“[…] la distinzione tra passato, presente e futuro è soltanto un’illusione, anche se ostinata”. Einstein
Alcuni fisici che lavorano alla fusione nucleare si sono presi il merito di una svolta epocale. Un gruppo di ricerca della
National Ignition Facility (NIF), in California, ha annunciato di aver ottenuto una reazione di fusione nucleare controllata a confinamento inerziale che ha emesso più
energia di quella usata per attivarla. (Personalmente non credo che la fusione a confinamento inerziale possa avere successo per la produzione di energia elettrica da immettere in rete. Penso che maggiori probabilità possa derivare dalla scoperta di materiali superconduttori ad alta tenperatura da usare per i magneti in un tokamak o in uno stellarator. NDR).
E' un traguardo mai raggiunto prima al mondo e un importante passo avanti per la fisica, però si è ancora molto lontani da
una soluzione che permetta lo sfruttamento della fusione come fonte energetica nella pratica. L’annuncio ha
suscitato una serie di reazioni secondo lo schema ormai familiare nella ricerca in questo settore: chi sostiene la tecnologia plaude
al risultato, mentre gli scettici lo liquidano come qualcosa di poco conto, lamentando che la scienza continua sempre a promettere che la fusione sarà disponibile tra vent’anni (o 30, o 50, secondo le versioni).
Queste reazioni accese sono il segno di quanto sia alta la posta
in gioco con la fusione. Il mondo è alla ricerca sempre più disperata di una fonte di energia pulita e abbondante. La
fusione nucleare, ovvero l’unione di nuclei atomici leggeri, sarebbe forse in grado di generare energia con emissioni di carbonio
pari quasi a zero, senza produrre scorie radioattive
associate agli attuali reattori a fissione nucleare, che invece funzionano spaccando i nuclei pesanti di elementi radioattivi. I fisici studiano la fusione fin dagli anni cinquanta, tuttavia la sua trasformazione in una fonte energetica utile nella pratica è ancora
un obiettivo elusivo e frustrante da raggiungere.
Diventerà mai
una fonte significativa per questo nostro pianeta sempre affamato di energia? «Ritengo in effetti che la fusione sembri molto più plausibile ora rispetto a dieci anni fa come fonte energetica per il futuro», afferma Omar Hurricane, direttore di programma al Lawrence Livermore National
Laboratory, che ospita la NIF. «Però non sarà una tecnologia realizzabile a livello pratico nei prossimi dieci o vent’anni, perciò abbiamo bisogno di altre soluzioni».
Diagramma della reazione esotermica D-T (deuterio-trizio) con la produzione di elio e l'emissione di energia.
Una storia lunga
La fusione nucleare fu riconosciuta come potenziale fonte di
energia quasi contemporaneamente alla fissione. In una riunione in cui si tiravano le somme del Progetto Manhattan, a fine 1945,
il fisico italiano Enrico Fermi, che aveva guidato il progetto per la
costruzione del primo reattore a fissione a Chicago durante la seconda guerra mondiale, prevedeva un futuro in cui si sarebbero
usati reattori a fusione per la generazione di energia. Gli scienziati riuscirono a capire come rilasciare l’energia della fusione appena qualche anno più tardi, ma solo nella forma delle esplosioni incontrollate e apocalittiche delle bombe a idrogeno. Una volta che
avessimo imparato come realizzare il processo in modo controllato e sostenuto, prevedevano alcuni scienziati, l’elettricità sarebbe
diventata «così economica che non sarebbe valsa la pena misurarne il consumo».
Tuttavia le sfide si sarebbero rivelate molto più complicate del
previsto. «È estremamente difficile», afferma Hurricane. «In pratica dobbiamo costruire una stella sulla Terra». La fusione di due
atomi di idrogeno che vanno a formare l’elio è il processo che alimenta il Sole e le altre stelle. Quando nuclei atomici così leggeri
si uniscono, liberano una quantità enorme di energia. Però i nuclei hanno carica elettrica positiva, perciò si respingono a vicenda e ci vogliono livelli enormi di pressione e di temperatura per
superare la barriera elettrostatica e riuscire a farli unire. Se si riesce a confinare il carburante della fusione (un plasma composto
da deuterio e trizio), l’energia rilasciata permette alla reazione di
autosostenersi. Ma come si fa a imbottigliare il plasma a una temperatura di circa 100 milioni di kelvin, diverse volte più calda del
centro del Sole?
