Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte
Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio
RIASSUNTO LIBRO VI
Mentre Odisseo dorme, Atena si reca nella casa di Alcinoo, re dei Feaci, nella cui isola l’eroe è approdato. La dea appare in sogno, sotto le spoglie di un’amica, a Nausicaa, figlia di Alcinoo, e la esorta a recarsi al fiume a lavare le sue vesti e il suo corredo perché si avvicina per lei il tempo delle nozze. Al risveglio, la fanciulla ottiene dal padre il carro con le mule e va al fiume con le ancelle. Dopo aver lavato le vesti, le giovani giocano a palla sulla sponda del fiume: un lancio più lungo e la palla cade nell’acqua: alle grida delle fanciulle Odisseo si risveglia. Incerto sul da farsi e temendo di essere fra uomini selvaggi, esita, finché decide di implorare le fanciulle di dargli una veste e di mostrargli la strada per raggiungere la città.
Al suo apparire, le ancelle fuggono spaventate; solo la figlia di Alcinoo resta, ascolta l’abile supplica e, dopo aver richiamato le ancelle, ordina loro di dare una veste allo straniero, senza timore, perché, dice, mai nessuno giunge fra i Feaci con intenzioni malvagie e, d’altra parte, è un dovere accogliere l’ospite.
Odisseo accetta la veste e, dopo essersi lavato nel fiume, riappare a Nausicaa, splendido, soprattutto grazie all’intervento di Atena che lo ha reso ancor più affascinante. La principessa risponde alle preghiere del forestiero con grande cortesia e affabilità, pensando in cuor suo che le piacerebbe averlo come sposo: gli consiglia di seguirla fin quasi in città, poi di fermarsi in un bosco sacro ad Atena, e quindi di proseguire, chiedendo a un passante la strada per raggiungere la reggia.
Giunto là - consiglia Nausicaa - egli supplicherà dapprima sua madre, la regina Arete, poi il padre, che le siede accanto. Quindi si avviano e, giunti nel bosco di Atena, Odisseo si ferma per un po’, mentre le fanciulle rientrano in città.
Nausicaa ritratta da Frederick Leighton, nel 1878
TESTO LIBRO VI
Mentre sepolto in un profondo sonno
Colà posava il travagliato Ulisse,
Minerva al popol de’ Feaci, e all’alta
Lor città s’avviò. Questi da prima
Ne’ vasti d’Iperéa fecondi piani 5
Far dimora solean, presso i Ciclopi,
Gente di cor superbo, e a’ suoi vicini
Tanto molesta più, quanto più forte.
Quindi Nausitoo, somigliante a un Dio,
Di tal sede levolli, e in una terra, 10
Che dagli uomini industri il mar divide,
Gli allogò, nella Scheria; e qui condusse
Alla cittade una muraglia intorno,
Le case fabbricò, divise i campi,
E agl’Immortali i sacri templi eresse. 15
Colpito dalla Parca, ai foschi regni
Era già sceso, e Alcinoo, che i beati
Numi assennato avean, reggea lo scettro.
L’occhicilestra Dea, che sempre fissa
Nel ritorno d’Ulisse avea la mente, 20
Tenne verso la reggia, e alla secreta
Dedalea stanza si rivolse, dove
Giovinetta dormia, che le Immortali
D’indole somigliava, e di fattezze,
Nausìcaa, del Re figlia; ed alla porta, 25
Che rinchiusa era, e risplendea nel bujo,
Giacean due, l’una quinci, e l’altra quindi,
Pudiche ancelle, cui le Grazie istesse
Di non vulgar beltà la faccia ornaro.
