Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte
Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio
RIASSUNTO LIBRO XI
Odisseo e i compagni salpano, mentre Circe invita loro un vento propizio che in breve li sospinge ai confini dell’Oceano (per gli antichi era un grande fiume che circondava la terra abitata), nel paese dei Cimmeri, luogo sempre avvolto dalle nuvole e dalla nebbia, dove approdano. Si dirigono poi dove indicato dalla maga. Odisseo si ferma sulla soglia dell’aldilà, inizia i riti di purificazione, offre le vittime sacrificali, prega Ade, Persefone e le anime dei morti, che ben presto compaiono per bere il sangue degli animali uccisi; si presenta anche l’anima di Elpenore, un compagno di Odisseo morto sull’isola di Circe, in un banale incidente; quindi appare Tiresia, il primo ad avere il diritto di bere il sangue del sacrificio. Poi l’indovino profetizza all’eroe il suo destino.
Giungerai alla terra di Helios: se rispetteranno le vacche del dio non subiranno danni, ma se le oltraggeranno, il viaggio sarà difficile, tutti i compagni periranno e Odisseo tornerà in patria su una nave straniera; inoltre, giunto in patria, dovrà soffrire nuovi dolori e uccidere tutti i nemici che aspirano a sposare Penelope e sperperano i beni. Dopo ciò, dovrà ripartire, andare in un luogo lontano, fra uomini che non conoscono il mare, là offrire un sacrificio a Posidone solo allora potrà tornare a casa; infine regnerà a lungo su un popolo felice, e morirà ormai vecchio, lontano dal mare.
Dopo aver ascoltato la profezia, Odisseo esprime il desiderio di parlare con la madre Anticlea che già aveva visto e di cui ignorava la morte. La madre gli si accosta e gli narra la propria sorte: è morta consunta dalla nostalgia per il figlio lontano, che ora tenta per tre volte di abbracciarla, ma per tre volte l’ombra di Anticlea sfugge via. Si presentano poi le anime di donne illustri, che l’eroe interroga brevemente.
Nell’atmosfera attenta della reggia di Alcinoo, Odisseo continua con il racconto del suo incontro con Agamennone, che gli narra la sua morte turpe, per mano della moglie e del suo amante e gli raccomanda di essere prudente al suo ritorno a Itaca e di non svelarsi subito a Penelope; però gli predice che troverà una moglie fedele e il figlio ad attenderlo.
Quindi Odisseo vede Achille. L’eroe proclama che preferirebbe essere un umile servo vivo piuttosto che regnare sui morti e chiede che ne è del padre e del figlio Neottolemo. Odisseo dice di ignorare la sorte di Peleo, ma racconta episodi di valore del figlio di Achille, che ne è orgoglioso.
Aiace Telamonio, ancora sdegnato con Odisseo poiché aveva ottenuto le armi di Achille al posto suo, si allontana senza rispondere alle sue parole. Altri illustri eroi del mito si presentano a Odisseo: Tizio, Tantalo, Sisifo, per ultimo Eracle, che si rivolge all’eroe compiangendo il doloroso destino, simile al suo. Infine Odisseo, temendo che Persefone si adiri con lui, decide di tornare indietro alla nave. Tutti vi si imbarcano e, sciolti gli ormeggi, si riprende la navigazione.
Nel complesso, assumono particolare interesse due episodi: l’incontro con la madre e quello con Agamennone. L’incontro con la madre, di cui Odisseo ignorava la morte, rappresenta, oltre che un momento di intensa drammaticità, un primo riavvicinamento dell’eroe alla sua famiglia; Anticlea, inoltre, lo rassicura della fedeltà della moglie e dell’affetto del figlio, senza rivelare la presenza dei pretendenti (che forse è posteriore alla sua morte). Anch’essa dunque è portatrice di una profezia, come lo sarà Agamennone. Il secondo incontro è significativo perché riprende un motivo più volte emergente nell’Odissea, quello del funesto ritorno dell’Atride, che è una sorta di rovesciamento del ritorno di Odisseo. Nell’uccisione di Agamennone il ruolo dell’amante della moglie, Egisto, è simmetrico a quello dei pretendenti di Penelope; il figlio Oreste, vendicato re del padre, è una figura parallela a Telemaco; nella vicenda l’elemento rovesciato —origine della rovina — è il personaggio di Clitennestra, la donna infedele, che si contrappone a Penelope. Il funesto ritorno di Agamennone, ucciso dalla moglie e dall’amante, avrà grande fortuna nella letteratura greca successiva a Omero e ispirerà la trilogia drammatica del tragediografo Eschilo (525-456 a.C.)
TESTO LIBRO XI
Giunti al divino mare, il negro legno
Prima varammo, albero ergemmo, e vele,
E prendemmo le vittime, e nel cavo
Legno le introducemmo: indi con molto
Terrore, e pianto, v’entravam noi stessi.5
La dal crin crespo, e dal canoro labbro
Dea veneranda un gonfiator di vela
Addio di Circe a Ulisse di Bruegel il vecchio. Circe in questa occasione dimostra di aver amato Ullisse.
Vento in poppa mandò, che fedelmente
Ci accompagnava per l’ondosa via:
Tal che ozïosi nella ratta nave10
Dalla cerulea prua giacean gli arnesi,
E noi tranquilli sedevam, la cura
Al timonier lasciandone, e al vento.
Quanto il dì risplendè, con vele spase
Navigavamo. Spento il giorno, e d’ombra15
Ricoperte le vie, dell’Oceáno
Toccò la nave i gelidi confini,
Là, ’ve la gente de’ Cimmerj alberga,
Cui nebbia, e bujo sempiterno involve.
Monti pel cielo stelleggiato, o scenda,20
Lo sfavillante d’ôr Sole non guarda
Quegl’infelici popoli, che trista
Circonda ognor pernizïosa notte.
