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Relazione annuale del 2007 - Banca d'Italia


Il nodo della produttività

Il nodo della produttività non si scioglie, da più di dieci anni. Nonostante le difficoltà interpretative causate da un quadro statistico in movimento, anche negli ultimi due anni si conferma un divario nella dinamica della produttività rispetto ai nostri principali concorrenti.
Le imprese esposte alla concorrenza internazionale non sono rimaste inerti.
Come segnalammo in questa sede lo scorso anno, parti del sistema produttivo hanno iniziato a ristrutturarsi; non vi è estranea l’adozione dell’euro e l’effetto disciplinante che ha esercitato.
Nostre indagini indicano che questa mutazione strutturale attraversa tutti i comparti. Sia nelle produzioni tradizionali sia in quelle più avanzate, accanto a imprese che hanno chiuso i battenti o che sono in seria difficoltà, ve ne sono altre che hanno compiuto un salto qualitativo nella capacità competitiva. La mortalità delle imprese è aumentata; ma in quelle che sopravvivono cresce la redditività, l’internazionalizzazione. Tende ad ampliarsi la dimensione media; si modernizzano gli assetti proprietari e di controllo, grazie anche ai progressi compiuti nel diritto societario e dei mercati. Questi sviluppi sono incoraggianti; rivelano una realtà più variegata di quella dipinta dalle statistiche aggregate sulla produttività.
Ma nel complesso del sistema produttivo, gran parte del quale è al riparo dalla concorrenza internazionale, la produttività media ancora non progredisce.
È essenziale che le imprese proseguano nel rinnovamento strutturale.
Non è difendendo monopoli o protezioni che, alla lunga, si genera ricchezza: ma investendo, innovando, rischiando.
Il valore aggiunto a stento tiene il passo con l’occupazione. Negli ultimi dieci anni il numero di occupati nell’industria e nei servizi privati è cresciuto del 17 per cento, 2 milioni e mezzo di persone, per i due quinti immigrati.
Il tasso di disoccupazione è sceso a poco più del 6 per cento, rispetto a valori superiori al 7 per cento in Germania e Francia. Al Nord è al 4 per cento da sette anni. Sono gli effetti, positivi, delle innovazioni legislative e negoziali introdotte dalla seconda metà degli anni novanta e di una dinamica salariale moderata. Non possiamo accontentarci di questi risultati, finché il tasso di occupazione, soprattutto delle donne, non raggiungerà i livelli europei; finché la flessibilità non riguarderà, in forme appropriate, l’intero mercato del lavoro, piuttosto che essere concentrata su singoli segmenti; finché non
vi saranno nel sistema aumenti generalizzati di produttività, che si potranno tradurre in guadagni retributivi per i lavoratori dipendenti.
Il settore pubblico è chiamato ad accompagnare la ristrutturazione dell’economia agendo nei propri ambiti di competenza. Le cause del ristagno della produttività sono ormai ampiamente identificate. Da più voci sale, ormai da tempo, la richiesta di accrescere la produttività dei servizi pubblici, aprendoli al mercato; di abbattere le rendite improduttive, rafforzando la concorrenza a livello nazionale e locale; di portare la scuola e l’università all’altezza di un paese avanzato; di adeguare le infrastrutture; di moderare la tassazione; di assicurare nei fatti la certezza e l’efficacia del diritto, semplificando il quadro legislativo e facendo funzionare la macchina della giustizia;
di garantire ovunque legalità e sicurezza.
Non sono mancati interventi da parte dei governi che si sono succeduti in questi anni. La gravità dei problemi che l’economia italiana affronta ormai da troppo tempo richiede che l’intero spettro dell’azione pubblica – dall’impianto normativo e regolatorio alla dimensione e alla qualità del bilancio pubblico – sia volto all’obiettivo prioritario della produttività e della crescita.

