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Shakespeare, il massimo drammaturgo occidentale.



I DRAMMI STORICI

ENRICO VI

Enrico VI, parte prima (King Henry VI, Part I). Con quest'opera si apre, anche da un punto di vista semplicemente cronologico (la sua stesura è fatta risalire dagli studiosi agli anni 1588-1592), la lunga e complessa produzione shakespeariana. Il dramma storico, basato sulla vita del monarca Enrico VI d'Inghilterra, si compone di altre due parti: l'Enrico VI, parte II e l'Enrico VI, parte III; ma allo stesso tempo è il primo capitolo della tetralogia minore del Bardo assieme a Riccardo III. È il dramma del potere, indagato nei suoi aspetti più torbidi e oscuri, vissuto come fatalità e maledizione - come testimonia la maledizione contro gli inglesi di Giovanna d'Arco sul rogo, nella quarta scena del V atto - che incombe come una cappa asfissiante non solo su chi se lo ritrova a gestire senza averlo cercato (come appunto Enrico VI) ma anche su coloro la cui vita è presentata invece come un'interminabile sforzo per raggiungerlo, agguantarlo e mantenerlo. Il tema del peso del potere è un elemento centrale, che continua a svilupparsi nelle successive parti dell'opera.
«Ci fu mai monarca che occupasse un trono in terra e fosse meno felice di me? Appena uscito di culla fui fatto re all’età di nove mesi; e non vi fu mai suddito che desiderasse di essere sovrano quanto io desidero di essere suddito» (Enrico VI, parte II - Atto 4, scena 9)
Shakespeare, non ancora trentenne, dimostra di ben conoscere gli arcana imperii, i meccanismi segreti del governo e delle lotte di potere, le logiche spietate che presiedono alle alleanze e ai tradimenti, alle promesse di fedeltà eterna e ai repentini spergiuri, alle richieste di perdono o di pietà da parte dei vinti e alla sete di vendetta dei vincitori. Il sottofondo di ogni vicenda è quello eterno della lotta fratricida di Caino che colpisce suo fratello Abele (evocata esplicitamente da Winchester nella scena terza del primo atto) e delle inevitabili tristi conseguenze che questo delitto originario riproduce nella storia senza mai trovare redenzione, come un veleno versato alla sorgente di un fiume e che mai si diluisce o dissolve durante il suo corso, mantenendo intatti nel tempo il suo potere letale e la sua capacità di infettare le valli che attraversa; forse, soltanto quando le acque sfoceranno e si disperderanno nel mare aperto, alla fine della storia umana, questo veleno perderà la sua concentrazione mortale.
Trama
Nella prima parte assistiamo alle celebrazioni per la morte prematura di Enrico V (padre di Enrico VI), grande re e condottiero, che con la battaglia di Azincourt (1415) aveva piegato a sé la Francia e poi riportato alla corona inglese tutta la Normandia. L'evento inatteso inaugura per l'Inghilterra un periodo di incertezza e di torbidi politici.
«Ora che Enrico è morto, o generazioni future, attendetevi anni di dolore: i bambini suggeranno agli umidi occhi materni, quest’isola diverrà nutrice di amaro pianto, e non resteranno che donne a piangere i morti» (Atto I, Scena 1)
Ma la ribellione e la riscossa delle forze francesi, (“Tristi notizie vi porto dalla Francia, di perdite, di stragi e di sconfitte; la Guienna, la Sciampagna, Reims, Orléans, Parigi, Guysors, Poitiers, sono tutte perdute”, Atto I, Scena 1) alla cui guida vediamo una figura di Giovanna d'Arco non valorizzata da Shakespeare, (scriveva per un uditorio inglese, certamente non ben disposto verso la pulzella d'Orléans), sono solo la conseguenza esteriore, non la causa del problema; questa infatti va individuata in un fattore interiore, cioè nelle discordie, nell'odio, nelle rivalità meschine che crescono come un tumore negli animi della nobiltà inglese e da qui si trasmettono nel popolo.
Storicamente, questi torbidi sono rappresentati dalla cosiddetta Guerra delle due rose, e appunto nella scena 4 del secondo atto viene descritta plasticamente l'origine di tale rivalità tra le opposte fazioni degli York e dei Lancaster, in una contesa che si protrarrà sanguinosamente per oltre trent'anni:
«E qui faccio una profezia: questa contesa fra rosa bianca e rosa rossa, divenuta oggi fazione nel giardino del Tempio, manderà mille anime nelle tenebre della morte. [...] Sì, marciamo pure in Inghilterra o in Francia, senza capire quello che probabilmente seguirà. Questa discordia nata da poco fra i pari cova sotto le ceneri fallaci di un amore simulato, e da ultimo eromperà in fiamma: come le membra infette imputridiscono a poco a poco finché ossa e carne e muscoli cadono in disfacimento, tali saranno i frutti di questa vile discordia nata dalla rivalità. Ed ora temo quella fatale profezia che al tempo di Enrico V correva persino sulle bocche dei lattanti: che Enrico di Montmouth avrebbe conquistato tutto e Enrico di Windsor tutto avrebbe perduto» (Atto II, scena 4 e Atto III, scena 1)
Sullo sfondo di questa crisi drammatica, Enrico VI è il re, ma la sua figura è quella di chi il potere regale lo subisce invece che esercitarlo. Già la sua ascesa al trono d'Inghilterra all'età di appena nove mesi aveva qualcosa di innaturale; la sua incoronazione a re di Francia (procuratagli da un'accorta politica dinastica predisposta da suo padre Enrico V, che aveva sposato Caterina di Valois figlia di Carlo VI di Francia, Delfino e poi re di Francia) era avvenuta quando aveva 9 anni (nel 1430 a Parigi) e il regno di Enrico VI fu necessariamente un lungo periodo di reggenza, di governo per interposta persona (quella dei Lord Protettori); e Shakespeare fa commentare ad uno dei suoi personaggi:
grave quando lo scettro è in mano di un fanciullo”.
Enrico VI è giovane e non ama la guerra; la sua indole meditativa e introversa, come egli stesso ammette lo rende inadatto al suo ruolo, dati i tempi; la sua figura tragica è quella di chi vive credendo nella buona fede di quelli che lo circondano, sicuro che tutti siano come lui e quindi vogliano indefettibilmente il bene e rifiutino sempre e comunque il male. Ma il mondo non funziona così. Persino la sua intimità, la sua vita sentimentale è pregiudicata dall'inganno: il conte Suffolk gli propone in matrimonio la bella Margherita, di cui però egli stesso è invaghito e di cui si propone di fare la sua amante nonché la leva per la sua ascesa al potere, una volta condottala alla corte d'Inghilterra dalla nativa Francia.

