In alcuni nostri editoriali abbiamo spesso dichiarato che l’Italia è un paese ammalato e di questa opinione sono anche importanti economisti italiani e stranieri. Riteniamo doveroso riportare il parere di Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, che pur non essendo allineato con la nostra visione di un'economia moderna, è d’accordo sulla diagnosi dello stato di salute del paese.
«È evidente che il solco tra società e classe politica diventa sempre più profondo e tende ad allargarsi di giorno in giorno. Ciò che serve e che i cittadini chiedono è una politica che si assuma la responsabilità di decidere, di compiere scelte, di elaborare progetti, di immaginare il futuro. Una politica che si riappropri del suo ruolo, che riscopra se stessa ed i suoi compiti, e tra questi il principale e il più importante: quello di dirigere e nello stesso tempo servire la società. Una politica che restituisca alle Istituzioni e allo Stato autorevolezza e credibilità, ma soprattutto che si difenda dall’idea che il destino di milioni di cittadini possa essere affidato alla globalizzazione o alla “mano invisibile” del mercato.
L’Italia è anche un Paese in ostaggio. Un Paese ormai prigioniero della propria classe politica che ha steso sulla società una rete a trame sempre più fitte impedendone ogni movimento, ogni possibilità di azione, ogni desiderio di cambiamento e di modernità, riducendo progressivamente gli spazi di democrazia e mortificando le vocazioni, i talenti, i meriti, le attese, le aspirazioni di milioni di cittadini.
Siamo di fronte a una classe politica che aumenta il proprio potere e la propria capacità di controllo sociale in termini inversamente proporzionali alla sua autorevolezza, credibilità e consenso. Tanto più essa perde di considerazione nel giudizio dei cittadini, tanto più estende il proprio potere. Tanto più cresce il desiderio di partecipazione e di buona politica nella società, tanto più essa diventa autoreferenziale, separata, indifferente. Tanto più avanzano la richiesta e l’attesa di vedere affermarsi leader all’altezza della complessità prodotta dai cambiamenti che attraversano il pianeta, tanto più occupano la scena personaggi di cartone capaci al massimo di far bella mostra di sé lanciando slogan in qualche talk show. Ma a sua volta la politica stessa è diventata ostaggio. Tanto è forte e invasiva nella società, tanto è prona e remissiva nei confronti dei poteri forti, della finanza, delle banche, delle assicurazioni, delle grandi agenzie di rating, del sistema della comunicazione e dell’informazione, delle mille corporazioni che caratterizzano la storia e i percorsi del nostro Paese. La politica e le Istituzioni non sono più il luogo di regolazione tra interessi e bisogni, non sono più la stanza di compensazione tra le pretese spesso brutali della razionalità capitalistica e le attese del corpo sociale. L’economia e la finanza hanno vinto la partita riducendo la politica a un non luogo o meglio a un luogo nel quale possono esercitarsi dialetticamente confusi personaggi in cerca d’autore o di parti da rappresentare. La politica che un tempo veniva, a torto o a ragione, considerata il cervello del Paese, il perno strategico della società, il motore di ogni trasformazione è costretta a ricorrere ai mezzi, anche quelli più sleali, per poter garantire la propria sopravvivenza: basti pensare alla legge elettorale ancora in vigore nonostante da tutti venga definita in termini non propriamente eleganti.
La politica di oggi sta ai poteri forti e alla finanza come i bravi a Don Rodrigo e i campieri ai baroni siciliani.
Se la cattiva politica tiene in ostaggio la società è anche vero che questa, almeno in parte, ha finito per adattarsi al ruolo. Così come il prigioniero si acconcia a chi è arbitro della sua libertà, la società italiana, in preda alla Sindrome di Stoccolma, è diventa complice. Si è progressivamente adeguata alle regole e ai meccanismi imposti dalla politica. La politica e i cittadini hanno trovato nuove modalità di incontro e di scambio ispirate alla logica del laissez faire, del laissez passer e prevedono appunto la possibilità che lo Stato affermi retoricamente i propri princìpi e richiami alla osservanza delle regole e i cittadini possano silenziosamente disattenderli e aggirarli.
Una cosa appare ormai certa: il nostro sistema economico e produttivo, da solo, non è oggi, né lo sarà nel prossimo futuro, in grado di far ripartire il Paese. Forse la nostra posizione potrà apparire antistorica e superata, ma abbiamo la convinzione che solo attraverso una nuova assunzione di responsabilità della “mano pubblica” l’economia italiana si possa rimettere in moto. Nel corso di questi ultimi anni abbiamo criticato spesso la classe politica per almeno tre motivi: il ritardo nel prendere atto della realtà e dei cambiamenti economici e sociali; la eccessiva litigiosità e l’abitudine di considerare gli avversari politici come nemici da distruggere; la mancanza di metodo e di strategia nell’individuare e nell’affrontare i problemi.
Siamo convinti che di fronte alle grandi emergenze e alle questioni che riguardano il futuro del Paese e di tutti gli italiani, le forze politiche possono trovare una linea di coesione e una forte unità di intenti. Per prendere esempio basterebbe osservare il comportamento dei nostri vicini di casa europei che riescono a superare contrasti e divisioni non potrebbero che apprezzare.»
Commento del presidente Eurispes, a margine del Rapporto Eurispes - Italia 2008 sullo stato del paese nel 2007 .
11/04/2008
Tratto da Eurispes - Rapporto Italia 2008