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Omero, Odissea, Ulisse travestito da mendicante racconta a Penelope di aver incontrato Ulisse.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte

ulisse 5

Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio


RIASSUNTO LIBRO XIX

Odisseo e Telemaco ripongono le armi fuori dalla sala con l’aiuto di Atena, che illumina con un prodigio la casa; quindi Telemaco si congeda, mentre Odisseo si scontra con Melanto (l'ancella infedele) che lo vorrebbe cacciare, ma è aspramente rimproverata dalla regina. È giunto il momento dell’incontro fra il forestiero e Penelope: la regina chiede a Odisseo notizie del marito, che crede ancora lontano, poi gli narra la sua triste condizione e l’inganno della tela. Infatti essa aveva promesso ai pretendenti che si sarebbe decisa a sposarsi solo quando avrebbe finito di tessere il lenzuolo funebre per Laerte, ma ogni notte disfaceva la parte che aveva intessuto di giorno, per protrarre il lavoro: scoperta per il tradimento di un’ancella, ora si trova in una situazione molto critica, perché presto sarà costretta a decidere.
Odisseo, interrogato sulla sua identità, le risponde con un lungo discorso ingannevole, nel quale narra di essere cretese e di aver incontrato Odisseo proprio a Creta. Penelope gli chiede allora di descrivergli gli abiti del marito e di nominargli i suoi compagni; le risposte rendono credibili le parole dell’uomo, che le descrive perfettamente un fermaglio dorato che essa stessa aveva dato al marito al momento della partenza. A Penelope, che nonostante queste novità rassicuranti, continua a disperare, il mendico rivela notizie più recenti: sostiene che Odisseo, perduti i suoi compagni, ha vagato a lungo, ma ormai, dopo aver consultato l’oracolo di Dodona, è sulla via del ritorno.
Penelope ringrazia lo straniero e ordina alle ancelle di lavarlo e di preparargli un buon letto, ma egli rifiuta le cure delle giovani donne, dicendo di preferire una vecchia serva. La scelta cade su Euriclea, la nutrice del re. Nel momento in cui si accinge a lavarlo, questa scopre la cicatrice che un cinghiale aveva inferto al suo padrone da giovane. Ospite del nonno materno, Autolico (che aveva scelto il nome per Odisseo quando era appena nato), un giorno, nel corso di una battuta di caccia, il giovane era riuscito a uccidere un cinghiale che l’aveva però ferito a una gamba, proprio là dove Euriclea, che conosce tutta la vicenda, scopre la cicatrice. Emozionata, la donna vorrebbe subito dirlo a Penelope, ma Odisseo glielo proibisce. In seguito, davanti al fuoco continua il colloquio fra l’ospite e la regina che gli rivela l’intenzione di bandire una gara, il cui vincitore sarà suo sposo. Essa inviterà i pretendenti a scoccare una freccia con l’arco di Odisseo, e a far passare questa freccia attraverso gli anelli di dodici scuri piantate per terra in sequenza, una prova di abilità che solo il marito era in grado di superare. Infine si congeda, ordinando alle ancelle di preparare un giaciglio al mendico.

I temi

Tema centrale del canto è il riconoscimento: l’anziana nutrice Euriclea, grazie alla cicatrice di un’antica ferita di caccia del giovane Odisseo, riconosce nel mendico l’eroe ritornato: la vecchia nutrice, depositaria della memoria familiare e garanzia della continuità della casa, nella quale è sempre vissuta, riporta alla luce un momento della giovinezza di Odisseo, e quindi compie il primo passo verso il riconoscimento e la conquista dell’identità, che sarà completata dal particolare del talamo nuziale (libro 23). Il diciannovesimo libro è però caratterizzato anche dalla preparazione della vendetta, la Mnesterophonìa, il fulcro di questa parte dell’opera. L’accumularsi di comportamenti oltraggiosi dei pretendenti, la tristezza di Penelope, i discorsi di Odisseo, che appaiono falsi al lettore (e al pubblico antico) preparano il momento dello svelamento, e quindi la vendetta, in un crescendo di attesa dell’evento.

Il narratore

A mano a mano che la vendetta si avvicina, il narratore esterno introduce alcuni elementi significativi, con una sapiente regia: così accentua la suspense nel dialogo tra Penelope e Odisseo, e prefigura lo scioglimento della vicenda nell’episodio di Euriclea, allentando la tensione sul finire del libro. Tuttavia, Odisseo stesso, continuando a inventare racconti sulla sua identità (come narratore di secondo grado), non rinuncia a presentarsi in prima persona, costruendosi un’identità falsa che deve, ancora una volta, salvarlo nel presente e garantirgli in un futuro ormai imminente uno svelamento pieno e sicuro.

Lo spazio

Le scene sono ambientate nella sala della casa di Odisseo, teatro della trasgressione dei pretendenti e del loro continuo oltraggio al re, che, secondo il poeta, danno in questo modo prova evidente della loro colpevolezza. Implicitamente il luogo è contrapposto, sia alla reggia dei Feaci (dove Odisseo aveva trovato ospitalità e onore, ancor prima di rivelare la sua identità), sia alle residenze di Nestore e di Menelao (nelle quali Telemaco è stato ospitato con generosità). Naturalmente, la trasgressione del rituale dell’ospitalità, che richiama il macabro pasto del Ciclope, e la dissipazione dei beni di Odisseo, sono le colpe concrete dei pretendenti, contro le quali è diritto dell’eroe intervenire.