enrico 6

Enrico VI d'Inghilterra

Enrico VI, parte seconda
Trama

La parte prima si era aperta con il cordoglio per un funerale; la parte seconda si apre invece con la gioia per un matrimonio annunciato, quello di Enrico VI con Margherita d'Angiò. Ma questa felicità non è affatto condivisa da molti membri autorevoli della corte, per i quali “questo matrimonio è fatale”, essendo parte di un accordo di tregua in cui il re, “ben felice di barattare due ducati con la bella figlia di un duca”, accordava condizioni molto favorevoli alla Francia di Carlo VI. L'intrigo e la ribellione covano sotto la cenere attorno al re e assediano la sua lieve felicità; persino le donne sono contagiate da questo fascino mortale del potere, e se in questo sembrano "presuntuose e perverse", tuttavia esse testimoniano una diversa autocoscienza. Nella seconda scena del secondo atto, durante una passeggiata serale nel giardino della casa di York, accade un fatto centrale per l'intera vicenda narrata nell'Enrico VI: York esce allo scoperto con i suoi buoni amici Salisbury e Warwick, del grande e potente clan dei Nevil, e chiedendo loro apertamente “che cosa pensino del suo indiscutibile diritto alla corona d'Inghilterra” ne ottiene il prezioso appoggio, ancorché segreto. Sulla base di questo patto, la corda dell'intrigo si stringe sempre più attorno a Gloucester, il fedele protettore del re, cui vengono estesi i sospetti che si nutrono sul conto di sua moglie Eleonora e pertanto gli viene revocato il ruolo di Protettore; nonostante dubiti della veridicità delle accuse
(“Il duca è virtuoso, mite e di troppo buoni costumi per sognare il male o per adoperarsi per la mia rovina”, e “è mia viva speranza che riusciate a giustificarvi pienamente di ogni sospetto: la coscienza mi dice che siete innocente”),
Enrico non ha la forza di opporsi alle accuse che vengono rivolte al suo ex protettore, con lo scopo di farlo cadere e di eliminare un ostacolo ai piani di coloro che agiscono e si comportano da congiurati, anche se – e non è paradossale in Shakespeare questa ulteriore complessità della trama - da un punto di vista giuridico sono nel giusto e rivendicano il loro buon diritto. Ma con i mezzi dei congiurati.
Del resto, lo stesso Gloucester avverte che
questi sono tempi pericolosi: la virtù è soffocata dalla vile ambizione e la carità cacciata di qui dal rancore; l'istigazione al male domina e la giustizia è sparita
e, prima di essere arrestato, mette in guardia Enrico sulle trame che si stanno compiendo alle sue spalle. In questo frangente decisivo, York incoraggia se stesso all'impresa, e la fortuna aiuta gli audaci: una sommossa in Irlanda consente a York, incaricato di sedarla, di radunare sotto il suo comando, senza destare sospetti, un grande esercito. La morte di Gloucester, assassinato durante la sua prigionia e prima del processo, consente ai veri alleati di York, cioè Salisbury e Warwick, di accusare davanti al re e al popolo Suffolk, Wichester e la stessa regina Margherita. Complice una sommossa, Suffolk viene così esiliato e deve dire addio all'Inghilterra e a Margherita, sua amante. E, come spesso avviene in Shakespeare, proprio in questo frangente al perfido Suffolk vengono ispirate parole d'addio a Margherita di una struggente bellezza:
«Così il povero Suffolk è dieci volte bandito, una volta dal re e nove da te medesima. Non è questa terra che mi importi, quando tu non ci sia; il deserto sarebbe anche troppo popolato se Suffolk avesse la tua celestiale compagnia, perché dove sei tu, colà è il mondo con tutti i piaceri che può dare; e dove non sei tu, non è che desolazione. Non posso più parlare, vivi e godi: io stesso avrò gioia soltanto dal sapere che tu vivi» (Enrico VI parte II, Atto terzo, scena II)
Intanto anche il cardinale di Winchester muore “bestemmiando Dio e maledicendo gli uomini” in un delirio di sensi di colpa e di disperazione]; e muore Suffolk, ucciso da pirati che hanno intercettato la sua barca mentre egli, insieme ad altri gentiluomini, attraversava lo stretto per raggiungere il suo esilio in Francia.
Il piano di York prosegue senza intoppi; tutte le sue mosse riescono; i suoi nemici si eliminano tra di loro senza che egli debba scoprirsi o destare sospetti. Manca ancora una mossa per preparare il terreno propizio alla sua azione: come egli stesso ammette
"Susciterò in Inghilterra una tenebrosa tempesta che manderà migliaia di anime in paradiso o le precipiterà all'inferno; e questo tremendo turbine non cesserà di infuriare finché l'aureo serto sul mio capo, come i raggi luminosi dello splendido sole, non calmi la furia di questo pazzo uragano". Lo strumento di questi disordini sarà Jack Cade, una losca figura di “demonio… e furfante”, un abile sobillatore senza scrupoli, che ama presentarsi come giustiziere del popolo e rivoluzionario che
vuol dare nuova veste allo stato, o rivoltarla e farvi nuovo pelo… animato dallo spirito di buttar giù re e principi...e giura di fare una riforma generale: in Inghilterra le pagnotte da sette soldi e mezzo saranno vendute per un soldo; la capacità del boccale sarà triplicata...tutto il regno sarà di tutti...e quando sarò re non ci sarà più denaro, tutti mangeranno e berranno a mie spese e vi vestirò tutti con la stessa livrea perché andiate d'accordo come buoni fratelli e mi riveriate come vostro signore”.
Il motto di questo brigante del Kent è: “Il nostro ordine è il massimo disordine!”. Alla testa del suo esercito costituito da "una moltitudine cenciosa di servi e contadini rozzi e spietati", Cade avanza verso Londra, se ne impadronisce, costringe il re alla fuga e assapora l'ebbrezza del potere:
«La mia bocca sarà il parlamento d’Inghilterra…e non si sposerà ragazza che non mi dia il tributo della sua verginità, prima che l’abbiano gli altri; gli uomini saranno miei vassalli diretti; inoltre ordiniamo e comandiamo che le loro mogli siano tanto libere quanto il cuore sa desiderare o lingua sa dire.» (Atto IV, scena 7)
Ma ben presto viene abbandonato da quella stessa folla che lo aveva poco prima acclamato e reso padrone di Londra.
Ci fu mai piuma che si movesse al vento come questa moltitudine?”.
Con questo amaro commento, fugge e poco dopo viene ucciso. In questo frangente, il duca di York torna in Inghilterra alla testa dell'esercito che gli era stato messo a disposizione per sedare la rivolta irlandese. Nella sua mente un solo pensiero:
Dall'Irlanda viene York in armi per rivendicare il suo diritto e togliere la corona dal capo del debole Enrico…Ah, santa maestà! Chi non vorrebbe comprarti a qualunque prezzo? Obbediscano coloro che non sanno comandare”. Ma egli pensa di dover ancora dissimulare le sue intenzioni “finché Enrico non sia più debole ed io più forte”.
Tuttavia gli eventi precipitano e in conclusione i giochi finora nascosti si rivelano apertamente:
«Allora, York, schiudi i tuoi pensieri a lungo celati e lascia che la tua lingua vada di pari col tuo cuore. Falso re! Ti ho chiamato re? No, tu non sei re, né atto a governare e a reggere moltitudini, tu che non osi né sai importi a un traditore. Alla tua testa non si addice una corona; la tua mano è fatta per stringere un bordone di pellegrino e non per onorare lo scettro temuto del principe. Codesta corona d’oro deve cingere la mia fronte, che spianandosi o accigliandosi può, come la lancia di Achille, uccidere o sanare. Ecco qua una mano adatta a tenere alto uno scettro e con quello sancire leggi sovrane. Cedimi il tuo posto, per il Cielo (Atto V, scena 1) .
Segue uno scontro cruento tra i partigiani di York, cioè innanzitutto i suoi figli Edoardo e Riccardo, e quindi Salisbury e Warwick, contro i partigiani di Enrico, ovvero Somerset e i due Clifford, padre e figlio. Nella sera di quella giornata, la vittoria arride agli York; il re e i resti dei suoi sostenitori si sono ritirati a Londra per salvare il salvabile e tentare una controffensiva. Il duca di York sa che deve incalzarli e non dare loro tregua..

