Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte
Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio
RIASSUNTO LIBRO XX
Odisseo si corica nel vestibolo, anziché nella sala, e senza riuscire a prendere sonno osserva l'andirivieni delle serve infedeli che vanno a divertirsi con i Proci. Nonostante lo sdegno, egli riesce a controllare l’ira. Gli appare quindi Atena che nuovamente gli assicura il suo aiuto e lo invita a prendere sonno. Intanto nelle sue stanze Penelope, angosciata, veglia e supplica Artemide di ucciderla piuttosto che farla sposa di un altro uomo. Odisseo sente il pianto e le parole della moglie e, uscito all’aperto, chiede a Zeus di mandargli un presagio: subito sente un tuono e dall’interno della casa una donna prega che per l’ultima volta si prepari il banchetto ai pretendenti: questi segni premonitori rincuorano Odisseo.
Il mattino dopo Telemaco scende dalle sue stanze e chiede se l’ospite sia stato onorato adeguatamente; rassicurato da Euriclea, si reca all’assemblea per i preparativi della festa di Apollo arciere. La nutrice, nel frattempo, fa preparare la sala per il nuovo banchetto dei pretendenti, mentre arriva Eumeo con tre maiali per il pranzo e incontra Odisseo; giungono poi Melanzio, che rinnova gli insulti a Odisseo, e Filezio, un pastore, che, vedendo il mendico, compiange la sorte di Odisseo, accusa il comportamento dei Proci e si augura il ritorno del padrone. Sopraggiungono quindi i pretendenti, accompagnati da un presagio maligno; Telemaco offre al mendico uno sgabello e del cibo, invitando i pretendenti a offrire anch’essi doni allo straniero. In segno di scherno Ctesippo lancia una zampa di bue addosso a Odisseo, che la schiva: questo gesto di villania scatena l’ira e lo sdegno di Telemaco. Uno dei pretendenti chiede poi al giovane di non ostinarsi a impedire le nozze della madre, e Telemaco li assicura che la lascerà libera nelle sue decisioni. Poi Atena scatena risa sfrenate e insensate fra i commensali, i quali assistono, senza rendersi conto della gravità, a un prodigio che Teoclimeno, l’indovino ospite di Telemaco, avverte come presagio terribile e sanguinoso; ma queste parole sembrano esaltare i pretendenti, che invitano Teoclimeno ad andarsene. Infatti l’indovino abbandona la sala, lanciando un ultimo annuncio di morte imminente. Mentre i Proci deridono gli ospiti di Telemaco, il giovane e Penelope ascoltano ogni provocazione senza reagire; Telemaco, in silenzio, guarda suo padre in attesa della vendetta. I pretendenti intanto — avverte il poeta — si preparino a ben altro luttuoso banchetto.
Giuseppe Bottani, Atena sempre pronta ad aiutare Odìsseo, 1775,
TESTO LIBRO XX
Il magnanimo figlio di Laerte
Giacea nell’atrio. Una recente pelle
Steso aveasi di bue con altre molte
Di pingui agnelle dagl’ingordi Achei
Sagrificate; e d’un velloso manto5
Lui già corcato Eurinome coverse.
Qui co’ pensieri suoi l’eroe vegliava,
Sventure ai Proci divisando. Intanto
Le ancelle, che soleano ai Proci darsi,
Usciro di lor camere, in gran riso10
Prorompendo tra loro, e in turpe gioja.
Ei forte l’alma si sentia commossa,
E bilanciava, se avventarsi, e tutte
Porle a morte dovesse in un istante,
O consentir, che per l’estrema volta15
Delinquesser le tristi; e in sè fremea.
E come allor che ai cagnolini intorno
Gira la madre, e, se un ignoto spunta,
Latra, e brama pugnar: non altrimenti
Egli, che mal patia l’opre nefande,20
Alto fremea nel generoso petto.
Pur, battendosi l’anca, e rampognando
Egli stesso il suo cor, Soffri, gli disse,
Tu, che assai peggior male allor soffristi,
Che il Ciclope fortissimo gli amici25
Mi divorava. Tollerar sapesti,
Finchè me fuor dell’antro il senno trasse,
Quand’io già della vita era in su l’orlo.