Addotto in su l’arena il buon naviglio,
E il montone, e la pecora sbarcati,25
Alla corrente dell’Oceano in riva
Camminavam, finchè venimmo ai lochi,
Che la Dea c’insegnò. Quivi per mano
Euriloco teneano e Perimede
Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,30
Scavai la fossa cubitale, e mele
Con vino, indi vin puro, e lucid’onda
Versaivi, a onor de’ trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspersi.
Poi degli estinti le debili teste35
Pregai, promisi lor, che nel mio tetto,
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell’armento fiore,
Lor sagrificherei, di doni il rogo
Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,40
Immolerei nerissimo arïete,
Che della greggia mia pasca il più bello.
Fatte ai Mani le preci, ambo afferrai
Le vittime, e sgozzaile in su la fossa,
Che tutto riceveane il sangue oscuro.45
Ed ecco sorger della gente morta
Dal più cupo dell’Erebo, e assembrarsi
Le pallid’Ombre: giovanette spose,
Garzoni ignari delle nozze, vecchj
Da nemica fortuna assai versati,50
E verginelle tenere, che impressi
Portano i cuori di recente lutto;
E molti dalle acute aste guerrieri
Nel campo un dì feriti, a cui rosseggia
Sul petto ancor l’insanguinato usbergo.55
Accorrean quinci, e quindi, e tanti a tondo
Aggiravan la fossa, e con tai grida,
Ch’io ne gelai per subitana tema.
Pure a Euriloco ingiunsi, e a Perimede
Le già scannate vittime, e scojate60
Por su la fiamma, e molti ai Dei far voti,
Al prepotente Pluto, e alla tremenda
Proserpina: ma io col brando ignudo
Sedea, nè consentia, che al vivo sangue
Pria, ch’io Tiresia interrogato avessi,65
S’accostasser dell’Ombre i vôti capi.
Primo ad offrirsi a me fu il simulacro
D’Elpenore, di cui non rinchiudea
La terra il corpo nel suo grembo ancora.
Lasciato in casa l’avevam di Circe70
Non sepolto cadavere, e non pianto:
Chè incalzavaci allor diversa cura.
Piansi a vederlo, e ne sentii pietade,
E, con alate voci a lui converso,
Elpenore, diss’io, come scendesti75
Nell’oscura caligine? Venisti
Più ratto a piè, ch’io su la negra nave.
Ed ei, piangendo: O di Laerte egregia
Prole, sagace Ulisse, un nequitoso
Demone avverso, e il molto vin m’offese.80
Stretto dal sonno alla magione in cima,
Men disciolsi ad un tratto; e, per la lunga
Di calar non membrando interna scala,
Mossi di punta sovra il tetto, e d’alto
Precipitai: della cervice i nodi85
Ruppersi, ed io volai qua con lo spirto.
Ora io per quelli, da cui lunge vivi,
Per la consorte tua, pel vecchio padre,
Che a tanta cura t’allevò bambino,
Pel giovane Telemaco, che dolce90
Nella casa lasciasti unico germe,
Ti prego, quando io so, che alla Circéa
Isola il legno arriverai di nuovo,
Ti prego, che di me, Signor mio, vogli
Là ricordarti, onde io non resti, come95
Della partenza spiegherai le vele,
Senza lagrime addietro, e senza tomba,
E tu venghi per questo ai Numi in ira.
Ma con quell’armi, ch’io vestia, sul foco
Mi poni, e in riva del canuto mare100
A un misero guerrier tumulo innalza,
Di cui favelli la ventura etade.
Queste cose m’adempj; ed il buon remo,
Ch’io tra i compagni miei, mentre vivea,
Solea trattar, sul mio sepolcro infiggi.105
Sventurato, io risposi, a pien fornita
Sarà, non dubitarne, ogni tua voglia.
Così noi sedevam, meste parole
Parlando alternamente, io con la spada
Sul vivo sangue ognora, e a me di contra110
La forma lieve del compagno, a cui
Suggeria molti accenti il suo disastro.
Comparve in questo dell’antica madre
L’Ombra sottile, d’Anticléa, che nacque
Dal magnanimo Autolico, e a quel tempo115
Era tra i vivi, ch’io per Troja sciolsi.
La vidi appena, che pietà mi strinse,
E il lagrimar non tenni: ma nè a lei,
Quantunque men dolesse, io permettea
Al sangue atro appressar, se il vate prima120
Favellar non s’udia. Levossi al fine
Con l’aureo scettro nella man famosa
L’alma Tebana di Tiresia, e ratto
Mi riconobbe, e disse: Uomo infelice,
Perchè, del Sole abbandonati i raggi,125
Le dimore inamabili de’ morti
Scendesti a visitar? Da questa fossa
Ti scosta, e torci in altra parte il brando,
Sì ch’io beva del sangue, e il ver ti narri.
Il piè ritrassi, e invaginai l’acuto130
D’argentee borchie tempestato brando.
Ma ei, poichè bevuto ebbe, in tal guisa
Movea le labbra: Rinomato Ulisse,
Tu alla dolcezza del ritorno aneli,
E un Nume invidïoso il ti contende.135
Come celarti da Nettun, che grave
Contra te concepì sdegno nel petto
Pel figlio, a cui spegnesti in fronte l’occhio?
Pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai,
Sol che te stesso, e i tuoi compagni affreni,140
Quando, tutti del mar vinti i perigli,
Approderai col ben formato legno
Alla verde Trinacria isola, in cui
Pascon del Sol, che tutto vede, ed ode,
I nitidi montoni, e i buoi lucenti.145
Se pasceranno illesi, e a voi non caglia,
Che della patria, il rivederla dato,
Benchè a stento, vi fia. Ma dove osiate
Lana, o corno toccargli, eccidio a’ tuoi,
E alla nave io predico, ed a te stesso.150
E ancor che morte tu schivassi, tardo
Fora, ed infausto, e senza un sol compagno,
E su nave straniera, il tuo ritorno.