Il tempo

Il diciannovesimo libro occupa uno spazio temporale molto ridotto, ma dilatato dal racconto: è il terzo giorno, da quando Odisseo è tornato a Itaca, e il primo giorno che trascorre mendicando nella sua stessa casa. Il tempo, nella serata ormai sul finire, è ampliato dalle storie narrate da Odisseo, da Euriclea e da Penelope, che creano una pausa di attesa trepidante per l’epilogo, già prefigurato nella chiusa del libro.

L’ordine della narrazione
Questo libro è nuovamente caratterizzato dal ricordo (analessi): per confermare le sue parole, Odisseo richiama elementi dell’abbigliamento al momento della partenza; quindi Euriclea rievoca l’episodio della ferita del cinghiale legato anche all’imposizione del nome, in occasione della prima caccia del giovane, una sorta di prova di coraggio e di abilità con cui si entra nell’età adulta. Euriclea, testimone del passato, è la prima in grado di leggere in quel passato per illuminare il significato del presente.

I personaggi

Odisseo, ancora una volta, mente per prudenza, anche alla moglie, mostrando una straordinaria capacità di autocontrollo, tenendo a freno il desiderio di svelarsi, con una freddezza che quasi lascia deluso il lettore moderno, ansioso di un lieto fine ormai atteso e preparato da tempo. A lui si affiancano due figure femminili: Penelope ed Euriclea. Entrambe si oppongono alle figure femminili incontrate finora, poiché, al contrario di Calipso, di Circe, di Nausicaa, rappresentano la fedeltà e la continuità della permanenza nella casa: sono il passato di Odisseo che si ricollega al suo presente, e non un tempo fugace, senza futuro. Penelope è tanto simile al marito da potere essere definita “odissiaca”: come il marito, è incredula, prudente, circospetta; è dotata di un’astuzia particolare, che si esplica nel campo d’azione femminile, quello della tessitura. Penelope, che nella sua diffidenza può apparire ostile, è in realtà la versione femminile di Odisseo: come il marito ha molto sofferto e ha imparato a guardarsi dagli entusiasmi, dalla precipitazione e dagli impulsi. Nel primo dialogo con il marito, che non le si è ancora rivelato, attraverso una serie di affermazioni e di domande, si svela la sua indole, soprattutto il suo desiderio di sapere, cui si oppongono le menzogne necessarie di Odisseo. Euriclea rappresenta l’anello più forte del legame col passato: è la nutrice, a cui è affidato il primo riconoscimento “spontaneo”, che gode di un rango domestico importante, poiché sovrintende all’economia della casa e al lavoro delle altre ancelle; grazie alla continuità della sua presenza. Ella ha un legame fortissimo con i suoi componenti: ama teneramente Telemaco e lo stesso Odisseo, che riconosce con un moto spontaneo di profonda felicità. Proprio la reazione di Euriclea, la sua gioia quasi rallentata dal lungo racconto, anima la scena e tiene vivo l’interesse: si comprende che una tappa importante è stata conquistata.

Gli dei
Significativa è in questo libro l’assenza di Atena: nel momento in cui Odisseo si trova di fronte alla moglie e alla nutrice, e riacquista per la prima volta la sua identità, gli dei sono di nuovo sullo sfondo. Si tratta di una conquista tutta umana e individuale; l’aiuto di Atena sarà di nuovo utile in seguito, quando Odisseo dovrà affrontare, con il figlio e pochi fedeli servi, tutti i Proci.

telemaco 5

Atena, nelle sembianze della sorella di Penelope, Iftime, annuncia il ritorno di Telemaco a Penelope


