottrinali, ma anche i cattivi filosofi che vaneggiano con eccessiva leggerezza su materie di questo tipo e finiscono, più o meno volutamente, per distorcere la parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture. È chiaro che fra essi non va incluso Gregorio Magno e neppure Dante, che pure nella sua indagine filosofica precedente il poema espresse varie opinioni errate, ma questo richiamo sembra un chiaro riferimento al suo «traviamento» intellettuale che è alla base della Commedia e che poteva costargli caro sul piano della salvezza: le parole di Beatrice, qui come nel Canto seguente, rappresentano l'insegnamento veridico della teologia che sola può spazzare via i dubbi che offuscano la mente e far risplendere il vero come stella in cielo, mentre al di fuori di essa vi è spazio solamente per teorie azzardate sul piano dell'esattezza dottrinale, quando non decisamente inclini all'eresia e al distorcimento di quanto affermato nel testo sacro.
Il parallelismo tra Dante e san Paolo.
In vari momenti chiave del poema Dante paragona se stesso a san Paolo, specie quando allude all'ascesa al III Cielo che l'Apostolo descrive nella II Epistola ai Corinzi: in Inf., II, 28-30 il poeta cita espressamente il Vas d'elezione (secondo l'espressione Vas electionis, «strumento della scelta») come colui che dopo Enea fu protagonista di un viaggio ultraterreno, venendo appunto rapito in estasi e condotto in Cielo, per recare conforto a quella fede / ch'è principio alla via di salvazione. Poco dopo Dante afferma di non essere né Enea né Paolo e di non sentirsi pronto ad affrontare un simile viaggio, ma Virgilio lo convincerà del contrario e che proprio lui, in forza dei suoi meriti letterari, è stato prescelto dalla Provvidenza divina all'alto compito di vedere lo stato delle anime dopo la morte e riferire la visione nella Commedia, non diversamente da quanto Paolo fece in modo allusivo nella lettera del Nuovo Testamento. Del resto anche l'avo Cacciaguida, accogliendo Dante nel V Cielo di Marte (Par., XV, 28-30), si chiede a chi oltre a lui sia stato concesso di visitare due volte il Paradiso, domanda retorica in quanto la risposta è appunto san Paolo; e più avanti, nel Cielo delle Stelle Fisse, il poeta perderà temporaneamente la vista per aver fissato troppo intensamente la luce di san Giovanni Evangelista, e sarà Beatrice a ridargliela col suo sguardo in cui, è detto esplicitamente, c'è la stessa virtù delle mani con cui Anania guarì gli occhi a san Paolo folgorato sulla via di Damasco (Par., XXVI, 10-12).
Tale insistenza non è certo casuale e deriva dal fatto che analogo è il percorso affrontato dai due personaggi, peraltro molto diversi, in quanto entrambi protagonisti di una sorta di «conversione» e, in seguito, di un'eccezionale esperienza di «rivelazione» del mondo ultraterreno con la missione di riferire ogni cosa al mondo per rafforzare la fede nella vita dopo la morte: Saulo era un persecutore di Cristiani e dopo la folgorazione si convertì diventando il più zelante degli Apostoli, ma anche Dante si smarrisce nella selva oscura in seguito al suo «traviamento» e viene soccorso da Beatrice-teologia, ricevendo poi l'incarico del viaggio nei tre regni dell'Oltretomba (e specie nel Paradiso il viaggio assume i caratteri di un rapimento mistico, simile dunque all'esperienza paolina).
Alla base di questo parallelismo non c'è solo l'importanza centrale del pensiero e dell'opera di Paolo nella teologia cristiana, ma anche la considerazione che la rivelazione della verità è fondamentale nella conoscenza delle cose celesti, essendo la sola speculazione filosofica insufficiente: Paolo fu rapito al III Cielo e della sua esperienza parlò una volta tornato sulla Terra, ed è ciò che fa anche Dante nel poema non limitandosi, come in fondo aveva fatto nel Convivio, a usare la ragione come mezzo per arrivare alla verità; in Cielo vedremo coi nostri occhi quelle cose invisibili sulla Terra, che possono essere solo oggetto di fede e non sono dimostrabili con l'ausilio dell'intelletto (è la celebre definizione della fede stilata dallo stesso san Paolo e da Dante recitata a san Pietro durante l'esame di Par., XXIV) e ciò è ribadito ancora una volta nel Canto XXVIII della III Cantica, allorché Beatrice illustrerà a Dante l'esatto ordine delle gerarchie angeliche basandosi sulla catalogazione attribuita a Dionigi l'Areopagita, che a sua volta si sarebbe rifatto al suo maestro san Paolo che aveva visto quelle cose nella sua esperienza mistica.
Il poema nasce da una potente e straordinaria rivelazione, elargita per grazia divina a Dante in virtù di un incredibile privilegio, ed è chiaro che l'elemento della rivelazione è al centro della stessa religione cristiana, di cui proprio Paolo aveva posto le basi teoretiche nelle Epistole del Nuovo Testamento fra cui quella in cui narrava del suo viaggio celeste (e la Commedia è un libro ispirato proprio come lo è la Bibbia, essendo il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, per cui è come se Dante ritenesse di scrivere sotto dettatura divina, non diversamente da come fece lo stesso san Paolo in quanto autore del testo sacro). Stupisce pertanto che un personaggio così importante non compaia direttamente nella descrizione della III Cantica, pur essendo tante volte evocato e addirittura accostato esplicitamente alla figura del poeta come protagonista del viaggio: non sappiamo neppure quale posto egli occupi nella rosa dei beati e questo è quanto meno sorprendente, benché non sia l'unica assenza di rilievo nella descrizione del Paradiso (un'altra è quella di san Domenico, protagonista del Canto XII ma ignorato al momento della presentazione della rosa celeste).
Ignoriamo quale sia la ragione di tale scelta da parte di Dante, se non quella forse di adombrare anche in tal modo l'identificazione fra se stesso e il santo, che dunque non compare accentuando il ruolo provvidenziale assunto dal poeta: la questione è probabilmente destinata a restare insoluta, ma è innegabile che uno dei pensatori più importanti nell'impalcatura dottrinale dell'opera, almeno quanto lo è san Tommaso d'Aquino, rimane stranamente dietro le quinte e ciò costituisce uno degli enigmi della straordinaria opera dantesca (in cui, è fin troppo evidente, non tutto è chiaramente comprensibile per decisione del suo stesso autore).
Note
- Il vb. imparadisa («esalta a gioie paradisiache», v. 3) è un probabile neologismo dantesco, affine a inciela e impola.
- Il doppiero (v. 4) era una sorta di candelabro con due ceri, detto così dal lat. doplerus.
- Il v. 9 vuol dire probabilmente «come il canto (nota) si accorda con la musica (metro)».
- Il volume del v. 14 è il Primo Mobile, detto così in quanto avvolge tutto il Creato (esso è il real manto di tutti i volumi / del mondo,XXIII 112-113), benché i vv. 13-15 siano variamente interpretati per la difficoltà di stabilire se il punto e i nove cerchi siano visibili a Dante nel IX Cielo, o nell'Empireo, o solo nella sua mente (molte le ipotesi a riguardo, ma nessuna davvero convincente).
- Al v. 23 alo vuol dire «alone», dal lat. halos; anche igne (v. 25) è lat. per «fuoco».
- Il moto che più tosto il mondo cigne (v. 27) è il movimento rapidissimo del Primo Mobile.
- Al v. 32 il messo di Iuno è l'arcobaleno, ovvero la scia che secondo il mito lasciava in cielo Iride quando recava i messaggi di Giunone ai mortali sulla Terra.
- Il cerchio citato al v. 43 è il più vicino a Dio, quindi corrisponde ai Serafini: il nome di queste intelligenze angeliche voleva dire «ardenti» d'amore per Dio, etimologia nota a Dante attraverso san Tommaso d'Aquino (Summa theol., I, q. LXIII: Seraphim vero denominatur ab ardore caritatis).
- I vv. 53-54 indicano il IX Cielo, che ha per confine l'Empireo (solo amore e luce).
- Ai vv. 55-56 essemplo ed essemplare vogliono dire «modello» e «copia», ma le opinioni sono discordi sull'esatto valore da dare ai due termini.
- Al v. 64 arti è lat. per «stretti» (cfr. Purg.,1XXVII 32).
- Al v. 68 cape è ancora lat. per «contiene», «racchiude».
-Al v. 70 costui indica il Primo Mobile; al v. 72 il cerchio che più ama e che più sape è l'ordine dei Serafini, dotati di maggior ardore di carità e maggiore sapienza, essendo gli angeli che vedono più addentro alla mente di Dio.
- Al v. 81 Borea indica il vento di maestrale, qui rappresentato secondo l'iconografia del Medioevo come un volto umano intento a soffiare con le guance gonfie in tre direzioni diverse: Borea soffiava il maestrale, il vento più dolce (leno), gonfiando la guancia destra.
- Al v. 82 roffia è una parola usata solo qui nel poema e di difficile interpretazione: alcuni pensano a una voce toscana che indica le impurità derivanti dalla concia delle pelli, mentre altri collegano il termine all'ant. fr. roife, «crosta». In entrambi i casi, il senso è che le parole di Beatrice hanno spazzato via ogni impurità del cielo, ogni nuvolaglia.
- Al v. 84 paroffia vuol dire «parte», «plaga» e deriva prob. da una voce antica per «parrocchia».
- Il v. 91 è stato variamente interpretato, ma forse vuol dire solo che gli angeli seguono il proprio cerchio come scintille, senza per questo staccarsi da esso.
