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La percezione del tempo da Eraclito ad Einstein


“[…] la distinzione tra passato, presente e futuro è soltanto un’illusione, anche se ostinata”. Einstein

Se l’universo fosse bifronte.
Il punto di Giano
di Julian Barbour Einaudi, Torino, 2022

giano



Fin dai tempi dei filosofi greci, pochi argomenti come la natura del tempo hanno solleticato l’interesse di scienziati, letterati e pensatori. Tra i tanti aspetti che ancora oggi sono argomento di dibattito c’è la cosiddetta freccia del tempo: sulla base della nostra esperienza quotidiana, chiunque di noi avrebbe pochi dubbi nell’affermare che il tempo scorre in un’unica direzione, dal passato verso il futuro. Tuttavia questa percezione è in qualche modo in contrasto con le leggi fondamentali della fisica, che non prevedono alcun verso speciale: se si inverte il segno del tempo nelle equazioni, le leggi restano invariate. Perché allora nella realtà del tempo sembra esistere una direzione privilegiata?
Una parziale risposta arriva dal secondo principio della termodinamica, secondo cui l’entropia, una grandezza fisica associata al grado di disordine di un sistema fisico, non può mai diminuire. Per fare un esempio pratico, tutti noi abbiamo osservato il vapore uscire da una tazza di caffè bollente, ma nessuno ha mai sperimentato il processo opposto: la prima configurazione conduce infatti a uno stato di maggiore entropia, verso cui il sistema tende spontaneamente.
Secondo il modello cosmologico standard, il principio è alla base anche dell’evoluzione del nostro universo, partito da uno stato di entropia minima (coincidente con il big bang) e giunto oggi a una configurazione molto più disordinata e ricca di strutture come le stelle e le galassie. Questo scenario contiene però alcune zone d’ombra: tra queste, soprattutto la necessità di imporre l’ipotesi dell’origine dell’universo in un punto di minima entropia, una condizione che molti scienziati non considerano soddisfacente in quanto arbitraria.
La proposta del fisico britannico Julian Barbour, frutto di un lungo lavoro di ricerca ha un obiettivo molto ambizioso: affrontare le questioni aperte sulla natura del tempo e della cosmologia attraverso una nuova teoria dell’universo, che rivoluziona il concetto stesso di freccia del tempo.
Nella visione di Barbour, il big bang diventa il «punto di Giano», una posizione di partenza speciale da cui si dipartono due direzioni temporali opposte: una è quella che sperimentiamo noi, l’altra corrisponde a un universo in cui il tempo scorre in senso inverso (e a cui noi non possiamo accedere, dandoci così l’erronea percezione che il tempo possa scorrere solo in una direzione). Proprio come il Giano Bifronte, divinità romana dai due volti e in grado di guardare sia il passato sia il futuro, il punto di Giano di Barbour guarda due futuri che si allontanano in versi opposti, preservando così la simmetria dello scorrere del tempo.
A rendere possibile l’evoluzione di questo affascinante cosmo «a due facce» sarebbe l’espansione dell’universo, uno dei capisaldi osservativi su cui si basa la cosmologia moderna.
È difficile non farsi conquistare dalla visione del cosmo che emerge da questa teoria, ma va sottolineato che non si tratta di una lettura semplice: l’autore non rinuncia ad approfondimenti tecnici che, sebbene probabilmente indispensabili per spiegare al meglio la sua teoria, potrebbero forse spaventare un lettore non esperto.
Al contempo, sono però frequenti anche intermezzi che legano gli argomenti del libro all’arte, alla filosofia e alla letteratura (con molti riferimenti a Shakespeare). E c’è un messaggio di fondo molto chiaro: l’autore regala una visione ottimistica del futuro dell’universo, destinato non a una morte lenta e inesorabile, governata dall’aumento dell’entropia, ma al contrario proiettato verso una crescita continua del numero di strutture complesse e ordinate che potrà ospitare. Un universo, insomma, che tende all’ordine anziché allontanarsene: anche questa sarebbe una rivoluzione.
Matteo Serra

giano

Giano bifronte

«La divinità è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. Ed essa muta come il fuoco». (Eraclito)