Ei così i moti reprimea del core,
Che ne’ recinti suoi cheto si stette.30
Non lasciava però su l’un de’ fianchi
Di voltarsi, o su l’altro, a quella guisa,
Che pien di sangue, e d’adipe ventriglio
Uom, che si strugge di vederlo incotto,
D’un gran foco all’ardor volge, e rivolge.35
Su questo ei si voltava, o su quel fianco,
Meditando fra sè, come potesse
Scagliarsi al fin contra i malnati Prenci,
Contra molti egli solo; ed ecco, scesa
Di cielo, a lui manifestarsi in forma40
D’una mortale l’Atenéa Minerva.
Stettegli sovra il capo, e tai parole
Gli volse: O degli umani il più infelice,
Perchè i conforti rifiutar del sonno?
Sei pur nel tuo palagio, appo la fida45
Tua donna, e al fianco d’un figliuolo, a cui
Vorriano aver l’uguale i padri tutti.
Nascita di Atena, particolare di vaso attico del 570–560 a.C. ritrovato a Tebe.
Il ver parlasti, o Dea, rispose Ulisse:
Se non che meco io mi consiglio, come
Scagliarmi ai Proci svergognati incontro,50
Mentre in folla ognor son quelli, ed io solo.
In oltre io penso, e ciò più ancor mi turba,
Che, quando col favore anco m’avvenga
Del Tonante, e col tuo, cacciarli a Dite,
Non so dove sottrarmi a quella turba,55
Che vengiarli vorrà. Tu questo libra.
Tristo! riprese la negli occhi Azzurra,
L’uomo a un compagno suo crede, a un mortale
Peggior di sè talvolta, e meno esperto,
E tu non a me Diva, e a me, che in ogni60
Travaglio tuo sempre ti guardo? Sappi,
Che se cinquanta d’uomini parlanti
Fosserci intorno pugnatrici schiere,
Sparsi per la campagna i greggi loro
Tua preda diverriano, e i loro armenti.65
Chetati, e il sonno nel tuo sen ricevi:
Chè vegliando passar la notte in guardia
Troppo è molesto. Uscirai fuor tra poco
Da tutti senza dubbio i mali tuoi.
Disse, e un sopor dolcissimo gl’infuse:70
Nè pria le membra tutte quante sciolte
Gli vide, e sgombra d’ogni affanno l’alma,
Che all’Olimpo tornò l’inclita Diva.
Ma il sonno sen fuggì dagli occhi a un tratto
Della Reina, che già sovra il molle75
Letto sedeasi, e ricadea nel pianto.
Come sazia ne fu, calde a Diana
Preghiere alzò la sconsolata donna:
O del Saturnio figlia, augusta Dea,
Deh! nel mio seno un de’ tuoi dardi scocca,80
E ratto poni in libertà quest’alma,
O mi rapisca il turbine, e trasporti
Per l’aria, e nelle rapide correnti
Dell’Oceàn retrogrado mi getti.
Così già le Pandaridi spariro,85
Che per voler de’ Numi alla lor madre
Crucciati, e al padre, nella mesta casa
Orfanelle rimaste erano, e sole.
Venere le nutrì di dolce mele,
Di vin soave, e di rappreso latte:90
Senno, e beltade sovra ogni altra donna
Giuno compartì loro, Artemi un’alta
Statura, ed ai lavori i più leggiadri
Mano, e intelletto la gran Dea d’Atene.
Già Venere d’Olimpo i gioghi eccelsi95
Montato avea, per dimandar le nozze
Delle fanciulle al fulminante Giove,
Che nulla ignora, e i tristi eventi, e i lieti
Conosce de’ mortali; e quelle intanto
Dalle veloci Arpíe furo rapite,100
E in balía date alle odïose Erinni.
Così d’Itaca me tolgano i Numi,
O d’un de’ dardi suoi l’oricrinita
Diana mi ferisca; ond’io ritrovi,
Benchè ne’ regni della morte, Ulisse,105
E del mio maritaggio uom non rallegri,
Che di lui fia tanto minore. Ahi lassa!
Ben regger puossi la più ria sventura,
Quando, passati lagrimando i giorni,
Le notti almen ci riconforta il sonno,110
Che su i beni l’obblio sparge, e su i mali.
Ma sogni a me fallaci un Nume invia:
E questa notte ancor mi si corcava
Da presso il mio consorte in quel sembiante,
Che avea nel dì, che su la nave ascese.115
Tacque; e sul trono d’òr l’Aurora apparve.