- I vv. 92-93 alludono alla leggenda dell'inventore degli scacchi, che chiese al re persiano come ricompensa un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due per la seconda, quattro per la terza, e così via, in progressione geometrica (il tema ricorre nella lett. medievale, ad esempio nel Mare amoroso e in Folchetto di Marsiglia). Il numero che si ricava è astronomico, essendo formato da venti cifre, quindi Dante intende dire che il numero degli angeli entra nelle migliaia più del raddoppiare degli scacchi, nel senso che è più alto. Sul numero degli angeli Beatrice tornerà in, XXIX 127-135.
- Al v. 93 s'inmilla è neologismo dantesco, analogo a s'incinqua e s'intrea.
- Al v. 100 i vimi sono i legami d'amore che uniscono Serafini e Cherubini a Dio.
- I vv. 103-105 hanno creato difficoltà agli interpreti, perché Dante sembra dire che i Troni si chiamano così perché chiudono il primo ternaro, ovvero la prima gerarchia, cosa non spiegabile: è probabile che il v. 105 vada legato al 103, dunque la terzina vuol dire «Quelle altre intelligenze angeliche che girano intorno, per cui chiusero al momento della creazione la prima gerarchia, si chiamano 'Troni dell'aspetto divino'». Dubbi suscita anche il passato terminonno, in quanto i Troni chiudono tuttora la gerarchia e si può forse riferire al momento della loro creazione.
- Nei vv. 109-111 Dante afferma, seguendo san Tommaso e discostandosi dal pensiero dei mistici, che la beatitudine si fonda sulla visione di Dio e che l'amore che ne segue è un atto successivo; anche in Mon., III, 16 il poeta aveva affermato ...beatitudinem vite eterne que consistit in fruitione divini aspectus («...la beatitudine che consiste nella fruizione della visione di Dio»).
- Al v. 117 notturno Ariete indica l'autunno, quando la costellazione dell'Ariete è opposta alla posizione del Sole, per cui sorge quando il Sole tramonta e viceversa: Dante intende dire che la primavera sempiterna del Cielo (forse nel senso di «fioritura» e non della stagione) non è mai spogliata dall'autunno come sulla Terra.
- Il vb. sberna (v. 118) vuol dire propriamente «esce dall'inverno» e, metaforicamente, indica il canto degli uccelli in primavera, quindi ha il significato di «canta».
- Il vb. vincon (v. 128) ha il significato di «attrarre verso di sé».
- I vv. 130 ss. alludono alle teorie angelologiche di Dionigi Areopagita (a lui era attribuito il trattato De coelesti Hierarchia, forse scritto nel V sec. da un filosofo neoplatonico), incluso da Dante fra gli Spiriti sapienti delIV cielo e preso a modello per l'esatto ordine delle gerarchie in quanto egli era stato discepolo di san Paolo. Da Dionigi si era allontanato Gregorio Magno, che nei Moralia citava le gerarchie nello stesso ordine seguito da Dante in Conv., II, 5, citandolo forse dal Trésor di Brunetto Latini.
- I vv. 138-139 alludono a san Paolo e alla sua ascesa in Paradiso, citata anche in Inf., II, 28-30: lo pseudo-Dionigi nel De coelesti Hierarchia affermava Has autem in tres ternarios ordines digerit inclytus initiator noster... is qui ad tertium coelum evectus, ...raptus in Paradisum; magnus, inquam, Paulus («Questi ordini furono rivelati in tre gerarchie dal nostro nobile maestro, colui che fu portato al III Cielo e rapito in Paradiso; mi riferisco al grande Paolo»).
Conversione di San Paolo, dipinto del Caravaggio
TESTO DEL CANTO XXVIII
Poscia che ‘ncontro a la vita presente
d’i miseri mortali aperse ‘l vero
quella che ‘mparadisa la mia mente, 3
come in lo specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n’alluma retro,
prima che l’abbia in vista o in pensiero, 6
e sé rivolge per veder se ‘l vetro
li dice il vero, e vede ch’el s’accorda
con esso come nota con suo metro; 9
così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda. 12
E com’io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben s’adocchi, 15
un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume; 18
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca. 21
Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che ‘l dipigne
quando ‘l vapor che ‘l porta più è spesso, 24
distante intorno al punto un cerchio d’igne
si girava sì ratto, ch’avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne; 27
e questo era d’un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e ‘l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. 30
Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che ‘l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto. 33
Così l’ottavo e ‘l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch’era
in numero distante più da l’uno; 36
e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s’invera. 39
La donna mia, che mi vedea in cura
forte sospeso, disse: «Da quel punto
depende il cielo e tutta la natura. 42
Mira quel cerchio che più li è congiunto;
e sappi che ‘l suo muovere è sì tosto
per l’affocato amore ond’elli è punto». 45
E io a lei: «Se ‘l mondo fosse posto
con l’ordine ch’io veggio in quelle rote,
sazio m’avrebbe ciò che m’è proposto; 48
ma nel mondo sensibile si puote
veder le volte tanto più divine,
quant’elle son dal centro più remote. 51
Onde, se ‘l mio disir dee aver fine
in questo miro e angelico templo
che solo amore e luce ha per confine, 54
udir convienmi ancor come l’essemplo
e l’essemplare non vanno d’un modo,
ché io per me indarno a ciò contemplo». 57
«Se li tuoi diti non sono a tal nodo
sufficienti, non è maraviglia:
tanto, per non tentare, è fatto sodo!». 60
Così la donna mia; poi disse: «Piglia
quel ch’io ti dicerò, se vuo’ saziarti;
e intorno da esso t’assottiglia. 63
Li cerchi corporai sono ampi e arti
secondo il più e ‘l men de la virtute
che si distende per tutte lor parti. 66
Maggior bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
s’elli ha le parti igualmente compiute. 69
Dunque costui che tutto quanto rape
l’altro universo seco, corrisponde
al cerchio che più ama e che più sape: 72
per che, se tu a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che t’appaion tonde, 75
tu vederai mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
in ciascun cielo, a sua intelligenza». 78
Come rimane splendido e sereno
l’emisperio de l’aere, quando soffia
Borea da quella guancia ond’è più leno, 81
per che si purga e risolve la roffia
che pria turbava, sì che ‘l ciel ne ride
con le bellezze d’ogne sua paroffia; 84
così fec’io, poi che mi provide
la donna mia del suo risponder chiaro,
e come stella in cielo il ver si vide. 87
E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro. 90
L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ‘l numero loro
più che ‘l doppiar de li scacchi s’inmilla. 93
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro. 96
E quella che vedea i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
t’hanno mostrato Serafi e Cherubi. 99
Così veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son soblimi. 102
Quelli altri amori che ‘ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ‘l primo ternaro terminonno; 105
e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto. 108
Quinci si può veder come si fonda
l’essere beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda; 111
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede. 114
L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Ariete non dispoglia, 117
perpetualemente ‘Osanna’ sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna. 120
In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l’ordine terzo di Podestadi èe. 123
Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo è tutto d’Angelici ludi. 126
Questi ordini di sù tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano. 129
E Dionisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com’io. 132
Ma Gregorio da lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise. 135
E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch’ammiri;
ché chi ‘l vide qua sù gliel discoperse
con altro assai del ver di questi giri». 139
Battesimo di San Paolo da parte di Anania, dipinto di Pietro da Cortona
PARAFRASI CANTO XXVIII
Dopo che colei (Beatrice) che innalza la mia mente a gioie paradisiache ebbe svelato la verità contro la vita corrotta degli uomini, come colui che ha il lume di un candeliere dietro le spalle lo vede riflesso in uno specchio (prima di vederlo o di pensarlo) e si volta per accertarsi se lo specchio dice la verità, e vede che l'immagine e la realtà si accordano come il canto con la musica;
così la mia mente si ricorda che io feci guardando nei begli occhi (di Beatrice) con cui Amore fabbricò la corda per catturarmi (di cui mi innamorai).
E non appena io mi voltai e i miei occhi scorsero ciò che appare in quel Cielo (il Primo Mobile), ogni volta che osservavo con attenzione nella sua sfera, vedevo un punto che emanava una luce tanto intensa che per il suo splendore dovevo chiudere gli occhi;
e ogni stella che sembri più fioca, diventerebbe una Luna se paragonata a quel punto, come due stelle sono accanto nel cielo.
Forse, quanto un alone sembra circondare da vicino l'astro che lo fa apparire quando l'atmosfera è pregna di spessi vapori, tutt'intorno a quel punto un cerchio fiammeggiante ruotava così velocemente che avrebbe superato il movimento del Primo Mobile che racchiude il mondo;
e questo cerchio era circondato da un altro, e quello da un terzo, e il terzo poi da un quarto, il quarto da un quinto e il quinto da un sesto.
Più all'esterno ce n'era un settimo, talmente esteso che il messaggero di Giunone (l'arcobaleno), benché tutto intero, sarebbe troppo piccolo per contenerlo.
Così l'ottavo e il nono cerchio; e ognuno di essi era tanto più lento, quanto più il numero d'ordine che occupava era superiore ad uno (quanto più era distante dal centro);
e il cerchio che aveva la fiamma più splendente era quello più vicino al punto luminoso, perché - credo - si sostanziava maggiormente della sua verità.
La mia donna, che mi vedeva tormentato da un forte dubbio, disse: «Da quel punto dipende il Cielo e l'interno Universo.
Osserva quel cerchio che gli è più vicino; sappi che il suo movimento è tanto veloce a causa dell'amore ardente che lo stimola».