Mali oltra ciò t’aspetteranno a casa:
Protervo stuol di giovani orgogliosi,155
Che ti spolpa, ti mangia; e alla divina
Moglie con doni aspira. È ver, che a lungo
Non rimarrai senza vendetta. Uccisi
Dunque o per frode, o alla più chiara luce,
Nel tuo palagio i temerarj amanti,160
Prendi un ben fatto remo, e in via ti metti:
Nè rattenere il piè, che ad una nuova
Gente non sii, che non conosce il mare,
Nè cosperse di sal vivande gusta,
Nè delle navi dalle rosse guance,165
O de’ politi remi, ali di nave,
Notizia vanta. Un manifesto segno
D’esser nella contrada io ti prometto.
Quel dì, che un altro pellegrino, a cui
T’abbatterai per via, te quell’arnese,170
Con che al vento su l’aja il gran si sparge,
Portar dirà su la gagliarda spalla,
Tu repente nel suol conficca il remo.
Poi, vittime perfette a Re Nettuno
Svenate, un toro, un arïete, e un verro,175
Riedi; e del cielo agli abitanti tutti
Con l’ordine dovuto offri ecatombe
Nella tua reggia, ove a te fuor del mare,
E a poco a poco da muta vecchiezza
Mollemente consunto, una cortese180
Sopravverrà morte tranquilla, mentre
Felici intorno i popoli vivranno.
L’oracol mio, che non t’inganna, è questo.
Tiresia, io rispondea, così prescritto,
Chi dubbiar ne potrebbe? hanno i Celesti.185
Ma ciò narrami ancora: io della madre
L’anima scorgo, che tacente siede
Appo la cava fossa, e d’uno sguardo,
Non che d’un motto, il suo figliuol non degna.
Che far degg’io, perchè mi riconosca?190
Ed egli: Troppo bene io nella mente
Lo ti porrò. Quai degli spirti al sangue
Non difeso da te giunger potranno,
Sciorran parole non bugiarde: gli altri
Da te si ritrarran taciti indietro.195
Svelate a me tai cose, in seno a Dite
Del profetante Re l’alma s’immerse.
Ma io di là non mi togliea. La madre
S’accostò intanto, nè del negro sangue
Prima bevè, che ravvisommi, e queste200
Mi drizzò lagrimando alate voci:
Deh come, figliuol mio, scendestu vivo
Sotto l’atra caligine? Chi vive,
Difficilmente questi alberghi mira,
Però che vasti fiumi, e paurose205
Correnti ci dividono, e il temuto
Oceàn, cui varcare ad uom non lice,
Se nol trasporta una dedalea nave.
Forse da Troja, e dopo molti errori,
Con la nave, e i compagni a questo bujo210
Tu vieni? Nè trovar sapesti ancora
Itaca tua? nè della tua consorte
Riveder nel palagio il caro volto?
O madre mia, necessità, risposi,
L’alma indovina a interrogar m’addusse215
Del Tebano Tiresia. Il suolo Achéo
Non vidi ancor, nè i liti nostri attinsi:
Ma vo ramingo, e dalle cure oppresso,
Dappoi che a Troja ne’ puledri bella
Seguii, per disertarla, il primo Atride.220
Su via, mi narra, e schiettamente, come
Te la di lunghi sonni apportatrice
Parca domò. Ti vinse un lungo morbo,
O te Diana faretrata assalse
Con improvvisa non amara freccia?225
Vive l’antico padre, il figlio vive,
Che in Itaca io lasciai? Nelle man loro
Resta, o passò ad altrui la mia ricchezza,
E ch’io non rieda più, si fa ragione?
E la consorte mia qual cor, qual mente230
Serba? Dimora col fanciullo, e tutto
Gelosamente custodisce, o alcuno
Tra i primi degli Achéi forse impalmolla?
Riprese allor la veneranda madre:
La moglie tua non lasciò mai la soglia235
Del tuo palagio; e lentamente a lei
Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.
Stranier nel tuo retaggio, in sin ch’io vissi,
Non entrò: il figlio su i paterni campi
Vigila in pace, e alle più illustri mense,240
Cui l’invita ciascuno, e che non dee
Chi nacque al regno dispregiar, s’asside.
Ma in villa i dì passa Laerte, e mai
A cittade non vien: colà non letti,
Non coltri, o strati sontuosi, o manti.245
Di vestimenta ignobili coverto
Dorme tra i servi al focolare il verno
Su la pallida cenere; e se torna
L’arida estate, o il verdeggiante autunno,
Lettucci umili di raccolte foglie250
Stesi a lui qua e là per la feconda
Sua vigna preme travagliato, e il duolo
Nutre piangendo la tua sorte: arrogi,
La vecchiezza increscevole, che il colse.
Non altrimenti de’ miei stanchi giorni255
Giunse il termine a me, cui non Diana,
Sagittaria infallibile, d’un sordo
Quadrello assalse, o di que’ morbi invase,
Che soglion trar delle consunte membra
L’anima fuor con odïosa tabe:260
Ma il desio di vederti, ma l’affanno
Della tua lontananza, ma i gentili
Modi, e costumi tuoi, nobile Ulisse,
La vita un dì sì dolce hannomi tolta.
Io, pensando tra me, l’estinta madre265
Volea stringermi al sen: tre volte corsi,
Quale il mio cor mi sospingea, ver lei,
E tre volte m’usci fuor delle braccia,
Come nebbia sottile, o lieve sogno.
Cura più acerba mi trafisse, e ratto,270
Ahi, madre, le diss’io, perchè mi sfuggi
D’abbracciarti bramoso, onde anco a Dite,
Le man gittando l’un dell’altro al collo,
Di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?
Fantasma vano, acciò più sempre io m’anga,275
Forse l’alta Proserpina mandommi?
O degli uomini tutti il più infelice,
La veneranda genitrice aggiunse,
No, l’egregia Proserpina, di Giove
La figlia, non t’inganna. È de’ mortali280
Tale il destin, dacchè non son più in vita,
Che i muscoli tra sè, l’ossa, ed i nervi
Non si congiungan più: tutto consuma
La gran possanza dell’ardente foco,
Come prima le bianche ossa abbandona,285
E vagola per l’aere il nudo spirto.