Ulisse udì le lagrimose voci,
Ed in sospetto entrò, che fatta accorta
Di lui si fosse, e già pareagli al capo
Vedersela vicina. Alzossi, e il manto,120
E i cuoi, tra cui giacea, raccolse, e pose
Sovra una sedia, e la bovina pelle
Fuor portò del palagio. Indi, levate
Le mani, a Giove supplicava: O Giove
Padre, e Dei tutti, che per terra, e mare125
Me dopo tanti affanni al patrio nido
Riconduceste, un lieto augurio in bocca
Mettete ad un di quei, che nell’interno
Vegghiano; e all’aria aperta un tuo prodigio,
Giove, mi mostra. Così, orando, disse.130
Udillo il sommo Giove, e incontanente
Dal sublime tonò lucido Olimpo,
E l’eroe giubilonne. Al tempo istesso
Donna, che il grano macinava, detti
Presaghi gli mandò, donde non lungi135
Del pastor delle genti eran le mole.
Dodici donne con assidua cura
Giravan ciascun dì dodici mole,
E in bianca polve que’ frumenti, ed orzi
Riducean, che dell’uom son forza, e vita.140
Le altre dormian dopo il travaglio grave:
Ma quella, cui reggean manco le braccia,
Compiuto non l’avea. Costei la mola
Fermò di botto, e feo volar tai voci,
Che segnale al Re furo: O padre Giove,145
Degli uomini signore e degli Dei,
Forte tonasti dall’eterea volta,
E non v’ha nube. Tal portento è al certo
Per alcun de’ mortali. Ah! le preghiere
Anco di me infelice adempj, o padre.150
Cessi quest’oggi nella bella sala
Il disonesto pasteggiar de’ Proci,
Che di fatica m’hanno, e di tristezza
Presso un grave macigno omai consunta.
L’ultimo sia de’ lor banchetti questo.155
Della voce allegravasi, e del tuono
L’illustre figlio di Laerte, e l’alta
Già in pugno si tenea giusta vendetta.
L’altre fantesche raccoglieansi intanto,
E un foco raccendean vivo, e perenne.160
Ma il deiforme Telemaco di letto
Surse, vestì le giovanili membra,
L’acuto brando all’omero sospese,
Legò sotto i piè molli i bei calzari,
E una valida strinse asta nodosa165
Con fino rame luminoso in punta.
Giunto alla soglia, s’arrestò col piede,
E ad Euricléa parlò: Cara nutrice,
Il trattaste voi ben di cibo, e letto
L’ospite? O forse non curato giacque?170
Anco la madre mia, benchè sì saggia,
Sfallisce in questo: chi è men degno, onora,
E non cura onorar chi più sel merta.
Ed Euricléa: Figliuol, non incolparmi
La innocente tua madre. A suo piacere175
Bevea l’ospite assiso; e quanto all’esca,
Domandato da lei, disse, mestieri
Non ne aver più. Come appressava l’ora
Del riposo, e del sonno, apparecchiargli
C’impose un letto: ma i tappeti molli180
Rifiutò, qual chi vive ai mali in grembo.
Corcossi nel vestibolo su fresca
Pelle di tauro, e cuoi d’agnelle: noi
D’una vellosa clamide il coprimmo.
Telemaco, ciò udito, uscia dell’alte185
Stanze, al foro per ir, con l’asta in mano;
E due seguianlo pieveloci cani.
Colà gli Achei dagli schinieri egregi
Raccolti l’attendean: mentre l’antica
D’Opi di Pisenòr figlia, le ancelle190
Stimolando, Affrettatevi, dicea,
Parte a nettar la sala, e ad inaffiarla,
E le purpuree su i ben fatti seggi
Coverte a dispiegar; parte le mense
Con le umide a lavar forate spugne,195
E i vasi a ripolire, e i lavorati
Nappi ritondi; ed al profondo fonte
Parte andate per l’acqua, e nel palagio
Recatela di fretta. I Proci molto
Non tarderan: sollecitar li dee200
Questo dì, che festivo a tutti splende.
Tutti ascoltaro, ed ubbidiro. Venti
Al fonte s’avviâr dalle nere acque:
L’altre gli altri compieano interni uffici.
Vennero i servi degli Achivi, e secche205
Legna con arte dividean; le donne
Venner dal fonte; venne Euméo, guidando
Tre, della mandra fior, nitidi verri,
Che nel vasto cortil pascer lasciava.
Quindi, fermate nel suo Re le ciglia,210
Vecchio, impararo a rispettarti forse,
O, disse, a t’oltraggiar seguon gli Achei?