La Dea, che gli occhi in azzurrino tinge 30
Quasi fiato leggier di picciol vento,
S’avvicinò della fanciulla al letto,
E sul capo le stette, e, preso il volto
Della figlia del prode in mar Dimante
Molto a lei cara, e ugual d’etade a lei, a35
Cotali le drizzò voci nel sonno:
Deh, Nausìcaaa, perchè te così lenta
La genitrice partorì? Neglette
Lasci giacerti le leggiadre vesti,
Benchè delle tue nozze il dì s’appressi, 40
Quando le membra tue cinger dovrai
Delle vesti leggiadre, e a quelli offrirne,
Che scorgeranti dello sposo ai tetti.
Così fama s’acquista, e ne gioisce
Col genitor la veneranda madre. 45
Dunque i bei panni, come il cielo imbianchi,
Vadasi a por nell’onda: io nell’impresa,
Onde trarla più ratto a fin tu possi,
Compagna ti sarò. Vergine, io credo
Non rimarrai gran pezza; e già di questo, 50
Tra cui nascesti e tu, popol Feace
I migliori ti ambiscono. Su via,
Spuntato appena in Orïente il Sole,
Trova l’inclito padre, e de’ gagliardi
Muli il richiedi, e del polito carro, 55
Che i pepli, gli scheggiali, e i prezïosi
Manti conduca: poichè sì distanno
Dalla città i lavacri, che del cocchio
Valerti, e non del piede, a te s’addice.
Finiti ch’ebbe tali accenti, e messo 60
Consiglio tal della fanciulla in petto,
La Dea, che guarda con azzurre luci,
All’Olimpo tornò, tornò alla ferma
De’ sempiterni Dei sede tranquilla,
Che nè i venti commuovono, nè bagna 65
La pioggia mai, nè mai la neve ingombra;
Ma un seren puro vi si spande sopra
Da nube alcuna non offeso, e un vivo
Candido lume la circonda, in cui
Si giocondan mai sempre i Dii beati. 70
L’Aurora intanto d’in su l’aureo trono
Comparve in Orïente, e alla sopita
Vergine dal bel peplo i lumi aperse.
La giovinetta s’ammirò del sogno,
E al padre per narrarlo, ed alla madre 75
Corse, e trovolli nel palagio entrambi.
La madre assisa al focolare, e cinta
Dalle sue fanti, e con la destra al fuso,
Lane di fina porpora torcea.
Ma nel caro suo padre in quel che al grande 80
Concilio andava, ove attendeanlo i Capi
De’ Feacesi, s’abbattè Nausícaa,
E, stringendosi a lui, Babbo mio dolce,
Non vuoi tu farmi apparecchiar, gli disse,
L’eccelso carro dalle lievi ruote, 85
Acciocchè le neglette io rechi al fiume
Vesti oscurate, e nitide le torni?
Troppo a te si convien, che tra i soprani
Nelle consulte ragionando siedi,
Seder con monde vestimenta in dosso. 90
Cinque in casa ti vedi amati figli,
Due già nel maritaggio, e tre, cui ride
Celibe fior di giovinezza in volto.
Questi al ballo ir vorrian con panni sempre
Giunti dalle lavande allora allora. 95
E tai cose a me son pur tutte in cura.
Tacquesi a tanto; chè toccar le nozze
Sue giovanili non s’ardia col padre.
Ma ei comprese il tutto, e sì rispose:
Nè di questo io potrei, nè d’altro, o figlia, 100
Non soddisfarti. Va: l’alto, impalcato
Carro veloce appresteranti i servi.
Disse; e gli ordini diede, e pronti i servi
La mular biga dalle lievi ruote
Trasser fuori, e allestiro, e i forti muli 105
Vi miser sotto, e gli accoppiaro. Intanto
Venia Nausícaa con le belle vesti,
Che su la biga lucida depose.
Cibi graditi, e di sapor diversi,
La madre collocava in gran paniere, 110
E nel capace sen d’otre caprigno
Vino infondea soave: indi alla figlia,
Ch’era sul cocchio, perchè dopo il bagno
Sè con le ancelle, che seguianla, ungesse,
Porse in ampolla d’òr liquida oliva. 115
Nausícaa in man le rilucenti briglie
Prese, prese la sferza, e diè di questa
Sovra il tergo ai quadrupedi robusti,
Che si moveano strepitando, e i passi
Senza posa allungavano, portando 120
Le vesti, e la fanciulla, e non lei sola,
Quando ai fianchi di lei sedean le ancelle.
