Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.
Cherubini - Raffaello
RIASSUNTO DEL CANTO XXXI
Il Canto è strettamente legato al precedente, di cui costituisce una sorta di completamento con la descrizione della rosa dei beati e rispetto al quale si apre quasi senza soluzione di continuità: dopo la raffigurazione dei beati e dell'anfiteatro luminoso in cui sono collocati i loro seggi, alla fine del Canto XXX, qui il poeta descrive il tripudio degli angeli che vanno avanti e indietro fra i beati stessi e Dio, simili a uno sciame d'api che fa la spola dai fiori all'alveare ove è prodotto il miele (la similitudine, di derivazione virgiliana, è suggerita dall'immagine della rosa mystica e a sua volta trasmette l'idea dell'incessante opera degli angeli, che con il volto fiammeggiante e le ali d'oro propagano sui beati la pace e la carità di Dio). L'ammirazione della moltitudine degli angeli, che pur frapponendosi tra gli occhi di Dante e la luce divina non ne impedisce la visione, spinge il poeta a intonare un inno commosso e attonito alla trina luce che si diffonde su tutto l'Universo, pervaso dallo stupore di chi sente di aver raggiunto la propria meta dopo un lungo e faticoso cammino: è questo il senso del paragone fra Dante, sbalordito di fronte allo spettacolo dell'Empireo, e i barbari che restavano a bocca aperta di fronte all'imponenza dei monumenti di Roma, mentre il poeta descriverà se stesso come il pellegrino che è giunto al santuario che intendeva visitare e si riposa appagando gli occhi di quella visione.
Nella letteratura religiosa era frequente la rappresentazione dell'uomo sulla Terra come un pellegrino in via, destinato a giungere in patria alla fine del suo viaggio nel mondo e a diventare cittadino della Gerusalemme o della Roma celeste raffigurante il Paradiso, ed è esattamente così che Dante presenta se stesso nei Canti finali della III Cantica (del resto poco più avanti seguirà un terzo paragone, fra Dante intento a osservare il volto di Bernardo che contempla la Vergine e il pellegrino giunto dalla Croazia per ammirare il volto di Cristo nel velo della Veronica, che non riesce ad appagarsi di tale visione). Dante sottolinea inoltre l'enorme distanza che ormai lo separa dal mondo terreno, che egli ha lasciato preda della sua procella e del suo disordine politico e morale per approdare nella pace dell'Empireo, ovvero nel posto che gli compete e che (come più volte gli è stato preannunciato) lo attende per l'eternità nella dimensione dell'ultraterreno; non manca di accostare polemicamente a questa Roma celeste abitata da un popol giusto e sano la sua corrotta Firenze, alla fine di una terzina in cui i due termini sono posti l'uno accanto all'altro (al divino da l'umano... a l'etterno dal tempo... di Fiorenza in popol giusto e sano).
Il poeta ricorda al lettore che siamo vicini alla fine del viaggio e che è prossima la visione finale di Dio, che concluderà il poema in una dimensione lontanissima dalla corruzione e dal caos del mondo, il cui ultimo accenno è stato nelle parole di Beatrice alla fine del Canto XXX.
Dante vorrebbe porre domande alla sua donna sulle meraviglie che gli è dato osservare, ma quando si volta al posto di Beatrice vede accanto a sé un vecchio venerando, che apprenderemo trattarsi di san Bernardo: enorme è il suo stupore e tutti i critici indicano la somiglianza tra questo episodio e la scomparsa di Virgilio in Purg., XXX, salvo che là il poeta si abbandonava a un pianto disperato per l'abbandono di colui che considerava come un padre, mentre qui si limita a chiedere al santo dove sia Beatrice, apprendendo che la donna ha ripreso il suo posto nella rosa dei beati.
La descrizione di Beatrice nella magnificenza della sua beatitudine è l'ultimo omaggio a colei che, grazie al suo amore, lo ha tratto in salvo dal peccato, insieme al commosso ringraziamento che Dante le rivolge e con il quale la saluta quasi definitivamente dal poema: il suo posto come guida è stato rilevato da Bernardo, che rappresenta il lumen gloriae in grado di condurre Dante alla visione beatifica di Dio e che infatti si affretta a esortarlo a spingere il suo sguardo sull'intera rosa dei beati, soffermandosi in particolare sulla figura della Vergine Maria. Non stupisce questa insistenza di Bernardo sulla Vergine, dato il culto mariano per cui il santo era famoso e che Dante non poteva certo ignorare, anche perché a suo dire solo l'intercessione di Maria presso Dio potrà consentire a Dante, ancor vivo, di accedere alla visione della mente divina, privilegio che solo in occasioni rarissime può toccare a un mortale ancor vivo: viene anticipato il tema al centro del Canto finale del Paradiso, in cui proprio Bernardo rivolgerà alla Vergine la famosissima preghiera grazie alla quale Dante potrà figgere il suo sguardo nella mente di Dio e vedere per alcuni istanti ciò che per l'universo si squaderna, mentre qui la gloria di Maria è descritta come pura luce che si diffonde sulla rosa celeste e la vince in fulgore, mentre più di mille angeli festanti le fanno un tripudio tutt'intorno che si collega a quanto visto in apertura di Canto.
Più che naturale, inoltre, l'accostamento tra Maria e Beatrice, non solo per la santità di entrambe le donne e il valore allegorico della donna fiorentina, ma soprattutto perché era stata la Vergine a sollecitare l'intervento di Beatrice per soccorrere Dante ostacolato dalle tre fiere, sia pure attraverso santa Lucia che qui non è nominata ma che avrà la sua menzione d'onore nel Canto successivo, alla sinistra del Battista nella rosa dei beati: le tre donne benedette che hanno allegoricamente salvato Dante sono di nuovo l'una accanto all'altra, quindi dopo l'inno a Beatrice a metà del Canto questo può chiudersi con la glorificazione di Maria, che sarà al centro anche del XXXII prima del suo intervento indispensabile al compiersi della visione di Dante.
Maria parla a San Bernardo. Dipinto del Perugino
Le ultime parole del Canto descrivono proprio san Bernardo in accesa contemplazione della Vergine, il che induce Dante a osservarla con ancora più ardore di carità, in un'atmosfera di attesa che (come vedremo) sarà protratta per tutto il Canto seguente e si scioglierà solo all'inizio del XXXIII, con la preghiera di Bernardo che sarà una delle pagine più elevate di tutta la poesia della Commedia.