Euméo, rispose il Re, piacesse ai Numi
Questa gente punir, che nell’altrui
Magion rei fatti, ingiurïando, pensa,215
E dramma di pudor non serba in petto!
Così tra lor dicean, quando il caprajo
Co’ più bei della greggia eletti corpi,
L’avido ventre a riempir de’ Proci,
Giunse, Melanzio; e seco due pastori.220
Ei le capre legò sotto il sonante
Portico, e morse nuovamente Ulisse:
Stranier, molesto ci sarai tu ancora,
Mendicando da ognun? Fuori una volta
Non uscirai? Difficilmente, io credo,225
Noi ci dividerem, che l’un dell’altro
Assaggiate le man non abbia in prima:
Però che tu villanamente accatti.
Altra mensa in città dunque non fuma?
Nulla l’offeso eroe: ma sol crollava230
Tacitamente il capo, e la risposta,
Che farà con la man, tra sè volgea.
Filezio in quella sopraggiunse terzo,
Grassa vacca menando, e pingui capre,
Cui traghettò su passeggiera barca235
Gente di mar, che a questa cura intende.
Le avvinse sotto il portico, e vicino
Fattosi a Euméo, l’interrogava: Euméo,
Chi è quello stranier, che ai nostri alberghi
Testè arrivò? Quali esser dice, e dove240
La sua terra nativa, e i padri suoi?
Lasso! un Monarca egli mi sembra in vista.
Certo piace agli Dei metter nel fondo
Delle sventure i vïandanti, quando
Si destina da loro ai Re tal sorte.245
Disse, e appressando il forestiero, e a lui
La man porgendo, Ospite padre, salve,
Soggiunse: almen, se nella doglia or vivi,
Sorganti più sereni i giorni estremi!
Giove, qual mai di te Nume più crudo,250
Che alla fatica, e all’infortunio in preda
Lasci i mortali, cui la vita desti?
Freddo sudor bagnommi, e mi s’empiero
Gli occhi di pianto, immaginando Ulisse,
Cui veder parmi con tai panni in dosso255
Tra gli uomini vagar, se qualche terra
Sostienlo ancora, e gli risplende il Sole.
Sventurato di me! L’inclito Ulisse
A me fanciullo delle sue giovenche
La cura diè ne’ Cefaleni campi;260
Ed io sì le guardai, che in infinito
L’armento crebbe dalle larghe fronti.
Questo sul mare trasportar per esca
Deggio a una turba di signori estrani,
Che nè guarda al figliuol, nè gli Dei teme:265
Mentre de’ beni del mio Sir lontano
La parte, cui finor perdonò il dente,
Con gli occhi ella divora, e col desio.
Ora io stommi fra due: perchè rea cosa
Certo saria, vivo il figliuolo, a un’altra270
Gente con l’armento ir; ma d’altra parte
Pesami fieramente appo una mandra
Restar, che a me divenne omai straniera.
E se non fosse la non morta speme,
Che quel misero rieda, e sperda i Proci,275
Io di qualche magnanimo padrone
Già nella corte riparato avrei:
Chè tai cose durar più non si ponno.
E l’eroe sì gli rispondea: Pastore,
Poichè malvagio non mi sembri, e stolto,280
E senno anche dimostri, odi i miei detti,
E il giuramento, che su questi siede.
Io pria tra i Numi in testimonio Giove,
E la mensa ospital chiamo, e d’Ulisse
Il venerando focolar, cui venni:285
Giungerà il figlio di Laerte, e all’Orco
Precipitar gli usurpatori Proci
Vedranlo, se tu vuoi, gli occhi tuoi stessi.
Ospite, questo il Saturníde adempia,
Replicò il guardïan: vedresti, come290
Intrepido seguir del mio signore
La giusta ira io saprei. Tacque; ed Euméo
S’unia con esso, e agl’Immortali tutti
Pel ritorno del Re preghiere fea.
Morte intanto a Telemaco s’ordia295
Dai Proci. È ver, che alla sinistra loro
Un’aquila comparve altovolante,
Che avea colomba trepida tra l’ugne.
Tosto Anfinomo sorse, e, Amici, disse,
Lasciam da un lato la cruenta trama,300
Cui più, che invan, si pensa; ed il convito
Ci sovvenga più presto. E il detto piacque.