margjerita angiò

Margherita d'Angiò, miniatura del 1445 circa

Enrico VI, parte terza
Trama
Lo scontro militare tra gli York e i Lancaster sembra far pendere definitivamente il piatto della bilancia dalla parte di York, ma in realtà lo scontro non è ancora concluso. Enrico VI è ancora libero a Londra e può far leva su potenti appoggi politici nel Consiglio dei Pari e nel paese. Gli York occupano nella notte il Parlamento e lì attendono i loro nemici. Il sole sta sorgendo su una giornata decisiva e tutti sono consapevoli della gravità dell'ora:
"Questo sarà chiamato il Parlamento sanguinoso se Riccardo Plantageneto, duca di York, non sarà fatto re e non verrà deposto il pauroso Enrico la cui viltà ci ha fatti passare in proverbio presso i nemici".
Dopo una convulsa trattativa piena di minacce reciproche, Enrico cede all'ultimatum di York, strappando tuttavia una condizione: egli stesso potrà continuare a regnare vita natural durante, e solo dopo la sua morte, il duca di York potrà far valere i suoi legittimi diritti dinastici e diventare re. Ma non c'è onore in questo accordo ed Enrico è abbandonato con disprezzo anche dai suoi partigiani più irriducibili, dalla moglie e dal figlio Edoardo, che si vede preclusa la successione al trono. Del resto, anche nella fazione di York c'è chi non è soddisfatto di questo accordo ed Edoardo, figlio maggiore di York, incita a riprendere immediatamente le armi:
"Se date alla casa di Lancaster agio di respirare, alla fine vi oltrepasserà nella corsa"; e se il duca di York teme di violare un accordo su cui ha giurato, è ancora Edoardo a vincere i suoi scrupoli: "Ma per un regno si può rompere qualsiasi giuramento: per conto mio verrei meno a mille giuramenti pur di regnare un anno".
La guerra dunque è decisa: la pace appena sancita solennemente in Parlamento si rivela una fragile e breve tregua. Ma la volubile fortuna adesso gira le spalle a York e le forze raccolte dalla regina Margherita e dai suoi sostenitori prevalgono in battaglia; lo stesso duca di York è fatto prigioniero ed ucciso.
"Vostro padre fu vinto da molti nemici, ma ucciso soltanto dal braccio irato del crudele Clifford e della regina. Questa per dispregio prima incoronò il grazioso duca, gli rise in faccia e quando piangeva pel dolore gli diede, perché si asciugasse le guance, una pezzuola intinta nel sangue innocente del piccolo Rutland" [figlio minore e beniamino di York] "già ucciso dal crudele Clifford. Dopo molti scherni e turpi beffe gli tagliarono la testa e la posero sulla porta della città di York e colà è ancora, il più triste spettacolo che abbia mai visto". E il codice atavico della vendetta si attiva immediatamente.
Dice Riccardo: "Piangere è diminuire la profondità del dolore: piangano dunque i fanciulli; per me, colpi e vendetta!".
Ma certo occorre ponderare bene le proprie mosse: “Ma in questo difficile momento, che cosa si deve fare?” (ivi). Si decide nuovamente per lo scontro frontale, senza lasciarsi aperte vie di fuga. Tutti sono consapevoli che l'odio ha ormai creato una matassa inestricabile; né il dialogo né il diritto possono sciogliere il nodo gordiano della successione al trono d'Inghilterra.
Intanto, l'ennesima battaglia viene rappresentata a tinte fosche sulla scena. Enrico VI ne attende fatalisticamente l'esito:
"Questa battaglia è come la guerra del mattino quando le nubi morenti contendono con la luce che cresce, e il pastore soffiandosi sulle dita intirizzite non sa se sia giorno o notte. Ora la vittoria inclina da questa parte, come un mare possente forzato dalla marea a combattere col vento; ora inclina dall'altra parte, come quello stesso mare che la furia del vento forzi a ritirarsi; talora la vince il vento e talora la marea; ora l'uno è più forte ora l'altra fortissima: lottano entrambi per la vittoria corpo a corpo, e nessuno è vincitore o vinto: così ugualmente bilanciata è questa terribile battaglia. Mi siederò qui su questa tana di talpa: conceda Dio la vittoria a chi vuole! (…) O volesse Dio farmi morire! Poiché, che vi è in questo mondo se non dolori e guai? O Dio! Che vita felice se fossi un semplice campagnuolo!".
La battaglia è sempre più cruenta e il suo orrore cresce inesorabilmente secondo una logica perversa che travalica le stesse intenzioni degli uomini. Da opposti schieramenti, si avanzano sulla scena padri che si rendono conto di aver ucciso il figlio, e figli che si avvedono di aver ucciso il padre.
Finalmente, il pendolo della fortuna si sposta nuovamente dalla parte di York. Edoardo torna a Londra a prendersi il titolo di re per cui si è tanto combattuto versando fiumi di sangue ma la sua indole buontempona e godereccia lo induce ad usare il suo potere non per occuparsi primariamente degli affari di stato e degli interessi politici del suo regno bensì per cercare di costringere un'avvenente vedova, Lady Grey, a diventare la sua amante. Ma Lady Grey resiste alla impacciate avances del re (definito da lei "il più goffo corteggiatore della Cristianità") e questi finisce, contro ogni logica politica e dinastica, col chiederle addirittura di sposarlo. Suo fratello Riccardo assiste a questa miserevole tresca e la collera di Caino, origine di tutto, torna nuovamente protagonista della scena. Riccardo confessa le sue intenzioni più segrete, le sue mire a spodestare il fratello e tutti quelli che lo precedono nella linea di successione al trono. Un sogno a occhi aperti, difficile da realizzare, anzi quasi impossibile. Però, supponendo
"che non vi sia possibilità di regno per Riccardo: quale altro piacere può fornirmi il mondo? Troverò forse il mio paradiso in grembo a una donna, coprirò il mio corpo di gai ornamenti, e affascinerò il bel sesso con le parole e con gli sguardi? O miserabile pensiero e più difficile a mettere in atto che ottenere venti corone d'oro! Già! L'amore mi abbandonò fin da quando ero in seno a mia madre e perché non m'impacciassi con le sue tenere leggi corruppe con qualche dono la fragile natura e la indusse ad atrofizzarmi il braccio come un ramo secco, a crearmi un'odiosa prominenza sul dorso dove la deformità siede a scherno del mio corpo, a dar forma disuguale alle mie gambe, a far di me un ammasso caotico, un orsacchiotto mal leccato che non ha alcuna delle sembianze materne. Come potrei essere fra quelli che piacciono alle donne? Mostruoso errore nutrire un tal pensiero! Dunque, giacché questa terra non mi offre alcuna gioia se non nel comandare, nel tenere a freno e nell'usar prepotenze a coloro che son fatti meglio di me, sarà mio paradiso sognare il trono e per tutta la mia vita considerare il mondo come un inferno, finché il mio capo, portato dal tronco deforme, non sia circondato da una splendente corona".
In questa situazione ancora fluida e non assestata, una leggerezza di re Edoardo fa di nuovo precipitare la situazione. Infatti, mentre Warwick si trova in Francia per chiedere al re Luigi il consenso al matrimonio fra Edoardo stesso e madama Bona, la sorella del re, giunge notizia che intanto proprio Edoardo, sconfessando di fatto l'operato del suo plenipotenziario e il suo disegno politico di alleanza con la Francia, ha sposato Lady Grey, "spinto alle nozze dall'appetito e non dall'onore né dal desiderio di rafforzare e garantire il nostro paese". Questa azione di Edoardo offende profondamente Warwick e ne determina il passaggio al campo dei sostenitori dello spodestato Enrico. Ma anche nell'entourage di Edoardo c'è malcontento e preoccupazione per questa sua scelta non meditata.
Ben presto si giunge allo scontro armato ed Edoardo cade prigioniero di Warwick, che gli notifica la sua deposizione e l'imminente ritorno al trono di Enrico. La ruota della fortuna, come la gigantesca pala di un mulino, si rimette in moto cigolando. Le scene si susseguono velocemente, fino a giungere al grande finale dell'atto V, con lo scontro campale tra le opposte fazioni che culmina col trionfo di Edoardo di York e il conseguente assassinio di Enrico VI e di suo figlio Edoardo. Ma ora che tutto è finito, proprio ora la maledizione di Caino si mostra di nuovo furtivamente all'opera, increspando minacciosamente la superficie liscia della storia. Ed è ancora Riccardo di Gloucester che incarna questa sete sanguinaria, Riccardo che confessa: "non ho né pietà né amore né paura… giacché il cielo ha foggiato così il mio corpo, l'inferno mi storpiò la mente in proporzione. Non ho fratelli, non somiglio a nessun fratello; e questa parola amore che i barbogi chiamano divina, stia con gli uomini che si somigliano l'un l'altro, non con me; io sono soltanto me stesso. Re Enrico e il principe suo figlio sono morti; Clarence ora tocca a te e poi agli altri" [che mi precedete nella linea di successione al trono] "perché continuerò a ritenermi infimo finché non sia salito più alto di tutti".
Così, Shakespeare conclude l'Enrico VI quasi preannunciando e gettando il seme del successivo dramma storico, il Riccardo III.

riccardo

Riccardo di Gloucester, poi Riccardo III d'Inghilterra.

 

RICCARDO III

Riccardo III (The Life and Death of King Richard III, Vita e morte di re Riccardo III) è l'ultima di quattro opere teatrali nella tetralogia minore di William Shakespeare sulla storia inglese: conclude un racconto drammatico cominciato con Enrico VI, parte 1 e continuato con Enrico VI, parte 2 e Enrico VI, parte 3. Dopo Amleto, questa è l'opera teatrale più lunga di Shakespeare. L'intera tetralogia è stata composta verso l'inizio della carriera di Shakespeare: il periodo più probabile di composizione è tra il 1591 e il 1592. Culminando con la sconfitta di re Riccardo III di York nella battaglia del campo di Bosworth alla fine dell'opera, Riccardo III è una drammatizzazione degli eventi storici recenti per Shakespeare, conclusi nel 1485, dopo la guerra tra le due famiglie dei Lancaster e degli York (Guerra delle due rose) e la presa di potere definitiva dei Tudor. Il monarca Riccardo III è descritto in modo particolarmente negativo.

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Ritratto postumo di Edoardo IV d'Inghilterra, 1540 circa, National Portrait Gallery.