Ma tu d’uscire alla superna luce
Da questo bujo affretta; e ciò, che udisti,
E porterai nell’anima scolpito,
Penelope da te risappia un giorno.290
Mentre così favellavam, sospinte
Dall’inclita Proserpina le figlie
Degli eroi compariano, e le consorti,
E traean della fossa al margo in folla.
Io, come interrogarle ad una ad una295
Rivolgea meco; e ciò mi parve il meglio.
Stretta la spada, non patia, che tutte
Beessero ad un tempo. Alla sua volta
Così accorrea ciascuna, e l’onorato
Lignaggio, ed i suoi casi, a me narrava.300
Prima s’appresentò l’illustre Tiro,
Che del gran Salmonéo figlia, e consorte
Di Creteo, un de’ figliuoli d’Eolo, sè disse.
Costei d’un fiume nell’amore accesa,
Dell’Enipéo divin, che la più bella305
Sovra i più ameni campi onda rivolve,
Spesso e bagnarsi in quegli argenti entrava.
L’azzurro Nume, che la terra cinge,
Nettuno, in forma di quel Dio, corcossi
Delle sue vorticose acque alla foce;310
E la porporeggiante onda d’intorno
Gli stette, e in arco si piegò, qual monte,
Lui celando, e la giovane, cui tosto
Sciols’ei la zona virginale, e un casto
Sopore infuse. Indi per man la prese,315
E chiamolla per nome, e tai parole
Le feo: Di questo amor, donna, t’allegra.
Compiuto non avrà l’anno il suo giro,
Che diverrai di bei fanciulli madre,
Quando vane giammai degl’Immortali320
Non riescon le nozze. I bei fanciulli
Prendi in cura, e nutrisci. Or vanne, e sappi,
Ma il sappi sola, che tu in me vedesti
Nettuno, il Nume, che la terra scuote.
Disse; e ne’ gorghi suoi l’accolse il mare.325
Ella di Neleo e Pelia, ond’era grave,
S’allevïò. Forti del sommo Giove
Ministri, l’un nell’arenosa Pilo,
Nell’ampia l’altro, e di feconde gregge
Ricca Iaolco, ebbe soggiorno, e scettro.330
Quindi altra prole, Esòn, Ferete, e il chiaro
Domator di cavalli Amitaóne,
Diede a Creteo costei, che delle donne
Reina parve alla sembianza, e agli atti.
Poi d’Asópo la figlia, Antiopa, venne,335
Che dell’amor di Giove andò superba,
E due figli creò, Zeto, e Anfióne.
Tebe costoro dalle sette porte
Primi fondaro, e la munîr di torri:
Chè mal potean la spazïosa Tebe340
Senza torri guardar, benchè gagliardi.
Venne d’Amfitriòn la moglie, Alcmena,
Che al Saturníde l’animoso Alcide,
Cor di leone, partorì. Megara,
Di Creonte magnanimo figliuola,345
E moglie dell’invitto Ercole, venne.
D’Edipo ancor la genitrice io vidi,
La leggiadra Epicasta, che nefanda
Per cecità di mente opra commise,
L’uom disposando da lei nato. Edipo350
La man, con che avea prima il padre ucciso,
Porse alla madre: nè celaro i Dei
Tal misfatto alle genti. Ei per crudele
Voler de’ Numi nell’amena Tebe
Addolorato su i Cadméi regnava.355
Ma la donna, cui vinse il proprio affanno,
L’infame nodo ad un’eccelsa trave
Legato, scese alla magion di Pluto
Dalle porte infrangibili, e tormenti
Lasciò indietro al figliuol, quanti ne danno360
Le ultrici Furie, che una madre invoca.
Vidi colei non men, che ultima nacque
Al Iaside Anfiòn, cui l’arenosa
Pilo negli anni andati, e il Miniéo
Orcomeno ubbidia; l’egregia Clori,365
Che Neleo di lei preso a sè congiunse,
Poscia ch’egli ebbe di dotali doni
La vergine ricolma. Ed ella il feo
Ricco di vaga, e di lui degna prole,
Di Nestore, di Cromio, e dell’eroe370
Pericliméno; e poi di quella Pero,
Che maraviglia fu d’ogni mortale.
Tutti i vicini la chiedean: ma il padre
Sol concedeala a chi le belle vacche
Dalla lunata spazïosa fronte,375
Che appo sè riteneasi il forte Ifícle,
Gli rimenasse, non leggiera impresa,
Dai pascoli di Filaca. L’impresa
Melampo assunse, un indovino illustre:
Se non che a lui s’attraversaro i fati,380
E pastori salvatichi, da cui
Soffrir dovè d’aspre catene il pondo.
Ma non prima, già in sè rivolto l’anno,
I mesi succedettersi, ed i giorni,
E compiêr le stagioni il corso usato,385
Che Ifícle, a cui gli oracoli de’ Numi
Svelati avea l’irreprensibil vate,
I suoi vincoli ruppe; e così al tempo
L’alto di Giove s’adempiea consiglio.
Leda comparve, da cui Tindaro ebbe390
Due figli alteri, Castore, e Polluce,
L’un di cavalli domatore, e l’altro
Pugile invitto. Benchè l’alma terra
Ritengali nel sen, di vita un germe,
Così Giove tra l’Ombre anco gli onora,395
Serbano: ciascun giorno, e alternamente,
Rïapron gli occhi, e chiudonli alla luce,
E glorïosi al par van degli Eterni.
Dopo costei mi si parò davanti
D’Aloéo la consorte, Ifimidéa,400
Cui di dolce d’amor nodo si strinse
Lo Scuotiterra. Ingenerò due figli,
Oto a un Dio pari, e l’inclito Ifïalte,
Che la luce del Sol poco fruiro.
Nè di statura ugual, nè di beltade,405
Altri nodrì la comun madre antica,
Sol che fra tutti d’Orïon si taccia.