E io a lei: «Se l'Universo avesse lo stesso ordine che io vedo in quei cerchi, ciò che mi è stato detto mi avrebbe soddisfatto;
ma nel mondo sensibile si può constatare che le sfere celesti sono tanto più perfette quanto più lontane sono dalla Terra.
Dunque, se io devo soddisfare ogni mio desiderio di conoscenza in questo mirabile tempio degli angeli (il Primo Mobile) che ha solo amore e luce (l'Empireo) come suo confine, è necessario che io comprenda come mai la copia e il modello sono discordanti, in quanto io vanamente cerco di risolvere la questione».
«Se le tue dita non sono in grado di sciogliere questo nodo, non c'è da stupirsi: a tal punto esso è stretto, poiché nessuno ha mai tentato di sbrogliarlo!»
Così disse Beatrice; poi aggiunse: «Ascolta quello che ti dirò, se vuoi saziarti, e aguzza la tua mente sulle mie parole.
Le sfere celesti, che sono corpi fisici, sono grandi o piccole a seconda della maggiore o minore virtù che si estende in ogni loro parte.
Un maggior bene produce una maggiore salvezza, e questa è contenuta in un corpo più esteso, se esso è perfetto in ogni suo punto.
Dunque, questo Cielo (il Primo Mobile) che trascina nel suo moto tutto quanto l'Universo, corrisponde al cerchio dotato di maggior amore e sapienza (quello più vicino a Dio):
e allora, se tu ti concentri sulla virtù e non sull'ampiezza delle sostanze che ti sembrano rotonde (i cerchi fiammeggianti), vedrai come mirabile conseguenza il fatto che a maggiore virtù corrisponde maggiore vicinanza (e viceversa) tra ogni Cielo e la sua intelligenza angelica».
Come l'emisfero dell'atmosfera resta terso e sereno, quando Borea soffia da quella guancia da cui spira un vento più dolce (la tramontana), grazie al quale viene spazzata via ogni impurità che prima turbava il cielo e questo sorride con le bellezze di ogni sua parte;
così feci io, dopo che la mia donna mi rispose con il suo chiaro discorso, e la verità fu visibile come una stella in cielo.
E dopo la fine delle sue parole, i cerchi sfavillarono come un ferro incandescente che sprizza scintille.
Ogni scintilla seguiva il cerchio fiammeggiante, ed erano così tante che il loro numero entra nelle migliaia (è alto) più del raddoppiare delle caselle del gioco degli scacchi.
Io sentivo intonare 'Osanna' di coro in coro, verso il punto fisso che li tiene e sempre li terrà in quella posizione in cui sempre furono.
E colei che vedeva i pensieri dubbiosi nella mia mente, disse: «I primi cerchi ti hanno mostrato i Serafini e i Cherubini.
Seguono così velocemente il loro legame d'amore con Dio per rendersi simili quanto più possono al punto centrale; e lo possono fare in quanto la loro visione divina è la più elevata.
Quegli altri esseri angelici che gli girano intorno e che fin dalla loro creazione chiusero la prima gerarchia, si chiamano Troni dell'aspetto divino;
e devi sapere che tutti provano una gioia commisurata alla profondità della loro visione di Dio, cioè quella verità in cui si acquieta ogni intelletto.
Da qui si può vedere come la beatitudine si fonda nella fruizione della visione divina, e non nell'amore che è un atto conseguente;
e la profondità di tale visione è la ricompensa che è prodotta dalla grazia e dalla buona volontà: così si procede da un ordine angelico all'altro.
La seconda gerarchia, che germoglia così in questa eterna primavera che l'autunno non può mai spogliare, canta per l'eternità 'Osanna' in tre melodie, che risuonano nei tre ordini angelici pieni di gioia che la costituiscono.
In questa gerarchia vi sono le altre intelligenze angeliche: prima le Dominazioni, poi le Virtù, infine il terzo ordine è delle Potestà.
Poi nel terzultimo e penultimo ordine ruotano Principati e Arcangeli; l'ultimo ordine è tutto di Angeli festanti.
Questi ordini ammirano tutti verso l'alto e attirano a sé il mondo inferiore, cosicché tutti sono attratti da Dio e attraggono a loro volta il mondo a sé.
E Dionigi Areopagita si mise con tanto desiderio a contemplare questi ordini, che li elencò e li nominò come ho fatto io.
Gregorio Magno, in seguito, si allontanò da lui; cosicché, non appena vide coi suoi occhi questo Cielo, rise di se stesso.
E se un mortale in Terra poté affrontare una materia così profonda, non devi stupirti; infatti a Dionigi essa venne svelata da chi la vide quassù (san Paolo), insieme a molte altre cose di questi ordini angelici».
Pietro e Paolo, dipinto di Guido Reni
SAN PAOLO
Paolo di Tarso, nato con il nome di Saul e noto come san Paolo per il culto tributatogli (Tarso, 4 – Roma, 67), è stato l'«apostolo dei Gentili», ovvero il principale missionario del Vangelo di Gesù tra i pagani greci e romani. Secondo i testi biblici, Paolo era un ebreo ellenizzato, che godeva della cittadinanza romana. Non conobbe direttamente Gesù, sebbene a lui coevo, e, come tanti connazionali, avversava la neo-istituita Chiesa cristiana. Sempre secondo la narrazione biblica, Paolo si convertì al cristianesimo mentre, recandosi da Gerusalemme a Damasco per organizzare la repressione dei cristiani della città, fu improvvisamente avvolto da una luce fortissima e udì la voce di Gesù che gli diceva: "Saul, Saul, perché mi perseguiti?". Reso cieco da quella luce divina, vagò per tre giorni a Damasco, dove fu poi guarito dal capo della piccola comunità cristiana di quella città, Anania. L'episodio, noto come "conversione di Paolo", diede l'inizio all'opera di evangelizzazione di Paolo.
Come gli altri primi missionari cristiani, rivolse inizialmente la sua predicazione agli ebrei, ma in seguito si dedicò prevalentemente ai «Gentili». I territori da lui toccati nella predicazione itinerante furono in principio l'Arabia (attuale Giordania), poi soprattutto l'Acaia (attuale Grecia) e l'Asia minore (attuale Turchia). Il successo di questa predicazione lo spinse a scontrarsi con alcuni cristiani di origine ebraica, che volevano imporre ai pagani convertiti l'osservanza dell'intera legge religiosa ebraica, in primis la circoncisione. Paolo si oppose fortemente a questa richiesta e, con il suo carattere energico e appassionato, ne uscì vittorioso. Fu fatto imprigionare dagli ebrei a Gerusalemme con l'accusa di turbare l'ordine pubblico. Appellatosi al giudizio dell'imperatore – come era suo diritto, in quanto cittadino romano – Paolo fu condotto a Roma, dove fu costretto per alcuni anni agli arresti domiciliari, riuscendo però a continuare la sua predicazione. Morì vittima della persecuzione di Nerone, decapitato probabilmente tra il 64 e il 67. L'influenza storica di Paolo nell'elaborazione della teologia cristiana è stata enorme: mentre i Vangeli si occupano prevalentemente di narrare le parole e le opere di Gesù, le lettere paoline definiscono i fondamenti dottrinali del valore salvifico della sua incarnazione, passione, morte e risurrezione – ripresi dai più eminenti pensatori cristiani dei due millenni successivi.
Gli Atti degli Apostoli, parte del Nuovo Testamento, tradizionalmente attribuiti a Luca, autore anche dell'omonimo vangelo. Sono stati composti in greco attorno agli anni 80. Infatti in essi non si narra la morte di Paolo avvenuta probabilmente intorno al 63-64 d.C. Le vicende di Paolo sono narrate principalmente nella seconda parte dello scritto (capitoli 9; 11; 13-28): vi sono descritti i suoi viaggi missionari, a partire dalla sua conversione miracolosa sulla "via di Damasco" (collocabile intorno ai primi anni 30, cioè poco tempo dopo la crocifissione di Gesù) fino all'arrivo a Roma agli arresti domiciliari (intorno ai primi anni 60). In alcune sezioni (cosiddette sezioni noi), il racconto passa dalla terza alla prima persona, lasciando ipotizzare che l'autore fosse compartecipe degli avvenimenti narrati, anche se attualmente molti studiosi, anche cristiani, ritengono inverosimile che Luca sia stato compagno di viaggio di Paolo. Gli Atti hanno un finale brusco e non raccontano gli ultimi eventi di Paolo e il suo martirio; secondo alcuni studiosi perché interrotti nella loro stesura dall'incendio di Roma del 64 d.C. e dall'inizio della persecuzione dei cristiani.
Le tredici lettere di Paolo, anch'esse raccolte nel Nuovo Testamento, sono scritte in greco. Si ritiene tradizionalmente che siano state redatte tra gli anni 50 e 60 – durante il ministero itinerante di Paolo e la successiva prigionia a Cesarea e/o Roma. In epoca contemporanea, con lo svilupparsi del metodo storico-critico, sono stati sollevati dubbi circa l'autenticità di alcune di queste lettere. Dal punto di vista storico, comunque, la discussione sull'effettiva autenticità delle lettere dubbie – che difficilmente potrà arrivare a risultati chiari e condivisi basandosi sui soli dati intrinseci dei testi – non lede il ritratto della vita e dell'operato di Paolo: le lettere di dubbia paternità non sono infatti in contrasto col messaggio teologico contenuto nelle lettere sicuramente autentiche. Solo gli ultimi anni della sua vita, attorno agli anni sessanta e successivi all'arrivo a Roma descritto dagli Atti, possono essere ricostruiti in maniera differenziata ammettendone o meno l'autenticità, ipotizzando dopo Roma un nuovo viaggio missionario in Oriente (Grecia e/o Turchia) o in Spagna.