Trama
Il dramma ha inizio con Riccardo che elogia il fratello, re Edoardo IV d'Inghilterra, il maggiore dei figli di Riccardo, Duca di York.
«Ormai l'inverno del nostro scontento s'è fatto estate radiosa ai raggi di questo sole di York»
Da notare come nella traduzione italiana si perda la consonanza fra il termine sole (sun) e figlio (son). Il monologo rivela l'invidia e l'ambizione di Riccardo, in quanto suo fratello Edoardo regna sul paese con successo. Riccardo è un orrendo gobbo, che descrive se stesso come:
«plasmato da rozzi stampi" e "deforme, monco", privo della minima attrattiva per "far lo sdilinquito bellimbusto davanti all'ancheggiar d'una ninfa".»
Egli risponde all'angoscia della sua condizione affermando la sua volontà:
«Ho deciso di fare il delinquente E odiare gli oziosi passatempi di questa nostra età.»
Senza molte pretese di accuratezza cronologica (che egli professa di disprezzare), Riccardo cospira affinché suo fratello Giorgio, che lo precede come erede al trono, sia condotto nella Torre di Londra come sospettato di assassinio; Riccardo, per riuscire nel suo intento, corrompe un indovino per confondere il re sospettoso. Successivamente Riccardo entra nelle grazie di Lady Anna, la vedova di un Lancaster, Edoardo di Westminster, il principe di Galles. Riccardo si confida con il pubblico:
«Prenderò per moglie la figlia più giovane di Warwick. Sì, le ho ucciso marito e padre, ma che importa?»
Nonostante il pregiudizio di lei nei confronti di Riccardo, Anna è vinta dal suo corteggiamento e accetta di sposarlo. Riccardo, in collaborazione con il suo amico Buckingham, Enrico Stafford, secondo duca di Buckingham, trama per la successione al trono, e si presenta agli altri signori come un uomo devoto e modesto, senza alcuna pretesa di grandezza. Riesce così a convincerli a sceglierlo come re alla morte di Edoardo IV - la morte del quale, ironicamente, non vede Riccardo coinvolto in alcun modo - finendo con l'ignorare le rivendicazioni dei giovani nipoti innocenti, i due principi nella Torre.
Riccardo si assicura attivamente il possesso della corona. Egli assassina chiunque si frapponga ad esso nella scalata al potere, inclusi il giovane principe, Lord Hastings, il suo precedente alleato Buckingham, e addirittura sua moglie e i figli. Questi crimini non passano inosservati, e quando Riccardo perde ogni tipo di appoggio, egli si trova ad affrontare il conte di Richmond, Enrico VII d'Inghilterra nella battaglia di Bosworth Field. Prima della battaglia, Riccardo riceve la visita dei fantasmi delle persone che ha ucciso (tra cui Enrico VI e suo figlio Edoardo di Lancaster, entrambi assassinati in Enrico VI, parte III), i quali gli dicono:
«Dispera e muori!»
Si sveglia implorando Gesù di aiutarlo, e lentamente comprende di essere rimasto solo nel mondo che egli stesso odia. Nonostante il combattimento inizialmente sembri procedere per il verso giusto, Riccardo si ritrova presto solo in mezzo al campo di battaglia, e urla sconsolato il verso sovente citato
"Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!".
Riccardo viene quindi sconfitto in seguito ad un combattimento corpo a corpo con Richmond, che lo trafigge con la spada. In termini drammatici, forse la caratteristica più importante (e, opinabilmente, la più divertente) è l'improvviso cambiamento del personaggio di Riccardo. Nella prima parte del dramma, infatti, appare come una sorta di anti eroe, che provoca violenza e si compiace per questo:
«Io mi sono ingannato fino ad oggi sopra la mia figura; S'ella mi trova, al contrario di me, Un uomo di straordinario fascino. M'accollerò, costi quel che costi, la spesa d'uno specchio;»
Quasi immediatamente dopo l'incoronazione, comunque, la sua personalità e le sue azioni prendono una piega oscura. Egli tradisce il fedele Buckingham ("Non sono in vena oggi!"), e cade vittima dell'insicurezza ("Sono così corroso dal sangue, che peccato richiamerà peccato"); ora egli vede ombre dove non ve ne sono e il suo destino che verrà. ("Dispera e muori!").

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L'attore David Garrick nei panni di Riccardo III, di William Hogarth


Fonti
La fonte primaria a cui attinse Shakespeare per la sua opera furono le cronache di Raphael Holinshed, ma sembra plausibile che si sia servito del lavoro di Tommaso Moro, autore dell'incompleta 'Storia di Riccardo III', pubblicata da John Rastell dopo la morte di Moro. Rastell, fratellastro di Moro, compilò il testo da due manoscritti in via di scrittura, uno in inglese e uno in latino, in diversi stadi di composizione. Il lavoro di Moro non è storico nel senso moderno della parola. È un resoconto letterario molto variopinto che contiene (discutibilmente) dettagli storici e inventati in egual misura. Moro ebbe molte fonti a disposizione per il suo resoconto (molte delle quali, come il suo protettore, il Cardinale John Morton, altamente ostili al vecchio regime), ma come per Shakespeare la fonte principale fu la sua propria immaginazione: più di un terzo del testo consiste in discorsi inventati.
Contesto storico
Il ritratto shakespeariano di re Riccardo e del suo "regno del terrore" offre un'immagine del tutto negativa del personaggio. La verità storica, secondo i maggiori storici contemporanei, è molto diversa. Secondo e ultimo monarca della casa di York, regnò per poco più di due anni, e il suo breve regno non fu più crudele o ingiusto dei suoi predecessori o di coloro che lo seguirono.
Le opere teatrali di argomento 'storico' di Shakespeare, non sono, in ogni caso, da intendere come storicamente accurate, bensì come opere d'intrattenimento, il cui valore va oltre le persone descritte. In Riccardo III attraverso la storia del re crudele e ambizioso e della sua rovina Shakespeare descrive la sete umana di potere, e le conseguenze malsane di una smodata volontà di rivincita. Come con Macbeth, l'infamia di Riccardo è enfatizzata, resa un archetipo, anche allo scopo di aumentare l'effetto drammatico. Shakespeare, come in altri casi, approfitta di una letteratura precedente: il personaggio di Riccardo dipinto come il più vile farabutto della storia inglese era già stato descritto da numerosi scrittori in precedenza.
Per comprendere come mai Riccardo divenne simbolo di villania durante il periodo Elisabettiano, bisogna inserire il dramma nel suo contesto storico. Durante la vita di Shakespeare, era sul trono Elisabetta I, nipote di Enrico VII, il conte lancasteriano del Richmond, che sconfisse e uccise l'ultimo discendente dei Plantageneti, Riccardo III di York, dando così inizio alla dinastia Tudor. L'opera di Shakespeare, di cui la corte reale fu spesso committente, propone la versione storica dei Tudor-Lancaster, dipingendone a tinte fosche gli avversari ed esaltandone gli antenati (come nel caso dell'opera dedicata alla figura di Enrico V di Lancaster).
In realtà l'unica colpa di Riccardo Plantageneto, discendente di Edoardo III, poi duca di York, fu quella di aver preso parte alla guerra delle due rose, nella quale gli York, con il simbolo della rosa bianca si allearono con Richard Neville, Conte di Warwick per deporre il re Lancaster Enrico VI, ormai incapace e malato di mente. Nella fazione opposta le casate di Somerset e Suffolk si allearono con i Lancaster sotto il simbolo della rosa rossa, in difesa del monarca. La versione degli avvenimenti che si affermò nelle epoche successive fu, come si direbbe oggi, la storia dei vincitori.
In Enrico VI Parte III, Shakespeare aveva già iniziato il processo di costruzione del carattere di Riccardo come quello di un vile, anche se non avrebbe potuto essere stato coinvolto in nessuno degli eventi narrati. Egli difatti partecipa a battaglie quando storicamente è ancora un bambino.

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RICCARDO II

Riccardo II (King Richard the Second o The Tragedy of King Richard the Second) è un dramma storico composto intorno al 1595 e basato sulla vita del re Riccardo II d'Inghilterra, ultimo del ramo principale dei Plantageneti. È la prima parte di una tetralogia, denominata in seguito Enrieide, a cui seguono tre parti, dedicate ai successori di Riccardo: Enrico IV, parte 1, Enrico IV, parte 2, Enrico V. Sebbene l'edizione delle opere nel First Folio ponga l'opera tra i drammi storici di Shakespeare, la precedente Quarto edition del 1597 la chiamava tragedia.
La vicenda storica da cui Shakespeare trae il suo dramma è quella della ribellione dei Pari d'Inghilterra, che terminò con l'abdicazione del monarca e la sua morte in prigione, assassinato. Sullo sfondo del passaggio di consegne che implica il crollo di un regime, anzi di una concezione di autorità, si sussegue una lotta per il potere intinta nel sangue, mentre proseguono lo sfacelo economico e il saccheggio dello Stato.
Trama
La trama si apre con un evento già compiuto che si presuppone come antefatto (cosa che ha lasciato molte perplessità nella critica), cioè la misteriosa morte di Thomas Woodstock, duca di Gloucester, dietro la quale, secondo alcune illazioni malcelate, ci sarebbe la mano del re Riccardo II. Questo episodio è propedeutico al contrasto tra Bolingbroke e Mowbray, due Pari del regno che si imputano a vicenda la morte di Gloucester.
Ne sorge una contesa che si realizza in una giostra il cui giudice e garante è proprio Riccardo. La contesa viene interrotta dal re, il quale decreta l'esilio a vita per Mowbray e un esilio di 10 anni (poi ridotti a 6) per Bolingbroke.
Le scene successive mostrano in che modo Bolingbroke, assetato di rivalsa, sfruttando come scusa la confisca non prevista dei suoi beni, ritorna in patria dalla Francia (luogo dell'esilio), pianificando una sommossa con l'appoggio del popolo per rovesciare il trono di Riccardo. Questi, tradito da molti suoi nobili fidati, inizia a vivere il suo cammino tragico e sofferto che lo porterà, non prima di avergli dato più volte la vana illusione di riuscire a conservare il potere, ad abdicare in favore di Bolingbroke, a dover leggere le sue accuse pubblicamente dinnanzi alla Camera dei Comuni (costrizione da cui viene poi sgravato per grazia dello stesso Bolingbroke), all'arresto con conseguente carcerazione nella Torre di Londra e, infine, alla morte, anch'essa avvenuta in circostanze misteriose.
All'interno del Riccardo II, come sempre nel teatro shakespeariano, i temi storico-politici fanno da sfondo a questioni di ordine filosofico e psicologico. In particolare, ciò che il dramma mette a tema è la questione rinascimentale dell'uomo inteso come ente divino, da un lato, di contro alla secolarizzazione del soggetto, dall'altro lato. Inoltre, centrale nel dramma è l'aspetto "narcisistico" del protagonista, che - convinto del suo essere sovrano per volere divino - presenta numerosi motivi di comparazione con la descrizione del narcisismo e dell'autismo nella riflessione della psicanalisi moderna.
L'opera conobbe un certo successo nel XVIII secolo; nel Ventesimo secolo il ruolo di Riccardo è stato interpretato da attori del calibro di John Gielgud (Old Vic, 1929), Maurice Evans (Old Vic, 1934), Paul Scofield (Old Vic, 1952); nel XXI, da Kevin Spacey (Old Vic, 2005) ed Eddie Redmayne (Donmar Warehouse, 2011). Due allestimenti italiani di rilievo furono quelli di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano il 23 aprile 1948 con Gianni Santuccio e quello di Gianfranco De Bosio con Glauco Mauri al Teatro Stabile di Torino il 26 febbraio 1966[2], nella splendida traduzione di Mario Luzi.

riccardo ii

Frontespizio del Riccardo II pubblicato nel 1615.