San Bernardo è senza dubbio la terza guida che accompagna Dante nel suo viaggio ultraterreno, subentrando a Beatrice a metà del Canto XXXI del Paradiso come questa era subentrata a Virgilio nel XXX del Purgatorio: piuttosto evidente il valore allegorico degli altri due personaggi (Virgilio rappresenta la ragione naturale dei filosofi, mentre Beatrice è la teologia rivelata e la grazia santificante), mentre non del tutto trasparente è quello di Bernardo su cui i commentatori si sono a lungo interrogati, rimarcando soprattutto il suo culto mariano e il misticismo che ne farebbero il personaggio ideale a condurre Dante alla visione finale di Dio. Ciò è indubbiamente vero, ma il santo ha un significato allegorico più preciso che va messo in relazione a quello delle altre due guide e che è stato bene illustrato dal dantista americano Ch. S. Singleton nel suo saggio Journey to Beatrice (Cambridge 1958, trad. it. La poesia della 'Divina Commedia', Bologna 1978): lo studioso, autore di una serie di studi che hanno gettato nuova luce sulla struttura allegorica del poema dantesco, cita opportunamente un passo di san Tommaso d'Aquino dove si parla di tre differenti tipi di visione di Dio, ciascuno dei quali necessita di una particolare «luce» e che si possono mettere in relazione con lo schema allegorico del poema:
- Vi è infatti un tipo di visione [di Dio] alla quale è sufficiente la luce naturale dell'intelletto, come la contemplazione delle cose invisibili grazie ai principi della ragione: e in questa contemplazione i filosofi riponevano la suprema felicità dell'uomo.
- Vi è poi un altro tipo di visione, alla quale l'uomo viene elevato grazie alla luce della fede, come accade ai santi su questa Terra.
- Vi è infine un terzo tipo di visione, propria dei beati in Paradiso, alla quale l'intelletto viene elevato grazie alla luce della gloria, vedendo Dio nella sua essenza, in quanto oggetto della beatitudine: tale visione avviene in modo pieno e perfetto solo in Paradiso, tuttavia talvolta alcuni vengono rapiti ad essa quando sono ancora su questa Terra, come accadde a san Paolo durante la sua estasi.
Le prime due «luci» (il lumen naturale intellectus e il lumen fidei) corrispondono a Virgilio e Beatrice, essendo evidente che la prima è inferiore alla seconda e senza la fede nella rivelazione delle Scritture è impossibile vedere le cose invisibili che costituiscono la beatitudine: tuttavia anche con questa luce non si arriva a una visione piena e perfetta della vera essenza di Dio, quale di fatto è possibile solo a Dio stesso che contempla la propria mente, a meno che non intervenga un lumen gloriae che, come un alto fulgore, colpisca la mente dell'uomo e gli consenta di vedere, in un rapimento mistico, la reale natura di Dio (come accadrà a Dante nel Canto XXXIII del Paradiso, in cui la sua mente viene percossa / da un fulgore che gli svela per un breve istante l'essenza del Creatore). Tale visione è quella che normalmente tocca ai beati in patria, ossia nell'Empireo, ma talvolta può capitare a un mortale per effetto di un rapimento estatico, come accadde a san Paolo che fu rapito al III Cielo e come di fatto accadrà allo stesso Dante alla fine del suo viaggio (non si scordi lo stretto parallelismo tra Dante e san Paolo, sottolineato a più riprese nel poema). Il lumen gloriae che deve sollevare la mente umana a una così alta visione è appunto allegorizzato da san Bernardo, che dunque rileva il posto di Beatrice come guida di Dante alla fine del lungo viaggio: la scelta del personaggio per questo ruolo è probabilmente influenzata dalle ragioni su esposte, ovvero il suo culto mariano e la sua propensione al misticiscmo contro l'eccessivo razionalismo, per quanto l'esperienza della visione finale di Dante non sia un abbandono totale alla comunione con Dio ma conservi un carattere intellettuale, di effettiva «visione» che avviene con l'intelletto e non solamente col sentimento.
Dante sottolinea più volte la subordinazione della ragione e della filosofia alla rivelazione, specie nei Canti finali del Paradiso, tuttavia non rinuncia totalmente all'elemento razionale nel suo figgere lo sguardo nella profondità infinita della mente divina, anche se è detto chiaramente che tale esperienza è impossibile per le sole forze dell'intelletto umano e deve provvedere un aiuto dall'alto, che elargisca ad esso quella fruizione dell'aspetto divino che è parte essenziale della beatitudine celeste; e che questa avvenga prima con la ragione e solo secondariamente con il cuore è affermato chiaramente in Par., XXVIII, per cui è pienamente giustificato da parte del Singleton il ricorso alle fonti tomistiche per spiegare la struttura allegorica del poema, così come l'identificazione di Bernardo come allegoria del lumen gloriae indispensabile perché Dante veda ciò che con la sola ragione e col solo ricorso alle Scritture sarebbe impossibile scorgere.
Dante, Petrarca e il velo della Veronica
In Par., XXXI, 103-111 Dante paragona se stesso che osserva il volto di san Bernardo in contemplazione della Vergine al pellegrino che giunge a Roma dalla lontana Croazia per ammirare il volto di Cristo impresso sul velo della Veronica: si tratta di una antica reliquia bizantina, ancor oggi conservata nella cupola di S. Pietro e che, secondo una leggenda risalente al XIII sec., una pia donna avrebbe usato per asciugare il volto sanguinante di Gesù (tale donna sarebbe l'emorroissa guarita da Cristo, Matth., IX, 20-22 e Luc., VIII, 43-48; il nome Veronica è forse la storpiatura del termine vera icon con cui la reliquia veniva ricordata nel Medio Evo). Tale paragone è sembrato eccessivo ad alcuni commentatori, ma è chiaro che la similitudine non è fra Bernardo e Cristo bensì fra Dante e il fedele che giunge da lontano per ammirare le sembianze del Salvatore: in tutto il Canto il poeta accosta se stesso al pellegrino che giunge alla destinazione finale del suo viaggio, poiché la vita sulla Terra era vista dai teologi come un pellegrinaggio che giungerà alla fine solo in Paradiso, dove l'anima salva si ritroverà in patria, cittadina per l'eternità della Gerusalemme celeste che era anch'essa meta di pellegrinaggi nel Medio Evo. Una similitudine per molti versi simile e avente anch'essa come oggetto il velo della Veronica sarà usata anche dal Petrarca, nel celebre sonetto XVI dei Rerum vulgarium fragmenta in cui il poeta descrive un suo viaggio a Roma in occasione del quale deve staccarsi da Laura: egli cerca le fattezze del volto della sua amata in quello di altre donne, proprio come l'anziano pellegrino (che ha affrontato un lungo e faticoso viaggio per raggiungere Roma) contempla le fattezze di Cristo nel velo della Veronica, sperando di rivedere quello stesso volto quando giungerà in Paradiso. Non è improbabile che la fonte del paragone petrarchesco sia proprio il passo citato della Commedia, tuttavia è chiaro che ci sono notevoli differenze e che in Petrarca l'accostamento di temi sacri e profani è lontanissimo dall'intento dell'autore del Paradiso: anche qui il paragone non è fra Laura e Cristo, bensì tra Petrarca e il pellegrino; quest'ultimo è animato da zelo religioso, il poeta dall'amore per la sua donna; il vecchio affronta un lungo viaggio per avvicinarsi all'oggetto del desiderio, Petrarca va a Roma allontanandosi dal suo, ovvero dalla donna amata; il pellegrino è anziano e debole, il poeta è ancora giovane e nel pieno delle forze, e così via. I temi religiosi sono ovviamente presenti nella poesia petrarchesca, ma in una maniera del tutto diversa rispetto all'opera di Dante: Petrarca è il poeta del dubbio, della lacerazione interiore, così l'amore sensuale è qualcosa che lo distoglie dai beni spirituali, senza che egli operi una scelta radicale come l'autore della Commedia; Laura è una donna reale che non ha più quasi nulla della donna-angelo degli Stilnovisti o della Beatrice allegorica del Paradiso, per cui Petrarca può accostarla indirettamente alla Veronica senza che tale paragone assuma alcun significato religioso. La verità è che Petrarca è poeta più moderno di Dante e anticipa molti temi dell'Umanesimo, per cui egli ha già varcato una linea rispetto alla quale Dante è ancora decisamente al di là: come l'amico e contemporaneo Boccaccio, cultore a suo modo dell'opera dantesca, Petrarca esprime quella nuova sensibilità che sfocerà di lì a pochi decenni nella serena armonia dell'arte rinascimentale, pur conservando un'inquietudine interiore causata da scrupoli religiosi, che però (e questa è la fondamentale differenza rispetto a Dante) egli non risolverà mai, oscillando continuamente fra la tensione all'infinito e il richiamo dei beni terreni (è fin troppo evidente, invece, che Dante superò pienamente tale crisi rappresentata dal suo «traviamento» e la stesura del poema ne è la dimostrazione più lampante).
