Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Dipinto sulla peste di Atene
La Peste di Atene colpì la città-stato di Atene durante il secondo anno della Guerra del Peloponneso (430 a.C.), quando una vittoria ateniese sembrava ancora a portata di mano. Si crede che la malattia possa essere entrata ad Atene attraverso il Pireo, il porto della città e l'unica fonte di cibo e rifornimenti. Gran parte del Mediterraneo orientale venne colpito dal focolaio della malattia. L'epidemia tornò altre due volte, nel 429 a.C. e nell'inverno del 427/426 a.C..
Sparta e i suoi alleati, a eccezione di Corinto, avevano economie quasi esclusivamente di terraferma, in grado di evocare grandi eserciti di terra quasi imbattibili. Sotto la direzione di Pericle, gli ateniesi si ritirarono dietro le mura di Atene, basandosi sulla supremazia marittima per quanto riguardava i rifornimenti alimentari, mentre la superiorità della flotta ateniese molestava i movimenti delle truppe spartane. Purtroppo la strategia portò al fatto che molte persone dalle campagne si riversassero nella città già molto popolata, provocando la mancanza di viveri. A causa dei quartieri molto vicini e della scarsa igiene, Atene divenne un terreno fertile per le malattie e molti cittadini morirono e tra questi anche Pericle, sua moglie e i suoi figli Paralus e Santippo.
Nella sua Guerra del Peloponneso, lo storico contemporaneo Tucidide considerato "il primo storico scientifico", descrisse l'epidemia come una malattia proveniente dall'Etiopia che passò attraverso l'Egitto e la Libia nel mondo greco. Una piaga così grave e mortale che nessuno riusciva a ricordarne altra simile, e i medici ignorandone la sua natura, non solo erano impotenti, ma essi stessi ne morivano, dato che avevano più contatti con i malati. Nella sovraffollata Atene la malattia uccise da un terzo a due terzi della popolazione. La vista dei roghi ardenti ad Atene consigliò agli spartani di ritirare le loro truppe non volendo rischiare il contagio con il nemico malato. Molti soldati ed esperti marinai di Atene morirono assieme al loro generale Pericle. Dopo la morte di Pericle, Atene fu amministrata da un certo numero di capi che Tucidide descrisse come incompetenti o deboli. Secondo Tucidide, fino al 415 a.C. Atene non aveva recuperato a sufficienza per poter tentare una grande offensiva, come la disastrosa spedizione siciliana.
Gli storici hanno a lungo cercato di identificare la malattia nota come la peste di Atene. La malattia è stata tradizionalmente considerata un focolaio di peste bubbonica nelle sue molteplici forme, ma riconsiderazioni dei sintomi riferiti e dell'epidemiologia hanno portato gli studiosi ad avanzare ipotesi alternative. Queste comprendono tifo, vaiolo, morbillo e sindrome da shock tossico. Altri hanno suggerito trattarsi di antrace diffuso dalle molte mandrie di bestiame concentrate all'interno delle mura cittadine. Sulla base delle somiglianze descrittive con i recenti focolai in Africa, e visto che la peste ateniese era apparentemente venuta dall'Africa (come pensava Tucidide), si ipotizza potesse trattarsi di ebola o febbre emorragica.
Data la possibilità che i sintomi di una malattia nota possano essere mutati nel tempo o che la peste sia stata causata da una agente patogeno che non esiste più, la natura esatta della peste ateniese non potrà mai essere conosciuta. Inoltre, l'affollamento causato dall'afflusso di rifugiati portò alla scarsità di cibo e delle forniture di acqua e all'accumulo di rifiuti con enorme proliferazione di topi, mosche, zanzare, pidocchi. Queste condizioni avrebbero incoraggiato più di una malattia infettiva durante l'epidemia. Tuttavia il miglioramento delle tecnologie scientifiche può rivelare nuovi indizi.
Nel 2005 è stata fatta una correlazione tra il DNA estratto dalla polpa dentale di tre denti recuperati dal cimitero del Ceramico (dagli scavi del 1994-95[5]) ad Atene scoprendo batteri patogeni di febbre tifoidea.