Efficienza economica e bilancio pubblico

La politica di bilancio deve restare ancorata all’esigenza macroeconomica di ridurre il debito pubblico in rapporto al prodotto. Ma se la sua articolazione sul piano microeconomico non è orientata all’efficienza e alla crescita, l’economia ne è frenata, lo stesso risanamento della finanza pubblica è reso più difficile.
Nell’ultimo biennio la situazione dei conti pubblici è migliorata. Nel 2007 l’indebitamento netto è sceso all’1,9 per cento del PIL. Il debito pubblico è calato al 104 per cento del prodotto, il livello del 2004.
I risultati per l’anno in corso si prospettano meno favorevoli. Secondo le stime della Relazione unificata sull’economia e la finanza pubblica, l’indebitamento netto aumenterebbe al 2,4 per cento del prodotto. Il disavanzo corretto per gli effetti del ciclo e delle misure transitorie peggiorerebbe di 0,6 punti percentuali. La riduzione del peso del debito sarebbe modesta.
Anche in un contesto congiunturale difficile, il rapporto fra debito e prodotto deve restare su un sentiero di flessione. L’intenzione del Governo di definire in tempi brevi l’insieme degli interventi da attuare nell’intero prossimo triennio può rendere più organica l’azione di bilancio e facilitare il raggiungimento del pareggio nel 2011.
La riduzione del disavanzo negli ultimi due anni è dovuta soprattutto al forte aumento della pressione fiscale: 2,8 punti percentuali tra il 2005 e il 2007. L’incidenza delle entrate fiscali sul PIL si colloca al 43,3 per cento, appena al di sotto del valore massimo registrato nel 1997, al culmine dello sforzo per soddisfare i criteri di Maastricht; supera di quasi 3 punti quella media degli altri paesi dell’Unione europea. Il divario rispetto agli Stati Uniti, al Giappone è ancora più grande.
L’ampia dimensione delle attività irregolari rende l’onere sui contribuenti ligi al dovere fiscale più pesante che nel resto d’Europa. Per ogni 100 euro di costo del lavoro per l’impresa, il prelievo fiscale e contributivo per un lavoratore-tipo senza carichi familiari è pari in Italia a 46 euro. Negli altri paesi dell’area dell’euro il prelievo è in media pari al 43 per cento del costo del lavoro; nel Regno Unito al 34; negli Stati Uniti al 30. L’IRAP accresce ulteriormente il divario tra il nostro paese e gli altri. Nonostante la riduzione apportata nel 2008, l’aliquota complessiva di prelievo sui profitti d’impresa
resta superiore di 8 punti rispetto alla media degli altri paesi dell’Unione europea.
Aliquote elevate penalizzano le imprese nella competizione internazionale, riducono la propensione a investire, possono determinare distorsioni nella scelta della dimensione d’impresa. Tagliano le retribuzioni del lavoro regolare, scoraggiano l’emersione di quello irregolare. Già nel 1946, all’Assemblea Costituente, Luigi Einaudi ammoniva che “solo abbassando le aliquote vigenti e diminuendo la spinta alla frode si potrà ottenere un gettito migliore per lo stato”.
La definizione di un percorso pluriennale di riduzione di alcune importanti aliquote d’imposta migliorerebbe le aspettative di famiglie e imprese.
Gli sgravi fiscali vanno concentrati laddove possono dare maggiore sostegno alla crescita, riducendo le distorsioni dell’attività economica. L’effetto sull’economia sarà più grande se si semplificheranno gli adempimenti per i contribuenti e si assicurerà una maggiore stabilità normativa.