Negli scritti di alcuni Padri della Chiesa, in particolare quelli di Clemente Romano (I secolo), Eusebio (IV secolo) e Girolamo (IV-V secolo), sono contenute alcune sporadiche informazioni su Paolo, che tendenzialmente confermano i dati del Nuovo Testamento.
Nelle sue prime apparizioni negli Atti il nome proprio usato è Saul. Nel suo epistolario, però, Paolo non si identifica mai con questo nome, anche se si dichiara appartenente alla tribù di Beniamino: il nome più ricorrente negli Atti, e l'unico usato nelle lettere, è Paolo (nell'originale greco Pàulos). Si tratta della traslitterazione greca del nome latino Paulus. L'etimologia -che significa "piccolo"- non è correlata al significato del nome ebraico in latino Saulus anche se potrebbe derivarne; sulla sua derivazione si sono fatte anche altre ipotesi:
- nell'Impero romano, gli Ebrei adottavano un secondo nome greco-latino, talvolta scelto per semplice assonanza col nome originale (come per Giosuè-Giasone o Sila-Silvano). Si tratta dell'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi;
- la tradizione cristiana successiva lo ha collegato con la bassa statura di Paolo;
alcuni hanno ipotizzato che il nome Paolo sia stato assunto da Saulo in onore di Sergio Paolo, proconsole di Cipro – : infatti, nella narrazione degli Atti, l'introduzione del nome Paolo al posto di Saulo avviene proprio in occasione di tale incontro. L'ipotesi non trova attualmente largo consenso tra gli studiosi, i quali collegano il cambiamento onomastico non all'incontro fisico di Paolo col proconsole, ma col primo confronto dell'apostolo col mondo greco-romano che questi rappresentava;
- ipotizzando, sulla base di alcune indicazioni di Girolamo, una schiavitù degli antenati di Paolo e un successivo loro affrancamento, questo comportava l'assunzione automatica della cittadinanza romana e solitamente l'adozione del cognomen del vecchio proprietario.
- Nella Prima Lettera ai Corinzi, annuncia l'apparizione di Gesù risorto agli apostoli e ai Cinquecento. Dopo esser apparso a Cefa e agli altri, "ultimo fra tutti apparve anche a me, come a un aborto. Io infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono". L'infimo degli apostoli potrebbe aver scelto questo nuovo nome proprio, dopo esser rinato nel battesimo, ed esser stato "chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio", che è l'unico nome proprio utilizzato nella lettera per riferirsi a lui.
«Apostolo» è il titolo principale che Paolo si attribuisce nelle sue lettere e che la tradizione cristiana successiva gli ha poi confermato; non gli è invece attribuito negli Atti. Il titolo è la traslitterazione del termine greco apòstolos, che significa «inviato». In senso proprio, il titolo è applicato nei testi del Nuovo Testamento ai dodici apostoli che seguirono Gesù durante il suo ministero pubblico. Paolo, che non compare nei vangeli e che non fece parte del suo seguito, non può essere identificato come apostolo in tal senso – lui stesso specifica infatti di essere «apostolo per vocazione». Come Paolo, del resto, anche altri personaggi del Nuovo Testamento sono detti «apostoli», sebbene non lo siano stati in senso proprio (Barnaba in At 14,14; Andronico e Giunia in Rm 16,7; Sila e Timoteo vescovo in 1Ts 1,1; 2,6; Apollo in 1Cor 4,9). In alcuni passi (Rm 11,13; Gal 2,8), Paolo si definisce «apostolo dei Gentili».
Paolo nasce a Tarso, in attuale Turchia nel 4 d.C. da una famiglia benestante ebrea. Paolo era ebreo, della tribù di Beniamino. Sebbene il territorio tradizionale della tribù fosse collocato nel centro della Palestina, poco a nord di Gerusalemme tra la Giudea e la Samaria, quest'appartenenza etnica non era correlata alla zona geografica, in quanto lungo i secoli il significato territoriale si era progressivamente perso. È il caso, ad esempio, di Giuseppe e Gesù, della tribù di Giuda e della casa di Davide (sud della Palestina), che vivevano però a Nazaret, nel nord della Palestina.
Paolo era, per nascita, cittadino romano: nei primi tempi dell'impero, la cittadinanza romana era un privilegio ereditario non comune, soprattutto per gli abitanti delle province non italiche e comportava notevoli vantaggi economici, politici, fiscali e giuridici.
Non è chiara l'origine di questo status paolino e su quest'argomento sono state elaborate diverse ipotesi:
- gli avi di Paolo, risiedendo a Tarso, beneficiarono del privilegio concesso ad alcuni Ebrei della Cilicia durante la campagna di Cesare contro Farnace, nel 47 a.C. circa;
- gli avi di Paolo, risiedendo a Tarso, ottennero la cittadinanza in occasione di diversi privilegi concessi ai cittadini di Tarso da Marco Antonio dopo la vittoria a Filippi del 42 a.C.;
- il padre (o il nonno) di Paolo, fabbricatore di tende, si distinse per l'aiuto militare fornito all'esercito romano durante una campagna militare di Cesare, Antonio o Pompeo e ottenne in riconoscimento la cittadinanza;
- i genitori di Paolo furono condotti come prigionieri di guerra dalla città giudea di Giscala a Tarso (vedi Girolamo), divennero schiavi di un romano e furono affrancati, ricevendo automaticamente la cittadinanza;
- Paolo faceva parte della famiglia regale degli Erodiani, all'antenato dei quali (Erode Antipatro) fu concessa da Cesare la cittadinanza. Questa ipotesi non gode di largo consenso tra gli studiosi, anche per l'estraneità che traspare dall'incontro tra Paolo e l'erodiano Marco Giulio Agrippa II in At26.
Paolo appare un ebreo perfettamente ellenizzato. Come tutti gli Ebrei, conosceva l'ebraico, lingua nella quale è composta la Tanakh, che all'inizio dell'era cristiana non era più usata nella vita quotidiana, ma riservata al culto religioso. Lingua vernacolare degli Ebrei in Palestina (tra i quali Gesù) era l'aramaico, alla quale si riferisce verosimilmente At21,40: il testo originale usa il termine "ebraico" che va però inteso come "lingua degli Ebrei", cioè l'aramaico. Conosceva il greco, lingua franca della parte orientale dell'Impero romano, nella quale sono composte le sue lettere, cosa non comune tra gli Ebrei e che destò meraviglia nel tribuno di Gerusalemme. In quanto cittadino romano doveva conoscere il latino, ma non ve n'è traccia diretta nei passi neotestamentari (nel greco delle lettere pastorali che, se autentiche, furono scritte a Roma, sono presenti alcuni latinismi). Circa i dialetti locali parlati nella zona di Tarso, ufficialmente ellenista ma situata al confine tra l'area linguistica indoeuropea (greco e galata) e semita (siriaco, una variante dell'aramaico), attualmente estinti e poco conosciuti, non sembra che Paolo ne avesse conoscenza.
Sebbene nelle fonti non venga direttamente affermato, Paolo dimostra di avere ricevuto una solida formazione greco-ellenista, probabilmente nella prima giovinezza nella natale Tarso importante centro culturale, o in seguito a Gerusalemme. Il geografo greco Strabone in Geografia, 14, V, 13. sostiene infatti che Tarso come centro culturale superava in quel periodo perfino Atene e Alessandria, tanto che Paolo parlando della città natale, a un comandante militare, poté ben dire che era "una non oscura città". Nelle sue lettere e nella sua predicazione riferita negli Atti, traspare la conoscenza della Bibbia in greco (Septuaginta), il metodo retorico della diatriba, alcune citazioni implicite di concetti e pensatori ellenisti.
L'ebreo Paolo appare innanzitutto come un laico, cioè non appartenente a nessuna delle classi sacerdotali che gestivano il culto del tempio di Gerusalemme. In Fl3,5 si definisce «fariseo quanto alla legge» , cioè facente parte di quel movimento che si era sviluppato pochi secoli prima dell'era cristiana e che nel I secolo era fortemente contrapposto al movimento aristocratico-sacerdotale dei sadducei su diversi aspetti dottrinali: diversamente da questi ultimi, i farisei accettavano l'immortalità dell'anima, l'esistenza degli angeli, gli altri libri della Tanakh e una tradizione orale (poi confluita nei Talmud), oltre ai cinque della Torah, e adottavano un'interpretazione delle scritture tendenzialmente meno rigorosa e rigida, più vicina alle esigenze del popolo. I farisei si formavano in scuole collegate alle sinagoghe, cioè luoghi di culto da loro gestiti e presenti ovunque vi fossero comunità giudaiche. In queste scuole tutti gli Ebrei imparavano a leggere le scritture ebraiche e i fondamenti della dottrina. È verosimile che Paolo abbia iniziato la sua formazione farisaica in una di queste scuole a Tarso e secondo At22,3 continuò e perfezionò gli studi a Gerusalemme presso l'autorevole maestro Gamaliele. Dalle sue lettere traspaiono i metodi argomentativi tipici delle scuole rabbiniche del tempo, testimoniati poi nei Talmud, come, ad esempio, la gezerah shavah ("decreto simile"), che accosta argomentativamente a un passo biblico un altro per un semplice legame di similitudine-analogia. L'appartenenza di Paolo al Sinedrio, che sembra essere suggerita da At26,10 è solitamente esclusa dai biblisti. At18,18 indica che Paolo era un nazireo, cioè aveva fatto uno speciale voto di consacrazione a Dio, che implicava una vita particolarmente sobria e rigorosa e il portare i capelli lunghi.