Tosto che fur dell’argentino fiume
Alla pura corrente, ed ai lavacri
Di viva ridondanti acqua perenne, 125
Da cui macchia non è, che non si terga,
Sciolsero i muli, e al vorticoso fiume,
Il verde a morsecchiar cibo soave
Del mele al pari, li mandaro in riva.
Poscia dal cocchio su le braccia i drappi 130
Recavansi, e gittavanli nell’onda,
Che nereggiava tutta; e in larghe fosse
Gïanli con presto piè pestando a prova.
Purgati, e netti d’ogni lor bruttura,
L’uno appo l’altro gli stendean sul lido, 135
Là dove le pietruzze il mar poliva.
Ciò fatto, si bagnò ciascuna, e s’unse,
E poi del fiume pasteggiâr sul margo:
Mentre d’alto co’ raggi aureolucenti
Gli stesi drappi rasciugava il Sole. 140
Ma, spento della mensa ogni desio,
Una palla godean trattar per gioco,
Deposti prima dalla testa i veli;
Ed il canto intonava alle compagne
Nausícaa bella dalle bianche braccia. 145
Come Diana per gli eccelsi monti
O del Taigeto muove, o d’Erimanto,
Con la faretra agli omeri, prendendo
De’ ratti cervi, e de’ cinghiai diletto:
Scherzan, prole di Giove, a lei d’intorno 150
Le boscherecce Ninfe, onde a Latona
Serpe nel cor tacita gioja; ed ella
Va del capo sovrana, e della fronte
Visibilmente a tutte l’altre, e vaga
Tra loro è più qual da lei meno è vinta: 155
Così spiccava tra le ancelle questa
Da giogo marital vergine intatta.
Nella stagion, che al suo paterno tetto,
I muli aggiunti, e ripiegati i manti,
Ritornar disponea, nacque un novello 160
Consiglio in mente all’occhiglauca Diva,
Perchè Ulisse dissonnisi, e gli appaja
La giovinetta dalle nere ciglia,
Che de’ Feaci alla cittade il guidi.
Nausíca in man tolse la palla, e ad una 165
Delle compagne la scagliò: la palla
Desviossi dal segno, a cui volava,
E nel profondo vortice cadè.
Tutte misero allora un alto grido,
Per cui si ruppe incontanente il sonno 170
Nel capo a Ulisse, che a seder drizzossi,
Tai cose in sè volgendo: Ahi fra qual gente
Mi ritrovo io? Cruda, villana, ingiusta,
O amica degli estrani, e ai Dii sommessa?
Quel, che l’orecchio mi percosse, un grido 175
Femminil parmi di fanciulle Ninfe,
Che de’ monti su i gioghi erti, e de’ fiumi
Nelle sorgenti, e per l’erbose valli
Albergano. O son forse umane voci,
Che testè mi feriro? Io senza indugio 180
Dagli stessi occhi miei sapronne il vero.
Ciò detto, uscia l’eroe fuor degli arbusti,
E con la man gagliarda in quel, che uscìa,
Scemò la selva d’un foglioso ramo,
Che velame gli valse ai fianchi intorno. 185
Quale dal natio monte, ove la pioggia
Sostenne, e i venti impetuosi, cala
Leon, che nelle sue forze confida:
Foco son gli occhi suoi; greggia, ed armento,
O le cerve salvatiche, al digiuno 190
Ventre ubbidendo, parimente assalta,
Nè, perchè senta ogni pastore in guardia,
Tutto teme investir l’ovile ancora:
Tal, benchè nudo, sen veniva Ulisse,
Necessità stringendolo, alla volta 195
Delle fanciulle dal ricciuto crine,
Cui, lordo di salsuggine, com’era,
Sì fiera cosa rassembrò, che tutte
Fuggiro qua e là per l’alte rive.