L’alleggerimento del prelievo sulle parti della retribuzione più connesse con la produttività può avere su questa riflessi positivi, consentendo un migliore utilizzo degli impianti e incentivando la contrattazione salariale a premiare gli aumenti di efficienza. In prospettiva il prelievo andrà attenuato su fasce via via più ampie di lavoratori, privilegiando la semplicità e la neutralità degli interventi.
Nonostante un recente lieve rallentamento, nell’ultimo decennio la spesa primaria corrente è cresciuta in media del 2,1 per cento l’anno in termini reali, un tasso nettamente superiore all’aumento del prodotto. Per ridurre il peso del debito e alleviare la pressione fiscale non vi è altra strada che correggere questa tendenza. Nello scenario macroeconomico della Relazione unificata sull’economia e la finanza pubblica, il conseguimento del pareggio di bilancio nel 2011 e la riduzione della pressione fiscale al 40 per cento del prodotto interno lordo, nell’arco di un quinquennio, richiedono che la spesa primaria corrente scenda in termini reali circa dell’1 per cento l’anno.
Ogni azione di contenimento della spesa pubblica presenta difficoltà politiche e tecniche; si scontra con prassi consolidate e interessi specifici.
L’esperienza recente di altri paesi, come la Germania, indica tuttavia che è possibile ottenere sostanziosi risparmi di spesa senza compromettere il conseguimento degli obiettivi fondamentali dell’azione pubblica. Gli studi della Commissione tecnica per la finanza pubblica mostrano che vi sono margini di risparmio in molti comparti di spesa. Potranno concorrervi iniziative per razionalizzare la presenza delle amministrazioni statali sul territorio, responsabilizzare i dirigenti e introdurre sistemi di valutazione volti a premiare i dipendenti più meritevoli.
Il 30 per cento della spesa per pensioni di vecchiaia e anzianità è oggi corrisposto a cittadini con meno di 65 anni. Nel medio-lungo termine, un incremento dell’età media di pensionamento, accompagnata da un convinto sviluppo della previdenza complementare, può dare un fondamentale contributo alla riduzione della spesa pubblica; può consentire di contenere il divario che si sta aprendo fra il potere d’acquisto dei pensionati anziani e quello dei lavoratori in attività.
Alcune caratteristiche del sistema pensionistico italiano tengono lontana dal lavoro una quota troppo ampia della popolazione. Solo il 19 per cento degli italiani tra i 60 e i 64 anni svolge un’attività lavorativa, contro il 33 per cento degli spagnoli e dei tedeschi, il 45 dei britannici, il 60 degli svedesi.
È ora di rimuovere i vincoli e i disincentivi al proseguimento dell’attività lavorativa per coloro che sono nel regime retributivo; ampliare i margini di scelta dell’età di pensionamento per coloro che sono nel regime contributivo; cancellare gli ultimi impedimenti al cumulo tra lavoro e pensione; incoraggiare forme flessibili di impiego, con orari adattabili alle esigenze individuali; permettere così a chi ha accumulato esperienza e conoscenze di continuare, se vuole, a metterle a frutto per se stesso, la propria famiglia, la società
.