Paolo è caratterizzato da una forte caparbietà e resistenza alle avversità (vedi soprattutto 2Cor11,23-28), anche se la sua ultima lettera, la Seconda lettera a Timoteo (se autentica), sembra scritta da un Paolo ormai stanco e abbattuto. Il successo della sua predicazione con la fondazione di nuove chiese in Grecia e Asia e la forte influenza che mostrava di avere sulla stessa Chiesa di Gerusalemme mostrano che doveva essere caratterizzato da un certo carisma e magnetismo, al punto da essere identificato dagli avversari Ebrei come capo del cristianesimo. La cura di queste nuove comunità tramite l'invio di lettere e collaboratori, l'analisi dei problemi che le caratterizzavano e le chiare, talvolta dure, direttive in proposito, la scelta di capi (presbiteri e vescovi) e le successive nuove visite mostrano una notevole capacità di gestire le risorse umane. L'aspro ed energico Paolo era però caratterizzato anche da un sincero affetto e amore, che si rivolge anche agli "avversari" giudeo-cristiani in occasione della colletta di Gerusalemme, da lui organizzata tra le sue comunità per far fronte alle necessità dei poveri della città santa (si veda, ad esempio, 2Cor8-9).
Il Nuovo Testamento non fornisce informazioni dirette intorno alla famiglia di Paolo. Questa risiedeva verosimilmente a Tarso, dove egli nacque, e, come accennato sopra, è possibile che fosse originaria di Giscala, in Giudea. L'attività lavorativa familiare era, verosimilmente, come per Paolo, la manifattura di tende. In At23,16 (probabilmente attorno al 58) viene fatto cenno al "figlio della sorella di Paolo", presente a Gerusalemme, ed è possibile che questa (forse con altri familiari) si fosse trasferita nella città. Circa lo stato civile di Paolo, in nessun passo si accenna a moglie o a figli e in 1Cor7,8 si dichiara celibe.
La ricostruzione cronologica della vita e del ministero di Paolo, come per tutti i personaggi del Nuovo Testamento (incluso Gesù), è in gran parte ipotetica. La narrazione degli Atti, che descrive in maniera particolareggiata il suo ministero pubblico con alcuni accenni al mondo greco-romano, unita ad alcune preziose seppur sporadiche integrazioni cronologiche presenti nelle lettere di Paolo e in altri scritti successivi, permette tuttavia di ricostruire un quadro verosimile, condiviso nelle linee fondamentali da biblisti e storici contemporanei.
Talvolta si riscontrano differenze tra le lettere e gli Atti: p.es. in Gal1,17 Paolo accenna a un viaggio in Arabia (attuale Giordania) dopo la conversione, particolare assente nella narrazione di Atti. In questi casi gli studiosi propendono per l'armonizzazione complementare delle fonti.
Molti altri studiosi, anche cristiani, ritengono invece che le differenze non siano armonizzabili e, ad esempio, la Bibbia di Gerusalemme rileva che, rispetto alla componente narrativa e teologica di Luca, "il valore storico degli Atti degli Apostoli non è uguale. Da una parte le fonti di cui Luca disponeva non erano omogenee; dall'altra, nell'utilizzo delle sue fonti Luca godeva di una libertà abbastanza vasta [...] e subordinava i dati storici al suo disegno letterario e soprattutto ai suoi interessi teologici [...] si constata un certo contrasto tra il ritratto di Paolo delineato negli Atti e l'autoritratto che Paolo dà di sé nelle sue lettere".
Tra gli esempi delle incongruenze tra gli Atti degli Apostoli e le lettere paoline, Paolo narra nella Lettera ai Galati che, dopo la sua conversione a Damasco, in questa città non parlerà con nessuno e aspetterà tre anni - intraprendendo un viaggio in Arabia - prima di recarsi a Gerusalemme, dove si incontrerà solo con Pietro e poi Giacomo; tale versione non concorda con quella fornita negli Atti degli Apostoli in cui, al contrario, Paolo, successivamente alla sua conversione, da Damasco - dopo aver passato invece alcuni giorni in questa città a parlare e predicare agli Ebrei - si reca subito a Gerusalemme dove incontrerà tutto il gruppo degli apostoli; il "Nuovo Grande Commentario Biblico" sottolinea, in merito, come negli Atti "la principale divergenza dal racconto che Paolo fa del suo primo periodo è la omissione del suo soggiorno in Arabia (Gal1,17), il che colloca la conversione e la prima visita a Gerusalemme, molto più vicine l'una all'altra che non i «tre anni» di cui parla Gal1,18".
Paolo, sempre nella stessa lettera, fa riferimento al suo viaggio a Gerusalemme, dove si terrà il concilio, come del suo secondo viaggio nella città, mentre secondo gli Atti degli Apostoli per Paolo questo è il terzo viaggio nella città e l'interconfessionale Bibbia TOB evidenzia come "in Atti si tratta di un terzo viaggio, mentre in Gal di un secondo e, d'altra parte, i due racconti presentano importanti divergenze. Se riguardano gli stessi avvenimenti, il rispettivo punto di vista è molto diverso" e, per risolvere uno dei problemi esegetici più difficili del Nuovo Testamento, la seconda visita di Gal2,1-10 può essere identificata con la terza di At15.
Anche nel racconto lucano della Controversia di Antiochia si possono riscontrare delle incongruenze con le lettere paoline - relative ad esempio al decreto circa le osservanze della purità rituale, imposte ai cristiani provenienti dal paganesimo - e la Bibbia di Gerusalemme ritiene che una spiegazione possibile potrebbe essere che "Luca ha fuso insieme due distinte controversie e le differenti soluzioni che ne furono date (Paolo ha distinto più chiaramente in Gal 2)".
Incongruenze nella narrazione degli Atti degli Apostoli, come meglio evidenziato nella relativa sezione, si riscontrano altresì in merito ai tre diversi resoconti sulla conversione di Paolo.
Il punto più oscuro della sua vita riguarda gli ultimi anni successivi alla prigionia romana, attorno ai primi anni sessanta, attorno ai quali le ricostruzioni possibili vertono sulla possibilità di una seconda prigionia, più dura della prima, e sulla eventualità di un altro viaggio, in oriente o in Spagna.
In At7,58; 8,1, alla sua prima comparsa nella narrazione biblica, Paolo viene descritto come presente e accondiscendente all'uccisione di Stefano (attorno al 35), il primo martire cristiano, sebbene non sia stato direttamente partecipe della sua lapidazione ma il semplice "custode dei mantelli" dei lapidatori. In seguito, prima dell'adesione al Cristianesimo, Paolo aveva ricoperto ruoli di particolare rilievo nelle alte sfere religiose ebraiche relativamente alla persecuzione dei cristiani. Il suo zelante operato è accennato direttamente in diversi passi di Atti e delle lettere, mentre in altri passi sono riportati gli echi indiretti della sua persecuzione.
Le modalità pratiche e il contesto di questa persecuzione paolina, probabilmente descritta con toni esagerati, non sono chiare. È possibile che la sua azione si fosse limitata alla sola comunità di Gerusalemme e in seguito, quando la persecuzione portò alla dispersione dei credenti, cercò di rivolgersi anche ai profughi cristiani fuori dalla città, nella fattispecie quelli residenti a Damasco. I riferimenti biblici indicano che questa persecuzione ebraica, all'interno della quale operava Paolo, inizialmente non fu rivolta a tutti i cristiani indistintamente ma solo ai cosiddetti ellenisti, cioè i cristiani di cultura greca come Stefano e Filippo. Gli apostoli (e i giudeo-cristiani) invece sembrano rimanere indisturbati, salvati dalla loro appartenenza alla comunità giudaica e dalla adesione ai precetti religiosi della fede ebraica. Dalle fonti storiche non appare chiara l'effettiva portata di questa persecuzione ebraica: Giuseppe Flavio, principale e preziosa fonte extra-cristiana circa il medio-oriente del I secolo, non fa cenno di una sistematica persecuzione, e anche nel testo biblico le uccisioni dirette descritte sono solo quella di Stefano e dell'apostolo Giacomo "il Maggiore", attorno al 44), alle quali va aggiunta in seguito quella di Giacomo "il Giusto" (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche 20,9, attorno al 62). È possibile che la persecuzione ebraica (e paolina) sia stata più una questione giuridico-religiosa, finalizzata alla scomunica e all'interdizione dei cristiani dal culto della sinagoga e del tempio, che un sistematico eccidio.
L'accenno al voto circa la condanna capitale di At26,10 sembra suggerire una sua appartenenza al Gran Sinedrio di Gerusalemme, il consiglio religioso ebraico di 70 membri (71 col Sommo Sacerdote) al quale solo spettava il voto e la delibera (ma durante l'occupazione romana non l'esecuzione, vedi il caso di Gesù) delle condanne a morte per motivi religiosi, dal quale lo stesso Paolo sarà giudicato (At22,30-23,10. Questa appartenenza sinedrita farebbe di Paolo uno degli Ebrei più noti e rilevanti dell'ebraismo dell'epoca, ma viene solitamente esclusa dagli studiosi anche perché non direttamente affermata dai testi biblici e non usata nelle sue lettere quando in vari loci presenta le sue credenziali. In tal senso, il suo "voto" per la condanna a morte dei cristiani deve essere inteso come un semplice consenso.
Tradizionalmente l'adesione di Paolo al movimento cristiano viene indicata col termine "conversione".