Non avean tocco il decim’anno ancora,
Che in largo nove cubiti, e tre volte
Tanto cresciuti erano in lungo i corpi.410
Questi volendo ai sommi Dei su l’etra
Nuova portar sedizïosa guerra,
L’Ossa sovra l’Olimpo, e sovra l’Ossa
L’arborifero Pelio impor tentaro,
Onde il cielo scalar di monte in monte,415
E il fean, se i volti pubertà infiorava:
Ma di Giove il figliuolo, e di Latona
Sterminolli ambo, che del primo pelo
Le guance non ombravano, ed il mento.
Fedra comparve ancor, Procri, ed Arïanna420
Che l’amante Teséo rapì da Creta,
E al suol fecondo della sacra Atene
Condur volea. Vane speranze! In Nasso,
Cui cinge un vasto mar, fu da Diana,
Per l’indizio di Bacco, aggiunta, e morta.425
Nè restò Mera inosservata indietro,
Nè Climene restò, nè l’abborrita
Erifile, che il suo diletto sposo
Per un aureo monil vender poteo.
Ma dove io tutte degli eroi le apparse430
Figlie nomar volessi, e le consorti,
Pria mancheriami la divina Notte.
E a me par tempo da posar la testa
O in nave, o qui, tutta del mio ritorno
Ai Celesti lasciando, e a voi, la cura.435
Tacque. I Feaci per l’oscura sala
Stavansi muti, e nel piacere assorti.
Ruppe il silenzio l’immortal Regina,
La bracciobianca Arete: Feacesi,
Che vi par di costui? del suo sembiante?440
Della maschia persona? e di quel senno,
Che in lui risiede? Ospite è mio, ma tutti
Dell’onor, che io ricevo, a parte siete.
Non congedate in fretta, e senza doni
Chi nulla tien, voi, che di buono in casa445
Per favor degli Dei tanto serbate.
Qui favellò Echenéo, che gli altri tutti
Vincea d’etade: Fuor del segno, amici,
Arete non colpì con la sua voce.
Obbediscasi a lei: se non che prima450
Del Re l’esempio attenderemo, e il detto.
Ciò sarà, ch’ella vuole, Alcinoo disse,
Se vita, e scettro a me lascian gli Dei.
Ma, benchè tanto di partir gli tardi,
L’ospite indugi sino al nuovo Sole,455
Sì ch’io tutti i regali insieme accoglia.
Cura esser dee comun, che lieto ei parta,
E più, che d’altri, mia, s’io qui son primo.
Alcinoo Re, che di grandezza, e fama,
Riprese Ulisse, ogni mortale avanzi,460
Sei mesi ancor mi riteneste, e sei,
E fida scorta intanto, e ricchi doni
M’apparecchiaste, io non dovrei sgradirlo:
Chè quanto io tornerò con man più piene
A’ miei sassi natii, tanto la gente465
Con più onore accorrammi, e con più affetto.
Ed Alcinoo in risposta: Allora, Ulisse,
Che ti adocchiamo, un impostor fallace,
D’alte menzogne inaspettato fabbro,
Scorger non sospettiam, quali benigna470
La terra qua e là molti ne pasce.
Leggiadria di parole i labbri t’orna,
Nè prudenza minor t’alberga in petto.
L’opre de’ Greci, e le tue doglie, quasi
Lo spirto della Musa in te piovesse,475
Ci narrasti così, ch’era un vederle.
Deh siegui, e dimmi, se t’apparve alcuno
Di tanti eroi, che veleggiaro a Troja
Teco, e spenti rimaservi. La Notte
Con lenti passi or per lo ciel cammina,480
E, finchè ci esporrai stupende cose,
Non fia chi del dormir qui si rammenti.
Quando parlar di te sino all’Aurora
Ti consentisse il duol sino all’aurora
Io penderei dalle tue labbra immoto.485
V’ha un tempo, Alcinoo, di racconti, ed havvi,
Ulisse ripigliò, di sonni un tempo.
Che se udir vuoi più avanti, io non ricuso
La sorte di color molto più dura
Rappresentarti, che scampâr dai rischj490
D’una terribil guerra, e nel ritorno,
Colpa d’una rea donna, ohimè! periro.
Poichè le femminili Ombre famose
La casta Proserpína ebbe disperse,
Mesto, e cinto da quei, che fato uguale495
Trovâr d’Egisto negl’infidi alberghi,
Si levò d’Agamennone il fantasma.
Assaggiò appena dell’oscuro sangue,
Che ravvisommi; e dalle tristi ciglia
Versava in copia lagrime, e le mani500
Mi stendea di toccarmi invan bramose;
Chè quel vigor, quella possanza, ch’era
Nelle sue membra ubbidïenti ed atte,
Derelitto l’avea. Lagrime anch’io
Sparsi a vederlo, e intenerii nell’alma,505
E tai voci, nomandolo, gli volsi:
O inclito d’Atréo figlio, o de’ prodi
Re, Agamennóne, qual destin ti vinse,
E i lunghi t’arrecò sonni di Morte?
Nettuno in mar ti domò forse, i fieri510
Spirti eccitando de’ crudeli venti?
O t’offesero in terra uomini ostili,
Che armenti depredavi, e pingui gregge,
O delle patrie mura, e delle caste
Donne a difesa, roteavi il brando?515
Laerziade preclaro, accorto Ulisse,
Ratto rispose dell’Atride l’Ombra,
Me non domò Nettuno all’onde sopra,
Nè m’offesero in terra uomini ostili.
Egisto, ordita con la mia perversa520
Donna una frode, a sè invitommi, e a mensa,
Come alle greppie inconsapevol bue,
L’empio mi trucidò. Così morii
Di morte infelicissima; e non lunge
Gli amici mi cadean, quai per illustri525
Nozze, o banchetto sontuoso, o lauta
A dispendio comun mensa imbandita,
Cadono i verri dalle bianche sanne.
Benchè molti a’ tuoi giorni o in folta pugna
Vedessi estinti, o in singolar certame,530
Non solita pietà tocco t’avrebbe,
Noi mirando, che stesi all’ospitali
Coppe intorno eravam, mentre correa
Purpureo sangue il pavimento tutto.