Lo sviluppo del Mezzogiorno e il federalismo fiscale

La qualità della spesa pubblica e dei servizi che essa finanzia è centrale per lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia: perché l’incidenza della spesa sul prodotto è in quelle regioni più elevata; perché l’utilizzo inefficiente delle risorse pubbliche – troppo spesso distolte verso interessi particolari o preda della criminalità organizzata – contribuisce a mantenere il Mezzogiorno nella sua condizione di arretratezza e dipendenza economica.
Gli spazi di crescita sono molto più ampi al Sud che al Nord. Azioni volte a sfruttarli possono dare un contributo decisivo al rilancio di tutta l’economia italiana.
Nel 2007 il rapporto tra il prodotto per abitante delle regioni meridionalie quello del Centro Nord non ha raggiunto il 60 per cento; resta inferiore a quello di trent’anni fa. In Germania, il prodotto pro capite dei Länder orientali è cresciuto nell’ultimo decennio molto più che nel resto del paese. Vi sono però forti differenze interne al Mezzogiorno: Abruzzo, Molise e Sardegna non sono più definibili in ritardo di sviluppo secondo i criteri comunitari.
La produttività media degli occupati del Mezzogiorno è inferiore del 18 per cento a quella del Centro Nord. Il tasso di occupazione è più basso di 19 punti. La quota di lavoro irregolare sfiora ancora il 20 per cento, il doppio di quella delle regioni centro-settentrionali. Il pur necessario incremento della flessibilità nell’utilizzo e nella remunerazione del lavoro, già avviato negli ultimi anni, non può bastare a sanare i persistenti squilibri del mercato del lavoro meridionale.
Sul ritardo del Mezzogiorno pesa la debolezza dell’amministrazione pubblica, l’insufficiente abitudine alla cooperazione e alla fiducia, un costume diffuso di noncuranza delle norme. Per il progresso della società meridionale l’intervento economico non è separabile dall’irrobustimento del capitale sociale.
La politica regionale in favore del Mezzogiorno ha potuto contare nello  scorso decennio su un ammontare di risorse finanziarie comparabile conquello dell’intervento straordinario soppresso nel 1992. I risultati sono stati inferiori alle attese.
La spesa pubblica è tendenzialmente proporzionale alla popolazione, mentre le entrate riflettono redditi e basi imponibili pro capite che nel Meridione sono di gran lunga inferiori. Si stima che il conseguente afflusso netto verso il Sud di risorse intermediate dall’operatore pubblico, escludendo gli interessi sul debito, sia dell’ordine del 13 per cento del prodotto del Mezzogiorno, il 3 per cento di quello nazionale. È un ammontare imponente; per il Sud, è anche il segno di una dipendenza economica ininterrotta. La sua incidenza non è uguale dappertutto: varia dal 5 per cento del prodotto regionale
in Abruzzo al 20 per cento in Calabria.
Nonostante un tale impegno finanziario, resta forte la differenza tra Mezzogiorno e Centro Nord nella qualità dei servizi pubblici prestati, a parità di spesa. Divari si trovano in tutti i settori: dalla sanità all’istruzione, dall’amministrazione della giustizia a quella del territorio, dalla tutela della sicurezza personale alle politiche sociali, alla stessa realizzazione di infrastrutture.
L’accento deve spostarsi dalla quantità delle risorse alla qualità dei risultati.
Le stesse politiche nazionali devono tener conto, nel disegno e nelle modalità operative, della diversa efficacia applicativa che le medesime norme hanno in differenti aree del Paese. Che si scelgano, a seconda dei casi, sistemi basati sull’accentramento o sul decentramento decisionale e amministrativo, se si vuole innalzare la qualità dell’azione pubblica al Sud un punto resta fermo: l’azione pubblica degenera senza un sistema di valutazioni indipendente e trasparente, che dia ai cittadini informazioni chiare e confrontabili sulla qualità dei servizi. Livello di apprendimento degli studenti, migrazioni verso gli ospedali pubblici di altre regioni, tempi di degenza e percentuali di guarigione, durata dei processi civili: questi sono esempi tratti dai campi in cui più si sente il bisogno di rilevazioni obiettive, sistematiche, frequenti, su cui misurare i progressi delle singole amministrazioni, stabilire un corretto sistema di incentivi, indirizzare le risorse pubbliche.
Il federalismo fiscale avrà tanto più generale consenso nel Paese quanto più accrescerà l’efficacia dell’azione pubblica. Regioni ed enti locali, cui la Costituzione e le leggi affidano un ruolo crescente, hanno particolari responsabilità.
È importante che il sistema dell’imposizione e della spesa a livello decentrato sia tale da premiare l’efficienza, indirizzare le risorse verso gli usi più produttivi e le priorità più urgenti. La misura della redistribuzione regionale di reddito che si realizza attraverso flussi perequativi tra Stato ed enti decentrati è scelta politica; ma è necessario che le regole per determinare tali flussi siano semplici e trasparenti; che chi riceve fondi dia ampiamente conto del loro utilizzo. Il sistema dei trasferimenti agli enti decentrati deve abbandonare il criterio della spesa storica, che premia l’inefficienza. Cardine di una sana autonomia fiscale è la stretta corrispondenza tra esborsi e tassazione: ogni onere aggiuntivo dovrebbe idealmente trovare finanziamento a carico dei cittadini cui l’amministrazione risponde. Ne sono condizioni la disponibilità di basi imponibili ampie e stabili, vincoli severi all’assunzione di debito, regole predefinite per i trasferimenti dal centro.