I Proci entraro nel palagio, e i manti
Sovra i seggi deposero: le pingui
Capre, e i montoni s’immolaro, corse305
De’ verri il sangue, e la buessa, onore
Dell’armento, cadè. Furo spartite
Le abbrustolate viscere, e mesciuto
Nell’urne il rosso vino. Euméo le tazze,
Filezio i pani dispensò ne’ vaghi310
Canestri: ma dall’urne il buon licore
Melanzio nelle ciottole versava.
E già i Prenci volgeano all’apprestate
Mense il pensier, quando d’Ulisse il figlio,
Non senza un suo perchè, seder fe’ il padre315
Presso il marmoreo limitar su rozzo
Scanno, ed a picciol desco; e qui una parte
Gl’imbandì delle viscere, e gl’infuse
Vermiglio vino in tazza d’oro, e tale
Parlò: Tu pur siedi co’ Prenci, e bevi.320
Io dalle lingue audaci, e dalle mani
Ti schermirò: chè non è questo albergo
Pubblico, ma d’Ulisse, ed a me solo
Egli acquistollo. E voi frenate, o Proci,
Le man, non che le lingue, onde contesa325
Qui non s’accenda, e subitana rissa.
Strinser le labbra, ed inarcâr le ciglia.
Ed Antinoo così: La minacciosa,
Compagni, di Telemaco favella,
Per molesta che sia, durarla vuolsi.330
Giove il protegge: chè altramente imposto,
Benchè canoro arringator, gli avremmo
Silenzio eterno da gran tempo. Disse:
E il dispregiò Telemaco, e si tenne.
Già i banditori l’ecatombe sacra335
Degli Dei conducean per la cittade,
E raccoglieansi i capelluti Achivi
Sotto il bosco frondifero d’Apollo,
Di cui per cotanto aere il dardo vola.
E al tempo stesso, incotte omai le carni,340
Nel palagio d’Ulisse, e dagli acuti
Schidoni tratte, e poi divise in brani,
L’alto vi si tenea prandio solenne.
Parte uguale con gli altri anco ad Ulisse
Fu posta innanzi dai ministri, come345
Volle il caro figliuol: nè degli oltraggi
Però Minerva consentia, che i Proci
Rimettessero un punto, acciocchè al Rege
L’ira più addentro penetrasse in petto.
V’era tra loro un malvagio uom, che avea350
Nome Ctesippo, e dimorava in Same.
Costui, fidando ne’ tesor paterni,
La consorte del Re con gli altri ambiva.
Surse, e tal favellò: Proci, ascoltate.
Il forestier, qual conveniasi, ottenne355
Parte uguale con noi. Chi mai vorria
Di Telemaco un ospite fraudarne,
Chiunque fosse? Ora io di fargli intendo
Un nobil don, ch’egli potrà in mercede
Dar poscia o al bagnajuolo, o a qual tra i servi360
Gli piacerà dell’immortale Ulisse.
Così dicendo, una bovina zampa
Levò su da un canestro, e con gagliarda
Mano avventolla. L’inconcusso eroe
Sfuggilla, il capo declinando alquanto,365
Ed in quell’atto d’un cotal suo riso
Sardonico ridendo; e il piè del bue
A percuotere andò nella parete.
Meglio d’assai per te, che nol cogliesti,
Sì Telemaco allora il tracotante370
Ctesippo rabbuffò: meglio, che il colpo
L’oste schivasse; però ch’io nel mezzo
Del cor senz’alcun dubbio un’asta acuta
T’avrei piantata, e delle nozze in vece
Celebrate t’avria l’esequie il padre.375
Fine dunque agl’insulti. Io più fanciullo
Non son, tutto m’è noto, ed i confini
Segnar del retto, e del non retto, io valgo.
Credete voi, ch’io soffrirei tal piaga
Nelle sostanze mie, se forte troppo380
Non fosse impresa il frenar molti a un solo?
Su via, cessate dall’offese, o, dove
Sete del sangue mio l’alme vi punga,
Prendetevi il mio sangue. Io ciò pria voglio,
Che veder ciascun giorno opre sì indegne,385
I forestieri dileggiati, e spesso
Battuti, e nello splendido palagio
Contaminate, oh reità! le ancelle.
Tutti ammutiro, e sol, ma tardi molto,
Favellò il Damastoride Agelao:390
Nobili amici, a chi parlò con senno,
Nessun risponda ingiurïoso, e avverso;
Nè forestier più si percuota, o altr’uomo,
Che in corte serva del divino Ulisse.