Sola d’Alcinoo la diletta figlia, 200
Cui Pallade nell’alma infuse ardire,
E francò d’ogni tremito le membra,
Piantossigli di contra, e immota stette.
In due pensieri ei dividea la mente:
O le ginocchia strignere a Nausíca,205
Di supplicante in atto, o di lontano
Pregarla molto con blande parole,
Che la città mostrargli, e d’una vesta
Rifornirlo, volesse. A ciò s’attenne:
Chè dello strigner de’ ginocchi sdegno 210
Temea, che in lei si risvegliasse. Accenti
Dunque le inviò blandi, e accorti a un tempo.
Regina, odi i miei voti. Ah degg’io Dea
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna
Sei delle Dive, che in Olimpo han seggio, 215
Alla beltade, agli atti, al maestoso
Nobile aspetto, io l’immortal Diana,
Del gran Giove la figlia, in te ravviso.
E se tra quelli, che la terra nutre,
Le luci apristi al dì, tre volte il padre 220
Beato, e tre la madre veneranda,
E beati tre volte i tuoi germani,
Cui di conforto almo s’allarga, e brilla
Di schietta gioja il cor, sempre che in danza
Veggiono entrar sì grazïoso germe. 225
Ma felice su tutti oltra ogni detto
Chi potrà un dì nelle sue case addurti
D’illustri carca nuzïali doni.
Nulla di tal s’offerse unqua nel volto
O di femmina, o d’uomo, alle mie ciglia: 230
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.
Tal quello era bensì, che un giorno in Delo,
Presso l’ara d’Apollo, ergersi io vidi
Nuovo rampollo di mirabil palma:
Chè a Delo ancora io mi condussi, e molta 235
Mi seguia gente armata in quel viaggio,
Che in danno riuscir doveami al fine.
E com’io, fissi nella palma gli occhi,
Colmo restai di meraviglia, quando
Di terra mai non surse arbor sì bello, 240
Così te, donna, stupefatto ammiro,
E le ginocchia tue, benchè m’opprima
Dolore immenso, io pur toccar non oso.
Me uscito dell’Ogigia isola dieci
Portava giorni e dieci il vento, e il fiotto. 245
Scampai dall’onda ieri soltanto, e un Nume
u queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri, mi gittò: poscia che stanchi
Di travagliarmi non cred’io gli Eterni.
Pietà di me, Regina, a cui la prima 250
Dopo tante sventure innanzi io vegno,
Io, che degli abitanti, o la campagna
Tengali, o la città, nessun conobbi.
La cittade m’addita, e un panno dammi,
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni 255
Qua recasti con te, di panni invoglio.
E a te gli Dei, quanto il tuo cor desia,
Si compiaccian largir: consorte, e figli,
E un sol volere in due; però ch’io vita,
Non so più invidïabile, che dove 260
La propria casa con un’alma sola
Veggonsi governar marito, e donna.
Duol grande i tristi n’hanno, e gioja i buoni:
Ma quei, ch’esultan più, sono i due sposi.
S
Ulisse e Nausicaa, di Jean Veber
O forestier, tu non mi sembri punto 265
Dissennato, e dappoco, allor rispose
La verginetta dalle bianche braccia.
L’Olimpio Giove, che sovente al tristo
Non men, che al buon, felicità dispensa,
Mandò a te la sciagura, e tu da forte 270
La sosterrai. Ma, poichè ai nostri lidi
Ti convenne approdar, di veste, o d’altro
Che ai supplici si debba, ed ai meschini,
Non patirai disagio. Io la cittade
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti 275
Degli abitanti. È de’ Feaci albergo
Questa fortunata isola; ed io nacqui
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del poter si restringe, e dell’impero.