Le banche italiane

La turbolenza dei mercati finanziari internazionali ha toccato le banche italiane assai meno che quelle di altri paesi. Le svalutazioni sono state contenute; la redditività si è solo moderatamente ridotta.
Il modesto peso, nei loro bilanci, delle attività finanziarie più colpite dalla crisi, la limitata esposizione agli strumenti finanziari collegati con i mutui subprime americani e più in generale ai mercati di quel paese, il ruolo dominante della raccolta al dettaglio, hanno evitato alle nostre banche quei problemi di qualità dell’attivo e di gestione della liquidità che hanno colpito istituzioni finanziarie di altri paesi. Alla creazione di un sistema finanziario più stabile hanno contribuito un legislatore avveduto, una vigilanza che ha saputo coniugare sostegno dell’innovazione e prudenza.
Un’attenta regolamentazione prudenziale delle cartolarizzazioni, che anche in Italia hanno raggiunto un importo significativo, è stata adottata sin dal 2000. La riduzione dei requisiti patrimoniali è consentita solo nel caso di operazioni che trasferiscano effettivamente il rischio. Gli intermediari non bancari, che possono dare origine a cartolarizzazioni, sono assoggettati dalla Banca d’Italia a regole prudenziali e requisiti organizzativi. Le società veicolo italiane mantengono l’obbligo di segnalare i crediti cartolarizzati alla Centrale dei Rischi. Le banche devono rispettare obblighi informativi
nei bilanci.
Dalla fine del 2006 sono in vigore disposizioni che consentono l’attività in prodotti finanziari strutturati solo agli intermediari che dispongono di un’organizzazione idonea e di efficaci sistemi di controllo.
Regole rigorose non agiscono contro il mercato, ma a vantaggio del mercato: lo si vede nei momenti difficili. Tuttavia nessuna vigilanza, per quanto robusta, può eliminare ogni fattore di vulnerabilità. L’organizzazione, il capitale richiedono un’attenzione costante delle banche.
La capacità di valutare in modo unitario l’insieme dei propri rischi – di credito, di mercato, di liquidità – è stato il decisivo fattore di successo per gli intermediari che in questi mesi hanno meglio superato le difficoltà dovute alle turbolenze dei mercati. Per ogni banca è essenziale disporre di un sistema di gestione e di controllo integrato; cogliere in anticipo le interdipendenze che si manifestano improvvisamente nelle fasi critiche. Il compito è tanto più urgente quanto più le banche sono grandi, complesse e attive nei mercati e nei prodotti avanzati. Il consolidamento del nostro sistema bancario, proseguito nel 2007, deve essere accompagnato da una decisa accelerazione nell’integrare reti, strutture organizzative, sistemi informatici, culture aziendali diversificate, anche per poter gestire rischi nuovi e complessi.
Su impulso del Financial Stability Forum, è in corso una riflessione a livello internazionale per irrobustire i requisiti di capitale e al tempo stesso attenuarne gli effetti prociclici. La Banca d’Italia chiederà alle banche, in linea con gli standard di Basilea II, di rafforzare il patrimonio per renderlo adeguato a fronteggiare tutti i rischi, in particolare quelli più difficilmente quantificabili; sostiene l’introduzione di strumenti che incoraggino le banche ad accumulare capitale in eccesso in condizioni di mercato favorevoli, per non essere costrette a una contrazione degli attivi in periodi di crisi.
Le politiche di distribuzione degli utili e ogni progetto di espansione devono essere coerenti con il rafforzamento patrimoniale.