La veronica. Dipinto di H. Memling
NOTE
- Ai vv. 2-3 la milizia santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa è la schiera dei beati, la Chiesa trionfante che è sposa di Cristo. L'altra (v. 4) è la schiera degli angeli.
- La raffigurazione degli angeli (vv. 13-15) col volto rosso, le ali d'oro e la veste bianca si rifà al testo biblico e all'iconografia tradizionale: i tre colori erano anche interpretati come allegoria di carità, sapienza e purezza, per quanto ci fossero anche altre interpretazioni.
- Al v. 18 ventilando il fianco indica che gli angeli, volando, si toccano con le ali il fianco, o forse scuotono la candida veste.
- Alcuni mss, al v. 20 leggono plenitudine al posto di moltitudine, a indicare che il Cielo è tutto riempito dallo stormo angelico.
- Al v. 26 gente antica e novella indica i beati dell'Antico e del Nuovo Testamento.
- I vv. 31-33 alludono all'Orsa Maggiore (Elice), che nei cieli del Nord Europa da dove provenivano i barbari non tramonta mai, ruotando sempre con quella di Boote che essa vagheggia. Nel mito classico Elice (detta anche Callisto) era una ninfa sedotta da Giove, che dopo aver dato alla luce il figlio Arcade venne cacciata dalla dea Diana di cui era al seguito; Giunone la tramutò in un'orsa per gelosia e Giove la tramutò nella costellazione dell'Orsa Maggiore, accanto a quella di Boote in cui venne trasformato anche il figlio (cfr. Purg. XXV, 130-132).
- Al v. 46 passeggiando indica in metafora che Dante fa scorrere gli occhi lungo i seggi della rosa, e non (come alcuni commentatori hanno ipotizzato) che egli cammini materialmente all'interno di essa.
- Al v. 49 suadi è lat. per «conformati».
- Al v. 58 Uno... e altro sono prob. da intendere come neutri («volevo fare una cosa e invece ciò che mi rispose era un'altra»).
- Ai vv. 59 e 94 sene è un forte latinismo per «vecchio» (da senex), così come gene per «guance» al v. 61.
- Ai vv. 79-90, nella commossa preghiera con cui Dante saluta Beatrice, il poeta le si rivolge dandole del «tu» anziché del «voi» come ha fatto finora in segno di rispetto: è stato osservato che ciò dipende dal fatto che - Beatrice ha cessato ormai di essere la donna amata da Dante per ridiventare una figura sacrale simile a quella di una santa, cui si può dare del «tu» entrando in comunione con lei.
- I vv. 80-81 alludono al racconto di Virgilio in Inf., II, 94 ss.
- I vv. 103-108 alludono al velo della Veronica, la reliquia bizantina conservata in S. Pietro a Roma e un tempo esposta ai fedeli, sicché era oggetto di frequenti pellegrinaggi.
- I vv. 124-125 indicano il Sole, attraverso il mito di Fetonte che ne guidò malamente il carro (cfr. Par. XVII, 1-3).
- L'oriafiamma (v. 127) indica lo stendardo di guerra dei re di Francia, derivante secondo la leggenda da quello rosso dato da Cristo a Carlo Magno, come segno della sovranità imperiale: era un drappo rosso con dipinte delle fiamme o stelle dorate. Qui indica forse non Maria ma il punto della rosa da dove lei emana la sua luce, per cui al simbolo guerresco è accostato (quasi in modo antitetico) l'agg. pacifica.
- Al v. 136 divizia è lat. per «ricchezza» (da divitiae). Anche caler (v. 140) è lat. che indica «esser caldo», «ardere» (altri mss. leggono calor, che però è lectio facilior e dunque meno probabile).
TESTO DEL CANTO XXXI
In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa; 3
ma l’altra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la ‘nnamora
e la bontà che la fece cotanta, 6
sì come schiera d’ape, che s’infiora
una fiata e una si ritorna
là dove suo laboro s’insapora, 9
nel gran fior discendeva che s’addorna
di tante foglie, e quindi risaliva
là dove ‘l suo amor sempre soggiorna. 12
Le facce tutte avean di fiamma viva,
e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco,
che nulla neve a quel termine arriva. 15
Quando scendean nel fior, di banco in banco
porgevan de la pace e de l’ardore
ch’elli acquistavan ventilando il fianco. 18
Né l’interporsi tra ‘l disopra e ‘l fiore
di tanta moltitudine volante
impediva la vista e lo splendore: 21
ché la luce divina è penetrante
per l’universo secondo ch’è degno,
sì che nulla le puote essere ostante. 24
Questo sicuro e gaudioso regno,
frequente in gente antica e in novella,
viso e amore avea tutto ad un segno. 27
O trina luce, che ‘n unica stella
scintillando a lor vista, sì li appaga!
guarda qua giuso a la nostra procella! 30
Se i barbari, venendo da tal plaga
che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
rotante col suo figlio ond’ella è vaga, 33
veggendo Roma e l’ardua sua opra,
stupefaciensi, quando Laterano
a le cose mortali andò di sopra; 36
io, che al divino da l’umano,
a l’etterno dal tempo era venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano, 39
di che stupor dovea esser compiuto!
Certo tra esso e ‘l gaudio mi facea
libito non udire e starmi muto. 42
E quasi peregrin che si ricrea
nel tempio del suo voto riguardando,
e spera già ridir com’ello stea, 45
su per la viva luce passeggiando,
menava io li occhi per li gradi,
mo sù, mo giù e mo recirculando. 48
Vedea visi a carità suadi,
d’altrui lume fregiati e di suo riso,
e atti ornati di tutte onestadi. 51
La forma general di paradiso
già tutta mio sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso; 54
e volgeami con voglia riaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa. 57
Uno intendea, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti gloriose. 60
Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene. 63
E «Ov’è ella?», sùbito diss’io.