La visione cosmologica di Eraclito (535 a. C. – 475 a. C.) sfocia nell’identificazione panteistica dell’universo con Dio, che è unità dei contrari. La filosofia di Eraclito esprime una visione ciclica del reale (tipica della cultura greca), per cui il mondo, dopo un determinato periodo, ritorna al caos iniziale, da cui riemergerà nuovamente per ricominciare il suo corso, sempre uguale (palingenesi, il termine di origine greca che deriva da pálin, che significa «di nuovo» e génesis, che significa «generazione»). Le vicende cicliche che vediamo con i sensi (l’alternanza delle stagioni, del giorno e della notte) suggeriscono tale dottrina in maniera empirica. Da notare che solo con l’avvento del Cristianesimo abbiamo avuto una concezione teleologica, finalistica del tempo. Graficamente potremmo rappresentare la concezione ellenica come una circonferenza, quella cristiana come una linea retta delimitato dalla nascita, dalla morte e dal regno di Dio.

La definizione di tempo secondo Einstein, Nietzsche e Novikov

Molte volte si fa fatica ad afferrare la forma reale di ciò che banalmente si presenta alla nostra vista. La difficoltà nasce dall’immersione totale in una dimensione che può essere abitata ma non osservata dall’esterno. Ecco, il tempo è esattamente un’entità di questo tipo: talmente presente nella nostra vita che non è possibile staccarsene e comprendere pienamente la sua essenza.
Una delle riflessione che, a mio avviso, riesce maggiormente a catturare la natura del tempo è quella offerta da Sant’Agostino ne Le Confessioni.

“Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, direi di non saperlo ”.

Il tempo scorre attraverso la nostra esistenza e, specularmente, la nostra vita viene scandita dal tempo. Noi abitiamo il tempo nello stesso modo in cui le lancette abitano l’orologio: manifestazione fenomenica del fluire temporale. Offriamo la nostra fisicità, lasciando che il tempo scandisca il divenire e si nutra di noi. La nozione comune di “tempo” – paradigma della fisica fino all’inizio del XX secolo – si frantuma di fronte al genio di colui che ha segnato il passaggio dalla fisica classica alla fisica moderna: Albert Einstein. Sino ad allora, si era consolidata l’idea scientifica – aderente al senso comune – che il tempo fosse, al pari dello spazio, un’entità assoluta, indipendente dagli osservatori e percepito sempre nello stesso modo, al di là della loro collocazione spaziale. Ogni evento, dunque, si collocava lungo una linea unidirezionale, in modo da stabilire inequivocabilmente la distinzione fra passato, presente e futuro. Interessante sottolineare che, se ogni evento scorre attraverso questa triade lineare unidirezionale e costituisce un’istanziazione del fluire temporale, allora solo il presente è reale, perché il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora.

“[…] la distinzione tra passato, presente e futuro è soltanto un’illusione, anche se ostinata”.Einstein