Tal favellò Nausìcaa; e alle compagne, 280
Olà, disse, fermatevi. In qual parte
Fuggite voi, perchè v’apparse un uomo?
Mirar credeste d’un nemico il volto?
Non fu, non è, non fia, chi a noi s’attenti
Guerra portar: tanto agli Dei siam cari. 285
Oltre che in sen dell’ondeggiante mare
Solitarj viviam, viviam divisi
Da tutto l’altro della stirpe umana.
Un misero è costui, che a queste piagge
Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi. 290
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon da Giove tutti, e non v'ha dono
Picciolo sì, che lor non torni caro.
Su via, di cibo, e di bevanda il nuovo
Ospite soccorrete; e pria d’un bagno 295
Colà nel fiume, ove non puote il vento.
Ulisse e Nausicaa, di William McGregor Paxton
Le compagne ristéro, ed a vicenda
Si rincoraro; e, come avea d’Alcinoo
La figlia ingiunto, sotto un bel frascato
Menaro Ulisse, e accanto a lui le vesti 300
Poser, tunica, e manto, e la rinchiusa
Nell’ampolla dell’òr liquida oliva:
Quindi ad entrar col piè nella corrente
Lo inanimiro. Ma l’eroe: Fanciulle,
Appartarvi da me non vi sia grave, 305
Finchè io questa salsuggine marina
Mi terga io stesso, e del salubre m’unga
Dell’oliva licor, conforto ignoto
Da lungo tempo alle mie membra. Io certo
Non laverommi nel cospetto vostro: 310
Chè tra voi starmi non ardisco ignudo.
Trasser le ancelle indietro, ed a Nausìcaa
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio sal, che gl’incrostò le larghe
Spalle, ed il tergo, si togliea col fiume, 315
E la bruttura del feroce mare
Dal capo s’astergea. Ma come tutto
Si fu lavato, ed unto, e di que’ panni
Vestito, ch’ebbe da Nausìcaa in dono,
Lui Minerva, la prole alma di Giove, 320
Maggior d’aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e più fresco, e de’ capei lucenti,
Che di giacinto a fior parean sembianti,
Su gli omeri cader gli feo le anella.
E qual se dotto mastro, a cui dell’arte 325
Nulla celaro Pallade, e Vulcano,
Sparge all’argento il liquid’oro intorno
Sì, che all’ultimo suo giunge con l’opra:
Tale ad Ulisse l’Atenéa Minerva
Gli omeri, e il capo di decoro asperse, 330
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,
Su la riva sedea del mar canuto,
Di grazia irradïato, e di beltade.
La donzella stordiva; ed all’ancelle
Dal crin ricciuto disse: Un mio pensiero 335
Nascondervi io non posso. Avversi il giorno,
Che le nostre afferrò sponde beate,
Non erano a costui tutti del cielo
Gli abitatori: egli d’uom vile e abbietto
Vista m’avea da prima, ed or simíle 340
Sembrami a un Dio, che su l’Olimpo siede.
Oh colui fosse tal, che i Numi a sposo
Mi destinaro! Ed oh piacesse a lui
Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo
Sovvenitelo, amiche, e di bevanda. 345
Quelle ascoltaro con orecchio teso,
E il comando seguîr: cibo, e bevanda
All’ospite imbandiro; e il pazïente
Divino Ulisse con bramose fauci
L’uno, e l’altra prendea, qual chi gran tempo 350
Bramò i ristori della mensa indarno.
Qui l’occhinera vergine novello
Partito immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate vestimenta pose,
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse. 355
Poi così Ulisse confortava: Sorgi,
Stranier, se alla cittade ir ti talenta,
E il mio padre veder, nel cui palagio
S’accoglieran della Feacia i Capi.
Ma, quando folle non mi sembri punto, 360
Cotal modo terrai. Finchè moviamo
De’ buoi tra le fatiche, e de’ coloni,
Tu con le ancelle dopo il carro vieni
Non lentamente: io ti sarò per guida.