L'evento è descritto, pur con differenze abbastanza notevoli, negli Atti degli Apostoli e accennato implicitamente in alcune lettere paoline. In At9,1-9 c'è la descrizione narrativa dell'accaduto, che è raccontato nuovamente dallo stesso Paolo con lievi variazioni sia al termine del tentativo di linciaggio a Gerusalemme che durante la comparizione a Cesarea davanti al governatore Porcio Festo e al re Marco Giulio Agrippa II:
« Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda. » ( At 9,1-9, su laparola.net.)
La tradizione artistica successiva ha immaginato la caduta a terra come una caduta da cavallo ma il particolare è assente da tutti e tre i resoconti, sebbene rimanga possibile e verosimile poiché l'evento si verificò durante il viaggio. Dopo questa folgorazione-rivelazione-chiamata (il testo non usa mai metànoia, "conversione") Paolo si recò a Damasco e ricevette il battesimo da un giudeo-cristiano di nome Anania, riacquistando la vista (At9,10-19; 22,12-16). Secondo il testo biblico fu tramite Anania che Gesù risorto comunicò a Paolo il mandato missionario ai gentili (At9,15) che caratterizzerà il suo ministero successivo.
Gli accenni generici alla conversione contenuti in alcune lettere paoline non descrivono esplicitamente l'evento come in Atti ma si riferiscono genericamente a una maturazione ed evoluzione interiore di Paolo: Gal1,11-17; Fl3,3-17; 1Tm1,12-17; Rm7,7-25 (Rm è così generico che non è chiaro se si riferisca o meno alla propria vicenda personale). Anche in questi passi non è usato il termine "conversione" ma in genere chiamata, scelta, conquista-cattura.
L'interpretazione storica dell'evento da parte degli studiosi contemporanei è diversificata: mentre gli studiosi cristiani ammettono -tendenzialmente- il valore storico della triplice narrazione di Atti, per gli studiosi non credenti il carattere soprannaturale e miracolistico di essa, che ha come protagonista Gesù risorto, li porta a negare valore storico alla descrizione, accettando comunque la conversione al cristianesimo come testimoniata anche dalle lettere. In questo caso la descrizione dell'evento non è altro che un prodotto narrativo di Luca.
Molti studiosi, anche cristiani, fanno rilevare, in merito alla conversione, una serie di evidenti discordanze narrative interne agli Atti degli Apostoli, così come anche con le lettere paoline, imputabili a fonti storiche non omogenee di Luca e ai suoi interessi teologici, a discapito della storicità del resoconto e l'interconfessionale Bibbia sottolinea, quindi, come gli Atti degli Apostoli raccontino "a tre riprese, con differenze notevoli, questo avvenimento" e "il contenuto e lo stile di questi discorsi sono adattati ai rispettivi uditori. Ciò spiega, almeno in parte, le differenze abbastanza notevoli che presentano tra loro". Ad esempio, secondo At9,3-7 sulla strada di Damasco i compagni di Paolo odono la voce ma non vedono nulla, esattamente il contrario di quanto affermato in At22,6-9 dove i suoi compagni invece non odono nulla ma vedono la luce; inoltre, mentre in At9,3-7 durante tale episodio solo Paolo cade a terra, secondo invece At26,12-14 anche tutti i suoi compagni di viaggio cadono a terra; ancora, secondo At9,3-19 Paolo a Damasco riceve le istruzioni tramite Anania, mentre secondo At26,12-18 Paolo a Damasco riceve le istruzioni da Gesù stesso.
Secondo il resoconto di Atti (9,19-25), dopo la conversione sulla via di Damasco e il battesimo ricevuto da Anania, Paolo rimase nella città per un tempo indeterminato ("molti giorni"), predicando nelle sinagoghe il messaggio cristiano agli Ebrei. Questi però cercarono di ucciderlo e fu aiutato a scappare dai "suoi discepoli", che lo calarono di notte in una cesta facendolo uscire dalle mura cittadine. Da Damasco si recò poi a Gerusalemme (9,26).
Questo resoconto è integrabile con alcune sporadiche informazioni presenti nelle lettere paoline. In Cor11,32-33 Paolo racconta l'episodio della fuga nella cesta, collocandolo cronologicamente durante il dominio sulla città da parte del re nabateo Areta IV (verso la fine degli anni trenta). In Gal1,17 Paolo specifica che dopo la conversione (e quindi il suo arrivo a Damasco), si recò in Arabia (da intendersi come il regno dei Nabatei nell'attuale Giordania, poi compreso nella provincia romana di Arabia), per poi ritornare dopo un tempo indefinito nuovamente a Damasco. Il soggiorno a Damasco quindi sembra essere stato duplice, presentato come unico da Atti che omette il viaggio in Arabia. I biblisti collocano la fuga nella cesta, al termine del secondo soggiorno. Circa il viaggio in Arabia non sono noti il motivo, i luoghi visitati, la durata e i risultati conseguiti. È verosimile che sia stato caratterizzato, come gli anni successivi, dalla predicazione del cristianesimo nelle sinagoghe.
Sulla via tra Gerusalemme e Damasco avvenne la conversione di Paolo, quindi si recò in Arabia, tornò a Damasco da dove fuggì verso Gerusalemme (prima visita) e quindi Tarso.
Secondo At9,26-30, giunto a Gerusalemme fu accolto inizialmente con freddezza e timore dai cristiani della città a motivo del suo passato di persecutore dei cristiani. Il giudeo-cristiano Barnaba si fece suo garante, iniziando così con Paolo una collaborazione che durerà negli anni successivi. Nella città santa continuò a predicare nelle sinagoghe ma anche qui, come a Damasco, fu costretto a fuggire nella sua città natale Tarso. Gal1,17-19 aggiunge alcune precisazioni: questa prima visita a Gerusalemme avvenne "3 anni dopo" la sua conversione e un viaggio in Arabia, fu breve ("15 giorni"), vide l'incontro di Paolo con Pietro e Giacomo, mentre invece per gli Atti degli Apostoli questa prima visita è narrata con "l'omissione del suo soggiorno in Arabia (Gal1,17), il che colloca la conversione e la prima visita a Gerusalemme, molto più vicine l'una all'altra che non i «tre anni» di cui parla Gal1,18".
Dopo la fuga a Tarso Paolo si recò in Siria e Cilicia, quindi fu condotto da Barnaba ad Antiochia dove risiedette, e da lì si recò per la seconda volta a Gerusalemme.
Dopo essere fuggito da Gerusalemme, Paolo rimase a Tarso diversi anni (tra i 5 e i 10 a seconda delle varie ricostruzioni cronologiche, v. sopra). Di questo lungo periodo oscuro della sua vita rimane solo l'accenno di Gal1,21 che vede Paolo recarsi in Siria e Cilicia, cioè nei dintorni di Tarso. Non è esplicitato il motivo di questi viaggi ma è presumibile che si riferissero a una predicazione itinerante, e come per il caso della predicazione precedente in Arabia non sono noti luoghi visitati, durata e risultati conseguiti.
In Atti Paolo fa la sua ricomparsa solo in 11,25-26 quando il suo mentore Barnaba, inviato dalla chiesa di Gerusalemme ad Antiochia di Siria, lo va a cercare nella vicina Tarso per farne un suo collaboratore e lo conduce nella città siriaca, allora la principale metropoli del Vicino Oriente. Qui Paolo rimarrà strettamente legato alla comunità cristiana per alcuni anni. La tradizione cristiana ha conservato memoria di una grotta, detta di San Pietro, nella quale si sarebbe riunita la chiesa di Antiochia.
Dopo "un anno intero" di permanenza, Paolo e Barnaba si recarono a Gerusalemme (seconda visita, vedi At11,27-30; 12,21-25). Occasione del viaggio fu una colletta della chiesa di Antiochia per la chiesa di Gerusalemme in vista di una carestia che, stando al racconto di Atti, era stata predetta da un cristiano di nome Agabo. Dopo aver portato le offerte della colletta ritornarono ad Antiochia. La notizia della morte di Erode Agrippa I (44 d.C.), collocata tra la partenza e il ritorno di Paolo, e le informazioni pervenuteci da autori extra-cristiani circa la prolungata carestia in Palestina, collocano l'accaduto attorno alla metà degli anni quaranta.
In passato da alcuni biblisti questa seconda visita veniva fatta coincidere con quella descritta in Gal2,1-9, ma attualmente vi è accordo nel considerare quest'ultima come coincidente con la terza visita, quella del concilio di Gerusalemme.
Dopo un tempo imprecisato dal ritorno dalla seconda visita a Gerusalemme, Paolo partì per il primo di quelli che saranno i suoi tre viaggi missionari itineranti. Protagonisti furono (almeno) Paolo, Barnaba e per il tratto iniziale Giovanni-Marco, cugino di Barnaba (Col4,10), che in seguito comporrà a Roma il secondo vangelo. La durata, a seconda delle varie ricostruzioni cronologiche, è tra i due e i cinque anni, collocabili nella seconda metà degli anni quaranta (v. sopra). I destinatari della predicazione sono principalmente gli Ebrei ma anche i pagani.
Dopo un periodo imprecisato ("non poco tempo") dal ritorno ad Antiochia scoppiò un dissidio nella comunità che porterà al cosiddetto "concilio di Gerusalemme" con la terza visita di Paolo nella città santa. La descrizione degli eventi è contenuta in At15,1-35 e, sotto una prospettiva diversa, in Gal2,1-9. In passato alcuni biblisti hanno ipotizzato che il racconto di Galati non corrispondesse a questa terza visita ma fosse da collocare nella seconda visita, durante la quale Paolo portò le offerte per la carestia. Attualmente una parte degli esegeti però rifiuta questa ipotesi, ritenendo che At15 corrisponda a Gal2, mentre molti altri studiosi, anche cristiani, ritengono che si tratti di due versioni in disaccordo e "in Atti si tratta di un terzo viaggio, mentre in Gal di un secondo e, d'altra parte, i due racconti presentano importanti divergenze. Se riguardano gli stessi avvenimenti, il rispettivo punto di vista è molto diverso".