La dolente io sentii voce pietosa535
Della figlia di Priamo, di Cassandra,
Cui Clitennestra m’uccidea da presso,
La moglie iniqua; ed io, giacendo a terra,
Con moribonda man cercava il brando:
Ma la sfrontata si rivolse altrove,540
Nè gli occhi a me, che già scendea tra l’Ombre,
Chiudere, nè compor degnò le labbra.
No, più rea peste, più crudel non dassi
Di donna, che sì atroci opre commetta,
Come questa infedel, che il danno estremo545
Tramò, cui s’era vergine congiunta.
Lasso! dove io credea, che, ritornando,
Figliuoli, e servi m’accorrian con festa,
Costei, che tutta del peccar sa l’arte,
Sè ricoprì d’infamia, e quante al Mondo550
Verranno, e le più oneste anco, ne asperse.
Oh quanta, io ripigliai, sovra gli Atridi
Le femmine attiraro ira di Giove!
Fu di molti de’ Greci Elena strage,
E a te, cogliendo dell’assenza il tempo,555
Funesta rete Clitennestra tese.
Quindi troppa tu stesso, ei rispondea,
Con la tua donna non usar dolcezza,
Nè il tutto a lei svelar, ma parte narra
De’ tuoi secreti a lei, parte ne taci.560
Benchè a te dalla tua venir disastro
Non debba: chè Penelope, la saggia
Figlia d’Icario, altri consigli ha in core.
Moglie ancor giovinetta, e con un bimbo,
Che dalla mamma le pendea contento,565
Tu la lasciavi, navigando a Troja:
Ed oggi il tuo Telemaco felice
Già s’asside uom tra gli uomini, e il diletto
Padre lui vedrà, un giorno, ed egli al padre
Giusti baci porrà sovra la fronte.570
Ma la consorte mia nè questo almeno
Mi consentì, ch’io satollassi gli occhi
Nel volto del mio figlio, e pria mi spense.
Credi al fine a’ miei detti, e ciò nel fondo
Serba del petto: le native spiagge575
Secretamente afferra, e a tutti ignoto,
Quando fidar più non si puote in donna.
Or ciò mi conta, e schiettamente: udisti,
Dove questo mio figlio i giorni tragga?
In Orcomeno forse? O forse tienlo580
Pilo arenosa, o la capace Sparta
Presso Re Menelao? Certo non venne
Finor sotterra il mio gentil Oreste.
Ed io: Perchè di ciò domandi, Atride,
Me, cui nè conto è pur, se Oreste spira585
Le dolci aure di sopra, o qui soggiorna?
Lode non merta il favellare al vento.
Ulisse incontra Achille nell'Ade
Così parlando alternamente, e il volto
Di lagrime rigando, e il suol di Dite,
Ce ne stavam disconsolati; ed ecco590
Sorger lo spirto del Peliade Achille,
Di Patroclo, d’Antìloco, e d’Ajace,
Che gli Achéi tutti, se il Pelíde togli,
Di corpo superava, e di sembiante.
Mi riconobbe del veloce al corso595
Eacide l’imago; e, lamentando:
O, disse, di Laerte inclita prole,
Qual nuova in mente, sciagurato, volgi
Macchina, che ad ogni altra il pregio scemi?
Come osasti calar ne’ foschi regni,600
Degli estinti magion, che altro non sono,
Che aeree forme, e simulacri ignudi?
Di Peleo, io rispondea, figlio, da cui
Tanto spazio rimase ogni altro Greco,
Tiresia io scesi a interrogar, che l’arte605
Di prender m’insegnasse Itaca alpestre.
Sempre involto ne’ guai, l’Acaica terra
Non vidi ancor, nè il patrio lido attinsi.
Ma di te, forte Achille, uom più beato
Non fu, nè giammai fia. Vivo d’un Nume610
T’onoravamo al pari, ed or tu regni
Sovra i defunti. Puoi tristarti morto?
Non consolarmi della morte, a Ulisse
Replicava il Pelíde. Io pria torrei
Servir bifolco per mercede a cui615
Scarso, e vil cibo difendesse i giorni,
Che del Mondo defunto aver l’impero.
Su via, ciò lascia, e del mio figlio illustre
Parlami in vece. Nelle ardenti pugne
Corre tra i primi avanti? E di Peléo,620
Del mio gran genitor, nulla sapesti?
Sieguon fedeli a reverirlo i molti
Mirmidoni, o nell’Ellada, ed in Ftia
Spregiato vive per la troppa etade,
Che le membra gli agghiaccia? Ahi! che guardarlo625
Sotto i raggi del Sol più non mi lice:
Chè passò il tempo, che la Troica sabbia
D’esanimi io covria corpi famosi,
Proteggendo gli Achéi. S’io con la forza,
Che a que’ giorni era in me, toccar potessi630
Per un istante la paterna soglia,
A chiunque oltraggiarlo, e degli onori
Fraudarlo ardisce, questa invitta mano
Metterebbe nel core alto spavento.
Nulla, io risposi, di Peléo, ma tutto635
Del figliuol posso, e fedelmente, dirti,
Di Neottolemo tuo, che all’oste Achiva
Io stesso sopra cava, e d’uguai fianchi
Munita nave, rimenai da Sciro.
Sempre che ad Ilio tenevam consulte,640
Primo egli a favellar s’alzava in piedi,
Nè mai dal punto deviava: soli
Gareggiavam con lui Nestore, ed io.
Ma dove l’armi si prendean, confuso
Già non restava in fra la turba, e ignoto.645
Precorrea tutti, e di gran lunga, e intere
Le falangi struggea. Quant’ei mandasse,
Propugnacol de’ Greci, anime all’Orco,
Da me non t’aspettare. Abbiti solo,
Che il Telefíde Euripilo trafisse650
Fra i suoi Cetéi, che gli moriano intorno;
Euripilo di Troja ai sacri muri
Per la impromessa man d’una del Rege
Figlia venuto, ed in quell’oste intera,
Dopo il deiforme Mennone, il più bello.655
Che del giorno dirò, che il fior de’ Greci
Nel costrutto da Epéo cavallo salse,
Che in cura ebb’io, poichè a mia voglia solo
Apriasi, o rinchiudeasi, il cavo agguato?