Ond’elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio; 66
e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro». 69
Sanza risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai. 72
Da quella region che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare più giù s’abbandona, 75
quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché sua effige
non discendea a me per mezzo mista. 78
«O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige, 81
di tante cose quant’i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute. 84
Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’i modi
che di ciò fare avei la potestate. 87
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi». 90
Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l’etterna fontana. 93
E ‘l santo sene: «Acciò che tu assommi
perfettamente», disse, «il tuo cammino,
a che priego e amor santo mandommi, 96
vola con li occhi per questo giardino;
ché veder lui t’acconcerà lo sguardo
più al montar per lo raggio divino. 99
E la regina del cielo, ond’io ardo
tutto d’amor, ne farà ogne grazia,
però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo». 102
Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l’antica fame non sen sazia, 105
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?’; 108
tal era io mirando la vivace
carità di colui che ‘n questo mondo,
contemplando, gustò di quella pace. 111
«Figliuol di grazia, quest’esser giocondo»,
cominciò elli, «non ti sarà noto,
tenendo li occhi pur qua giù al fondo; 114
ma guarda i cerchi infino al più remoto,
tanto che veggi seder la regina
cui questo regno è suddito e devoto». 117
Io levai li occhi; e come da mattina
la parte oriental de l’orizzonte
soverchia quella dove ‘l sol declina, 120
così, quasi di valle andando a monte
con li occhi, vidi parte ne lo stremo
vincer di lume tutta l’altra fronte. 123
E come quivi ove s’aspetta il temo
che mal guidò Fetonte, più s’infiamma,
e quinci e quindi il lume si fa scemo, 126
così quella pacifica oriafiamma
nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte
per igual modo allentava la fiamma; 129
e a quel mezzo, con le penne sparte,
vid’io più di mille angeli festanti,
ciascun distinto di fulgore e d’arte. 132
Vidi a lor giochi quivi e a lor canti
ridere una bellezza, che letizia
era ne li occhi a tutti li altri santi; 135
e s’io avessi in dir tanta divizia
quanta ad imaginar, non ardirei
lo minimo tentar di sua delizia. 138
Bernardo, come vide li occhi miei
nel caldo suo caler fissi e attenti,
li suoi con tanto affetto volse a lei,
che‘ miei di rimirar fé più ardenti. 142
Lactatio di San Bernardo. Miniatura del XV secolo
PARAFRASI CANTO XXXI
Dunque la santa schiera dei beati che Cristo sposò col suo sangue mi veniva mostrata in forma di una candida rosa;
invece la schiera degli angeli, che volando vede e canta la gloria di Dio che la riempie d'amore, nonché la bontà che la rese così splendente, simile a uno sciame d'api che entra nel fiore e poi torna all'alveare dove trasforma in miele il suo lavoro, scendeva nella rosa dei beati che è adornata di tanti petali, per poi risalire da lì fino a Dio nella cui mente risiede sempre il suo amore.
I loro volti erano rossi come la fiamma viva, e le ali erano d'oro, mentre le vesti erano così bianche che nessuna neve può eguagliare quel candore.
Quando scendevano nella rosa, porgevano in tutti i seggi dei beati la pace e l'ardore di carità che acquistavano volando e sbattendo le ali, scuotendo così la loro veste.
Il fatto che una tale moltitudine di angeli si interponesse tra Dio e la rosa non impediva la visione dello splendore della luce divina:
infatti la luce di Dio penetra attraverso l'Universo a seconda della sua capacità di recepirla, cosicché nulla la può ostacolare.
Questo regno sereno e gioioso, pieno di beati dell'Antico e del Nuovo Testamento, aveva lo sguardo e l'affetto tutto rivolto verso la stessa direzione (verso Dio).
O luce della Trinità, che scintillando in un'unica stella ai loro occhi li appaghi così tanto, rivolgi il tuo sguardo alle tempeste del mondo terreno!
Se i barbari, giungendo da quelle regioni che ogni giorno sono sormontate dall'Orsa Maggiore e che ruota con quella di Boote che essa vagheggia, vedendo Roma e i suoi alti monumenti restavano attoniti, quando il Laterano superava tutte le altre opere umane;
io, che ero giunto alla dimensione divina dal mondo terreno, alla dimensione dell'eterno dal tempo e da Firenze a quel popolo giusto e retto, di quale stupore dovevo essere pieno! Certo quella meraviglia e la gioia mi facevano desiderare di non udir nulla e di restare in silenzio.
E come un pellegrino che si riposa dopo esser giunto nel santuario meta del suo viaggio, e spera di poter riferire al ritorno come esso si presenti, così io spingevo i miei occhi lungo i gradini della rosa, ora in alto, ora in basso e ora facendoli girare tutt'intorno.
Vedevo volti conformati alla carità, illuminati dalla luce di Dio e dalla propria gioia, e con atteggiamenti improntati alla più decorosa compostezza.
Il mio sguardo aveva abbracciato l'aspetto di tutto quanto il Paradiso e non si era ancora soffermato su un punto preciso;
e io mi voltai con rinnovato desiderio per domandare alla mia donna alcune cose di cui ero rimasto in dubbio nella mia mente.
Io intendevo fare questo, e invece mi rispose qualcos'altro: credevo di vedere Beatrice e vidi un vecchio vestito di bianco come tutti gli altri beati.
Dagli occhi e dalle guance ispirava una benevola gioia, con un atteggiamento devoto quale si confà a un padre amorevole.
Subito io dissi: «Dov'è Beatrice?» E lui rispose: «Beatrice mi ha evocato dal mio seggio per portare a termine il tuo desiderio;
e se sollevi lo sguardo, nel terzo gradino della rosa a partire dall'alto, la vedrai nel seggio che i suoi meriti le hanno concesso».
Senza rispondere, alzai lo sguardo e vidi Beatrice che era incoronata da un'aureola che rifulgeva dei raggi divini.
Da quella regione del cielo dove tuona più in alto, un occhio umano non è tanto lontano neppure se si trova nel più profondo abisso del mare, quanta era la distanza tra i miei occhi e Beatrice; e tuttavia non mi faceva nulla, poiché la sua immagine non arrivava a me attraverso un mezzo fisico (dunque la vedevo perfettamente).
«O donna in cui si rafforza la mia speranza, e che per la mia salvezza tollerasti di lasciare le tue orme nell'Inferno, se ho potuto vedere tante cose riconosco che tale grazia e tale virtù è derivata dal tuo potere e dalla tua bontà.
Tu mi hai riportato alla libertà dalla schiavitù del peccato, per tutte quelle strade e in tutti quei modi in cui tu avevi il potere di fare questo.
Custodisci questo tuo dono in me, cosicché la mia anima, che hai reso sana, si separi dal corpo nel modo che a te piacerà (in questo stato di grazia)».
Pregai in tal modo; e Beatrice, così lontana come appariva, sorrise e mi guardò, poi tornò all'eterna fonte di beatitudine (Dio).