La questione riguardava le recenti conversioni al cristianesimo di alcuni pagani (detti ellenisti) che erano avvenute nella città. Fino a quel momento le comunità cristiane erano composte prevalentemente da Ebrei che avevano accettato la messianicità di Gesù e la sua risurrezione (detti giudeo-cristiani), i quali accettavano le prescrizioni della Legge ebraica nella quale erano cresciuti, in primis la circoncisione. I pagani convertiti erano però estranei dalla tradizione ebraica e, soprattutto, non erano circoncisi. Per questo "alcuni" (probabilmente giudeo-cristiani di origine farisaica) venuti dalla Giudea ad Antiochia insegnavano la necessità della circoncisione che doveva essere imposta loro. A questa richiesta si opposero Paolo e Barnaba. Il confronto con la vita e la predicazione di Gesù non forniva chiare indicazioni a favore di una delle due posizioni: Gesù stesso era un ebreo circonciso e osservante i precetti della Legge ebraica, ma nella sua predicazione appare come costante ricorrente il contrasto con alcuni di questi precetti (vedi p.es. il ritornello "è stato detto... ma io vi dico" del discorso della montagna) e con la modalità esteriore e formale con la quale le autorità farisaiche li applicavano e insegnavano ad applicarli.
Per risolvere questa impasse Paolo e Barnaba si recarono a Gerusalemme (Gal2,2 precisa che il motivo del viaggio fu "per una rivelazione"). Qui ebbe luogo la discussione, che la tradizione cristiana indica come il primo concilio, che vide in definitiva la vittoria della posizione paolina ("non cedemmo neppure un istante", Gal2,5): ai nuovi convertiti non occorreva imporre l'osservanza della legge ebraica ("non fu imposto nulla di più", Gal2,6), ma solo di alcune norme fondamentali, cioè l'astensione "dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia" (At15,28-29, particolare omesso da Gal).
Nonostante l'atmosfera irenica che traspare dal resoconto di Atti, lo scontro tra le due fazioni dovette essere abbastanza aspro, come testimoniato dalla lettera ai Galati. Inoltre il comune accordo raggiunto a Gerusalemme non impedì che la questione avesse uno strascico successivo, il cosiddetto "incidente di Antiochia" (riferito dal solo Paolo in Gal2,11-14). A quanto pare la comunità giudeo-cristiana continuava a vedere gli ellenisti come una sorta di cristiani di "seconda categoria", arrivando a scindere la mensa (eucaristica?) per le due distinte comunità. Pietro si lasciò coinvolgere in questa separazione, contraria allo spirito paritario emerso al Concilio, coinvolgendo anche Barnaba e venendo per questo apertamente ripreso da Paolo.
Anche Paolo tuttavia non si attenne strettamente al Concilio: in seguito fece circoncidere Timoteo affinché venisse accettato anche dai Giudei e dai giudeo-cristiani (At16,1-3).
Il secondo viaggio missionario è narrato in At15,36-18,22. Protagonisti furono (almeno) Paolo e Sila-Silvano, ai quali si aggiunse poco dopo Timoteo. Le regioni toccate sono la Galazia del sud, evangelizzata nel primo viaggio, e quindi la Macedonia e la Grecia. La durata, a seconda delle varie ricostruzioni cronologiche, è circa 4-5 anni, collocabili attorno al 50.
Dopo un periodo imprecisato, Paolo partì (da solo o con altri?) per il terzo viaggio missionario, descritto in At 18,23-21,15. Le regioni toccate sono le attuali Grecia e Turchia, già visitate nei viaggi precedenti. La durata, a seconda delle varie ricostruzioni cronologiche, è circa 5-6 anni, collocabili attorno alla metà degli anni cinquanta.
Il motivo dell'arrivo a Gerusalemme è dettato verosimilmente dalla necessità di portare alla chiesa locale i frutti della "colletta dei santi". Gli eventi successivi all'arrivo sono ampiamente descritti a partire da At21,15. Viene narrato un nuovo incontro con Giacomo, dal quale traspare la tensione e il sospetto che ancora, nonostante le decisioni del concilio di Gerusalemme ribadite dallo stesso Giacomo in At21,25, dovevano esserci tra i giudeo-cristiani e le comunità paoline: "hanno sentito dire di te che vai insegnando a tutti i Giudei sparsi tra i pagani che abbandonino Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le nostre consuetudini" (At21,21). Giacomo gli consiglia di recarsi nel tempio per purificarsi assieme a quattro uomini che avevano fatto un voto (verosimilmente il nazireato), testimoniando così pubblicamente la sua adesione formale all'ebraismo.
Dopo una settimana, mentre si trovava nella spianata del tempio Paolo fu riconosciuto da alcuni Ebrei dell'Asia (probabilmente Efeso) e fu accusato, oltre che di aver predicato "contro la legge e contro questo luogo", anche di aver introdotto un pagano (l'ellenista Trofimo di Efeso) nel recinto del tempio riservato agli Ebrei. L'accusa era falsa (Paolo era accompagnato da Trofimo ma non nel tempio) ma il reato era grave, essendo prevista la pena di morte per il trasgressore.
Ne derivò un tumulto nel quale Paolo rischiò il linciaggio. Intervenne un tribuno romano, un certo Claudio Lisia (At23,26;24,7;24,22), che dalla vicina fortezza Antonia poteva controllare la spianata del tempio, e che salvò Paolo dalla morte. Questi chiese all'ufficiale di potersi rivolgere alla folla inferocita e tenne un discorso nel quale raccontava la sua chiamata da parte di Gesù a predicare ai pagani, ma non riuscì a calmare il tumulto. Il tribuno lo portò al sicuro nella fortezza e stava per flagellarlo, ma Paolo rivelò di essere cittadino romano. Il giorno seguente il tribuno dispose un regolare processo del Sinedrio e Paolo riuscì abilmente a risvegliare i conflitti che intercorrevano tra sadducei e farisei, principali componenti del Sinedrio, conquistando il favore di questi ultimi. Risolto il processo con un nulla di fatto, alcuni giudei ordirono un piano per uccidere Paolo e il tribuno lo fece trasferire a Cesarea, sede del governatore Felice, allegando una lettera nella quale specificava che « [...] in realtà non c'erano a suo carico imputazioni meritevoli di morte o di prigionia». Tale resoconto risulta storicamente problematico e verosimilmente va interpretato a livello teologico: "in mezzo ad un fascio di improbabilità storiche che non hanno paralleli nel resto dell'opera di Luca ci sono troppe cose di fronte alle quali ci troviamo sconcertati: il ricorso del tribuno al sinedrio, la sua improbabile competenza di convocarlo e approntarne l'ordine del giorno, il carattere dell'assemblea (incontro o processo, vv. 30.6), le percosse a Paolo e la sua maledizione, la sua incredibile protesta di non aver riconosciuto il sommo sacerdote e infine il suo sfruttamento dell'inveterato odium theologicum tra fazioni a proprio vantaggio" e, anche in merito ai soldati che dovevano condurre Paolo a Cesarea ("duecento soldati [...] insieme con settanta cavalieri e duecento lancieri"),"questo spropositato numero avrebbe richiesto metà della truppa assegnata alla Fortezza Antonia".
A Cesarea lo raggiunsero il sommo sacerdote Anania e alcuni Giudei, che lo accusarono formalmente di fronte al governatore, ma Felice non si pronunciò né per la condanna né per la scarcerazione, permettendogli di godere durante la sua detenzione di una certa libertà (At24,23) fino allo scadere del suo mandato, due anni dopo (At24,27). Quest'attesa può essere dovuta all'incertezza e alla prudenza con la quale i governatori romani esitavano a pronunciarsi sulle questioni religiose ebraiche, a loro indifferenti (vedi anche il caso di Gesù e Pilato, Gv18,31, e Paolo con Gallione, At18,15). Non sembra comunque che Felice lo trovasse colpevole, apparendo al contrario ben disposto nei suoi confronti (At24,24-27), anche se lo lasciò in prigione « [...] volendo dimostrare benevolenza verso i Giudei».
Allo scadere del mandato di Felice gli successe Porcio Festo (circa 59/60 d.C.) ed ebbe luogo un secondo processo contro Paolo da parte dei capi dei Giudei. Anche in questo caso il governatore mostrò incertezza, non pronunciandosi né per una condanna né per la scarcerazione, e Paolo si appellò al giudizio dell'imperatore, suo diritto in quanto cittadino romano, al quale Festo dovette acconsentire (verosimilmente con sollievo): «Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai» (At25,12). Tale narrazione degli Atti deve essere valutata in chiave teologica e non storica, in quanto l'appello a Cesare "e il suo seguito nell'intervento del re Agrippa II, sono probabilmente [un] prodotto di Luca": "molti dati non sono storicamente plausibili, ma sono frutto di una massiccia attività redazionale: l'assenza di una sentenza del governatore, la sua visibile disponibilità ad abdicare alla sua competenza giudiziaria nonostante la presenza di un crimine contro Cesare tra le accuse (v. 8), la strana faccenda della competenza territoriale (v. 9)" e, inoltre, "guidare una sommossa (24,11-12) era classificato come un crimen lesae maiestatis contro la persona dell'imperatore; per cui non era pensabile che un governatore rimandasse il caso ad un tribunale giudaico. [...] Luca chiaramente pensa ad un giudizio del sinedrio con la supervisione di Festo, come in 22,30-23,10. Ma una simile proposta non è assolutamente realistica, come non lo è la scena".