Nel gennaio 1999, l'Università del Maryland ha dedicato la sua quinta conferenza medica annuale, a casi storici noti come ad esempio la peste di Atene, giungendo alla conclusione che la malattia che uccise i greci e il loro capo militare e politico, Pericle, può essere stata il tifo esantematico. "Un'epidemia di tifo è la migliore spiegazione", ha detto il dottor David Durack, professore di medicina presso la Duke University. "Colpisce di più in tempi di guerra e privazioni e ha una mortalità di circa il 20 per cento, uccide la vittima dopo circa sette giorni e provoca a volte delle complicazioni come la gangrena delle punte delle dita delle mani e dei piedi. La peste di Atene aveva tutte queste caratteristiche." Nei casi di tifo, la disidratazione progressiva, la debilitazione e il collasso cardiovascolare possono causare la morte del paziente.
Questo parere medico è condiviso da A. W. Gomme, un ricercatore e interprete della storia di Tucidide, il quale crede che il tifo fosse stato la causa dell'epidemia. Questa opinione è espressa nella sua monumentale opera Commenti storici su Tucidide (Historic Comments on Thucydides), completata dopo la morte di Gomme da A. Andrewes, membro dell'Academy of Athens, e K. J. Dover. Angelos Vlachos, diplomatico, nel suo Remarks on Thoucydides accetta e sostiene l'opinione di Gomme: "Oggi, secondo Gomme, è generalmente accettato che si trattasse di tifo". Altri ricercatori non sono d'accordo, notando, tra le altre discrepanze, l'assenza nel tifo dei drammatici sintomi gastrointestinali come sono descritti da Tucidide.
Una diversa risposta è stata trovata nello studio del DNA di alcuni denti recuperati da un'antica fossa sepolcrale greca, da Manolis Papagrigorakis dell'Università di Atene, che ha trovato sequenze di DNA simili a quelle dell'organismo che causa la febbre tifoidea. I sintomi generalmente associati alla febbre tifoidea assomigliano a quelli descritti da Tucidide. Essi comprendono:
- febbre elevata da 39 °C a 40 °C che sale velocemente;
- brividi
- bradicardia (basse pulsazioni)
- astenia
- diarrea
- mal di testa
- mialgia
- anoressia
- costipazione
- dolore addominale
- in alcuni casi, eruzioni cutanee
- sintomi estremi come perforazione intestinale o emorragia.
Alcuni aspetti della febbre tifoide sono in chiaro contrasto con la descrizione di Tucidide. Gli animali necrofori non muoiono da infezione di tifo, l'insorgenza di febbre tifoide è in genere lenta e sottile, e il tifo generalmente uccide più tardi nel corso della malattia.
Alcuni ricercatori hanno contestato i risultati, citando gravi difetti metodologici nello studio del DNA derivato dalla polpa dentale. Tuttavia, gli autori dello studio originale hanno sottolineato che le obiezioni erano molto fragili, e la metodologia utilizzata per produrre la smentita aveva dimostrato in passato di dare risultati contrastanti.
Febbre emorragica virale
La narrazione di Tucidide accenna a un aumento del rischio tra gli operatori sanitari, che è più tipico del contagio-diffusione da persona a persona della febbre emorragica (ad esempio, ebola o virus di Marburgo) che non del tifo o febbre tifoide. Risulta insolito, a differenza di quanto si riscontra nella storia delle epidemie durante le operazioni militari, soprattutto quando la stretta vicinanza fisica dei combattenti è la regola, che le truppe spartane assedianti non siano state colpite dalla malattia che imperversava vicino a loro all'interno della città. La descrizione di Tucidide invita inoltre al confronto con la febbre emorragica virale nel carattere e nella sequenza dei sintomi sviluppati e dell'esito solitamente fatale intorno all'ottavo giorno. Alcuni scienziati hanno interpretato l'espressione di Tucidide "lugx kene" come sintomo di singhiozzo, che è riconosciuto nella malattia da virus ebola. Lo scoppio della febbre emorragica virale in Africa nel 2012 e nel 2014 conferma il maggiore pericolo di contagio per gli operatori sanitari e la necessità di precauzioni di barriera per prevenire la diffusione della malattia durante i riti funerari. Con un periodo di incubazione fino a 21 giorni, la trasmissione dell'ebola tramite il commercio tra il Nilo e il porto del Pireo è chiaramente plausibile. La consuetudine degli antichi greci con i fornitori africani e le loro terre si riflette nelle accurate riproduzioni di scimmie negli affreschi e nelle ceramiche, in particolare di cercopitechi, il tipo di primati responsabile della trasmissione del virus di Marburgo in Germania e in Jugoslavia quando la malattia venne individuata nel 1967. Circostanza interessante è la quantità di avorio utilizzata dallo scultore ateniese Fidia, insieme all'oro, nelle due grandi statue di Atena e di Zeus (una delle Sette meraviglie), che erano state realizzate nello stesso decennio. Mai nell'arte antica era stato utilizzato così tanto avorio.