Tergeansi Capi, e Condottier con mano660
Le umide ciglia, e le ginocchia sotto
Tremavano a ciascun; nè bagnare una
Lagrima a lui, nè di pallore un’ombra
Tingere io vidi la leggiadra guancia.
Bensì prieghi porgeami, onde calarsi665
Giù del cavallo, e della lunga spada
Palpeggiava il grand’else, e l’asta grave
Crollava, mali divisando a Troja.
Poi, la cittade incenerita, in nave
Delle spoglie più belle adorno e carco670
Montava, e illeso: quando lunge, o presso,
Di spada, o stral, non fu giammai chi vanto
Del ferito Neottolemo si desse.
Dissi; e d’Achille alle veloci piante
Per li prati d’asfodelo vestiti675
L’alma da me sen giva a lunghi passi,
Lieta, che udì del figliuol suo la lode.
D’altri guerrieri le sembianze tristi
Compariano; e ciascun suoi guai narrava.
Sol dello spento Telamonio Ajace680
Stava in disparte il disdegnoso spirto,
Perchè vinto da me nella contesa
Dell’armi del Pelíde appo le navi.
Teti, la madre veneranda, in mezzo
Le pose, e giudicaro i Teucri, e Palla.685
Oh côlta mai non avess’io tal palma,
Se l’alma terra nel suo vasto grembo
Celar dovea sì glorïosa testa,
Ajace, a cui d’aspetto, e d’opre illustri,
Salvo l’irreprensibile Pelíde,690
Non fu tra i Greci chi agguagliarsi osasse!
Io con blande parole, Ajace, dissi,
Figlio del sommo Telamon, gli sdegni
Per quelle maledette arme concetti
Dunque nè morto spoglierai? Fatali695
Certo reser gli Dei quell’arme ai Greci,
Che in te perdero una sì ferma torre.
Noi per te nulla men, che per Achille,
Dolenti andiam; nè alcun n’è in colpa, il credi:
Ma Giove, che infinito ai bellicosi700
Danai odio porta, la tua morte volle.
Su via, t’accosta, o Re, porgi cortese
L’orecchio alle mie voci, e la soverchia
Forza del generoso animo doma.
Nulla egli a ciò: ma, ritraendo il piede,705
Fra l’altre degli estinti Ombre si mise.
Pur, seguendolo io quivi, una risposta
Forse data ei m’avria; se non che voglia
Altro di rimirar m’ardea nel petto.
Minosse io vidi, del Saturnio il chiaro710
Figliuol, che assiso in trono, e un aureo scettro
Stringendo in man, tenea ragione all’Ombre,
Che tutte, qual seduta, e quale in piedi,
Conto di sè rendeangli entro l’oscura
Di Pluto casa dalle larghe porte.715
Vidi il grande Orïòn, che delle fiere,
Che uccise un dì sovra i boscosi monti,
Or gli spettri seguia de’ prati Inferni
Per l’asfodelo in caccia; e maneggiava
Perpetua mazza d’infrangibil rame.720
Ecco poi Tizio della Terra figlio,
Che sforzar non temè l’alma di Giove
Sposa, Latona, che volgeasi a Pito
Per le ridenti Panopée campagne.
Sul terren distendevasi, e ingombrava725
Quando in dì nove ara di tauri un giogo;
E due avvoltoi, l’un quinci, e l’altro quindi,
Ch’ei con mano scacciar tentava indarno,
Rodeangli il cor, sempre ficcando addentro
Nelle fibre rinate il curvo rostro.730
Stava là presso con acerba pena
Tantalo in piedi entro a un argenteo lago,
La cui bell’onda gli toccava il mento.
Sitibondo mostravasi, e una stilla
Non ne potea gustar: chè quante volte735
Chinava il veglio le bramose labbra,
Tante l’onda fuggia dal fondo assorta,
Sì che appariagli ai piè solo una bruna
Da un Genio avverso inaridita terra.
Piante superbe, il melagrano, il pero,740
E di lucide poma il melo adorno,
E il dolce fico, e la canuta oliva,
Gli piegavan sul capo i carchi rami;
E in quel ch’egli stendea dritto la destra,
Ver le nubi lanciava i rami il vento.745
Sisifo altrove smisurato sasso
Tra l’una, e l’altra man portava, e doglia
Pungealo inenarrabile. Costui
La gran pietra alla cima alta d’un monte,
Urtando con le man, coi piè pontando,750
Spingea: ma giunto in sul ciglion non era,
Che risospinta da un poter supremo
Rotolavasi rapida pel chino
Sino alla valle la pesante massa.
Ei nuovamente di tutta sua forza755
Su la cacciava: dalle membra a gronde
Il sudore colavagli, e perenne
Dal capo gli salia di polve un nembo.
D’Ercole mi s’offerse al fin la possa,
Anzi il fantasma: però ch’ei de’ Numi760
Giocondasi alla mensa, e cara sposa
Gli siede accanto la dal piè leggiadro
Ebe di Giove figlia, e di Giunone,
Che muta il passo coturnata d’oro.
Schiamazzavan gli spirti a lui d’intorno,765
Come volanti augei da subitana
Tema compresi; ed ei fosco, qual notte,
Con l’arco in mano, e con lo stral sul nervo,
Ed in atto ad ognor di chi saetta,
Orrendamente qua e là guatava.770
Ma il petto attraversavagli una larga
D’òr cintura terribile, su cui
Storiate vedeansi opre ammirande,
Orsi, cinghiai feroci, e leon torvi,
E pugne, e stragi, e sanguinose morti:775
Cintura, a cui l’eguale o prima, o dopo,
Non fabbricò, qual che si fosse, il mastro.
Mi sguardò, riconobbemi, e con voce
Lugubre, O, disse, di Laerte figlio,
Ulisse accorto, ed infelice a un’ora,780
Certo un crudo t’opprime avverso fato,
Qual sotto i rai del Sole anch’io sostenni.