Dopo un tempo indeterminato ("diversi giorni") giunse a Cesarea il re Agrippa con sua sorella e amante Berenice, discendente di Erode e sovrano di un limitato territorio nel nord dell'attuale Giordania, e chiese di poter ascoltare Paolo. Al termine del suo lungo racconto, nel quale narrò nuovamente la sua chiamata da parte di Gesù risorto, sia il re che il governatore sembrarono convinti della sua innocenza (At26,30-32).
Verso l'autunno Paolo si imbarcò per Roma con altri prigionieri (e con Luca?), sotto la custodia di un certo Giulio. Anche in questo viaggio Paolo sembra godere di una discreta libertà e indulgenza (v. p.es. At 27,3;27,43), come era stato trattato in precedenza dalle varie autorità romane. Le tappe del viaggio furono Sidone, la costa nord di Cipro, Myra di Licia, Buoni Porti e Lasea a Creta. Al largo di Creta la sua nave, un ponto, incappò in una tempesta e andò alla deriva per 14 giorni, durante i quali Paolo sembra essere stato la guida carismatica di passeggeri, marinai e soldati. Approdarono infine a Malta. Nell'isola è conservato il ricordo toponomastico del luogo dello sbarco nella Baia di San Paolo.
Anche in merito a questi resoconti degli Atti, la storicità appare secondaria rispetto all'aspetto teologico e il "Nuovo Grande Commentario Biblico" rileva che "gli esegeti non sono d'accordo sulla matrice del racconto: per alcuni si trattava di una narrazione nautica preesistente rilevata da Luca con inserzioni che delineano la figura del suo eroe; per altri il racconto registra le effettive memorie di un compagno di Paolo, forse Aristarco (v.2), la cui voce Luca trasmette nel «noi»" e in tale resoconto appare "improbabile il ruolo di Paolo come consigliere dell'equipaggio e capo dei compagni di viaggio quando, come prigioniero, doveva starsene sotto coperta in catene!", inoltre "una sorprendente profusione di termini tecnici relativi alla navigazione nella descrizione delle disavventure del viaggio indica la sua origine nella letteratura piuttosto che nell'esperienza".
Secondo il resoconto degli Atti, a Malta Paolo compì numerosi miracoli (At 28,1-10). Dopo tre mesi, finita la brutta stagione, il viaggio per mare verso Roma riprese passando per Siracusa, Reggio, Pozzuoli, Terracina (in questa città Paolo avrebbe soggiornato nella casa del diacono Cesario per sette giorni) e quindi a piedi per il Foro di Appio e le Tre Taverne. A Roma la tradizione conserva il ricordo del luogo dove avrebbe dimorato Paolo agli arresti domiciliari per (almeno) due anni (At 28,30), nel quale è stata poi costruita la Chiesa di San Paolo alla Regola.
Il dettagliato resoconto degli Atti degli Apostoli termina con l'arrivo di Paolo a Roma, dove rimase almeno due anni (At28,30). Quello che successe dalla fine di questi due anni (circa 62/63) alla morte di Paolo (tra il 64-67, vedi dopo) non è noto con certezza e dipende in particolare dal riconoscimento o meno dell'autenticità delle lettere pastorali, Prima e Seconda lettera a Timoteo e Lettera a Tito. Gli scenari possibili sono quattro, e tutti si basano sulla scarcerazione di Paolo dalla prigionia, particolare storicamente verosimile: secondo Atti, tutte le autorità incontrate da Paolo si mostrarono ben disposte verso di lui e non trovarono nel suo comportamento motivi che potessero portare a una condanna.
Secondo la tradizione cristiana Paolo morì durante la persecuzione di Nerone, decapitato (pena di morte dignitosa riservata ai cittadini romani) presso le Aquæ Salviæ, poco a sud di Roma, probabilmente nell'anno 67 d.C.
Sempre secondo la stessa tradizione secolare, morì lo stesso anno e lo stesso giorno di Pietro apostolo che, invece non essendo cittadino romano, venne fatto crocifiggere durante le persecuzioni dell'imperatore Nerone.
Entrambi sono venerati come martiri: secondo le norme e la consuetudine della Chiesa Cattolica e della Chiesa Ortodossa, nel giorno in cui la tradizione ha datato la morte dei due santi.
Paolo era detto l'Apostolo delle Genti, mentre Pietro era detto il principe degli Apostoli, perché Gesù lo nominò primo papa (inteso come principe e vicario, essendo Cristo Re e Pantocratore).
Dalle lettere di Paolo così dagli Atti degli Apostoli, scritti attorno all'80 (che terminano la narrazione con l'arrivo a Roma e con la prima blanda prigionia, una sorta di "custodia cautelare", in attesa di comparire "di fronte a Cesare") si possono ricavare informazioni utili per collocare dal punto di vista cronologico la vita di Paolo, ma, ovviamente, non per chiarire le circostanze della morte dell'apostolo.
La già citata Lettera ai Corinzi di Clemente romano (fine I secolo) accenna a un martirio di Paolo "sotto i prefetti", ma non esplicita il nome dei prefetti né luogo, data, motivo e modalità del martirio.
Tertulliano (fine II secolo) riporta che a Roma "vinse la sua corona morendo come Giovanni" (Battista, cioè decapitato).
L'apocrifo Martirio di San Paolo apostolo (tr. it.), facente parte degli Atti di Paolo (fine II secolo), descrive dettagliatamente la morte di Paolo per esplicito volere di Nerone. Come per gli altri apocrifi il testo viene giudicato leggendario dagli storici contemporanei.
«In piedi, rivolto verso Oriente, Paolo pregò a lungo. Dopo aver protratta la preghiera intrattenendosi in ebraico con i padri, tese il collo senza proferire parola. Quando il carnefice gli spiccò la testa, sugli abiti del soldato sprizzò del latte. Il soldato e tutti i presenti, a questa vista, rimasero stupiti e glorificarono Dio che aveva concesso a Paolo tanta gloria; e al ritorno annunziarono a Cesare [i.e. Nerone] quanto era accaduto. Anch'egli ne rimase stupito e imbarazzato»
Eusebio attorno al 325 riporta che fu decapitato a Roma sotto Nerone (regno 54-68, che va verosimilmente ristretto al periodo 64-68 seguente al grande incendio di Roma e alla persecuzione anticristiana connessa), e citando la perduta Lettera ai Romani di Dionigi di Corinto (fine II secolo) colloca il martirio di Pietro e Paolo nello stesso giorno, senza però specificarlo.
Girolamo verso fine IV secolo precisa che fu decapitato a Roma e fu sepolto lungo la via Ostiense nel 14º anno di Nerone (67), due anni dopo la morte di Seneca.
Importante, per la sua antichità, è anche la testimonianza del presbitero Gaio, ecclesiastico vissuto al tempo di papa Zefirino (199-217). In un suo scritto contro Proclo, capo della setta dei Montanisti (Catafrigi), parla dei luoghi ove furono deposte le sacre spoglie dei detti Apostoli (Pietro e Paolo) dicendo: «Io posso mostrarti i trofei degli Apostoli. Se vorrai recarti al Vaticano, o sulla via Ostiense, troverai i trofei dei fondatori di questa Chiesa». (Historia Ecclesiastica, 11, 25; P.L. 20, 207-210)
L'apocrifo Atti di Pietro e Paolo (dopo il IV secolo, en) riferisce che la decapitazione di Paolo avvenne presso la via Ostiense lo stesso giorno della morte di Pietro, precisando la data del martirio al 29 giugno. La Storia di Perpetua, aggiunta contenuta in alcuni manoscritti greci, precisa che il luogo della decapitazione era chiamato Aquæ Salviæ ed era situato "vicino al pino". La data deriva probabilmente dal fatto che il 29 giugno 258, sotto l'imperatore Valeriano (253-260), le salme dei due apostoli furono trasportate nelle Catacombe di San Sebastiano, e solo quasi un secolo dopo papa Silvestro I (314-335) fece riportare le reliquie di Paolo nel luogo della prima sepoltura. In questa data la tradizione cattolica celebra la solennità dei santi Pietro e Paolo.
Nel luogo dove secondo la tradizione avvenne il martirio, le Aquæ Salviæ, in seguito fu edificata l'abbazia delle Tre Fontane, mentre sul luogo del sepolcro è stata costruita la basilica di San Paolo fuori le mura. Per secoli il sepolcro era rimasto nascosto sotto al pavimento della basilica. Lavori archeologici svolti tra il 2002 e il 2006 sotto la guida di Giorgio Filippi lo hanno riportato alla luce.
Il 29 giugno 2009, nella cerimonia ecumenica conclusiva dell'Anno Paolino (ovvero il Bimillenario della nascita di San Paolo apostolo, «dagli storici collocata tra il 7 e il 10 d.C.») papa Benedetto XVI ha annunciato i risultati della prima ricognizione canonica effettuata all'interno del sarcofago di San Paolo. In particolare, il pontefice ha riferito che «nel sarcofago, che non è mai stato aperto in tanti secoli, è stata praticata una piccolissima perforazione per introdurre una speciale sonda mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato di oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. È stata anche rilevata la presenza di grani di incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree». Il papa ha poi proseguito affermando che i «piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all'esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo». «Ciò - ha concluso - sembra confermare l'unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell'apostolo Paolo. Tutto questo riempie il nostro animo di profonda emozione».
Paolo rappresenta, dal punto di vista storico e anche per l'importanza rivestita nella tradizione, il primo teologo cristiano.
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Eugenio Caruso - 09 - 12- 2021
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