E il santo vecchio disse: «Affinché tu porti a compimento nel modo dovuto il tuo viaggio, cosa per cui la preghiera di Beatrice e il suo santo amore mi hanno inviato qui, spingi il tuo sguardo lungo la rosa; infatti il vederla preparerà il tuo sguardo ad affrontare la visione di Dio.
E la Regina del Cielo (Maria), per la quale io ardo tutto d'amore, ci renderà la sua grazia, poiché io sono il suo fedele Bernardo».
Come il pellegrino che giunge forse dalla Croazia per vedere a Roma il velo della Veronica, e che non riesce a soddisfare la sua antica brama ma dice fra sé: 'O Signore mio Gesù Cristo, vero Dio, dunque furono queste le Vostre fattezze?', così ero io osservando la viva carità di Bernardo che su questa Terra, contemplando, assaporò la pace divina.
Egli cominciò: «Figlio della grazia, questa essenza gioiosa non ti sarà nota se continui a tenere lo sguardo fisso qui in basso;
ma osserva i cerchi fino al più lontano, fino a vedere nel suo seggio la Regina alla quale questo regno è suddito e devoto».
Io alzai lo sguardo; e come al mattino la parte orientale dell'orizzonte supera in chiarore quella dove il sole tramonta, così, quasi sollevando gli occhi dalla valle alla vetta del monte, vidi un punto in cima alla rosa che superava in luminosità tutti gli altri.
E come sulla Terra, dalla parte dove si attende il timone che Fetonte non seppe guidare (il Sole), il cielo si illumina di più, mentre ai lati il chiarore tende a diminuire, così quella pacifica luce fiammeggiante (il seggio di Maria) si rischiarava al centro, e ai lati lo splendore si attenuava uniformemente;
e verso quel punto io vidi più di mille angeli festosi, con le ali spiegate, ciascuno diverso per splendore e movimento.
Qui nel loro tripudio e nel loro canto vidi scintillare una bellezza tale (Maria), che era una gioia negli occhi di tutti gli altri santi;
e se io avessi nel parlare tanta ricchezza di espressione quanta ne ho ad immaginare, neppure in tal caso oserei tentare di descrivere la sua bellezza.
Bernardo, non appena vide che i miei occhi erano fissi e attenti nell'ardente carità della Vergine, rivolse i suoi a Maria con tale affetto che rese i miei ancor più desiderosi di ammirarla.
Filippimo Lippi: apparizione di Maria a San Bernardo
SAN BERNARDO
Bernard de Fontaine, in latino: Bernardus Claravallensis, italianizzato in Bernardo di Chiaravalle (Fontaine-lès-Dijon, 1090 – Ville-sous-la-Ferté, 20 agosto 1153), è stato un monaco cristiano, abate e teologo francese dell'ordine cistercense, fondatore della celebre abbazia di Clairvaux, di cui fu abate, e di altri monasteri. Viene venerato come santo da Chiesa cattolica, Chiesa anglicana e Chiesa luterana. Canonizzato nel 1174 da papa Alessandro III nella cattedrale di Anagni, fu dichiarato dottore della Chiesa da papa Pio VIII nel 1830. Nel 1953 papa Pio XII gli dedicò l'enciclica Doctor Mellifluus.Ritornato nel castello paterno di Fontaines, nel 1111, insieme ai cinque fratelli e ad altri parenti e amici, si ritirò nella casa di Châtillon per condurvi una vita di ritiro e di preghiera finché, l'anno seguente, con una trentina di compagni si fece monaco nel monastero cistercense di Cîteaux, fondato quindici anni prima da Roberto di Molesme e allora retto da Stefano Harding. Nel 1115, insieme a dodici compagni, tra i quali vi erano quattro fratelli, uno zio e un cugino, si trasferì nella regione della Champagne, nella Valle dell'assenzio, sulle rive del fiume Aube, nella diocesi di Langres, su un vasto terreno in una proprietà che un parente aveva donato ai monaci perché vi fosse costruito un nuovo monastero cistercense: essi rinominarono quella valle "Clairvaux" (Chiaravalle, 25 giugno 1115). Ottenuta l'approvazione del vescovo Guglielmo di Champeaux e ricevute numerose donazioni, l'Abbazia di Clairvaux divenne in breve tempo un centro di richiamo oltre che di irradiazione: già dal 1118 monaci di Clairvaux partirono per fondare altrove nuovi monasteri, come a Trois-Fontaines, a Fontenay, a Foigny, ad Autun, a Laon.
Nella Lettera 1, spedita verso il 1124 al cugino Roberto, Bernardo mostra di considerare la vita monastica dei benedettini di Cluny, allora all'apogeo del loro sviluppo, come un luogo che negava i valori della povertà, dell'austerità e della santità; egli rifiuta la teoria della regola benedettina della stabilitas - ossia del legame permanente e definitivo che dovrebbe stabilirsi fra monaco e monastero - sostenendo la legittimità del passaggio da un monastero cluniacense a uno cistercense, essendovi in quest'ultimo professata una regola più rigorosa e più aderente alla regola benedettina, pertanto una vita monastica perfetta. La polemica fu da lui ripresa nell'Apologia all'abate Guglielmo, sollecitata da Guglielmo, abate del monastero di Saint-Thierry, che ebbe una risposta dall'abate di Cluny, Pietro il Venerabile, nella quale l'abate rivendicava la legittimità della discrezione nell'interpretazione della regola benedettina.
Nel 1130, alla morte di Onorio II, furono eletti due papi: uno, dalla fazione della famiglia romana dei Frangipane, col nome di Innocenzo II e un altro, appoggiato dalla famiglia dei Pierleoni, con il nome di Anacleto II; Bernardo appoggiò attivamente il primo che, nella storia della Chiesa, per quanto eletto da un minor numero di cardinali, sarà riconosciuto come autentico papa, grazie soprattutto all'appoggio dei maggiori regni europei (Anacleto II verrà considerato un antipapa).
Nel 1138 il papa Innocenzo II ordinò ai monaci di San Cesareo in Palatio di donare a Bernardo, abate di Chiaravalle, l'intero capo di san Cesario di Terracina. Bernardo chiese di avere solo un dente del santo; i monaci si misero subito all'opera per esaudire la sua richiesta, ma non riuscirono a estrarlo dalla mandibola né con ferri né con coltelli. Bernardo, vedendo questo miracolo, disse: «Padri miei, bisogna fare orazione perché se san Cesario non dovesse acconsentire di darci il dente, noi non l'avremmo mai; preghiamo dunque che ci conceda questa reliquia». Così fecero e, finita la preghiera, l'abate francese riuscì a estrarre il dente con solo due dita.
Numerosi furono i suoi interventi in questioni che riguardavano i comportamenti di ecclesiastici: accusò di scorrettezza Simone, vescovo di Noyon e di simonia Enrico, vescovo di Verdun; nel 1138 favorì l'elezione a vescovo di Langres del proprio cugino Goffredo della Roche-Vanneau, malgrado l'opposizione di Pietro il Venerabile e, nel 1141, ad arcivescovo di Bourges di Pietro de La Châtre, mentre l'anno dopo ottenne la sostituzione di Guglielmo di Fitz-Herbert, vescovo di York, con l'amico cistercense Enrico Murdac, abate di Fountaine.