Una seconda narrazione storica che suggerisce di una febbre emorragica eziologia è quella di Tito Lucrezio Caro. Scrivendo nel I secolo a.C. Lucrezio caratterizzò la peste di Atene con scarichi sanguinosi o neri dagli orifizi del corpo. Lucrezio era un ammiratore degli scienziati greci di Sicilia, Empedocle e Acrone. Mentre nessuna delle opere originali di Acrone, un medico, è pervenuta, si segnala che morì intorno al 430 a.C. dopo un viaggio ad Atene per combattere la peste.
Purtroppo l'identificazione basata sulla sequenza del DNA è limitata dall'incapacità di alcuni agenti patogeni di lasciare una impronta recuperabile dopo millenni da reperti archeologici. La mancanza di una firma sufficientemente durevole dovuta al passaggio di un virus significa che alcune eziologie, in particolare i virus della febbre emorragica, non sono ipotesi verificabili usando tecniche scientifiche attualmente disponibili.
Implicazioni sociali
Le fonti descrivono la peste ateniese e le conseguenze sociali dell'epidemia. Secondo Tucidide in questi periodo si verificò la completa scomparsa dei costumi sociali. L'effetto devastante della diffusione di una malattia grave sul comportamento sociale e religioso venne documentato anche durante la pandemia.
Poco rispetto per la legge
Tucidide afferma che le persone cessarono di temere la legge in quanto sentivano di vivere già sotto una condanna a morte. Allo stesso modo, la gente iniziò a spendere il denaro indiscriminatamente. Molti ritenevano che non avrebbero vissuto abbastanza a lungo per godere i frutti di un saggio investimento, mentre alcuni tra i poveri improvvisamente divennero ricchi ereditando la proprietà dei loro parenti. Si registrò inoltre che molti rinunciavano a comportarsi onorevolmente perché non si aspettavano di vivere abbastanza a lungo per usufruire della buona reputazione.
Cura della malattia e morte
Un altro motivo per la mancanza di un comportamento onorevole era la contagiosità della malattia. Coloro che tendevano ad ammalarsi erano più vulnerabili alla malattia. Questo fece sì che molte persone morissero solo perché nessuno era disposto a rischiare di prendersi cura di loro. I morti furono ammucchiati e abbandonati alla decomposizione o gettati in fosse comuni. A volte coloro i quali trasportavano i morti incontravano un rogo già in fiamme, e su di esso scaricavano i cadaveri. Altri preparavano cataste di legna per cremare i loro morti. Quanti ebbero la fortuna di sopravvivere alla peste svilupparono un'immunità e divennero poi i custodi di coloro che si andavano ammalando. Una fossa comune e quasi 1.000 tombe, databili tra il 430 e il 426 a.C., sono state trovate appena fuori l'antico cimitero del Ceramico di Atene. La fossa comune era delimitata da un muretto che sembra aver protetto il cimitero da una zona umida. Scavata nel periodo 1994–95, la tomba a forma di albero poteva aver contenuto un totale di 240 persone, almeno una decina delle quali bambini. Gli scheletri nelle tombe erano disposti in modo casuale, senza strati di terreno tra essi. L'archeologo Efi Baziotopoulou-Valavani, della Terza Ephoreia (Direzione) delle Antichità, riferì che: "le fosse comuni non hanno un carattere monumentale, le offerte che abbiamo trovato sono di tipo comune e di basso costo, vasi funerari neri, alcune piccole lampade a olio a figure rosse della seconda metà del V secolo a.C. I corpi furono deposti nella fossa nel giro di un giorno o due. Questi fattori portano a pensare a una sepoltura di massa in uno stato di panico, molto probabilmente a causa di una pestilenza."