La Vigilanza

Ben prima dell’arrivo delle perturbazioni sui mercati, la Vigilanza ha dato avvio a un profondo ripensamento dei propri metodi di intervento, dei principi della regolamentazione, della sua stessa organizzazione.
Abbiamo moltiplicato le ispezioni mirate, soprattutto per i rischi emergenti.
Un programma di accertamenti sull’operatività in derivati delle principali banche è stato avviato fin dal 2006; si è intensificato l’anno scorso.
Ho più volte richiamato l’attenzione sulla necessità che le banche, nel proporre alla clientela prodotti innovativi e complessi, assicurino la correttezza formale e sostanziale delle transazioni, la trasparenza delle condizioni, l’aderenza scrupolosa alle norme; si accertino della piena rispondenza di tali prodotti alle esigenze e ai profili di rischio del cliente. La banca si espone altrimenti a rischi legali e di reputazione e, in caso di movimenti avversi delle variabili di mercato, a gravi rischi di controparte. Le ispezioni della Banca d’Italia hanno fatto cessare comportamenti irregolari; in un caso abbiamo adottato provvedimenti particolarmente rigorosi. Abbiamo chiesto agli organi interni di sorveglianza di tutte le banche un’attenta valutazione degli assetti organizzativi, dei processi operativi e dei sistemi di controllo connessi all’attività in derivati. Abbiamo dedicato una specifica attenzione all’utilizzo di derivati contratti con banche italiane da parte di Regioni ed enti locali: questi strumenti possono essere usati in modo improprio,
con effetti negativi sulla trasparenza dei bilanci, e spesso senza che i rischi siano ben compresi. La Banca d’Italia collabora con il Ministero dell’Economia alla definizione della nuova normativa sulla trasparenza dei contratti in derivati sottoscritti da enti territoriali.
Le normali segnalazioni sulla liquidità bancaria, a cadenza trimestrale, sono divenute insufficienti. Abbiamo chiesto ai principali gruppi un rapporto settimanale, che permette una continua osservazione; a partire dall’inizio dell’anno le posizioni di liquidità di questi intermediari sono nettamente migliorate.
Assieme all’adeguatezza del patrimonio e dell’organizzazione, il terzo presidio cui è affidata la stabilità del sistema bancario è la qualità del governo societario. La nuova disciplina impone alle banche una chiara distinzione di compiti e responsabilità tra gli organi aziendali; detta regole per la loro composizione; valorizza il ruolo dell’organo di controllo, accrescendone i poteri rispetto alla disciplina generale; prescrive l’adozione di flussi informativi interni che assicurino la piena consapevolezza da parte di chi ha la responsabilità delle decisioni; promuove corretti meccanismi di incentivazione e remunerazione.
La normativa, che abbiamo emanato dopo un’ampia e fruttuosa consultazione, indica principi generali e linee applicative essenziali; non fornisce soluzioni uguali per ogni realtà aziendale, ma richiede che esse siano calibrate sulle specificità delle singole banche, secondo un criterio di proporzionalità.
Nella riorganizzazione della Vigilanza, la decisione di creare un’apposita unità per seguire i rapporti tra intermediari e clientela sancisce un significativo riorientamento dell’attenzione della Banca. Anche se i fatti degli ultimi tempi sono tornati a ricordarci che la prima difesa dei risparmiatori è la stabilità del sistema bancario, la correttezza e la trasparenza dei rapporti con i clienti costituiscono un ulteriore, fondamentale presidio; sono condizione per il pieno agire della concorrenza.