Nel 1119 alcuni cavalieri, sotto la guida di Ugo di Payns, feudatario della Champagne e parente di Bernardo, fondarono un nuovo ordine monastico-militare, l'Ordine dei Cavalieri del Tempio, con sede in Gerusalemme, nella spianata ove sorgeva il Tempio ebraico; lo scopo dell'Ordine, posto sotto l'autorità del patriarca di Gerusalemme, era di vigilare sulle strade percorse dai pellegrini cristiani. L'Ordine ottenne nel concilio di Troyes del 1128 l'approvazione di papa Onorio II e sembra che la sua regola sia stata ispirata da Bernardo, il quale scrisse, verso il 1135, l'Elogio della nuova cavalleria (De laude novae militiae ad Milites Templi).
L'interesse di Bernardo per le vicende politiche del suo tempo si manifestò anche in occasione dei conflitti che opposero il conte della Champagne, Tibaldo II, da lui sostenuto, al re Luigi VII e in occasione della repressione, nel 1140, del neonato Comune di Reims, operata dal suo pupillo cistercense, il vescovo Sansone di Mauvoisin.
Nel 1140 Guglielmo di Saint-Thierry, cistercense del monastero di Signy, scriveva al vescovo di Chartres, Goffredo di Lèves e a Bernardo, denunciando che due opere di Abelardo, il Liber sententiarum e la Theologia scholarium, contenevano, a suo giudizio, affermazioni teologicamente erronee, elencandole in un proprio scritto, la Discussione contro Pietro Abelardo.
Bernardo, «senza però leggere direttamente i testi incriminati (alcuni dei quali, di fatto, non erano di Abelardo)», scrisse a papa Innocenzo II la Lettera 190, sostenendo che Abelardo concepiva la fede come una semplice opinione; davanti agli studenti parigini pronunciò il sermone de La conversione, attaccando Abelardo e invitandoli ad abbandonare le sue lezioni.
Abelardo reagì chiedendo all'arcivescovo di Sens di organizzare un pubblico confronto con Bernardo, da tenersi il 3 giugno 1140, ma questi il giorno prima presentò 19 affermazioni chiaramente eretiche, attribuendole ad Abelardo (seppur «non sempre con scrupolosa aderenza ai testi e al loro significato»), chiamando i vescovi presenti a condannarle e invitando il giorno dopo lo stesso Abelardo a pronunciarsi in proposito.
Al rifiuto di Abelardo, che abbandonò il concilio, seguì la condanna dei vescovi, ribadita il 16 luglio successivo dal papa.
Nel 1144 il monaco Evervino di Steinfeld lo informò di un'eresia, di tipo pauperistico, diffusa in quel di Colonia, alla quale rispose con i Sermoni 63, 64, 65 e 66; l'anno successivo accolse l'invito del cardinale di Ostia, Alberico, a combattere un'eresia diffusa nella regione di Tolosa dal monaco Enrico di Losanna, seguace di Pietro di Bruys, critico nei confronti delle gerarchie ecclesiali e propositore di una vita improntata alla povertà e alla penitenza; in questa occasione, Bernardo ritenne necessario recarsi, insieme con il suo segretario Goffredo d'Auxerre a Tolosa. Ottenuta, dopo molti contrasti, una professione di fede, tornò a Chiaravalle e indirizzò una lettera agli abitanti di Tolosa - la Lettera 242 - nella quale esprimeva la sua convinzione che quelle dottrine fossero state definitivamente confutate. Richiesto ancora di pronunciarsi sulle tesi trinitarie del vescovo di Poitiers e maestro di teologia a Parigi, Gilberto Porretano, nel 1148, nuovamente Bernardo tentò di far approvare da vescovi da lui riuniti a parte, una preventiva condanna che il sinodo, da tenersi il giorno successivo a Reims, avrebbe dovuto semplicemente ratificare; questa volta, tuttavia, i vescovi non appoggiarono la sua iniziativa, tanto che Bernardo dovette cercare appoggio presso papa Eugenio III. La difesa di Gilberto - che affermò di non aver mai sostenuto le tesi a lui contestate, frutto, a suo dire, di interpretazioni erronee dei suoi studenti - fece cadere ogni accusa.
Il 15 febbraio 1145, a Roma, nel monastero di san Cesario, sul Palatino, il conclave eleggeva papa Eugenio III, abate del monastero romano dei Santi Vincenzo e Anastasio; il nuovo papa, Bernardo Paganelli, conosceva bene Bernardo, per averlo incontrato nel concilio di Pisa del 1135 e per essere stato ordinato cistercense proprio a Chiaravalle nel 1138. Bernardo, felicitandosi per l'elezione, gli ricordava curiosamente che si diceva «che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me» e che era stato proprio lui, Bernardo, ad «averlo generato per mezzo del Vangelo».
Eugenio III incaricò Bernardo di predicare a favore della nuova crociata che si stava preparando e che avrebbe dovuto essere composta soprattutto da francesi, ma Bernardo riuscì a coinvolgere anche i tedeschi. La crociata - improvvida perché progettava di conquistare Damasco, governata dai musulmani Buridi, che avevano sostanziali buone relazioni col Regno di Gerusalemme - fu un completo fallimento che Bernardo giustificò, nel suo trattato La considerazione, con i peccati dei crociati, che Dio aveva messo alla prova.
Questo trattato, finito di comporre nel 1152, si occupava anche dei compiti del papato e Bernardo lo mandò a papa Eugenio che si dibatteva con le difficoltà procurategli dall'opposizione dei repubblicani romani, guidati da Arnaldo da Brescia.
Le sue condizioni di salute cominciano a peggiorare alla fine del 1152: ebbe ancora la forza d'intraprendere un viaggio fino a Metz, in Lorena, per mettere fine ai disordini che travagliavano quella città. Tornato a Chiaravalle, apprese la notizia della morte di papa Eugenio, avvenuta l'8 luglio 1153 e morì il mese dopo, probabilmente per un tumore dello stomaco.
Rivestito con un abito appartenuto al vescovo Malachia, del quale aveva appena finito di scrivere una biografia, venne sepolto davanti all'altare della sua abbazia, presso Ville-sous-la-Ferté; con lo scoppio della Rivoluzione francese, le spoglie del santo andarono distrutte dai rivoluzionari, fatta eccezione della testa ancora oggi conservata nella Cattedrale di Troyes.
Secondo una leggenda, durante un suo soggiorno a Milano, San Bernardo decise di raggiungere Vigevano per predicare la seconda crociata al fine d'incitare la popolazione ad arruolarsi e scontrarsi con gli infedeli. Durante il viaggio verso la Lomellina, un diavolo ostacolò il santo tentando di staccare una delle ruote del suo carro; catturato il demonio, che cercò di divincolarsi, Bernardo lo legò forzatamente alla ruota rotta, proseguendo così il suo viaggio. I vigevanesi, venuti a conoscenza dell'imprevisto, prepararono una pila di legna in modo da condannare al rogo l'essere maligno, il quale venne legato e posizionato sulla pila dallo stesso santo per poter essere così arso. Spentesi le fiamme, Bernardo raccolse le ceneri del demone (ribattezzato dai vigevanesi dell'epoca col nome di "Barlic"); queste, per volontà del santo, vennero amalgamate con calce fabbricando così un mattone.