Conflitti religiosi
La peste causò anche dubbi di ordine religioso . Dal momento che la malattia aveva colpito, senza riguardo alla pietà che una persona aveva verso gli dei, la gente si sentiva abbandonata da essi e sembrava che non si ricavasse alcun beneficio dal loro culto. I templi stessi erano in stato di abbandono, poiché i rifugiati provenienti dalle campagne ateniesi erano stati costretti a trovarvi una sistemazione. Presto gli edifici sacri furono pieni di morti e morenti. Gli ateniesi pensarono che la peste fosse la prova che gli dei favorivano Sparta, e questo era stato confermato da un oracolo, il quale disse che Apollo stesso (il dio della malattia e della medicina) avrebbe combattuto per Sparta. Un oracolo in precedenza aveva avvertito che "la guerra con i Dori [spartani] è in arrivo e con essa la morte". Tucidide è scettico su queste conclusioni e ritiene che le persone erano semplicemente superstiziose. Egli si basa sulla teoria medica prevalente del tempo, la teoria ippocratica, e si sforza di raccogliere le prove attraverso l'osservazione diretta. Egli osserva che gli uccelli e gli animali che avevano mangiato cadaveri infettati dalla peste erano morti a loro volta, cosa che lo portò a concludere per una causa naturale della malattia piuttosto che una sovrannaturale.
La peste di Atene; la disperazione degli ateniesi
Tucidide
Di seguito riporto alcuni passi della “Guerra nel Peloponneso”, opera in cui Tucidide descrisse l’epidemia come una malattia proveniente dall’Etiopia, giunta in Grecia tramite l’Egitto durante il secondo anno della Guerra (430 a.C.). Una piaga mortale, a cui i medici non sapevano far fronte e che ridusse di un terzo la popolazione di Atene. Interessante notare come tra gli ateniesi la paura fosse un elemento scatenante di atteggiamenti antisociali, se non criminali. La morte di Pericle aveva provocato, inoltre, una carenza di gestione del paese, la sua autorevolezza, l'attività a favore delle fascie meno abbienti, la capacità di mediazione e di organizzazione erano venuti a mancare e gli ateniesi si sentirono, ancora più soli, impauriti e privi di una guida morale.
""""47. Nessuna tradizione serba memoria, in nessun luogo, di un così selvaggio male e di una messe tanto ampia di morti. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati. Ogni altra scienza o arte umana non poteva lottare contro il contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il ricorso agli oracoli e ad altri simili rimedi riuscirono completamente inefficaci: desistettero infine da ogni tentativo e giacquero, soverchiati dal male.
48. A quanto si dice, la malattia comparve per la prima volta in Etiopia, colpì poi l’Egitto e la Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del re. Su Atene si abbatté fulminea, attaccando per primi gli abitanti del Pireo. Cosicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesiaci, con l’inquinare le cisterne d’acqua piovana mediante veleno: s’era ancora sprovvisti d’acqua di fonte, laggiù al Pireo. Ma il contagio non tardò troppo a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi, con una progressione sempre più irrefrenabile. Ora chiunque, esperto o profano di scienza medica, può esprimere quanto ha appreso e pensa sull’epidemia: dove si possa verosimilmente individuare il focolaio infettivo originario e quali fattori siano sufficienti a far degenerare con così grave e funesta cadenza la situazione. Per parte mia, esporrò gli aspetti in cui si manifestava, enumerandone i segni caratteristici, il cui studio riuscirà utile, nel caso che il flagello infierisca in futuro, a riconoscerlo in qualche modo, confrontando i sintomi precedentemente appurati. La mia relazione si fonda su personali esperienze: ho sofferto la malattia e ne ho osservato in altri il decorso.