TESTO LIBRO XIX

Nell’ampia sala rimanea l’eroe,
Strage con Palla macchinando ai Proci.
Subito al figlio si converse, e disse:
Telemaco, levar di questi luoghi
L’armi conviene, e trasportarle in alto.5
Se le bell’armi chiederanno i Proci,
Con parolette a lusingarli volto,
Io, lor dirai, dal fumo atro le tolsi,
Perchè non eran più, quali lasciolle
Ulisse il giorno, che per Troja sciolse;10
Ma deturpate, scolorate, ovunque
Il bruno le toccò vapor del foco.
Sovra tutto io temei, nè senza un Nume
Destossi in me questo timor, non forse
Dopo molto votar di dolci tazze15
Tra voi sorgesse un’improvvisa lite,
E l’un l’altro ferisse, ed il convito
Contaminaste, e gli sponsali. Grande
Allettamento è all’uom lo stesso ferro.
     Telemaco seguì del suo diletto20
Padre il comando, e alla nutrice, cui
Tosto a sè dimandò, Mamma, dicea,
Su via, ritieni nelle stanze loro
Le femmine rinchiuse, in sin ch’io l’armi,
Che qui nella mia infanzia, e nell’assenza25
Del padre, mi guastò neglette il fumo,
Trasporti in alto. Collocarle io voglio,
Dove del foco non le attinga il vampo.
     Ed Euricléa, Figlio, rispose, in petto
Deh ti s’annidi al fin senno cotanto,30
Che regger possa la tua casa, e intatti
Serbar gli averi tuoi! Ma chi la strada
Ti schiarerà? Quando non vuoi, che innanzi
Con le fiaccole in man vadan le ancelle.
     Il forestier, Telemaco riprese.35
Chi si nutre del mio, benchè venuto
Di lunge, io mai non patirollo inerte.
Tanto bastò a colei, perchè ogni porta
Del ben construtto ginecéo fermasse.
     Ulisse incontanente, e il caro figlio40
Correano ad allogar gli elmi chiomati,
Gli umbilicati scudi, e l’aste acute;
E avanti ad ambo l’Atenéa Minerva,
Tenendo in mano una lucerna d’oro,
Chiarissimo spargea lume d’intorno.45
E Telemaco al padre: O padre, quale
Portento! Le pareti, ed i bei palchi,
E le travi d’abete, e le sublimi
Colonne a me rifolgorare io veggio.
Scese, io credo, qua dentro alcun de’ Numi.50
     Taci, rispose Ulisse: i tuoi pensieri
Rinserra in te, nè cercare oltre. Usanza
Degli abitanti dell’Olimpo è questa.
Or tu vanne a corcarti: io qui rimango,
Le ancelle a spiar meglio, e della saggia55
Madre le inchieste a provocar, che molte
Certo, ed al pianto miste, udire avviso.
     Disse; e il figliuolo indi spiccossi, e al vivo
Delle faci splendor nella remota
Cella si ritirò de’ suoi riposi,60
L’Aurora ad aspettar: ma nella sala,
Strage con Palla agli orgogliosi Proci
Architettando, rimanea l’eroe.
     La prudente Reina intanto uscia
Pari a Diana, e all’aurea Vener pari,65
Della stanza secreta. Al foco appresso
L’usato seggio di gran pelle steso,
E cui d’Icmalio l’ingegnosa mano
Tutto d’avorj, e argenti avea commesso,
Le collocaro: sostenea le piante70
Un polito sgabello. In questa sede
La madre di Telemaco posava.
Venner le ancelle dalle bianche braccia
A tor via dalle mense il pan rimasto,
E i vôti nappi, onde bevean gli amanti.75
Poi dai bracieri il mezzospento foco
Scossero a terra, e nuove legna, e molte,
Sopra vi accatastâr, perchè schiarata
La sala fosse, e riscaldata a un tempo.
Melanto allor per la seconda volta80
Ulisse rampognava: Ospite, adunque
La notte ancor t’avvolgerai molesto
Per questa casa, e adocchierai le donne?
Fuori, sciagurato, esci, e del convito,
Che ingojasti, t’appaga; o ver, percosso85
Da questo tizzo, salterai la soglia.
     Con torvo sguardo le rispose Ulisse:
Malvagia, perchè a me guerra sì atroce?
Perchè la faccia mia forse non lustra?
Perch’io mal vesto, e, dal bisogno astretto,90
Qual tapino uomo, e vïandante, accatto?
Felice un giorno anch’io splendidi ostelli
Tra le genti abitava, e ad un ramingo,
Qual fosse, o in quale stato a me s’offrisse,
Del mio largia: molti avea servi, e nulla95
Di ciò mi venia meno, ond’è chiamato
Ricco, e beata l’uom vita conduce.
Ma Giove, il figlio di Saturno, e nota
La cagione n’è a lui, disfar mi volle.
Guarda però, non tutta un giorno cada,100
Donna, dal viso tuo quella beltade,
Di cui fra l’altre ancelle or vai superba:
Guarda, non monti in ira, e ti punisca
La tua padrona; o non ritorni Ulisse,
Come speme ne’ petti ancor ne vive.105
E s’ei perì, tal per favor d’Apollo
Fuor venne il figlio dell’acerba etade,
Che femmina, di cui sien turpi i fatti,
Mal potria nel palagio a lui celarsi.
     Udì tutto Penelope, e l’ancella110
Sgridò repente: O temerario petto,
Cagna sfacciata, io pur nelle tue colpe,
Che in testa ricadrannoti, ti colgo.
Sapevi ben, poichè da me l’udisti,
Ch’io lo straniero interrogar volea,115
Un conforto cercando in tanta doglia.
     Dopo questo, ad Eurinome si volse
Con tali accenti: Eurinome, uno scanno
Reca, e una pelle, ove, sedendo, m’oda
L’ospite favellargli, e mi risponda.120
     Disse; e la dispensiera un liscio scanno
Recò in fretta, e giù pose, e d’una densa