La legge attribuisce a diverse autorità compiti di protezione dei risparmiatori e in generale degli utenti di servizi finanziari. Alla Banca d’Italia spetta vigilare sulla trasparenza delle condizioni contrattuali di depositi, prestiti e strumenti di pagamento. Nell’ambito dei poteri che ci dà la legge, agiamo sulla base di un chiaro principio: la correttezza nei confronti dei clienti non è solo un obbligo giuridico, è anche presidio di stabilità. In questi mesi turbolenti, la solida base della raccolta al dettaglio è stata per il sistema bancario italiano uno straordinario punto di forza.
È molto cresciuta, da parte delle stesse banche, la consapevolezza di quanto sia necessario essere percepiti come un operatore corretto, un partner leale. L’opinione pubblica, i clienti, le associazioni dei consumatori si aspettano standard sempre più elevati di comportamento. Negli ultimi anni legislatori, governi, autorità sono intervenuti quando il sistema non riusciva a trovare da sé soluzioni adeguate.
Non mancano i problemi aperti. Le norme sull’estinzione anticipata e sulla portabilità dei mutui hanno tardato a tradursi in pratica, anche per difficoltà applicative. In aprile, la Vigilanza ha sollecitato le banche ad adeguarvisi in pieno, riducendo tempi e adempimenti necessari, e ha prescritto specifici obblighi di informazione al cliente sull’esercizio dei propri diritti; l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha avviato indagini per verificare l’esistenza di pratiche commerciali scorrette.
Una recente iniziativa governativa, da perfezionare d’intesa con il sistema bancario, mira a facilitare la rinegoziazione dei mutui a tasso variabile, per stabilizzare l’importo delle rate. La ristrutturazione del debito può arrecare sollievo alle famiglie; giovare in prospettiva alle stesse banche, riducendo i casi di insolvenza. Occorrerà verificare con attenzione gli eventuali effetti di questa misura sul mercato delle cartolarizzazioni esistenti. Deve in ogni caso essere lasciato il massimo spazio all’operare della concorrenza nell’offerta delle migliori condizioni ai clienti.
Abbiamo già in passato richiamato l’attenzione sulla commissione di massimo scoperto, un istituto poco difendibile sul piano della trasparenza.
Va sostituita, dove la natura del rapporto di credito lo richieda, con una commissione commisurata alla dimensione del fido accordato, come avviene in altri paesi. Una simile innovazione richiede un complesso adattamento della prassi delle banche. Essa però dovrebbe essere avviata con decisione, proponendo il cambiamento ai nuovi clienti, anche per evitare il rischio che la questione sia risolta con gli strumenti imperativi della legge.
Lo sviluppo di un buon sistema per la risoluzione stragiudiziale delle controversie può fornire un contributo rilevante al miglioramento delle relazioni tra intermediari e clientela. Si è conclusa la consultazione dei soggetti interessati; la Banca d’Italia presenterà una proposta al CICR per disciplinare, in attuazione di norme di legge, un nuovo sistema di ombudsman.
Dalla nostra indagine sui costi dei conti correnti bancari emerge che le banche offrono condizioni particolarmente competitive soprattutto ai nuovi clienti; nei confronti della clientela esistente vi è inerzia. è opportuno che le banche semplifichino la struttura e le condizioni dei contratti offerti. Vanno incoraggiate tutte le iniziative del sistema bancario in questa direzione. L’indagine sarà ripetuta quest’anno.