49. Quell’anno, a giudizio di tutti, era trascorso completamente immune da altre forme di malattia. E se qualcuno aveva contratto in precedenza un morbo, questo degenerava senza eccezione nella presente infermità. Gli altri, senza motivo visibile, all’improvviso, mentre fino a quell’attimo erano perfettamente sani, erano dapprima assaliti da forti vampe al capo. Contemporaneo l’arrossamento e l’infiammato enfiarsi degli occhi. All’interno, organi come la laringe e la lingua prendevano subito a buttare sangue. Il respiro esalava irregolare e fetido. Sopraggiungevano altri sintomi, dopo i primi: starnuto e raucedine. In breve il male calava nel petto, con violenti attacchi di tosse. Penetrava e si fissava poi nello stomaco: onde nausee frequenti, accompagnate da tutte quelle forme di evacuazione della bile che i medici hanno catalogato con i loro nomi. In questa fase le sofferenze erano molto acute. In più casi, l’infermo era squassato da urti di vomito, a vuoto, che gli procuravano all’interno spasimi tremendi: per alcuni, ciò avveniva subito dopo che si erano diradati i sintomi precedenti, mentre altri dovevano attendere lungo tempo. Al tocco esterno il corpo non rivelava una temperatura elevata fuori dell’ordinario, né un eccessivo pallore: ma si presentava rossastro, livido, coperto da una fioritura di pustolette e di minuscole ulcerazioni. Dentro, il malato bruciava di tale arsura da non tollerare neppure il contatto di vesti o tessuti per quanto leggeri, o di veli: solo nudo poteva resistere. Il loro più grande sollievo era di poter gettarsi nell’acqua fredda. E non pochi vi riuscirono, eludendo la sorveglianza dei loro familiari e lanciandosi nei pozzi, in preda a una sete insaziabile. Ma il bere misurato o abbondante produceva il medesimo effetto. Senza pause li tormentava l’insonnia e l’impossibilità assoluta di riposare. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, nel periodo in cui la virulenza del male toccava l’acme, ma rivelavano di poter resistere in modo inaspettato e incredibile ai patimenti: sicché in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo giorno, per effetto dell’interna arsura, mentre il malato era ancora discretamente in forze. Se invece superava la fase critica, il male s’estendeva aggredendo gli intestini, al cui interno si produceva una ulcerazione disastrosa accompagnata da una violenta diarrea: ne conseguiva una spossatezza, un esaurimento molte volte mortali. La malattia, circoscritta dapprima in alto, alla testa, si ampliava in seguito percorrendo tutto il corpo, e se si usciva vivi dagli stadi più acuti, il suo marchio restava, a denunciarne il passaggio, almeno alle estremità. Ne rimanevano intaccati i genitali, e le punte dei piedi e delle mani: molti, sopravvivendo al male, perdevano la facoltà di usare questi organi alcuni restavano privi anche degli occhi. Vi fu anche chi riacquistata appena la salute, fu colto da un oblio così profondo e completo da non conservare nemmeno la coscienza di se stesso e da ignorare i suoi cari.
50. Il carattere di questo morbo trascende ogni possibilità descrittiva: non solo i suoi attacchi si rivelavano sempre più maligni di quanto le difese a disposizione della natura umana potessero tollerare, ma anche nel particolare seguente risultò che si trattava di un fenomeno morboso profondamente diverso dagli altri consueti: tutti gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di cadaveri umani (molti giacevano allo scoperto) questa volta non si accostavano, ovvero morivano, dopo averne mangiato. Se ne ha una prova sicura poiché questa specie di volatili scomparve del tutto e non era più possibile notarli intenti al loro pasto macabro, né altrove. Ma indizi ancora più visibili della situazione erano offerti dal comportamento dei cani, per il loro costume di passar la vita tra gli uomini.
51. È questo il generale e complessivo quadro della malattia, sebbene sia stato costretto a tralasciare molti fenomeni e caratteri peculiari per cui ogni caso, anche se di poco, tendeva sempre a distinguersi dall’altro. Nessun’altra infermità di tipo comune insorse nel periodo in cui infuriava il contagio e in esso confluiva qualunque altro sintomo si manifestasse. I decessi si dovevano in parte alle cure molto precarie, ma anche un’assistenza assidua e precisa si rivelava inefficace. Non si riuscì a determinare, si può dire, neppure una sola linea terapeutica la cui applicazione risultasse universalmente positiva. (Un farmaco salutare in un caso, era nocivo in un altro). Nessun organismo, sia forte sia debole, era sufficiente a combattere il morbo, ma questo tutto portava via, anche quello che era curato con la maggiore attenzione. Nel complesso di dolorosi particolari che caratterizzavano questo flagello, uno s’imponeva, tristissimo: lo sgomento, da cui ci si lasciava cogliere, quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio (la disperazione prostrava rapida lo spirito, sicché ci si esponeva molto più inermi all’attacco del morbo, con un cedimento immediato); inoltre la circostanza che, nel desiderio di scambiarsi cure ed aiuti, i rapporti reciproci s’intensificavano, e la gente moriva, come le pecore. Era questa la causa dell'enorme mortalità. Chi per paura rifiutava ogni contatto, periva solo. Famiglie al completo furono distrutte per mancanza di chi fosse disposto a curarle. Chi invece coltivava amicizie e relazioni, perdeva egualmente la vita: quelli in particolare che tenevano a far mostra di nobiltà di spirito. Mossi da rispetto umano, si recavano in visita dagli amici, disprezzando il pericolo, quando perfino gli intimi trascuravano la pratica del lamento funebre sui propri congiunti, abbattuti e vinti sotto la sferza del la calamità. Una compassione più viva, su un morto o verso un malato, dimostravano quelli che ne erano scampati vivi: conoscevano di persona l’intensità del soffrire e si facevano forti d’un sentimento di sicurezza. Il male non aggrediva mai due volte: o, almeno l’eventuale ricaduta non era letale. Erano giudicati felici dagli altri e nella eccitata commozione di un momento si abbandonavano alla speranza, illusoria e incerta, che anche in futuro nessuna malattia si sarebbe più impossessata di loro, strappandoli a questo mondo.