Pelle il coprì. Vi s’adagiava il molto
Dai casi afflitto, e non mai domo, Ulisse,
Cui Penelope a dir così prendea:125
Ospite, io questo chiederotti in prima.
Chi? di che loco? e di che stirpe sei?
     E Ulisse, che più là d’ogni uomo seppe:
Donna, esser può giammai pel Mondo tutto
Chi la lingua snodare osi in tuo biasmo?130
La gloria tua sino alle stelle sale,
Qual di Re sommo, che sembiante a un Nume,
E su molti imperando uomini, e forti,
Sostiene il dritto: la ferace terra
Di folti gli biondeggia orzi, e frumenti,135
Gli arbor di frutti aggravansi, robuste
Figlian le pecorelle, il mar dà pesci
Sotto il prudente reggimento, e giorni
L’intera nazïon mena felici.
Ma pria, che della patria, e del lignaggio,140
Di tutt’altro mi chiedi, acciò non cresca
Di tai memorie il dolor mio più ancora.
Un infelice io son, nè mi conviene
Seder, piagnendo, nella tua magione:
Chè i suoi confini ha il pianto, e ai luoghi vuolsi145
Mirare, e ai tempi. Se non tu, sdegnarsi
Ben potria contro a me delle serventi
Tue donne alcuna, e dire ancor, che quello,
Che fuor m’esce degli occhi, è il molto vino.
     E la saggia Penelope a rincontro:150
Ospite, a me virtù, sembianza, tutto
Rapito fu dagl’Immortali, quando
Co’ Greci ad Ilio navigava Ulisse.
S’ei, rientrando negli alberghi aviti,
A reggere il mio stato ancor togliesse,155
Ciò mia gloria sarebbe, e beltà mia.
Or le cure m’opprimono, che molte
Mandaro a me gli abitator d’Olimpo.
Quanti ha Dulichio, e Same, e la selvosa
Zacinto, e la serena Itaca Prenci,160
Mi ambiscon ripugnante; e sottosopra
Volgon così la reggia mia, che poco
Agli ospiti omai fommi, e ai supplicanti
Veder, nè troppo degli araldi io curo.
Io mi consumo, sospirando Ulisse.165
Quei m’affrettano intanto all’abborrito
Passo, ed io contra lor d’inganni m’armo.
Pria grande a oprar tela sottile, immensa,
Nelle mie stanze, come un Dio spirommi,
Mi diedi, e ai Proci incontanente io dissi:170
Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,
Quando già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie nozze indugiar, ch’io questo possa
Lugubre ammanto per l’eroe Laerte,
Acciocchè a me non pera il vano stame,175
Prima fornir, che l’inclemente Parca
Di lunghi sonni apportatrice il colga.
Non vo’, che alcuna delle Achée mi morda,
Se ad uom, che tanto avea d’arredi vivo,
Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto.180
A questi detti s’acchetaro. Intanto
Io, finchè il dì splendea, l’insigne tela
Tesseva, e poi la distessea la notte,
Di mute faci alla propizia fiamma.
Un triennio così l’accorgimento185
Sfuggíi degli Achei tutti, e fede ottenni.
Ma, giuntomi il quarto anno, e le stagioni
Tornate in sè con lo scader de’ mesi,
E de’ celeri dì compiuto il giro,
Côlta dai Proci, per viltà di donne190
Nulla di me curanti, alla sprovvista,
E gravemente improverata, il drappo
Condurre al termin suo dovei per forza.
Ora io nè declinar le odiate nozze
So, nè trovare altro compenso. A quelle195
M’esortano i parenti, e non comporta,
Che la sua casa gli si strugga, il figlio,
Che ormai tutto conosce, e al suo retaggio
Intender può, qual cui dà gloria Giove.
Ad ogni modo la tua patria dimmi,200
Dimmi la stirpe: d’una pietra certo
Tu non uscisti, o d’una quercia, come
Suona d’altri nel Mondo antica fama.
     O veneranda, le rispose Ulisse,
Donna del Laerziade, il mio lignaggio205
Saper vuoi dunque? Io te l’insegno. È vero,
Che augumento ne avran gli affanni miei,
Natural senso di chïunque visse
Misero pellegrin molt’anni e molti
Dalla patria lontan: ma tu non cessi210
D’interrogarmi, e satisfarti io voglio.
Bella, e feconda sovra il negro mare
Giace una terra, che s’appella Creta,
Dalle salse onde d’ogni parte attinta.
Gli abitanti v’abbondano, e novanta215
Contien cittadi, e la favella è mista:
Poichè vi son gli Achei, sonvi i natíi
Magnanimi Cretesi, ed i Cidonj,
E i Dorj in tre divisi, e i buon Pelasgi.
Gnosso vi sorge, città vasta, in cui220
Quel Minosse regnò, che del Tonante
Ogni nono anno era agli arcani ammesso.
Ei generò Deucalïone, ond’io,
Cui nascendo d’Etòn fu posto il nome,
Nacqui, e nacque il mio frate Idomenéo225
Di popoli pastor, che di virtute
Primo, non che d’età, co’ degni Atridi
Ad Ilio andò su le rostrate navi.
Là vidi Ulisse, ed ospitali doni
Gli feci. A Creta spinto avealo un forte230
Vento, che, mentr’ei pur ver la superba
Troja tendea, dalle Malée lo svolse,
E il fermò nell’Amniso, ove lo speco
D’Ilitía s’apre in disastrosa piaggia,
Sì che scampò dalle burrasche appena.235
Entrato alla città, d’Idomenéo,
Che venerando, e caro egli chiamava
Ospite suo, cercò: se non che il giorno
Correa decimo, o undecimo, che a Troja
Passato il mio fratello era sul mare.240
Ma io l’addussi nel palagio, a cui
Nulla d’agi mancava, e dove io stesso