Il risparmio gestito

Il declino dei fondi comuni di diritto italiano non si è arrestato. Per i fondi aperti i deflussi hanno toccato i 52 miliardi nel 2007; hanno superato i 30 miliardi nei soli primi tre mesi di quest’anno. È evidente l’inadeguatezza del sistema di distribuzione dei prodotti finanziari rispetto alle esigenze della clientela. Primario è il bisogno di consulenza, di aiuto nelle scelte di quei risparmiatori a cui, più che in passato, si chiede di provvedere con investimenti finanziari al proprio futuro, orientandosi fra una moltitudine di prodotti spesso di difficile valutazione. Eppure il costo di migliori servizi alla clientela potrebbe trovare copertura negli ampi margini percepiti dalle reti di distribuzione.
È diffusa anche tra gli intermediari la percezione della necessità di cambiare l’attuale struttura dell’industria. Alcuni gruppi bancari hanno deciso di cedere il controllo delle proprie società di gestione dei fondi comuni.
La pluralità di canali di collocamento darà benefici. Ma è necessario agire anche sulle regole di comportamento dei distributori, per garantire il rispetto dei diritti della clientela e modificare gli incentivi al mantenimento di strutture di distribuzione chiuse, riducendone i guadagni di posizione.
Il gruppo di lavoro promosso dalla Banca d’Italia, con la partecipazione di autorità e società del settore, ha visto un’ampia convergenza nell’identificare i principali problemi: chiara distinzione tra attività di collocamento e consulenza, indipendenza dei consigli di amministrazione rispetto alla capogruppo, condizioni uniformi di trasparenza informativa per tutte le categorie di prodotti finanziari, eliminazione delle distorsioni fiscali a danno dei fondi comuni italiani. Il gruppo formulerà proposte di intervento urgente, in alcuni casi di competenza delle stesse autorità tecniche, in altri da proporre al Governo e al Parlamento.

La turbolenza finanziaria che ha colpito i maggiori paesi avanzati ha interrotto un lungo periodo di crescita, bassa inflazione, credito abbondante.
È presto per dire se è terminata: l’abbattimento dei valori degli attivi da parte delle maggiori banche coinvolte è stato ben più rapido che in occasione di precedenti crisi creditizie, ma queste stesse esperienze insegnano che le stime iniziali dei loro costi possono essere di gran lunga superate dalla realtà. Ed è ancora presto per valutarne pienamente le conseguenze sull’economia reale: molto dipenderà dalla dimensione e dalla rapidità del processo di ricapitalizzazione in corso presso le maggiori istituzioni finanziarie mondiali.
Ma una cosa è certa: l’unione monetaria europea, la cui banca centrale compie domani dieci anni di vita, ha protetto i suoi membri dalla turbolenza mondiale. È ancora viva in noi la memoria delle periodiche crisi di cambio che colpivano la lira a ogni stormir di fronda dei mercati.
Le nostre banche hanno retto bene in questi mesi l’urto della crisi: i loro attivi solo marginalmente toccati, i bilanci stabilmente fondati sulla raccolta dalla clientela. Una particolare responsabilità ricade su di loro. Con una politica monetaria unica, sono prevalentemente i termini, la qualità e la quantità del credito, dunque le banche, a decidere per gran parte del tessuto produttivo le specifiche condizioni finanziarie nei vari paesi membri. Con l’euro esse divengono, ancor più che in passato, determinanti per la capacità di competere del Paese. Attento giudizio del merito di credito, trasparenza nei rapporti con i clienti, dinamismo nell’assisterli devono essere i punti fermi della loro strategia.
Il Paese ha desiderio, ambizione, risorse per tornare a crescere; sa che lo sviluppo è, nel tempo, condizione essenziale della stabilità finanziaria. Ha una storia a testimoniare che non c’è niente di ineluttabile nella crisi di crescita che da anni lo paralizza. I protagonisti della ripresa devono essere coloro che hanno in mano il futuro: i giovani, oggi mortificati da un’istruzione inadeguata, da un mercato del lavoro che li discrimina a favore dei più anziani, da un’organizzazione produttiva che troppo spesso non premia il merito, non valorizza le capacità. Il consenso sulle cose da fare è vasto, ma si infrange
nell’urto con gli interessi costituiti che negli ultimi anni hanno scritto il nostro impoverimento. La stabilità della politica, la forza delle istituzioni sono le fondamenta su cui costruire l’intervento risanatore. La sua attuazione richiederà l’impegno di tutte le forze di cui dispone il Paese.

 03-06-2008

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Tratto da Relazione annuale della Banca d'Italia


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