Figliuol quantunque dell’Egïoco Giove,
Pur, soggetto vivendo ad uom, che tanto
Valea manco di me, molto io soffersi.785
Fatiche gravi ei m’addossava, e un tratto
Spedimmi a quinci trarre il can trifauce,
Che la prova di tutte a me più dura
Sembravagli; ed io venni, e quinci il cane
Trifauce trassi ripugnante indarno,790
D’Ermete col favore, e di Minerva.
Tacque, e nel più profondo Erebo scese.
Di loco io non moveami, altri aspettando
De’ prodi, che spariro, è omai gran tempo.
E que’ duo forse mi sarien comparsi,795
Ch’io più veder bramava, eroi primieri,
Teseo, e Piritoo, glorïosa prole
Degl’immortali Dei. Ma un infinito
Popol di spirti con frastuono immenso
Si ragunava; e in quella un improvviso800
Timor m’assalse, non l’orribil testa
Della tremenda Gorgone la Diva
Proserpina inviasse a me dall’Orco.
Dunque senza dimora al cavo legno
Mossi, e ai compagni comandai salirlo,805
E liberar le funi; ed i compagni
Ratto il saliano, e s’assidean su i banchi.
Pria l’aleggiar de’ remi il cavo legno
Mandava innanzi d’Oceàn su l’onde:
Poscia quel, che levossi, ottimo vento.
Tiresia
Ulisse incontra Tiresia del pittore svizzero Füssli
TIRESIA
Celebre indovino tebano, figlio di Evere discendente di Udeo, uno degli Sparti, e della ninfa Cariclo. Appare come personaggio di primo piano in molti cicli mitologici greci, spesso associato con la figlia Manto, anch'essa indovina. Sulla sua cecità vi sono due diverse versioni. Secondo alcuni sua madre, una ninfa nelle grazie di Atena, si bagnava con la dea in una sorgente. Un giorno il giovane Tiresia che cacciava nei pressi della sorgente vide Atena nuda. La dea immediatamente gli coprì gli occhi con le mani accecandolo. Per consolare Cariclo disperata per il castigo inflitto al figlio, Atena gli fece dono della profezia e gli donò anche un bastone di corniolo, che lo guidasse al posto degli occhi.
Secondo l'altra versione, Tiresia vide un giorno sul monte Cillene (oppure sul Citerone) due serpenti che si accoppiavano. Con il bastone li colpì uccidendo la femmina e immediatamente fu trasformato in donna. Sette anni dopo, passeggiando nello stesso punto, vide ancora una volta una coppia di serpenti che si accoppiava. Colpì il maschio e riacquistò il sesso primitivo. La sua disavventura lo aveva reso celebre e, un giorno in cui Zeus ed Era discutevano per stabilire se dai rapporti sessuali traesse più piacere la donna oppure l'uomo e, non essendo in grado di definire la questione, consultarono Tiresia, l'unica creatura al mondo in grado di fornire una risposta data la sua esperienza personale. Tiresia, senza esitare, dichiarò che se il piacere amoroso si componeva di dieci parti, la donna ne aveva nove, e l'uomo una sola. Furibonda, Era lo accecò. Zeus non potè rimediare al gesto della sua sposa, ma cercò di ripagare Tiresia facendogli dono dell'infallibile profezia basata sulla sua capacità di comprendere il linguaggio degli uccelli, e gli accordò il privilegio di vivere a lungo (sette generazioni umane, si dice). Tiresia prese dimora in un luogo nei pressi di Tebe dove in compagnia d'un giovane che lo assisteva nei sacrifici, praticava la divinazione.
Tiresia prese parte a molte vicende. Quando Dioniso giunse per la prima volta a Tebe e fu scacciato da Penteo, Tiresia e Cadmo s'unirono ai suoi festeggiamenti. Penteo non volle dare ascolto agli avvertimenti di Tiresia che lo esortava a rispettare il dio e di conseguenza venne fatto a brani da un gruppo di Menadi tra cui si trovava anche sua madre. Fu Tiresia a rivelare a Edipo che era responsabile della morte di suo padre Laio e che aveva sposato sua madre Giocasta. Quando i Sette attaccarono Tebe, Tiresia, consultato da Eteocle, predisse che i Tebani sarebbero stati vittoriosi se un principe di sangue reale si fosse volontariamente offerto in sacrificio ad Ares; allora Meneceo, figlio di Creonte, si gettò dalle mura della città e salvò Tebe.
All'attacco successivo perpetrato dai figli dei Sette, gli Epigoni, Tiresia annunciò la caduta della città e consigliò al re Laodamante, figlio di Eteocle, di fare evacuare la popolazione durante la notte. Tiresia aggiunse che egli era destinato a morire appena Tebe fosse caduta nelle mani degli Argivi. Infatti, all'alba Tiresia si dissetò alla fonte Tilfussa e all'improvviso spirò. Secondo un'altra versione, invece, morì quand'era prigioniero degli Epigoni e veniva trasportato insieme alla figlia Manto a Delfi per essere offerti ad Apollo come preda di guerra. Tiresia fu sepolto alla fonte di Telfusa. Un'altra versione ancora narra che quando Apollo inviò Manto a Colofone nella Ionia, dove essa sposò Racio, re della Caria, e generò Mopso, il celebre indovino, Tiresia l'accompagnò e lì morì e venne sepolto con tutti gli onori da Calcante e dagli altri indovini.
Odisseo venne mandato al confine della terra dalla maga Circe a consultare l'ombra di Tiresia, l'unica che avesse conservato i doni profetici, privilegio donatole da Atena o da Zeus o da Persefone. Tiresia era ancora in grado di fare le sue predizioni e dopo ave bevuto il sangue della pecora uccisa da Odisseo, gli narrò tutto quello che gli sarebbe accaduto durante il viaggio verso Itaca, della sua reggia occupata dai pretendenti di Penelope e, dopo la vittoria sugli intrusi, il resto della sua esistenza.
VIDEO
Eugenio Caruso - 19- 03- 2022
Tratto da