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I DRAMMI ROMANZESCHI

PERICLE PRINCIPE DI TIRO

Pericle, principe di Tiro (Pericles, Prince of Tyre) è considerato il primo dramma di genere ‘romance’ scritto da Shakespeare, databile tra il 1607 ed il 1608. È stato pubblicato per la prima volta nella raccolta in-folio del 1663 insieme ad altri 6 apocrifi e ai 36 drammi già inclusi nel in-folio del 1623. Nonostante il testo pervenutoci abbia grandi differenze stilistiche tra i primi due atti e gli altri tre, la sua paternità shakespeariana è indubbia. Gli editori moderni sono d'accordo nel dire che Shakespeare è l'autore della maggior parte dell'opera dopo la scena 9, delle parti che seguono la storia di Pericle e Marina. Si pensa che i primi due atti, che descrivono dettagliatamente i molti viaggi di Pericle, siano stati scritti da un collaboratore di poco talento, forse George Wilkins.
Trama
Nel prologo vediamo Gower, il personaggio che rappresenta il coro. Questi si avvicina e annuncia l'intento di dare piacere all'orecchio e all'occhio insieme agli spettatori per la durata della vicenda, esprimendo la perfetta simbiosi che Shakespeare stesso voleva raggiungere con le sue opere teatrali. «To glad your ear and please your eyes».
Atto I
In Siria il re Antioco annuncia lo sposalizio della bella figlia con chi riuscirà a risolvere un enigma che gli verrà posto dal re stesso. Chi fallirà verrà mandato a morte. L'indovinello si rivela essere proprio un fatto veramente avvenuto: l'unione incestuosa fra Antioco e la figlia: se il pretendente rivela ciò verrà ucciso, ma soccomberà anche se mentisse. Tutti i pretendenti sono in preda allo sconforto, tranne uno: il giovane Pericle, che trova subito la soluzione. Si presenta a corte, ma ha un dubbio e chiede ad Antioco tempo per riflettere. Il crudele sovrano gli concede quaranta giorni di tempo, ma dopo qualche settimana manda dei sicari ad ucciderlo. Pericle viene avvisato appena in tempo e fugge a Tiro, dall'amico Elicano. Dopo averlo nominato reggente provvisorio della città, Pericle si reca a Tarso per dare aiuto alla popolazione e ai sovrani Cleone e Dionisia. Infine si rimette in viaggi per Tiro.
Atto II
Durante la traversata una violenta tempesta fa naufragare la nave di Pericle, e il giovane si ritrova sulla spiaggia di Pentapoli. Qui scopre che il re Simonide sta organizzando una serie di tornei per dare in sposa la figlia al vincitore. Pericle ne approfitta immediatamente, dimenticando il re Antioco, e vince mirabilmente tutti i tornei. Così a lui viene concessa la mano di Taisa e si celebrano le nozze. Intanto a Tiro si viene a sapere della morte di Antioco e di sua figlia, avvenuta per mano divina, e il popolo pensa di affidare la corona al reggente Elicano. Ma questi, ricordandosi del patto con Pericle, dichiara di accettare solo se saprà della morte dell'amico; e manda una pattuglia a cercarlo.
Atto III
Nel frattempo a Pentapoli, Pericle viene informato della spedizione di Elicano e così si reca subito a Tiro con la moglie incinta. Ma durante il viaggio l'eroe fa naufragio di nuovo e Taisa muore di parto. Pericle, affranto, è costretto a gettare il corpo di Taisa, dentro una cassa, in mare per placare la furia degli dei. Poi fa sosta a Tarso per la salute dell'infante Marina, mentre un vecchio mago trova la bara di Taisa e la fa resuscitare. Ella credendo che il marito sia morto, si fa sacerdotessa al tempio di Diana. Dopo aver affidato la piccola Marina ai sovrani di Tarso, Pericle si rimette in viaggio per Tiro.
Atto IV
Passano una ventina di anni e Marina, fattasi più bella della figlia di Cleone e Dionisia, che medita di ucciderla, viene rapita da dei pirati e condotta a Mitilene. Lì la ragazza riuscirà a conservare la sua verginità dimostrandosi molto abile nel cantare e suonare. Pericle, compiuti tutti i suoi viaggi, torna a Tarso per riprendersi Marina, ma i sovrani, in accordo con la figlia, gli mentono dicendo che è morta. Disperato, Pericle riprende i suoi viaggi in cerca della figlia.
Atto V
Dopo varie traversate, l'anziano Pericle giunge per caso a Mitilene, dove il sovrano Lisimaco gli presenta casualmente Marina, con la speranza che lei possa divertirlo e rincuorarlo. Pericle non vuole avere rapporti sessuali con la ragazza e decide di raccontarle la sua triste storia. Solo così i due scopriranno di esser padre e figlia. Dopo ciò Pericle viene avvertito da Diana che lo invita a recarsi al suo tempio, dove incontra, con suo grande stupore, la moglie Taisa. Così riunitasi la famiglia, Pericle fa giustiziare i sovrani Cleone, Dionisia e la loro figlia.
Contesto storico
Il modello è la Storia di Apollonio re di Tiro, conosciuta attraverso il poema Confessio amanti di John Gower, composto tra il 1386 e il 1390, e l'opera The Pattern of Painful Adventures di Lawrence Twine (1576).