52. L’imperversare dell’epidemia era reso più insopportabile dal continuo afflusso di contadini alla città: la prova più dolorosa colpiva gli sfollati. Poiché non disponevano di abitazioni adatte e vivevano in baracche soffocanti per quella stagione dell’anno: il contagio mieteva vittime con furia disordinata. I cadaveri giacevano a mucchi e tra essi, alla rinfusa, alcuni ancora in agonia. Per le strade si voltolavano strisciando uomini già prossimi a morire, disperatamente tesi alle fontane, pazzi di sete. I santuari che avevano offerto una sistemazione provvisoria, erano colmi di morti: individui che erano spirati lì dentro, uno dopo l’altro. La violenza selvaggia del morbo aveva come spezzato i freni morali degli uomini che, preda di un destino ignoto, non si attenevano più alle leggi divine e alle norme di pietà umana. Le pie usanze che fino a quell’epoca avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in abbandono. Ciascuno seppelliva come poteva. Molti si ridussero a funerali indecorosi per la scarsità di arredi necessari, causata dal grande numero di morti che avevano già avuto in famiglia: deponevano il cadavere del proprio congiunto su pire preparate per altri e vi appiccicavano la fiamma prima che i proprietari vi facessero ritorno, mentre altri gettavano sul rogo già acceso per un altro il proprio morto, allontanandosi subito dopo.
53. Anche in campi diversi, l’epidemia travolse in più punti gli argini della legalità fino allora vigente nella vita cittadina. Più facilmente uno osava quello che prima si guardava dal fare per suo proprio piacere, alla vista di mutamenti di fortuna inaspettati e fulminei: decessi improvvisi di persone facoltose, gente povera da sempre che ora, in un batter di ciglia, si ritrovava ricca di inattese eredità. Considerando ormai la vita e il denaro come valori di passaggio, bramavano godimenti e piaceri che s’esaurissero in fretta, in soddisfazioni rapide e concrete. Nessuno si sentiva trasportare dallo zelo di impegnare con anticipo energie in qualche impresa ritenuta degna, nel dubbio che la morte giungesse a folgorarlo, a mezzo del cammino. L’immediato piacere e qualsiasi espediente atto a procurarlo costituivano gli unici beni considerati onesti e utili. Nessun freno di pietà divina o di umana regola: rispetto e sacrilegio non si distinguevano, da parte di chi assisteva al quotidiano spettacolo di una morte che colpiva senza distinzione, ciecamente. Inoltre, nessuno concepiva il serio timore di arrivar vivo a rendere conto alla giustizia dei propri crimini. Avvertivano sospesa sul loro capo una condanna ben più pesante: e prima che s’abbattesse, era umano cercare di goder qualche po’ della vita.