Io poi darò a Telemaco, e alla madre395
Util consiglio con parole blande,
Se in cor loro entrerà. Finchè speranza
Del ritorno d’Ulisse a voi fioriva,
Gl’indugi perdonare, ed i pretesti
Vi si poteano, e il trarre in lungo i Proci:400
Chè, quando apparsa la sua faccia fosse,
Di prudenza lodati avriavi il Mondo.
Ma chiaro parmi, che più in man d’Ulisse
Il ritorno non è. Trova la madre
Dunque, e la pressa tu, che a quel de’ Proci,405
Che ha più virtude, e più doni offre, vada:
Onde tu rientrar ne’ beni tutti
Del padre possi, e alla tua mensa in gioja,
Non che in pace, seder, mentre la madre
Del nuovo sposo allegrerà le mura.410
E il prudente Telemaco, Per Giove,
Rispose, e per li guai del padre mio,
Ch’erra, o perì, dalla sua patria lunge,
Ti protesto, Agelao, ch’io della madre
Non indugio le nozze, anzi la esorto415
Quello a seguir, che più le aggrada, ed offre
Doni in copia maggior: ma i Dii beati
Tolgan, che involontaria io la sbandisca
Da queste soglie con severi accenti.
Disse, e Minerva inestinguibil riso420
Destò ne’ Proci, e ne travolse il senno.
Ma il riso era stranier su quelle guance:
Ma sanguigne inghiottian delle sgozzate
Bestie le carni; e poi dagli occhi a un tratto
Sgorgava loro un improvviso pianto,425
E di prevista disventura il duolo
Ne’ lor petti regnava. E qui levossi
Teocliméno, il gran profeta, e disse:
Ah miseri, che veggio? E qual v’incontra
Caso funesto? Al corpo intorno, intorno430
D’atra notte vi gira al capo un nembo.
Urlo fiero scoppiò; bagnansi i volti
D’involontarie lagrime; di sangue
Tingonsi le pareti, ed i bei palchi;
L’atrio s’empie, e il cortil d’Ombre, che in fretta435
Giù discendon nell’Erebo; disparve
Dal cielo il Sole, e degli aerei campi
Una densa caligine indonnossi.
Tutti beffârsi del profeta, e queste
Voci Eurimaco sciolse: Il forestiero,440
Che qua venne testè non so da dove,
Vaneggia, io penso. Giovani, su via,
Mettetel fuori, acciocchè in piazza ei vada,
Poscia che qui per notte il giorno prende.
E l’indovino, Eurimaco, rispose,445
Coteste guide, che vuoi darmi, tienti.
Occhi ho in testa, ed orecchi, e due piè sotto,
E di tempra non vile un’alma in petto.
Con tai soccorsi io sgombrerò, scorgendo
Il mal, che sopra voi pende, e a cui torsi450
Non potrà un sol di voi, che gli stranieri
Oltraggiate, e studiate iniquitadi
Nella magion del pari ai Numi Ulisse.
Ciò detto, uscì da loro, ed a Piréo,
Che di buon grado il ricevè, s’addusse.455
Ma i Proci, riguardandosi a vicenda,
E beffe d’ambo i forestier facendo,
Provocavan Telemaco. Non havvi,
Talun dicea, chi ad ospiti stia peggio,
Telemaco, di te. L’uno è un mendico460
Errante, omai di fame, e sete morto,
Senza prodezza, senza industria, peso
Disutil della terra; e l’altro un pazzo,
Che, per far del profeta, in piè si leva.
Vuoi tu questo seguir, ch’io ti propongo,465
Sano partito? Ambo gittiamli in nave,
E li mandiam della Sicilia ai lidi.
Più gioveranno a te, se tu li vendi.
Telemaco di lui nulla curava,
Ma levati tenea tacito gli occhi470
Nel genitor, sempre aspettando il punto,
Ch’ei fatto contra i Proci impeto avrebbe.
In faccia della sala, e in su la porta
Del ginecéo, da un suo lucente seggio
Tutti i lor detti la Regina udia.475
E quei, ridendo, il più soave e lauto,
Però che molte avean vittime uccise,
Convito celebrâr: ma più ingioconda
Cena di quella non fu mai, che ai Proci,
Degna mercè della nequizia loro,480
Stavan per imbandir Palla, ed Ulisse.
Pallade Atena sorregge nella mano destra Nike (la Vittoria), statua antistante il parlamento Austriaco a Vienna.
AUDIO
Eugenio Caruso - 19 - 05 - 2022
Tratto da