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CIMBELINO

Cimbelino (Cymbeline, King of Britain [Cimbelino, il re di Britannia]) è un'opera teatrale, scritta probabilmente nel 1609 e pubblicata nel 1623. Ritenuta inizialmente una tragedia (e inclusa in quel gruppo nel cosiddetto First folio), oggi la critica è unanime nell'includerla nel gruppo dei romance. Raramente messo in scena e poco amato dalla critica, Cimbelino presenta una trama molto ricca e articolata oltre alla presenza di alcuni dei versi tardivi più belli e interessanti ad opera del poeta.
Trama
Durante l'Impero Romano. Cimbelino, re di Britannia, ha avuto dalla sua prima moglie tre figli: due maschi, Guiderio e Arvirago, e una femmina, Imogene. I due bambini, vent'anni prima, sono stati misteriosamente rapiti e di loro non si è saputo più nulla: perciò Cimbelino, ignorando la sorte dei figli, ha nominato Imogene sua erede al trono. In seguito, il sovrano è rimasto vedovo e si è risposato con una bella e giovane vedova, che da un precedente matrimonio aveva avuto un bambino, Cloteno, che ha circa l'età dei suoi figli. Si auspicava il matrimonio tra il ragazzo e Imogene, ma la ragazza, spaventata dai modi crudi e rozzi del fratellastro, si è invece innamorata di un suo amico d'infanzia, Postumo Leonato, un povero e onesto gentiluomo allevato a corte da Cimbelino. I due si sono sposati, ma il matrimonio ha vita breve: il padre di lei, che non vede di buon occhio quelle nozze, costringe la figlia a divorziare: l'uomo partirà per l'esilio, e lei rimarrà reclusa nelle sue stanze finché non si deciderà a sposare Cloteno.
La vicenda inizia con la partenza per l'esilio di Postumo, diretto a Roma: la giovane principessa, ancora innamoratissima del marito, si confida col fido servo Pisanio, non fidandosi molto dei modi melensi della matrigna. In effetti, la nuova regina, sotto la maschera di moglie e madre amorevole, è una cinica e spietata macchinatrice che non esiterebbe a uccidere Imogene e Cimbelino per salire al trono. Con il pretesto di compiere alcune ricerche, chiede un veleno al medico Cornelio: l'uomo, intuendo il pericolo, ne ha sostituito il letale contenuto con una pozione che causa la morte apparente. La boccetta in seguito finisce nelle mani di Pisanio, a cui viene spacciata come una medicina.
Nel frattempo, a Roma, Postumo scommette con l'amico Iachimo sulla fedeltà della moglie: l'uomo perciò viene mandato in Britannia a conoscere la donna, che prova inutilmente a sedurre. Iachimo perciò si nasconde in un baule fatto entrare con una scusa nella camera di Imogene, e ne approfitta per rubare il bracciale che Postumo le ha lasciato come pegno d'amore e per studiare l'ambiente e soprattutto, la vittima. Davanti al bracciale e alla descrizione della stanza da letto e di certe caratteristiche fisiche della moglie, Postumo si convince che Imogene lo abbia tradito. Mentre Cimbelino è alle prese con gli ambasciatori di Roma che richiedono il tributo che la Britannia si rifiuta di pagare da molto tempo, Imogene, dopo un'aspra discussione con Cloteno, che le ha dichiarato inutilmente il suo amore, fugge dalla corte con l'aiuto di Pisanio, dirigendosi al porto di Milford Haven, dove suo marito, ora che è scoppiata la guerra, le ha chiesto di raggiungerla. Per strada, Pisanio le rivela una terribile verità: Postumo l'ha accusata di adulterio (per motivi che Imogene ancora ignora) e in una lettera ha chiesto al servo di ucciderla una volta arrivati a Milford. Ma Pisanio non ha alcuna intenzione di uccidere la sua padrona: la fa travestire da uomo e partire da sola per Milford Haven, dove potrà imbarcarsi al servizio di Gaio Lucio, un ambasciatore amico di Cimbelino, mentre lui porterà a Postumo la finta notizia della sua morte. Prima di partire le dà la boccetta ricevuta dalla Regina. Nel frattempo, a corte, si scopre che Imogene è scappata: Cloteno, che vuole vendicarsi della ragazza, parte al suo inseguimento. Persasi per strada, Imogene (che ora è travestita da uomo e si fa chiamare Fedele) trova ospitalità presso una famiglia di campagnoli, formata dal padre Morgan e dai figli Polidoro e Cadvalo: la ragazza si affeziona ai due giovani e li considera come dei fratelli. Quello che la principessa non può sapere è che i due ragazzi in realtà sono Guiderio e Arvirago, i suoi veri fratelli: Bellario (questo è in realtà il vero nome di Morgan) li aveva rapiti con l'aiuto della loro balia per vendicarsi di un'accusa ingiusta, ma non ha mai fatto loro alcun male, anzi li ha educati in maniera impeccabile. Mentre Bellario e Arvirago sono a caccia, Guiderio, rimasto a badare a Imogene, che nel frattempo si è ammalata, uccide Cloteno, giunto nei pressi per cercare la ragazza. Imogene, nel frattempo, ha ingerito la medicina datagli da Pisanio, e cade in catalessi: i due fratelli celebrano un funerale molto semplice per lei e per Cloteno. La giovane si risveglia, vede il corpo decapitato del fratellastro e vedendogli addosso i vestiti di Postumo (che Cloteno indossava per una sorta di vendetta verso Imogene), crede che quel corpo sia quello del marito, e che Pisanio l'abbia ucciso.
In quel momento, Gaio Lucio passa per caso con l'esercito, e saputa la sua storia, decide di prenderla sotto la sua ala. Imogene perciò finisce al fronte. La battaglia tra Romani e Britanni finisce con la vittoria dei secondi, spronati da Bellario, Guiderio e Arvirago: molti uomini romani vengono catturati, tra cui l'ambasciatore, Iachimo e Postumo, il quale, per il forte senso di colpa, ha deciso di aiutare l'esercito del suocero, salvando anche in battaglia lo stesso sovrano. La mattina dopo la battaglia, Cimbelino riunisce tutti, prigionieri e membri della corte. L'incontro per il vecchio sovrano sarà davvero sorprendente: Cornelio lo informerà della morte di sua moglie e dei delitti che ella intendeva compiere; si viene a sapere della morte di Cloteno; Iachimo, spronato dalla stessa Imogene, confesserà il suo misfatto; Imogene si toglierà gli abiti da uomo, si chiarirà con Pisanio e si riunirà al marito; Postumo svela il suo contributo alla causa britannica durante la battaglia e Bellario svela a Guiderio e Arvirago la loro identità di eredi al trono. Cimbelino, felice, libera i prigionieri e perdona tutti: inizia così quello che si preannuncia un lungo periodo di pace.

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IL RACCONTO D'INVERNO

Polissene e Leonte sono, rispettivamente, i re di Boemia e di Sicilia, grandi amici di infanzia. Polissene va a rendere omaggio a Leonte in Sicilia, e vi permane nove mesi, al termine dei quali si accinge a salutare l'amico per tornare nel suo regno. Leonte, dispiaciuto per la partenza, supplica l'amico di restare, e prega anche la propria moglie, Ermione, di dissuaderlo dall'andar via. Inizialmente inamovibile, Polissene cede alle lusinghe di Ermione e decide di prolungare il soggiorno: Leonte, però, sembra turbato dall'eccessiva confidenza tra i due. Poiché Ermione è in avanzato stato di gravidanza, in Leonte si insinua il sospetto che la paternità non sia sua ma dell'amico Polissene. Roso dalla gelosia, incarica Camillo, barone di Sicilia, di avvelenare l'amico: quest'ultimo, sebbene non voglia contraddire il suo re, si trova in conflitto poiché non intende macchiarsi dell'omicidio. Polissene, avvertito da Camillo, decide di fuggire e porta con sé il cortigiano per risparmiarlo dalla punizione di Leonte. La fuga, però, conferma i sospetti di Leonte, che allontana Mamilio, il suo piccolo figlio, da Ermione, e la offende verbalmente, facendola condurre poi in prigione nonostante il suo stato: la condizione le procurerà un parto prematuro, così che Ermione darà alla luce una bimba che chiamerà Perdita. Per sincerarsi dei suoi sospetti, Leonte decide di interrogare l'Oracolo di Delfi, e manda presso di lei Cleomene e Dione, due cortigiani, per raccoglierne il responso.
Nel frattempo Paolina, moglie del barone di Sicilia Antigono, preleva la piccola dalla prigione in cui è nata ed affronta Leonte, dichiarandosi pronta a giurare sulla nobiltà di Ermione. Leonte la caccia in malo modo, ma non trova il coraggio di far uccidere la piccola: l'affida così ad Antigono, chiedendogli di sbarazzarsene. Intanto Ermione viene processata, ma il responso dell'oracolo, che avrebbe dovuto decretarne la colpevolezza, depone invece a favore della regina, che viene dichiarata casta e vittima di un marito geloso. Leonte è incredulo, quando giunge la notizia che Mamilio, privato dell'affetto della madre e sapendola accusata dal padre, muore di crepacuore. Alla notizia, Ermione ha un malessere: portata fuori dal tribunale, ne annuncerà la morte Paolina, condendo il suo discorso contro il re con parole severe. A Leonte non rimane altro che scontare il rimorso della morte della moglie e dei figli a causa dei suoi infondati sospetti.
Antigono intanto, giunto alle sponde della Boemia, abbandona la piccola Perdita che viene trovata e raccolta da un contadino e un pastore, che l'accudiscono facendole da padri ma che non ne conoscono la reale identità sebbene capiscano, dai tesori che la piccola ha con sé, che sia di nobili origini. Antigono viene nel frattempo sbranato da un orso e la nave che lo ha condotto in Boemia affonda: in tal modo, nessuno in Sicilia sa che Perdita è stata risparmiata da morte certa dai due uomini. Passano quindici anni e Perdita, divenuta una fanciulla bellissima, si innamora di Florizel, figlio di Polissene ignaro che la giovine fosse figlia di un re. D'altro canto Florizel, per non svelare la sua identità, si spaccia agli occhi dei pastori come un loro simile, assumendo il nome di Doricle.
Polissene e Camillo, desiderosi di capire le strane frequentazioni di Florizel, si mascherano da contadini e, sotto mentite spoglie, si presentano a una festa campestre desiderosi di spiare il principe. La festa è ricca di danze e di personaggi particolari come il vagabondo Autolico, truffatore e ladro di professione. Polissene, capite le intenzioni del figlio di sposare Perdita, svela la propria identità alla ragazza e intima a Florizel di lasciarla perdere, ordinando a quest'ultima di non vedere più suo figlio. Camillo consiglia al giovane di tentare una via di fuga: presentarsi a Leonte con Perdita fingendo di essere tornati da lui per cancellare i ricordi dell'accusa di adulterio che Polissene si vide infliggere quindici anni prima; in tal modo Camillo avrebbe potuto anche tornare nel paese natìo, spingendo Polissene a rincorrere il figlio.
Giungono in Sicilia, alla corte di Leonte, prima Florizel e Perdita, spacciata per principessa della Libia; dopo poco arrivano Polissene e Camillo in città, e anche Autolico con i pastori che hanno trovato anni prima la piccola Perdita sulla spiaggia boema, desiderosi di dire la verità sulla ragazza, nella quale hanno riconosciuto una discendenza nobile. Si scopre la verità e i re, con i rispettivi figli, si trovano tutti in casa di Paolina per festeggiare. I due pastori nel frattempo, aiutati da Autolico nel portare la verità a galla, strappano a quest'ultimo la promessa di condurre una vita migliore e senza sotterfugi di dubbia moralità.
Nella casa di Paolina è custodita una statua dalle sembianze di Ermione: Leonte si strugge dal dolore guardando come essa sia perfettamente somigliante alla moglie. Paolina allora svela che la statua è in realtà Ermione stessa, trasformata in statua per magia per non permetterle di morire di dolore: rompe così l'incantesimo, riconducendo la regina a nuova vita. La tragicommedia si conclude con il preannunciato matrimonio tra Florizel e Perdita e tra Camillo e Paolina.