Ancora oggi, questa leggenda viene ricordata dalla popolazione locale di Vigevano con l'incendio di un fantoccio rappresentante il demonio, davanti alla chiesa di San Bernardo; in passato, sempre in base alla tradizione, come prendeva fuoco il fantoccio rappresentante il diavolo, si poteva capire se l'anno in questione avrebbe portato a un buon raccolto o meno; altri, invece, sostennero che se il pupazzo non bruciava, per la città di Vigevano sarebbe stato un anno negativo.
Riguardo al suo pensiero teologico e filosofico, Bernardo esprime sul piano morale un orientamento ispirato, apparentemente, al pessimismo: «[...] generati dal peccato, noi peccatori generiamo peccatori; nati corrotti, generiamo dei corrotti; nati schiavi, generiamo degli schiavi.» San Bernardo, dunque, combatte alcune tesi del suo tempo, come la teoria secondo la quale i discendenti di Adamo ed Eva non abbiano in sé un «peccato originale» sin dalla nascita, ma solo un malum poenae, un «male di pena». Bernardo dice anche:
«L'uomo è impotente di fronte al peccato.»
Ciò, evidentemente non è una giustificazione al peccato stesso, ma una spiegazione della miseria umana che nei nostri peccati si rivela, ma che è originata dal peccato originale che in ciascuno è impresso come un marchio. Dunque, la questione fondamentale è restaurare la natura umana, per riportare l'uomo al suo stato di «figlio di Dio», e dunque «essere eterno» nella beatitudine del Padre. Poiché ognuno porta in sé il peccato originale, però, nessuno può restaurare la propria natura da solo, ma può farlo solamente attraverso la «mediazione» di Cristo, che è Sotèr, cioè «Salvatore», proprio in quanto per noi è morto, espiando al nostro posto quel peccato originale che nessun altro poteva espiare, essendone sottoposto. Nella sua opera De gradibus humilitatis et superbiae, tuttavia, dice che, per avere la «mediazione» di Cristo, l'uomo deve superare l'«io di carne», deve limitare e poi annullare la superbia e l'amore di sé, attraverso l'umiltà. Contro di sé, dunque, deve porre l'amore di Dio, poiché solo col Suo amore si ottiene anche la Sua vera intelligenza, e solo con esso
«[...] l'anima passa dal mondo delle ombre e delle apparenze all'intensa luce meridiana della Grazia e della verità.»
Nel De diligendo Deo, San Bernardo continua la spiegazione di come si possa raggiungere l'amore di Dio, attraverso la via dell'umiltà. La sua dottrina cristiana dell'amore è originale, indipendente dunque da ogni influenza platonica e neoplatonica. Secondo Bernardo esistono quattro gradi sostanziali dell'amore, che presenta come un itinerario, che dal sé esce, cerca Dio, e infine torna al sé, ma solo per Dio. I gradi sono:
1) L'amore di sé stessi per sé:
«[...] bisogna che il nostro amore cominci dalla carne. Se poi è diretto secondo un giusto ordine, [...] sotto l'ispirazione della Grazia, sarà infine perfezionato dallo spirito. Infatti non viene prima lo spirituale, ma ciò che è animale precede ciò che è spirituale. [...] Perciò prima l'uomo ama se stesso per sé [...]. Vedendo poi che da solo non può sussistere, comincia a cercare Dio per mezzo della fede, come un essere necessario e Lo ama.»
2) L'amore di Dio per sé:
«Nel secondo grado, quindi, ama Dio, ma per sé, non per Lui. Cominciando però a frequentare Dio e ad onorarlo in rapporto alle proprie necessità, viene a conoscerlo a poco a poco con la lettura, con la riflessione, con la preghiera, con l'obbedienza; così gli si avvicina quasi insensibilmente attraverso una certa familiarità e gusta pura quanto sia soave.»
3) L'amore di Dio per Dio:
«Dopo aver assaporato questa soavità l'anima passa al terzo grado, amando Dio non per sé, ma per Lui. In questo grado ci si ferma a lungo, anzi, non so se in questa vita sia possibile raggiungere il quarto grado.»
4) L'amore di sé per Dio:
«Quello cioè in cui l'uomo ama se stesso solo per Dio. [...] Allora, sarà mirabilmente quasi dimentico di sé, quasi abbandonerà se stesso per tendere tutto a Dio, tanto da essere uno spirito solo con Lui. Io credo che provasse questo il profeta, quando diceva: "-Entrerò nella potenza del Signore e mi ricorderò solo della Tua giustizia-". [...]»
(
Nel De diligendo Deo, dunque, San Bernardo presenta l'amore come una forza finalizzata alla più alta e totale fusione in Dio col Suo Spirito, che, oltre a essere sorgente d'ogni amore, ne è anche «foce», in quanto il peccato non sta nell'«odiare», ma nel disperdere l'amore di Dio verso il sé (la carne), non offrendolo così a Dio stesso, Amore d'amore.
Il 24 maggio 1953 papa Pio XII scrisse la sua venticinquesima enciclica, dal titolo Doctor Mellifluus, dedicata a San Bernardo di Chiaravalle.
«Il dottore mellifluo ultimo dei padri, ma non certo inferiore ai primi, si segnalò per tali doti di mente e di animo, cui Dio aggiunse abbondanza di doni celesti, da apparire dominatore sovrano nelle molteplici e troppo spesso turbolente vicende della sua epoca, per santità, saggezza e somma prudenza, consiglio nell'agire.» Questo è l'incipit dell'enciclica, i cui punti chiave sono il ruolo del papato e la mariologia.
Nei suoi tempi confusi, San Bernardo pregava per l'intercessione di Maria, alla stessa maniera, sostiene il Papa, è necessario nei tempi moderni tornare a pregare Maria per la pace e la libertà della Chiesa e delle nazioni.
Nell'enciclica sono riportati tre temi centrali della mariologia di San Bernardo: come egli spiega la verginità di Maria (la "Stella del Mare"), come pregare la Vergine e come confidare in Maria come mediatrice.
«È detta Stella del mare e la denominazione ben si addice alla Vergine Madre. Ella con la massima convenienza è paragonata ad una stella; perché come la stella sprigiona il suo raggio senza corrompersi, così la Vergine partorisce il Figlio senza lesione della propria integrità.»
«Se insorgono i venti delle tentazioni, se incappi negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria. Se sei sballottato dalle onde della superbia, della detrazione, dell'invidia: guarda la stella, invoca Maria.»
«Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta.»
De laude novae militiae ad Milites Templi.