Quell’onor gli rendei, ch’io seppi meglio.
E fu per opra mia, che la cittade
Bianco pan, dolce vino, e buoi da mazza,245
I suoi compagni a rallegrar, gli diede.
Dodici dì nell’isola restaro,
Perchè levato da un avverso Nume
Imperversava un Aquilon sì fiero,
Che a stento si reggea l’uomo su i piedi.250
Quello il dì terzodecimo al fin cadde;
E solcavan gli Achei l’onde tranquille.
     Così fingea, menzogne molte al vero
Símili proferendo: ella, in udirle,
Pianto versava, e distruggeasi tutta.255
E come neve, che su gli alti monti
Sùbito vento d’Occidente sparse,
Sciogliesi d’Euro all’improvviso fiato,
Sì che gonfiati al mar corrono i fiumi:
Tal si stemprava in lagrime, piangendo260
L’uom suo diletto, che sedeale al fianco.
Della consorte lagrimosa Ulisse
Pietà nell’alma risentia: ma gli occhi
Stavangli, quasi corno, o ferro fosse,
Nelle palpebre immoti, e gli stagnava265
Nel petto ad arte il ritenuto pianto.
     Ella, poichè di lagrime fu sazia,
Così ripigliò i detti: Ospite, io voglio
Far prova ora di te, se, qual racconti,
Ulisse, e i suoi, tu ricettasti in Creta.270
Dimmi: quai panni rivestianlo? e quale
Di lui, de’ suoi compagni era l’aspetto?
     Rispose il ricco di consigli Ulisse:
Vigesim’anno è omai, ch’egli da Creta
Si drizzò a Troja, e il favellare, o donna,275
Di sì antica stagion duro mi sembra.
Io tutta volta ubbidirò, per quanto
Potrà sovra di sè tornar la mente.
Un folto Ulisse avea manto velloso
Di porpora, cui doppio unia sul petto280
Fermaglio d’oro, e nel dinanzi ornava
Mirabile ricamo: un can da caccia
Tenea co’ piedi anterïori stretto
Vajo cerbiatto, e con aperta bocca
Sovra lui, che tremavane, pendea;285
E stupia il Mondo a rimirarli in oro
Effigïati ambo così, che l’uno
Soffoca l’altro, e già l’addenta, e l’altro
Fuggir si sforza, e palpita ne’ piedi.
In dosso ancora io gli osservai sì molle290
Tunica, e fina sì, qual di cipolla
Vidi talor l’inaridita spoglia,
E splendea, come il Sol; tal che di molte
Donne, che l’addocchiâr, fu maraviglia.
Ma io non so, se in Itaca gli stessi295
Vestiti usasse, o alcun di quei, che seco
Partiro su la nave, o in lor magioni
Viaggiante l’accolsero, donati
Gli avesse a lui: chè ben voluto egli era,
E pochi l’agguagliaro in Grecia eroi.300
So, che una spada del più fino rame,
E un bel manto purpureo, e una talare
Vesta in dono io gli porsi, e all’impalcata
Nave il guidai di riverenza in segno.
Araldo, che d’età poco il vincea,305
L’accompagnava: alto di spalle, e grosso,
Dov’io rappresentarlo a te dovessi,
Nero la cute, ed i capelli crespo,
E chiamavasi Euribate. Fra tutti
I suoi compagni l’apprezzava Ulisse,310
Come più di pensieri a sè conforme.
     A queste voci maggior voglia in lei
Surse di pianto, conosciuti i segni,
Che sì chiari e distinti esporsi udiva.
Fermato il lagrimare, Ospite, disse,315
Di pietà mi sembrasti, e d’ora innanzi
Di grazia mi parrai degno, e d’onore.
Io stessa gli recai dalla secreta
Stanza piegate le da te descritte
Vesti leggiadre, io nel purpureo manto320
La sfavillante d’òr fibbia gli affissi.
Or nè vederlo più, nè accorlo in questa
Sua dolce terra sperar posso. Ahi crudo
Destin ben fu, che alla malvagia Troja,
Nome abborrito, su per l’onda il trasse!325
     D’Ulisse, egli riprese, inclita donna,
Al bel corpo, che struggi, omai perdona,
Nè più volerti macerar nell’alma,
L’uom tuo piangendo. Non già ch’io ten biasmi:
Chè ognuna spento quell’uom piange, a cui330
Vergine si congiunse, e diede infanti,
Benchè diverso nel valor da Ulisse,
Che agli Dei somigliar canta la fama.
Ma resta dalle lagrime, e l’orecchio
Porgi al mio dir, che sarà vero, e intégro.335
Io de’ Tesproti tra la ricca gente,
Ch’ei vive, intesi, e già ritorna, e molti
Tesor, che qua e là raccolse, adduce.
È ver, che perdè il legno, e i suoi compagni,
Della Trinacria abbandonando i lidi,340
Per la giusta di Giove ira, e del Sole,
Di cui morto que’ folli avean l’armento.
Il mar, che tutti gl’inghiottì, sospinse
Lui su gli avanzi della nave infranta
Al caro degli Dei popol Feace.345
Costor di cuore il riverian, qual Nume,
Colmavanlo di doni, e in patria salvo
Ricondurre il volean: se non che nuove
Terre veder pellegrinando, e molti
Tesori radunar, più saggio avviso350
Parve all’eroe d’accorgimenti mastro,
E cui non v’ha chi di saver non ceda.
Così a me de’ Tesproti il re Fidóne
Disse, e giurava, in sua magion libando,
Che varata la barca era, e parati355
Color, che deon ripatriarlo. Quindi
Mi congedò: chè per Dulichio a sorte
Le vele alzava una Tesprozia nave.
Ma ei mostrommi in pria, quanto avea Ulisse
Raccolto errando, e che una casa intera360
Per dieci etadi a sostener bastava.
Poi soggiungeami, che a Dodona ir volle,
Giove per consultare, e udir dall’alta
Quercia indovina, se ridursi ai dolci
Campi d’Itaca sua dopo sì lunga365