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LA TEMPESTA

La Tempesta (The Tempest) è un'opera teatrale in cinque atti scritta tra il 1610 e il 1611. Il dramma, ambientato su di un'isola imprecisata del Mediterraneo[3], racconta la vicenda dell'esiliato Prospero, il vero duca di Milano, che trama per riportare sua figlia Miranda al posto che le spetta, utilizzando illusioni e manipolazioni magiche. Mentre suo fratello Antonio e il suo complice, il re di Napoli Alonso, stanno navigando sul mare di ritorno da Cartagine, il mago invoca una tempesta che rovescia gli incolumi passeggeri sull'isola. Attraverso la magia e con l'aiuto del suo servo Ariel, uno spirito dell'aria, Prospero riesce a rivelare la natura bassa di Antonio, a riscattare il re e a far innamorare e sposare sua figlia con il principe di Napoli, Ferdinando. La narrazione è tutta incentrata sulla figura di Prospero, il quale, con la sua arte, tesse trame con cui costringe gli altri personaggi a muoversi secondo il proprio volere.
È tradizionalmente ritenuta la penultima opera di William Shakespeare – l'ultima interamente sua – ed è considerata da molti il lavoro che segnò l'addio alle scene del poeta
Trama
Il racconto della commedia inizia quando gran parte degli eventi sono già accaduti. Il mago Prospero, legittimo Duca di Milano, insieme alla figlia Miranda, è esiliato da circa dodici anni in un'isola abitata da spiriti, dopo che il geloso fratello di Prospero, Antonio, aiutato dal re di Napoli, lo ha deposto e costretto all'esilio con la figlioletta dell'età di tre anni. In possesso di arti magiche dovute alla sua grande conoscenza e alla sua prodigiosa biblioteca, Prospero è servito controvoglia da uno spirito, Ariel, che egli ha liberato dall'albero dentro il quale era stato intrappolato dalla strega africana Sicorace, esiliata nell'isola anni prima e morta prima dell'arrivo di Prospero. Il figlio della strega, un mostro deforme di nome Calibano, è l'unico abitante mortale dell'isola prima dell'arrivo di Prospero: inizialmente amichevole nei confronti di Prospero e Miranda, propose a quest'ultima di unirsi a lui per creare una nuova razza che popoli l'isola; al suo rifiuto tentò di violentarla, cosa che indusse Prospero a soggiogarlo con la magia e a renderlo suo schiavo.
A questo punto inizia la commedia. Prospero, avendo previsto che il fratello Antonio sarebbe passato nei pressi dell'isola con una nave (di ritorno dalle nozze della figlia di Alonso, Clarabella, con un re cartaginese), scatena una tempesta che causerà il naufragio della nave. Sulla nave viaggia anche il re Alonso, amico di Antonio e compagno nella cospirazione, il figlio di Alonso, Ferdinando, e il fratello Sebastiano, assieme al fidato consigliere Gonzalo che aiutò Prospero a fuggire. Prospero, con i suoi incantesimi, riesce a separare tutti i superstiti del naufragio cosicché Alonso e Ferdinando credano entrambi che l'altro sia morto. La commedia ha quindi una struttura divergente e, poi, convergente allorquando i percorsi dei naufraghi si ricongiungono presso la grotta di Prospero. I viaggiatori sono così separati: Ferdinando, approdato sulla spiaggia, viene condotto alla grotta di Prospero; Antonio, Alonso, Sebastiano e Gonzalo finiscono in un'oscura foresta dall'altra parte dell'isola; Stefano e Trinculo, due marinai ubriaconi, esplorano l'isola alla ricerca di vino. Il resto della ciurma dorme all'interno della nave, che a dispetto di quanto Prospero ha fatto credere non è affondata ma è ancorata al largo dell'isola.
Ferdinando e Miranda si innamorano a prima vista, ma Prospero finge con entrambi di voler rendere il ragazzo suo schiavo per vendicarsi di Alonso: in realtà il suo piano è quello di incoraggiare la relazione tra i due. Intanto Gonzalo cerca di consolare Alonso, addolorato per la presunta morte di suo figlio; approfittando di un sonno magico fatto calare sui due da Ariel, Antonio cerca di convincere Sebastiano a uccidere il fratello per impadronirsi del regno, ma proprio in quel momento lo spirito li fa svegliare, smascherando la loro cospirazione. Dall'altra parte dell'isola Calibano incontra Stefano e Trinculo e li scambia per creature divine discese dalla luna: insieme cercano di ordire una ribellione contro Prospero che però, sempre grazie all'intervento di Ariel, fallisce.
L'amore di Ferdinando e Miranda resiste alle molte prove cui Prospero li sottopone, così l'uomo decide di abbandonare le resistenze e benedire la loro unione con una mascherata cui intervengono molti spiriti travestiti da dèi greci. Tutti i piani di Prospero hanno funzionato: Ferdinando e Miranda si sono innamorati, Alonso è devastato dal dolore, Antonio è stato smascherato e Calibano punito assieme ai due marinai furfanti: a questo punto il Duca rinuncia alle arti magiche e riunisce tutti i personaggi nella sua grotta.
Nella gioia e contentezza generale, ciascuno ha ciò che si merita: Prospero torna a essere Duca di Milano, e il suo ducato sarà unito al Regno di Napoli col matrimonio di Ferdinando e Miranda; dando la sua benedizione alla coppia, Alonso si guadagna il perdono. Anche Sebastiano e Antonio sono perdonati, ma sotto minaccia di esilio se dovessero nuovamente cospirare contro i legittimi sovrani. Stefano e Trinculo sono messi in ridicolo dalle loro stesse azioni, mentre Calibano, deluso da come i due lo hanno maltrattato e avendo compreso quanto Prospero sia nobile d'animo a loro confronto, si redime e gli giura fedeltà. Prospero chiede un ultimo favore ad Ariel, quello di assicurare mare calmo e vento propizio alla nave che l'indomani lascerà l'isola, dopodiché lo spirito sarà liberato dalla sua prigionia. A questo punto Prospero si rivolge al pubblico e, in un celebre monologo, chiede che anche gli attori siano lasciati liberi con un applauso.

ALCUNE POESIE

Sonetto 1
Alle meraviglie del creato noi chiediam progenie
perché mai si estingua la rosa di bellezza,
e quando ormai sfiorita un dì dovrà cadere,
possa un suo germoglio continuarne la memoria:
ma tu, solo devoto ai tuoi splendenti occhi,
bruci te stesso per nutrir la fiamma di tua luce
creando miseria là dove c’è ricchezza,
tu nemico tuo, troppo crudele verso il tuo dolce io.
Ora che del mondo sei tu il fresco fiore
e l’unico araldo di vibrante primavera,
nel tuo stesso germoglio soffochi il tuo seme
e, giovane spilorcio, nell’egoismo ti distruggi.
Abbi pietà del mondo o diverrai talmente ingordo
da divorar con la tua morte quanto a lui dovuto.

Sonetto 10
È infamia il tuo negare amore verso gli altri
tu che per te stesso sei così inaccorto.
Si può ammettere, se vuoi, che sei da molti amato
ma è molto più evidente che tu non ami alcuno:
sei tanto posseduto da odio distruttore
che neppur contro te stesso esiti a tramare,
portando alla rovina una splendida dimora
che per tuo desiderio dovresti rinsaldare.
Muta il tuo pensiero affinché io muti il mio sentire!
Dev’essere meglio accolto l’odio dell’amore?
Sii piacente e generoso come la tua persona
o prova a te stesso almeno il tuo nobil cuore:
fa’, per amor mio, che un altro te abbia vita
affinché la tua bellezza continui a rifiorire.

Sonetto 18
Posso paragonarti a un giorno d’estate?
Tu sei più amabile e più tranquillo.
Venti forti scuotono i teneri boccioli di Maggio,
e il corso dell’estate ha fin troppo presto una fine.
Talvolta troppo caldo splende l’occhio del cielo,
e spesso la sua pelle dorata s’oscura;
ed ogni cosa bella la bellezza talora declina,
spogliata per caso o per il mutevole corso della natura.
Ma la tua eterna estate non dovrà svanire,
né perder la bellezza che possiedi,
né dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua ombra,
quando in eterni versi nel tempo tu crescerai:
finché uomini respireranno o occhi potran vedere,
queste parole vivranno, e daranno vita a te.

Sonetto 22
Lo specchio non mi convincerà che sono vecchio,
finché tu e giovinezza avrete la stessa età;
ma quando in te io scorgerò i solchi del tempo
attenderò che morte dia pace ai giorni miei.
Poiché tutta la bellezza che ti inonda
altro non è che degna veste del mio cuore
che vive nel tuo petto, come il tuo nel mio:
come potrei dunque esser io più vecchio?
Perciò, amore, abbi cura di te stesso
così come io farò, non per me, ma per te
custodendo il tuo cuore che terrò così prezioso
qual tenera nutrice il suo bimbo da mal protegga.
Non sperare nel tuo cuore quando il mio sarà distrutto:
tu mi hai donato il tuo non per averlo indietro.