Questa opera fu composta tra il 1128, anno del concilio di Troyes e il 1136, anno della morte di Ugo di Payns, Maestro dell'Ordine dei Templari, cui fu dedicata l'opera, come exhortatorius sermo ad Milites Templi, riprendendo l'espressione del Santo nel Prologo dell'opera. Esso nacque in risposta alle pressioni che vennero fatte dallo stesso Ugo di Payns, affinché venisse chiarito il ruolo del miles Christi e la sua sostanziale differenza con gli appartenenti saecularis militia, come la definisce San Bernardo, che serba parole dure nei suoi confronti: «Tra voi null'altro provoca le guerre se non un irragionevole atto di collera, desiderio d'una gloria vana, bramosia di qualche bene terreno. E certamente per tali motivi non è senza pericolo uccidere o morire» (D.L., II, 3).
San Bernardo indica la figura del Cavaliere del Tempio, come un monaco-guerriero, che fa uso di due spade: una, da impiegarsi nella lotta contro il Male, una lotta prettamente interna alla persona e spirituale, e l'altra da porre in difesa degli ultimi e oppressi, che erano i pellegrini sottoposti alle angherie dei saraceni, i quali ne attaccavano spesso i convogli. Il tema del "malicidio" in San Bernardo non è da trattarsi come sterminio dell'infedele, anzi, lo stesso Santo nel corso dell'opera dice: «Vi è tuttavia chi uccide un uomo non per desiderio di vendetta né per brama di vittoria ma solo per salvare la propria vita. Ma neppure questa affermerò essere una buona vittoria: dei due mali il minore è morire nel corpo che nell'anima» (D.L., I, 2). E ancora: «Certo non si dovrebbero uccidere neppure gli infedeli se in qualche altro modo si potesse impedire la loro eccessiva molestia e l'oppressione di fedeli. Ma nella situazione attuale è meglio che essi vengano uccisi piuttosto che lasciare la verga dei peccatori sospesa sulla sorte dei giusti e affinché i giusti non spingano le loro azioni fino all'iniquità». Bernardo cita ad esempio la reazione di san Pietro, primo papa, nell'Orto degli ulivi descritta in Luca 22, 35-38, per sancire il diritto dei Sommi Pontefici al gladio temporale riconosciuto agli imperatori. Negli stessi anni, Abelardo teorizzava l'esistenza dell'unica "spada della dialettica".
Tutto il sermone procede per distinzioni e indica la via che poi seguirà l'Ordine dei Templari, adempiendo alla propria Regola. Un ordine di monaci-guerrieri, che deve prima recte scire, poi recte agere, in concordia con Cristo Re, per il quale il Cavaliere vince: «Affermo dunque che il Cavaliere di Cristo con sicurezza dà la morte ma con sicurezza ancora maggiore cade. Morendo vince per sé stesso, dando la morte vince per Cristo.» (D.L., 3)
"Le attestazioni di miracoli compiuti dall'abate di Chiaravalle sono numerose, sia nelle Vitae sia in altre fonti; se ne contano più di ottocento...I segni posti da san Bernardo sono guarigioni, esorcismi, conoscenze soprannaturali e poteri sulla natura. La sua attività taumaturgica è quella più presente: guarisce disturbi della motilità, la cecità o disturbi della vista, il mutismo, la febbre, ma interviene anche in casi di malattie nervose...A volte, i segni mirano a ottenere un'adesione, ad esempio durante la predicazione della crociata, o a ricondurre all'ortodossia della fede. Spesso, il loro unico scopo è quello di lenire la miseria e la sofferenza. Si può affermare che è la fede di un popolo sofferente nell'uomo di Dio a stimolare il suo carisma. Tra i miracoli citati dai suoi biografi, figurano anche risurrezioni.
«Questi racconti sono troppo universalmente attestati dai testimoni del XII secolo per essere ridotti a semplici generi letterari: il problema fondamentale non è sapere se i miracoli sono "veri" o "falsi" secondo i criteri scientifici moderni, ma comprendere, con l'ausilio di categorie appropriate, la loro innegabile presenza nella coscienza dei testimoni del tempo.»
È a San Bernardo che si deve la conoscenza di alcune devozioni popolarmente riconosciute dalla Chiesa Cattolica ancora oggi, ad esempio quelle sulle Piaghe di Gesù. Il dono mistico del Santo gli consentì, oltre che la Vergine, di ricevere rivelazioni anche da Gesù Cristo stesso. Tra tutte la più famosa è la rivelazione della Piaga incognita della Sacra Spalla di Gesù Cristo aperta dal peso della Croce. Nei suoi scritti, San Bernardo, racconta di aver chiesto nell'orazione a Cristo quale fosse stato il maggior dolore sofferto nel corpo durante la sua passione. Gli fu risposto:
«Io ebbi una piaga sulla spalla, profonda tre dita, e tre ossa scoperte per portare la croce. Questa piaga mi ha dato maggior pena e dolore più di tutte le altre e dagli uomini non è conosciuta. Ma tu rivelala ai fedeli cristiani e sappi che qualunque grazia che mi chiederanno in virtù di questa piaga, verrà loro concessa; e a tutti quelli che per amore di Essa mi onoreranno con tre Padre Nostro, Ave e Gloria al giorno, perdonerò i peccati veniali, non ricorderò più i mortali, non morranno di morte subitanea e in punto di morte saranno visitati dalla Beata Vergine conseguendo ancora grazia e misericordia»
San Bernardo ottenne anche la concessione dell'indulgenza da Papa Eugenio III a chiunque avesse propagato e portato sempre con sé l'orazione scritta all'uopo dal Santo.
Nella Divina Commedia Dante trova san Bernardo in Paradiso, di fronte alla candida rosa dei beati, come guida per l'ultima parte del suo viaggio, in virtù del suo spirito contemplativo e della sua devozione mariana.
Bernardo compare nel Canto XXXI del Paradiso come allegoria dell'estasi beatifica, situata al culmine dell'ascesi verso Dio. Dante è stato accompagnato da Beatrice, simbolo della fede, fin nell'Empireo e contempla la Mistica Rosa dei beati e degli angeli. Si volta per porre una domanda a Beatrice ma si accorge che questa è scomparsa e che al suo posto c'è un sene, Bernardo. Egli invita il poeta a osservare la cima della Rosa, nella sede più luminosa di Maria Vergine.
«E volgeami con voglia rïaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.
Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.»
Il Canto XXXIII del Paradiso si apre con la preghiera che il santo rivolge alla Vergine Maria (vv. 1-45) perché Dante possa vedere Dio:
«Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,
umile ed alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,
tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo Fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.»
(Incipit, vv.1-6)
Dopo avere descritto il legame intimo della Madonna con il mistero dell'Incarnazione, la supplica, con un ardor maggiore che per se stesso (vv.28-29), perché il sommo piacer della visione divina si dispieghi per Dante; quando la Vergine dimostra di aver accolto la sua preghiera volgendosi Essa stessa verso l'etterno lume, Bernardo con un sorriso accenna al poeta di guardar suso.
«Bernardo m'accennava, e sorridea,
perch'io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea»
AUDIO
Eugenio Caruso - 20 - 12- 2021
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