La celebre citazione del genio della fisica mina tuttavia le fondamenta del nostro modo di pensare lo scorrere del tempo. Con la teoria della relatività ristretta, Einstein teorizzò che il tempo non fosse assoluto, ma relativo a due variabili: la velocità e il riferimento spaziale degli osservatori. Per essere ancora più precisi, è la distanza temporale (intervallo) fra due eventi a essere relativa alle variabili appena citate. Questo significa che l’intervallo di tempo che intercorre fra un evento A e un evento B differisce da osservatore a osservatore. Ricordo il paradosso dei gemelli: uno resta sulla Terra, l’altro si imbarca su una navicella che fa un giro nello spazio a velocità vicina a quella della luce. Quando il gemello astronauta ritorna, trova l’altro invecchiato molto più di lui. Perché avvicinandosi alla velocità della luce il tempo scorre più lentamente.
Non a caso da Einstein in poi si parlerà di spaziotempo (o cronotopo) per indicare la struttura quadridimensionale dell’universo, dove alle tre dimensioni dello spazio – lunghezza, larghezza e profondità – viene aggiunta la dimensione del tempo. Ogni evento fisico avviene in questo teatro cosmico ed è definito da queste quattro coordinate.
Non c’è da preoccuparsi se non si riesce ad afferrare pienamente una simile idea: noi siamo esseri tridimensionali, che pensano tridimensionalmente, appunto. Rispetto alla quadridimensionalità, ci troviamo nella stessa condizione di una formica – un essere bidimensionale proiettato nel nostro campo tridimensionale – nella misura in cui il suo sistema fisico di coordinate è definito unicamente da lunghezza e larghezza. La formica infatti non ha un’altezza, o meglio, la propria altezza è irrilevante per il suo sistema fisico di coordinate; poiché è proprio l’altezza a fornire la profondità, il piccolo insetto non è in grado di catturare questa qualità dello spazio e, di conseguenza, la tridimensionalità. Vedendo un uomo attraversare una stanza, luogo tridimensionale, la formica non riuscirebbe a comprendere la possibilità di quel tipo di movimento: sarebbe – sempre per l’insetto – come se l’uomo si fosse teletrasportato da un punto della stanza a un altro. Ovviamente anche la formica può muoversi nella stanza, ma può farlo solo in lungo e in largo, o ancora meglio, riesce a concettualizzare il suo movimento solo attraverso queste due dimensioni. Per lei la stanza non è un cubo, ma un unico piano, bidimensionale appunto. Ecco, l’uomo si trova nella quadridimensionalità esattamente nello stesso modo in cui una formica si trova nella tridimensionalità.
Con l’avvento della meccanica quantistica il tempo ha dunque cambiato la propria qualità ontologica – passando da assoluto a relativo – ma non la propria qualità fisico-geometrica. Sulla scia del celebre fiume eracliteo, il divenire – inteso non solo come movimento ma anche come mutamento, dunque nello spazio e nel tempo – fluisce perpetuamente, garantendo alla realtà un’illimitata dinamicità. Il tempo è sempre una linea retta, lungo la quale, tuttavia, non è garantito che questo scorra sempre e per tutti nello stesso modo. Eppure, nonostante quella lineare sia la concezione del tempo che più ci è familiare – eredità della tradizione ebraico-cristiana –, sin dall’Antica Grecia, in particolare con lo stoicismo, è andata sviluppandosi l’idea di una struttura ciclica del tempo, determinante nella continua morte e rinascita dell’universo. Mescolandosi con la mitologia classica e l’ineluttabilità del destino, con cui si scontra un’umanità impotente di fronte al volere degli Dei, il tempo appare l’elemento dialettico del quale si veste la ciclicità del fato, andando a dilatare il nesso causa-effetto. L’idea del tempo circolare ha percorso, in modo frammentato, la storia dell’umanità, giungendo a colui che ne ha fatto uno dei capisaldi del proprio (anti-)sistema filosofico. L’Eterno Ritorno dell’Identico sentenzia ogni momento della nostra vita – un’azione, una frase, un pensiero – condannando lui a ritornare eternamente e noi a riviverlo innumerevoli volte. Nonostante l’esposizione più esaustiva della dottrina dell’eterno ritorno appartenga a Così parlò Zarathustra (1883-85), la sua prima formulazione si rintraccia già ne La gaia scienza (1882). Il filosofo tedesco immagina un demone che durante la notte striscia nella mente dell’umanità, lasciando in dono il “peso più grande” che un uomo possa sopportare, un “pensiero abissale”.

nietzsche

Friedrich Nietzsche fotografato da Gustav Adolf Schultze nel 1882. Nietzsche elabora un suo modo di intendere il tempo liberandolo dal trascendente e quindi dalla fiducia nell'avvenire. Zarathustra racconta di aver avuto una visione mentre scalava un monte. L'eterno ritorno significa che l'universo rinasce e rimuore in base a cicli temporali fissati e necessari, ripetendo eternamente un certo corso e rimanendo sempre sé stesso..