Sonetto 29
Quando, inviso alla fortuna e agli uomini,
in solitudine piango il mio reietto stato
ed ossessiono il sordo cielo con futili lamenti
e valuto me stesso e maledico il mio destino:
volendo esser simile a chi è più ricco di speranze,
simile a lui nel tratto, come lui con molti amici
e bramo l’arte di questo e l’abilità di quello,
per nulla soddisfatto di quanto mi è più caro:
se quasi detestandomi in queste congetture
mi accade di pensarti, ecco che il mio spirito,
quale allodola che s’alzi al rompere del giorno
dalla cupa terra, eleva canti alle porte del cielo;
quel ricordo del tuo dolce amor tanto m’appaga
ch’io più non muto l’aver mio con alcun regno.

Sonetto 46
I miei occhi e il cuore sono in conflitto estremo
per contendersi l’immagine della tua persona:
gli occhi al cuor vorrebbero celare la tua effigie,
agli occhi il cuor contesta la libertà di tal diritto.
Il cuore a difesa adduce che tu dimori in lui
– un tempio mai violato da sguardi penetranti –
ma gli accusati negano tal dissertazione,
dicendo che in loro giace il tuo bel sembiante.
Per attribuir questo diritto si convoca in giuria
un esame dei pensieri che al cuore son fedeli,
e per verdetto loro viene aggiudicata
la parte dei puri occhi e quella del caro cuore:
così: agli occhi spetta la tua esteriorità,
e diritto del mio cuore è il tuo profondo amore.

Sonetto 47
I miei occhi e il cuore son venuti a patti
ed or ciascuno all’altro il suo ben riversa:
se i miei occhi son desiosi di uno sguardo,
o il cuore innamorato si distrugge di sospiri,
gli occhi allor festeggian l’effigie del mio amore
e al fantastico banchetto invitano il mio cuore;
un’altra volta gli occhi son ospiti del cuore
che a lor partecipa il suo pensier d’amore.
Così, per la tua immagine o per il mio amore,
anche se lontano sei sempre in me presente;
perché non puoi andare oltre i miei pensieri
e sempre io son con loro ed essi son con te;
o se essi dormono, in me la tua visione
desta il cuore mio a delizia sua e degli occhi.

Sonetto 57
Essendo schiavo tuo, che altro potrei fare
se non servir ore e momenti di ogni tuo volere?
Non è prezioso il tempo che io ho da spendere,
né servigi da rendere finché tu non li chieda.
Né oso io dolermi di quei momenti senza fine
mentre, mio signore, guardo l’ora in tua attesa,
né giudico esasperante l’amarezza dell’assenza
quando al tuo servitore tu hai detto addio.
Né oso domandare al mio pensier geloso
ove tu possa essere o supporre cosa stia facendo,
ma in triste schiavitù io aspetto e solo penso
quanto tu renda felice chi ti sta vicino.
L’amore è così sciocco che in ogni tuo piacere,
qualunque sia il tuo agire, non crede in alcun male.

Sonetto 73
In me tu vedi quel periodo dell’anno
quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono
su quei rami che fremon contro il freddo,
nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.
In me tu vedi il crepuscolo di un giorno
che dopo il tramonto svanisce all’occidente
e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,
ombra di quella vita che tutto confina in pace.
In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco
che si estingue fra le ceneri della sua gioventù
come in un letto di morte su cui dovrà spirare,
consunto da ciò che fu il suo nutrimento.
Questo in me tu vedi, perciò il tuo amor si accresce
per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.

Sonetto 88
Quando avrai deciso di non stimarmi più
ed esporrai i miei meriti al pubblico disprezzo,
contro me stesso combatterò al tuo fianco
e proverò che sei sincero pur sapendoti spergiuro.
Conoscendo a fondo ogni mia mancanza,
a tuo sostegno potrei portare a conoscenza
colpe nascoste di cui mi son macchiato,
affinché perdendomi tu possa averne gloria:
e in tal modo anch’io ne sarei gratificato:
perché volgendo a te ogni mio pensier d’amore,
le gravi accuse che imputerò a me stesso,
dando a te un vantaggio, doppio per me sarà.
Il mio amore è così grande, talmente ti appartengo,
che per la tua ragione sopporterò ogni torto.

Sonetto 91
Vi è chi vanta la propria nascita, chi l’ingegno,
chi la ricchezza, chi la forza fisica,
chi il vestire alla moda anche se stravagante,
chi vanta falchi e cani e chi i cavalli.
E ogni temperamento ha una sua tendenza innata
in cui trova una gioia superiore al resto;
ma queste piccolezze non s’addicon al mio metro:
io tutte le miglioro in un solo immenso bene.
Per me il tuo amore è meglio di nobili natali,
più ricco della ricchezza, più fiero dell’eleganza,
di maggior diletto dei falchi o dei cavalli
e avendo te, di ogni vanto umano io mi glorio:
sfortunato solo in questo, che tu puoi togliermi
ogni cosa e far di me l’essere più misero.

Sonetto 109
No, non dire mai che il mio cuore è stato falso
anche se l’assenza sembrò ridurre la mia fiamma;
come non è facil ch’io mi stacchi da me stesso,
così è della mia anima che vive nel tuo petto:
quello è il rifugio mio d’amore; se ho vagato
come chi viaggia, io di nuovo lì ritorno
fedelmente puntuale, non mutato dagli eventi,
tanto ch’io stesso porto acqua alle mie colpe.
Non credere mai, pur se in me regnassero
tutte le debolezze che insidiano la carne,
ch’io mi possa macchiare in modo tanto assurdo
da perdere per niente la somma dei tuoi pregi:
perché niente io chiamo questo immenso universo
tranne te, mia rosa; in esso tu sei il mio tutto.

Sonetto 116
Non sia mai ch’io ponga impedimenti
all’unione di anime fedeli; Amore non è Amore
se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote
dovran cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio:
se questo è errore e mi sarà provato,
io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.

Sonetto 130
Gli occhi della mia donna non sono come il sole;
il corallo è molto più rosso delle sue labbra:
se la neve è bianca, allora perché i suoi seni sono grigi?
Se i capelli devono essere filamenti, fili neri crescono sulla sua testa
Ho visto rose variegate, rosse e bianche,
ma non ho visto alcuna rosa sulle sue guance;
e c’è più delizia in altri profumi
che nell’alito che il mio amore esala.
mi piace sentirla parlare, perché so
che la sua voce, per me, è come musica;
quando la vidi non mi sembrò una dea:
la mia donna, quando cammina, non ha grazia.
E nonostante ciò, il mio amore è cosi raro
come se lei fosse stata elogiata da falsi paragoni.

Sonetto 142
Amore è il mio peccato e odio la tua miglior virtù:
odio del mio peccato, fondato su amor colpevole.
Oh ma confronta il mio stato al tuo
e scoprirai che il mio non merita rimprovero;
o se lo merita, non da quelle labbra tue
che hanno profanato il carminio che le adorna
e al pari delle mie suggellato falso amore,
sottraendo a letti altrui i lor legittimi piaceri.
Sia mio diritto amarti, come tu ami quelli
che i tuoi occhi anelano quanto i miei ti tediano:
radica nel tuo cuor pietà, affinché crescendo,
possa la tua pietà meritare d’essere pietita.
Se cercherai di avere quanto tu or rifiuti
dal tuo stesso esempio potrà esserti negato.

Sonetto 145
Quelle labbra che Amor creò con le sue mani
bisbigliarono un suono che diceva “Io odio”
a me, che per amor suo languivo:
ma quando ella avvertì il mio penoso stato,
subito nel suo cuore scese la pietà
a rimproverar la lingua che sempre dolce
soleva esprimersi nel dar miti condanne;
e le insegnò a parlarmi in altro modo,
“Io odio” ella emendò con un finale,
che le seguì come un sereno giorno
segue la notte che, simile a un demonio,
dal cielo azzurro sprofonda nell’inferno.
Dalle parole “Io odio” ella scacciò ogni odio
e mi salvò la vita dicendomi “non te”.

Non ti amo con i miei occhi
Per la verità, io non ti amo coi miei occhi,
perché essi vedono in te un mucchio di difetti;
ma è il mio cuore che ama quel che loro disprezzano
e, apparenze a parte, ne gode alla follia.
Né i miei orecchi delizia il timbro della tua voce,
né la mia sensibilità è incline a vili toccamenti,
né il mio gusto e l’olfatto bramano l’invito
al banchetto dei sensi con te soltanto.
Ma né i miei cinque spiriti, né i miei cinque sensi
possono dissuadere questo mio sciocco cuore dal tuo servizio,
avendo ormai perso ogni sembianza umana,
ridotto a schiavo e misero vassallo del tuo superbo cuore.
Solo in questo io considero la mia peste un bene:
che chi mi fa peccare, m’infligge pure la penitenza.

All’amata
Se leggi questi versi,
dimentica la mano che li scrisse:
t’amo a tal punto
che non vorrei restar
nei tuoi dolci pensieri,
se il pensare a me
ti facesse soffrire.

Eugenio Caruso - 08 - 01 - 2022

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www.impresaoggi.com