Come da presso la cittade avremo, 365
Divideremci. È la città da un alto
Muro cerchiata, e due bei porti vanta
D’angusta foce, un quinci, e l’altro quindi,
Su le cui rive tutti in lunga fila
Posan dal mare i naviganti legni. 370
Tra un porto, e l’altro si distende il foro
Di pietre quadre, e da vicina cava
Condotte, lastricato; e al foro in mezzo
L’antico tempio di Nettun si leva.
Colà gli arnesi delle negre navi, 375
Gomene, e vele, a racconciar s’intende,
E i remi a ripolir: chè de’ Feaci
Non lusingano il core archi, e faretre,
Ma veleggianti e remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar spumante. 380
Di cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s’abbattesse a noi,
Della feccia più vil, Chi è, non dica,
Quel forestiero, che Nausìcaa siegue, 385
Bello d’aspetto, e grande? Ove trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,
Che da noi parte il mar, ramingo giunse,
Ed ella il ricevè, che uscia di nave:
O da lunghi chiamato ardenti voti 390
Scese di cielo, e le comparve un Nume,
Che seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia
D’uom d’altronde venuto, e a lui donossi,
Dappoi che i molti, che l’ambiano, illustri 395
Feaci tanto avanti ebbe in dispetto.
Così diriano; e crudelmente offesa
Ne saria la mia fama. Io stessa sdegno
Concepirei contra chiunque osasse,
De’ genitori non contenti in faccia, 400
Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse delle sue nozze il dì festivo.
Dunque a’ miei detti bada; e leggiermente
Ritorno, e scorta impetrerai dal padre.
Folto di pioppi, ed a Minerva sacro 405
Ci s’offrirà per via bosco fronzuto,
Cui viva fonte bagna, e molli prati
Cingono: ivi non più dalla cittade
Lontan, che un gridar d’uomo, il bel podere
Giace del padre, e l’orto suo verdeggia. 410
Ivi tanto, che a quella, ed al paterno
Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi crederai, tu pur t’inurba, e cerca
Il palagio del Re. Del Re il palagio
Gli occhi tosto a sè chiama, e un fanciullino 415
Vi ti potria condur: chè de’ Feaci
Non sorge ostello, che il paterno adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente
Sino alla madre mia per le superbe
Camere varca. Ella davanti al foco, 420
Che del suo lume le colora il volto,
Siede, e, poggiata a una colonna, torce,
Degli sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle a tergo le fantesche, e presso
S’alza del padre il trono, in ch’ei, qual Dio 425
S’adagia, e della vite il nettar bee.
Declina il trono, e stendi alle ginocchia
Della madre le braccia; onde tra poco
Del tuo ritorno alle natíe contrade,
Per remote che sien, ti spunti il giorno. 430
Studiati entrarle tanto o quanto in core;
E di non riveder le patrie sponde,
Gli alberghi aviti, e degli amici il volto,
Bandisci dalla mente ogni sospetto.
Detto così, della lucente sferza 435
Diè su le groppe ai vigorosi muli,
Che pronti si lasciaro il fiume addietro.
Venian correndo, ed alternando a gara,
Bello a vedersi, le nervose gambe;
E la donzella, perchè Ulisse a piede 440
Lei con le ancelle seguitar potesse,
Attenta carreggiava, e fea con arte
Scoppiare in alto della sferza il suono.
Cadea nell’acque Occidentali il Sole,
Che al sacro di Minerva illustre bosco 445
Furo; ed Ulisse ivi s’assise. Quindi
A Minerva pregava in tali accenti:
Odimi, invitta dell’Egïoco figlia,
Ed oggi almen fa pieni i voti miei
Tu, che pieni i miei voti unqua non festi, 450
Finchè su l’onde mi sbalzò Nettuno.
Tu dammi, che gradito, e non indegno
Di pietade, ai Feaci io m’appresenti.