Mito dell'eterno ritorno nello Zarathustra

Nel capitolo dello Zarathustra intitolato La visione e l'enigma, Nietzsche introduce sotto forma di mito poetico e simbolico il pensiero dell'eterno ritorno dell'uguale (già evocato nel capitolo Della redenzione, allorché Zarathustra si rifiuta di enunciare ciò che insegna alla volontà, ossia il volere a ritroso), attraverso il dialogo tra il profeta e il nano, personificazione dello spirito di gravità: «Tutte le cose diritte mentono. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo» è l'opinione del nano. Questa prima interpretazione è però giudicata come troppo superficiale («Tu, spirito di gravità! – replica infatti Zarathustra – non prendere la cosa troppo alla leggera!») e portatrice di una generica professione di fede nella circolarità e insensatezza del tutto (nichilismo passivo). Nella seconda parte però, Zarathustra espone la sua controinterpretazione della visione della "porta carraia" - dalla quale si dipartono le due "strade infinite", quella del passato e quella del futuro - che aggiunge caratteri essenziali alla prima interpretazione del nano. La novità di questa controinterpretazione consiste nel fatto che Zarathustra va a fondo e tocca l'argomento decisivo che pone il punto di svolta dal nichilismo passivo al nichilismo attivo. Non solo tutto ciò che diviene deve essere già stato vissuto, ma soprattutto la porta stessa, l'attimo presente, deve già essere stata in passato. Si è dunque raggiunto il piano di passaggio dal nichilismo passivo al nichilismo attivo, quindi dall'eterno ritorno come pensiero paralizzante, all'eterno ritorno come liberazione dal simbolico (viene confutata in parte la prima interpretazione del nano). L'attimo è compreso nell'eterno circolo di passato e futuro.
Successivamente, Zarathustra è come ridestato dall'ululato di un cane che gli permette di cambiare scena. Egli vede il cane quasi chiedere aiuto vicino a un pastore, che è come soffocato da un serpente, la cui testa esce dalla sua bocca. Il serpente, nello specifico, indica l'eterno ritorno ed è come se il pastore fosse soffocato da questa concezione dell'eterno circolo del tempo. Un gesto fondamentale, fa tornare il sorriso sulle sue labbra, ormai non più sofferenti, del pastore ("mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!"): questi infatti aveva morso e staccato la testa al serpente, indicando così allegoricamente l'accettazione dell'eterno ritorno. È importante sottolineare come l'accettazione dell'eterno ritorno sia dovuta a una decisione del pastore: se questi non avesse mai morso la testa al serpente, non sarebbe mai stato in grado di accettarlo e di istituirlo. Vi è quindi un attimo in cui il pastore istituisce, cioè vuole, il ripetersi eterno della vita e dell'istante. Solo se l'attimo che l'uomo vive è immenso, cioè ingloba in sé tutto il suo significato, si può volerlo sempre di nuovo. L'uomo che può volere l'eterno ritorno è un uomo felice, a cui la vita dà attimi “immensi”, come testimonianza piena di esistenza e significato. In quest'opera è possibile vedere il ruolo di Nietzsche come "difensore" di un tempo qualitativo, qualificato nella sua densità dai contenuti vissuti. Famosa la definizione dell'"imperativo categorico" di Nietzsche: "vivere in modo da poter desiderare di rivivere questa stessa vita in ripetizione eterna". Correlata alla tematica dell'eterno ritorno e quindi al principio del movimento è la trasvalutazione dei valori che da alcuni è stata intesa come capovolgimento dei valori. Il capovolgimento reca in sé l'affermazione di un valore ulteriore. Mentre la trasvalutazione è legata al fluire del valore stesso senza preminenza di alcuno in particolare, e quindi al superamento del valore. Riprendendo Nietzsche quando parla di Eraclito, l'unico filosofo a cui si sente legato, afferma che il movimento reca in sé la possibilità dell'annientamento. Tradotto in termini filosofici e legato questo concetto a quello caro a Nietzsche della trasvalutazione, non vi può essere una morale né un valore assoluto ma valori istintuali che si annientano nel movimento. Se non fosse così si considererebbe Nietzsche un moralista o un idealista.


“Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello della polvere!”

L’uomo comune non ha gli strumenti per affrontare una simile idea perché, in ultima analisi, significherebbe ammettere di non aver un controllo sulla propria vita. Sarà dunque compito dell’Oltreuomo, colui che ha riconciliato essenza ed esistenza, colui che ha superato la condizione mediocre della cultura occidentale rivelandone le contraddizioni, dettare le condizioni del superamento di un simile ostacolo. È un ritorno alla vita, alla pulsione degli istinti, all’importanza del presente – decisamente in chiave anticristiana. Non c’è più una fine alla quale rivolgere il proprio sguardo né un passato al quale rimanere ancorati, pesi che gravavano sull’attimo presente, il quale dunque veniva svuotato di significato. Futuro e passato non divorano più il presente, perché è ora esso stesso a contenerli entrambi. L’uomo felice è colui che accetta la vita pienamente, dopo aver maturato il desiderio che ogni attimo ritorni eternamente, in quanto forma della propria volontà individuale. Il “così fu” del passato viene trasformato dall’Oltreuomo nel “così volli che fosse” dell’eterno presente. La struttura ciclica del tempo mostra, per chi è in grado scrutarla, la pienezza dello spirito.

Nella seconda metà dello scorso secolo l’eterno ritorno della temporalità si è arricchito della teorizzazione scientifica del fisico russo Igor’ Dmitrievic Novikov. Il principio di autoconsistenza di Novikov afferma che il passato è immutabile, nella misura in cui ogni evento è determinato causalmente non solo dagli eventi che lo precedono ma anche da quelli che lo seguono. Il tempo è un “sistema chiuso” nel quale ogni stato di cose è dunque determinato non solo dal passato ma anche dal futuro, facendo del nesso causa-effetto un elemento che agisce in modo bidirezionale. La causalità è, in tal senso, totalmente assorbita dalla struttura ciclica del tempo, che ne fa una semplice spettatrice dinnanzi al proprio spettacolo. Alla luce di quanto detto, il risultato paradossale di chi cerca di cambiare il presente – cambiando il passato – si rivela nel fatto che egli al più contribuisce, in maniera più o meno determinante, alla creazione di quel presente dal quale è partito. Così i protagonisti, ogni volta, tornando nel passato dànno origine a quella linea temporale – in realtà un cerchio – che avevano intenzione di distruggere. Accade puntualmente, infatti, che il futuro influenzi il passato in un modo radicalmente opposto a quanto voluto dai protagonisti. Ciò che si crea non è mai una realtà alternativa a quella attuale, dalla quale provengono, ma piuttosto il compimento di quello stato di cose punto di partenza del loro viaggio e che invano hanno cercato di modificare. Ogni tentativo di correggere la successione temporale si rivela determinante nella realizzazione della stessa. Metafisicamente parlando, sembra che il tempo abbia una propria volontà, nonché una propria coscienza, e non accetti di venir smembrato da un essere insignificante come l’uomo. Il tempo si auto-corregge, rimargina le ferite provocate dai suoi viaggiatori, facendosi beffa del loro desiderio di cambiare il suo disegno. L’idea del tempo circolare si porta dietro un pesante corollario, quello secondo cui passato, presente e futuro sembrerebbero dissolversi e ricrearsi perpetuamente, all’intero di una struttura del tempo, paradossalmente, a-temporale. Una sorta di surrogato umano dell’eterno presente di Dio.
Il segreto, sussurrato da Sant’Agostino e urlato da Nietzsche, ha a che fare con la capacità dell’umanità di svestirsi della necessità di una risposta universale. Anche se destinata a ripetersi in eterno, ogni scelta dell’uomo determina quello che è, sia in senso pragmatico che psicologico. Accettare le proprie scelte significa accettare se stessi: significa accettare la vita.



IMPRESA OGGI - 7 febbraio 2023



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www.impresaoggi.com