Salvo è dunque, e vicin: nè dagli amici
Disgiunto, e schiuso dalle avite mura
Gran tempo rimarrà. Vuoi tu, ch’io giuri?
Prima il Saturnio in testimonio io chiamo,370
Sommo tra i Numi, ed ottimo, e d’Ulisse
Poscia il sacrato focolar, cui venni:
Tutto, qual dico, seguir dee. Quest’anno,
L’uno uscendo de’ mesi, o entrando l’altro,
Varcherà Ulisse le paterne soglie.375

euriclea

Euriclea riconosce Ulisse dalla sua vecchia ferita. Ulisse la fa tecere.


     Oh s’avveri! Penelope rispose.
Tai dell’affetto mio pegni tu avresti,
Che quale, o forestiero, in te con gli occhi
Desse, diria: Vedi mortal beato!
Ma altro io penso, e quel, ch’io penso, fia:380
Nè riederà il consorte, nè tu scorta
Impetrerai: chè non v’ha più un Ulisse
Qui, se pur v’era un giorno, e non fu sogno,
Un Ulisse non v’ha, che i venerandi
Ospiti accor nel suo real palagio385
Sappia, ed accommiatarli. Or voi, mie donne,
Lavate i piedi allo straniero, e un denso
Di coltri, e vesti, e splendidi mantelli
Letto gli apparecchiate, ov’ei corcato
Tutta notte si scaldi in sino all’Alba.390
L’Alba comparsa in Orïente appena,
Voi tergetelo, e ungetelo; ed ei mangi
Seduto in casa col mio figlio, e guai
De’ servi a quel, che ingiurïarlo ardisse!
Ufficio più non gli sarà commesso,395
Per cruccio, ch’ei mostrassene. Deh come
Sapresti, o forestier, ch’io l’altre donne
Vinco, se vinco, di bontate, e senno,
Mentre di cenci, e di squallor coverto
Pasteggiar ti lasciassi entro l’albergo?400
Cose brevi son gli uomini. Chi nacque
Con alma dura, e duri sensi nutre,
Le sventure a lui vivo il Mondo prega,
E il maledice morto. Ma se alcuno
Ciò, che v’ha di più bello, ama, ed in alto405
Poggia con l’intelletto, in ogni dove
Gli ospiti portan la sua gloria, e vola
Eterno il nome suo di bocca in bocca.
     Saggia del figlio di Laerte donna,
Ripigliò Ulisse, le vellose vesti410
Cadeanmi in odio, ed i superbi manti,
Da quel dì, che su nave a lunghi remi
Lasciai di Creta i nevicosi monti.
Io giacerò, qual pur solea, passando
Le intere notti insonne. Oh quante notti415
Giacqui in sordido letto, e dell’Aurora
Mal corcato affrettai la sacra luce!
Nè a me de’ piedi la lavanda piace:
Nè delle donne, che ne’ tuoi servigi
Spendonsi, alcuna toccherà il mio piede,420
Se non è qualche annosa, e onesta vecchia,
Che al par di me sofferto abbia a’ suoi giorni.
A questa il piè non disdirei toccarmi.
     E l’egregia Penelope di nuovo:
Ospite caro, pellegrin di senno425
Non capitò qua mai, che di te al core
Mi s’accostasse più, di te, che in modo
Leggiadro esprimi ogni prudente senso.
Una vecchia ho molto avvisata e scorta,
Che nelle braccia sue quell’infelice430
Raccolse uscito del materno grembo,
E buon latte gli dava, ed il crescea.
Ella, benchè di vita un soffio in lei
Rimanga sol, ti laverà le piante.
Via, fedele Euricléa, sorgi, e a chi d’anni435
Pareggia il tuo signor, le piante lava.
Tal ne’ piedi vederlo, e nelle mani
Parmi in qualche da noi lontana parte:
Chè ratto l’uom tra le sciagure invecchia.
     Euricléa con le man coperse il volto,440
E versò calde lagrime, e dolenti
Parole articolò: Me sventurata,
Figlio, per amor tuo! Più, che altri al Mondo,
Te, che nol merti, odia il Saturnio padre.
Tanti non gli arse alcun floridi lombi,445
Tante ecatombe non gli offerse, come
Tu, di giunger pregandolo a tranquilla
Vecchiezza, e un prode allevar figlio, ed ecco
Che del ritorno il dì Giove ti spense.
O buon vegliardo, allor che a un alto albergo450
D’alcun signor lontano ei pellegrino
S’appresserà, l’insulteran le donne,
Qual te insultaro tutte queste serpi,
Da cui, l’onte schivandone, e gli oltraggi,
Venir tocco ricusi; ed a me quindi455
La figlia saggia del possente Icario
Tal ministero impon, che non mi grava.
Io dunque il compierò, sì per amore
Della Reina, e sì per tuo: chè forte
Commossa dentro il sen l’alma io mi sento.460
Ma tu ricevi un de’ miei detti ancora:
Fra molti grami forestier, che a questa
Magion s’avvicinaro, un sol, che Ulisse
Nella voce, ne’ piedi, in tutto il corpo,
Somigliasse cotanto, io mai nol vidi.465
     Vecchia, rispose lo scaltrito eroe,
Così chiunque ambo ci scorse, afferma:
Correr tra Ulisse, e me, qual tu ben dici,
Somiglianza cotal, che l’un par l’altro.
     L’ottima vecchia una lucente conca470
Prese, e molta fredd’acqua entro versovvi,
E su vi sparse la bollente. Ulisse,
Che al focolar sedea, ver l’ombra tutto
Si girò per timor, non Euricléa
Scorgesse, brancicandolo, l’antica475
Margine ch’ei portava in su la coscia,
E alla sua fraude si togliesse il velo.
Euricléa nondimen, che già da presso
Fatta gli s’era, ed il suo Re lavava,
Il segno ravvisò della ferita480
Dal bianco dente d’un cinghiale impressa
Sul monte di Parnaso; e ciò fu, quando
Della sua madre al genitor famoso
Garzone andò, ad Autolico, che tutti
Del rapir vinse, e del giurar nell’arti,485
Per favor di Mercurio, a cui sì grate
Cosce d’agnelli ardeva, e di capretti,
Che ogni suo passo accompagnava il Nume.
     Autolico un dì venne all’Itacese
Popolo in mezzo, e alla città, che nato490