54. Tale flagello aveva prostrato Atene, imponendovi il suo giogo. Dentro le mura cadevano le vittime del contagio; fuori, le campagne subivano la devastazione nemica. Venne naturalmente alla luce, mentre il morbo incrudeliva, la memoria di quell’oracolo che, a detta dei più anziani, risaliva a tempi molto antichi: «Verrà la guerra Dorica e pestilenza con essa.» Si discusse se gli antichi avessero veramente pronunciato nel testo di quell’oracolo l’espressione «pestilenza» e non piuttosto «carestia». Prevalse, come ci si può ragionevolmente aspettare, considerate le circostanze, l’interpretazione secondo cui nel testo suddetto compariva la parola pestilenza, in quanto la gente configurava il suo ricordo alle presenti sofferenze. Ma io sono convinto che se i Dori, successiva a questa, scatenassero un’altra guerra ed esplodesse una carestia prevarrebbe allora l’altra interpretazione, come è del resto naturale. Inoltre, quanti ne erano al corrente, rammentarono l’altro oracolo riguardante gli Spartani, quello espresso dal dio in occasione della loro richiesta se dovessero dichiarare la guerra, con la risposta che la vittoria avrebbe arriso a loro, se s’impegnavano a fondo nei combattimenti, e con la promessa di un aiuto particolare del dio. Si congetturava che gli eventi coincidevano con le parole dell’oracolo: l’invasione dei Peloponnesi aveva segnato l’esplosione immediata dell’epidemia, che non era invece penetrata nel Peloponneso, almeno con conseguenze degne di menzione. Invase soprattutto Atene e, in un processo di tempo, anche le fasce più popolose delle altre regioni. Questo è quanto concerne l’epidemia. (Tucidide:”La guerra del Peloponneso”; II:47-48-54). """"
Lucrezio racconta in poesia ciò che Tucidide raccontò in prosa.
Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore
e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi.
La gola, inoltre, nell'interno nera, sudava sangue,
e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava,
e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di sangue,
infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.
Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia
aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto
dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.
Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,
simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.
Poi le forze dell'animo intero ‹e› tutto il corpo
languivano, già sul limitare stesso della morte.
E agli intollerabili mali erano assidui compagni
un'ansiosa angoscia e un lamentarsi commisto con sospiri.
E un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno
a contrarre assiduamente i nervi e le membra, li struggeva
aggiungendo travaglio a quello che già prima li aveva spossati.
Né avresti notato che per troppo ardore in alcuno
bruciasse alla superficie del corpo la parte più esterna,
ma questa piuttosto offriva alle mani un tiepido contatto,
e insieme tutto il corpo era rosso d'ulcere quasi impresse a fuoco,
come accade quando per le membra si diffonde il fuoco sacro.
Ma la parte più interna in quegli uomini ardeva fino alle ossa,
nello stomaco ardeva una fiamma, come dentro fornaci.
Sicché non c'era cosa, benché lieve e tenue, con cui potessi giovare
alle membra di alcuno, ma vento e frescura cercavano sempre.
Alcuni immergevano nei gelidi fiumi le membra ardenti
per la malattia, gettando dentro le onde il corpo nudo.
Molti caddero a capofitto nelle acque di pozzi profondi,
mentre accorrevano protendendo la bocca spalancata.
La sete che li riardeva inestinguibilmente e faceva immergere
i corpi, rendeva pari a poche gocce molta acqua.
E il male non dava requie: i corpi giacevano
stremati. La medicina balbettava in un muto sgomento,
mentre quelli tante volte rotavano gli occhi spalancati,
ardenti per la malattia, privi di sonno.
E molti altri segni di morte si manifestavano allora:
la mente sconvolta, immersa nella tristezza e nel timore,
le ciglia aggrondate, il viso stravolto e truce,
le orecchie, inoltre, tormentate e piene di ronzii,
il respiro frequente o grosso e tratto a lunghi intervalli,
e stille di sudore lustre lungo il madido collo,
sottili sputi minuti, cosparsi di color di croco
e salsi, a stento cavati attraverso le fauci da una rauca tosse.
Non cessavano, poi, di contrarsi i nervi nelle mani e di tremare
gli arti, e di montare su dai piedi a poco a poco il freddo.
Così, quando alfine si appressava il momento supremo,
erano affilate le narici, assottigliata e acuta la punta
del naso, incavati gli occhi, cave le tempie, gelida e dura
la pelle nel volto, cascante la bocca aperta; la fronte rimaneva tesa.
E non molto dopo le membra giacevano irrigidite dalla morte.
(Lucrezio, De rerum natura, VI, 1145-1196)
Vedi anche Tucidide e la peste di Atene di G. De Paola
Michiel Sweerts (pittore fiammingo) -1652- La peste di Atene
(I nostri storiografi ricorderanno che il governo italiano curò la pandemia con "tachipirina e vigile attesa" e costrinse la gente a girare con un lasciapassare di fascistica memoria.NDR)
Eugenio Caruso - 21 - 01 - 2022
Tratto da