Disse, e Palla l’udì: ma non ancora
Visibilmente gli assistea per tema 455
Del zio possente, al cui tremendo cruccio
Era pria, che i natíi lidi toccasse,
Bersaglio eterno il pari ai Numi Ulisse.
L'incontro tra Odisseo, nudo, e Nausicaa, favorito da Atena, da un'anfora a figure rosse del 440 a.C. ca., trovata a Vulci
I feaci
I Feaci (in greco antico: Phàiakes) erano un popolo di navigatori della mitologia greca, abitanti della terra di Scheria (in greco antico: Drepáne), di cultura diversa e, per alcuni aspetti, contrapposta a quella dei Greci. Nell'Odissea, la narrazione sui Feaci si lega al sistema dei valori della xenìa, quella che era la forma di ospitalità del mondo greco. Omero racconta di come accolsero Odisseo, fornendogli la nave che lo avrebbe riportato in patria, pur sapendo che con questo gesto sarebbero incorsi nell'ira di Poseidone. Il loro re era Alcinoo, la cui moglie era Arete, una donna che avrà un ruolo importante nel determinare l'aiuto dato a Odisseo. Loro figlia era Nausicaa, la prima a imbattersi nell'eroe greco reduce dal naufragio, dopo aver lasciato Calipso, e a offrirgli l'ospitalità. Le narrazioni tradizionali tratteggiano i Feaci come un popolo che vive in un locus amoenus, in condizioni di felicità e prosperità, caratteri che rimarcano per contrapposizione le dure condizioni di vita a cui sono sottoposti i Greci. Incerta è l'ubicazione che la tradizione letteraria greca assegna a questo popolo: accanto alla immaginaria Iperia, vi è la collocazione che li vorrebbe gli antichi abitanti di Corcira (l'odierna Corfù), accolta da Tucidide. Strabone, nella sua Geografia, la colloca invece nel mezzo dell'Oceano Atlantico, al pari di Ogigia, l'isola della ninfa Calipso, infine lo scrittore Ph. Champault, nel suo libro Phéniciens et Grécs en Italie d'après l'Odyssée dimostra che la terra dei Feaci, la loro città Scheria ed i Feaci stessi si identificano con l'isola d'Ischia e con quella colonia di Fenici ellenizzanti che vennero primi a stabilirsi in essa. Armin Wolf, docente di Storia medievale presso l'università di Heidelberg e ricercatore presso il Max Planck Institute di Francoforte, sostiene che Ulisse, prima del suo imbarco per ritornare a Itaca, abbia attraversato via terra l'Istmo calabrese e ritiene che la terra dei Feaci sia da identificare con l'attuale territorio compreso tra il golfo di Sant'Eufemia e quello di Squillace.
Altri individuano sempre il territorio calabrese, ma localizzano la terra dei Feaci nella punta meridionale della Calabria. Uno studio ne teorizza addirittura l'esatta ubicazione collocandolo a Palmi, lungo le coste Calabre della Costa Viola. Altri ancora identificano l'isola di Scheria con la Sardegna, in quanto anch'essa collocata nel mare occidentale, popolata da abili navigatori e con usanze simili a quelle di Scheria come la lotta tra i pugilatori (attestata dai bronzetti nuragici e dai "giganti" di Monte Prama) e il famoso ballo tondo, inoltre anche la Sardegna nuragica era probabilmente dominata da diversi sovrani. Sono altresì da menzionare le ipotesi degli studiosi Pietro Sugameli (1845-1922) e Ciro Scotti (1883-1943), secondo le quali la terra dei Feaci sarebbe da identificare, rispettivamente, con la Sicilia occidentale (si veda il saggio di Sugameli del 1892 Origine trapanese dell'Odissea) e con l'isola di Ischia (si confronti l'opera di Scotti datata 1908 Omero e l'isola d'Ischia).
Eugenio Caruso - 10- 02- 2022
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