Era di poco alla sua figlia un figlio.
Questo Euricléa su le ginocchia all’avo
Dopo il convito pose, e feo tai detti:
Antiloco, tu stesso il nome or trova
Da imporre in fronte al grazïoso parto,495
Per cui stancasti co’ tuoi voti i Numi.
E prontamente Autolico in risposta:
Genero, e figlia mia, quel gl’imporrete
Nome, ch’io vi dirò. D’uomini, e donne
Su l’altrice di molti immensa terra500
Spavento io fui: dunque si chiami Ulisse.
Io poi, se, di bambin fatto garzone,
Nel superbo verrà materno albergo
Sovra il Parnaso, ove ho le mie ricchezze,
Doni gli porgerò, per cui più lieto505
Discenderà da me, che a me non salse.
A ricevere Ulisse andò tai doni,
E Autolico l’accolse, ed i suoi figli,
Con amiche parole, e aperte braccia;
E l’avola Anfitéa, strettolo al petto,510
Il capo, ed ambi gli baciò i begli occhi.
Ai figli il padre comandò, nè indarno,
La mensa: un bue di cinque anni menaro,
Lo scojâr, l’acconciâr, tutto il partiro;
E i brani, che ne fur con arte fatti,515
Negli schidoni infissero, e ugualmente
Li dispensâr, domi che gli ebbe il foco.
Così tutto quel dì d’ugual per tutti
Prandio godean sino all’Occaso. Il Sole
Caduto, e apparsa della notte l’ombra,520
La dolcezza provâr, cui reca il sonno.
Ma come figlia del mattin l’Aurora
Si mostrò in ciel ditirosata, e bella,
I figliuoli d’Autolico, ed Ulisse
Con molti cani a una gran caccia usciro.525
La vestita di boschi alta montagna
Salgono, e in breve tra i ventosi gioghi
Veggonsi di Parnaso. Il Sol recente,
Dalle placide sorto acque profonde
Dell’Oceàn, su i rugiadosi campi530
Saettava i suoi raggi, e i cacciatori
Scendeano in una valle: innanzi i cani
Ivan, fiutando le salvatic’orme,
E co’ figli d’Autolico, pallando
Una lancia, che lunga ombra gittava,535
Tra i cani, e i cacciatori andava Ulisse.
Smisurato cinghiale in così folta
Macchia giacea, che nè di venti acquosi
Forza, nè raggio mai d’acuto Sole
La percoteva, nè le piogge affatto540
V’entravano: copria di secche foglie
Gran dovizia la terra. Il cinghial fiero,
Che al calpestio, che gli sonava intorno,
Appressare ognor più sentia la caccia,
Sbucò del suo ricetto, e orribilmente545
Rizzando i peli della sua cervice,
E con pregni di foco occhi guatando,
Stette di contra. Ulisse il primo, l’asta
Tenendo sopramano, impeto fece
In lui, ch’ei d’impiagare ardea di voglia:550
Ma la fera prevennelo, ed il colse
Sovra il ginocchio con un colpo obliquo
Della gran sanna, e ne rapì assai carne;
Nè però della coscia all’osso aggiunse.
Ferilla Ulisse allor nell’omer destro,555
Dove il colpo assestò: scese profonda
L’aguzza punta della fulgid’asta;
E il mostro su la polvere cadè,
Mettendo un grido, e ne volò via l’alma.
Ma d’Autolico i figli a Ulisse tutti560
Travagliavansi intorno: acconciamente
Fasciâr la piaga, e con possente incanto
Il sangue ne arrestaro, e dell’amato
Padre all’albergo il trasportaro in fretta.
Sanato appieno, e di bei doni carco,565
Contenti alla cara Itaca contento
Lo rimandaro. Il padre suo Laerte,
E la madre Anticléa, gioían pur troppo
Del suo ritorno, e il richiedean di tutto,
E più della ferita; ed ei narrava,570
Come, invitato a una silvestre guerra
Da’ figliuoli dell’avo, il bianco dente
Piagollo d’un cinghial sovra il Parnaso.
     Tal cicatrice l’amorosa vecchia
Conobbe, brancicandola, ed il piede575
Lasciò andar giù: la gamba nella conca
Cadde, ne rimbombò il concavo rame,
E piegò tutto da una banda, e in terra
L’acqua si sparse. Gaudio a un’ora, e duolo
La prese, e gli occhi le s’empiêr di pianto,580
E in uscir le tornò la voce indietro.
Proruppe al fin, prendendolo pel mento:
Caro figlio, tu sei per certo Ulisse,
Nè io, nè io ti ravvisai, che tutto
Pria non avessi il mio signor tastato.585
     Tacque; e guardò Penelope, volendo
Mostrar, che l’amor suo lungi non era.
Ma la Reina nè veder di contra
Poteo, nè mente por: chè Palla il core
Le torse altrove. Ulisse intanto strinse590
Con la man destra ad Euricléa la gola,
E a sè tirolla con la manca, e disse:
Nutrice, vuoi tu perdermi? Tu stessa,
Sì, mi tenesti alla tua poppa un giorno,
E nell’anno ventesimo, sofferte595
Pene infinite, alla mia patria io venni.
Ma, poichè mi scopristi, e un Dio sì volle,
Taci, e di me qui dentro altri non sappia:
Però ch’io giuro, e non invan, che s’io
Con l’ajuto de’ Numi i Proci spegno,600
Nè da te pur, benchè mia balia, il braccio,
Che l’altre donne ucciderà, ritengo.
     Figlio, qual mai dal core osò parola
Salirti in su le labbra? ella riprese.
Non mi conosci tu nel petto un’alma605
Ferma, ed inespugnabile? Il segreto
Io serberò, qual dura selce, o bronzo.
Ciò senti ancora, e tel rammenta: dove
Spengan gli Dei per la tua mano i Proci,
Delle donne in palagio ad una ad una610
Qual t’ingiuria, io dirotti, e qual t’onora.
     Nutrice, del tuo indizio uopo non havvi,
Ripigliò Ulisse. Io per me stesso tutte
Le osserverò, conoscerolle: solo
Tu a tacer pensa, e lascia il resto ai Numi.615
     La vecchia tosto per nuov’acqua uscío,
Sparsa tutta la prima. Asterso ch’ebbe
Ulisse, ed unto, ei nuovamente al foco,
Calde aure a trarne, s’accostò col seggio,
E co’ panni la margine coverse.620
E Penelope allor: Brevi parole,
Ospite, ancora. Già de’ dolci sonni
Il tempo è giunto per color, cui lieve
Doglia consente il ricettarli in petto:
Ma doglia a me non lieve i Numi diero.625
Finchè riluce il dì, solo ne’ pianti
Piacere io trovo, e ne’ sospiri, mentre
Guardo ai lavori dell’ancelle, e a’ miei.
La notte poi, quando ciascun s’addorme,
Che val corcarmi, se le molte cure630
Crudele intorno al cor muovonmi guerra?
Come allor che di Pandaro la figlia
Ne’ giorni primi del rosato aprile,
La fioriscente Filomela, assisa
Degli arbor suoi tra le più dense fronde,635
Canta soavemente, e in cento spezza
Suoni diversi la instancabil voce,
Iti, che a Zeto partorì, piangendo,
Iti caro, che poi barbara uccise
Per insania, onde più sè non conobbe:640
Non altrimenti io piango, e l’alma incerta
In questa or piega, ed ora in quella parte,
S’io stia col figlio, e intégro serbi il tutto,
Le sostanze, le serve, e gli alti tetti,
Del mio consorte rispettando il letto,645
E del popol le voci; o quello io siegua
Degli Achei tra i miglior, che alle mie nozze,
Doni infiniti presentando, aspira.
Sino a tanto che il figlio era di senno,
Come d’età, fanciullo ancor, lasciata650
Questa io mai non avrei per altra casa:
Ma or, ch’ei crebbe, e della pubertade
Già la soglia toccò, men priega ei stesso,
Non potendo mirar lo strazio indegno,
Che di lui fan gli Achivi. Or tu, su via,655
Spiegami un sogno, ch’io narrarti intendo.
Venti nella mia corte oche nutrisco,
E di qualche diletto emmi il vederle
Coglier da limpid’acqua il biondo grano.
Mentr’io le osservo, ecco dall’alto monte660
Grande aquila calar curvorostrata,
Frangere a tutte la cervice, tutte
L’una su l’altra riversarle spente.
E risalir ver l’etere divino.
Io mettea lai, benchè nel sogno, e strida,665
E le nobili Achee dal crin ricciuto
Veniano a me, che miserabilmente
L’oche plorava dall’aguglia morte,
E a me intorno affollavansi. Ma quella,
Rivolando dal ciel, su lo sporgente670
Tetto sedeasi, e con umana voce,
Ti raccheta, diceami, e spera, o figlia
Del glorïoso Icario: un vano sogno
Questo non è, ma visïon verace
Di ciò, che seguirà. Nell’oche i Proci675
Ravvisa, e in queste d’aquila sembianze
Il tuo consorte, che al fin venne, e tutti
Stenderà nel lor sangue a terra i Proci.
Tacquesi; e il sonno abbandonommi, ed io,
Gittando gli occhi per la corte, vidi680
Le oche mie, che nel truogolo, qual prima,
I graditi frumenti ivan beccando.
     Donna, rispose di Laerte il figlio,
Altramente da quel, che Ulisse feo,
Non lice il sonno interpretar: l’eccidio685
Di tutti i Proci manifesto appare.
     E la saggia Penelope: Non tutti,
Ospite, i sogni investigar si ponno.
Scuro parlano, e ambiguo, e non risponde
L’effetto sempre. Degli aerei sogni690
Son due le porte, una di corno, e l’altra
D’avorio. Dall’avorio escono i falsi,
E fantasmi con sè fallaci e vani
Portano: i veri dal polito corno,
E questi mai l’uom non iscorge indarno.695
Ah! creder non poss’io, che quinci uscisse
L’immagin fiera d’un evento, donde
Tanta verrebbe a me gioja, e al mio figlio.
Ma odi attento i detti miei. Già l’Alba,
Che rimuover mi dee da questi alberghi,700
Ad apparir non tarderà. Che farmi?
Un giuoco io propor vo’. Dodici pali,
Quai puntelli di nave, intorno a cui
Va del fabbro la man, piantava Ulisse
L’un dietro all’altro con anelli in cima;705
Ed ei, lunge tenendosi, spingea
Per ogni anello la pennuta freccia.
Io tal cimento proporrò. Chi meglio
Tender l’arco saprà fra tutti i Proci,
E d’anello in anello andar col dardo,710
Lui seguir non ricuso, abbandonando
Questa sì bella, e ben fornita, e ricca
Magion de’ miei verd’anni, ond’anche in sogno
Dovermi spesso ricordare io penso.
     O veneranda, ripigliava Ulisse,715
Donna del Laerziade, una tal prova
Punto non differir: pria, che un de’ Proci
Questo maneggi arco lucente, e il nervo
Ne tenda, e passi pe’ ritondi ferri,
Ti s’offrirà davante il tuo consorte.720
     E Penelope al fine: Ospite, quando,
Vicino a me sedendoti, il diletto
Protrar della tua voce a me volessi,
Non mi cadrebbe su le ciglia il sonno.
Ma non può sempre l’uom vivere insonne:725
Chè legge a tutto stabiliro, e meta
Su la terra fruttifera gli Eterni.
Io, nelle stanze alte salita, un letto
Premerò, che divenne a me lugubre
Dal dì, che Ulisse il canape funesto730
Per la nemica sciolse infanda Troja.
Tu nel palagio ti riposa, e a terra
Sdrajati, o, se ti piace, a te le mie
Donne apparecchieran, dove corcarti.
     La Regina, ciò detto, alle superne735
Montò sue stanze, e non già sola; ed ivi
Sino a tanto piangea l’amato Ulisse,
Che un dolce sonno sovra lei spargesse
La cilestra negli occhi augusta Diva.

peenelope 5

Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Odisseo (travestito da mendicante) e Penelope


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Eugenio Caruso - 11 - 05 - 2022

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Tratto da

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www.impresaoggi.com