Non esiste alcun materiale noto in grado di resistere a condizioni così estreme; anche i metalli più resistenti al calore, come il
tungsteno, si scioglierebbero all’istante. La soluzione che si preferisce da tempo nella progettazione dei reattori è il confinamento magnetico: si confina il plasma dotato di carica elettrica in una
«bottiglia» formata da forti campi magnetici, in modo che non
tocchi mai le pareti della camera di fusione. Il modello più usato, chiamato tokamak e proposto negli anni cinquanta da alcuni
ricercatori sovietici, usa un contenitore toroidale (cioè a forma di
ciambella).
Il processo richiede un controllo estremo.
Schematizzazione del tokamak
Il plasma, spaventosamente caldo, non rimane fermo: tende a sviluppare alti gradienti termici che generano forti correnti convettive, le quali a loro
volta generano turbolenza e lo rendono difficile da gestire. Queste
instabilità, simili a piccole eruzioni solari, possono far sì che il plasma entri in contatto con le pareti e le danneggi. Altre instabilità
del plasma possono produrre fasci di elettroni ad alta energia che
perforano il rivestimento della camera di reazione. Bloccare o tenere sotto controllo queste fluttuazioni è una delle sfide più serie
per i progettisti di tokamak. «Il grande successo degli ultimi dieci anni è il fatto di aver imparato a capire i dettagli quantitativi di
queste turbolenze», sostiene Steven Cowley, che guida il Princeton Plasma Physics Laboratory.
Uno dei maggiori ostacoli alla fusione a confinamento magnetico è il bisogno di materiali in grado di resistere al trattamento a cui
li sottopone il plasma in fusione. In particolare, la fusione deuterio-trizio crea un flusso intenso di neutroni ad alta energia che urtano i nuclei degli atomi nel metallo delle pareti e del rivestimento,
causando piccole macchie in cui il metallo fonde. In seguito, il metallo cristallizza di nuovo, però rimane indebolito, con alcuni atomi spostati rispetto alla posizione iniziale. Nel rivestimento di un
normale reattore a fusione, ogni atomo si può spostare per circa
100 volte nell’arco della durata utile dell’impianto.
Le conseguenze di questo bombardamento intenso di neutroni non sono ancora ben note, perché finora la fusione non è mai
stata sostenuta per i lunghi periodi che sarebbero necessari in un
reattore funzionante. «Non conosciamo e continueremo a non
conoscere la degradazione dei materiali e la loro durata utile finché non avremo in funzione una centrale elettrica a fusione», afferma Ian Chapman, amministratore delegato della UK Atomic
Energy Authority (UKAEA), l’ente del governo britannico per
l’energia nucleare. Comunque si possono ottenere informazioni importanti su questi problemi di degradazione con un semplice esperimento che genera intensi flussi di neutroni da usare per
testare i materiali. Una struttura di questo tipo dovrebbe entrare in funzione a Granada, in Spagna, poco dopo il 2030: si tratta di
un progetto basato su un acceleratore di particelle e chiamato International Fusion Materials Irradiation Facility-Demo Oriented
Grafiche di Mark Belan
Neutron Source. Un’altra struttura simile, la Fusion Prototypic Neutron Source, è stata proposta negli Stati Uniti, ma è ancora in
attesa di approvazione.
Non è detto che questi problemi relativi ai materiali si possano risolvere. Se dovessero rivelarsi insormontabili, un’alternativa consiste nel realizzare le pareti del reattore in metallo liquido,
che non viene danneggiato dal processo di fusione e ricristallizzazione. Però questa soluzione, commenta Cowley, porta con sé tutta un’altra serie di problemi tecnici.
Un’altra grande sfida consiste nel produrre il carburante della
fusione. Sul nostro pianeta, il deuterio esiste in abbondanza: questo isotopo costituisce lo 0,016 per cento dell’idrogeno presente
in natura, perciò i mari ne sono letteralmente pieni. Invece il trizio si forma in natura solo in piccole quantità e ha un decadimento radioattivo con un tempo di dimezzamento di appena 12 anni. In linea teorica è possibile «generarlo» nelle reazioni di fusione, perché i neutroni della fusione reagiscono con il litio e lo producono.
Nella maggior parte dei casi, i progetti dei reattori includono questo processo di generazione e circondano la camera di reazione
con un rivestimento in litio. Tuttavia la tecnologia non è ancora
stata testata su larga scala e nessuno sa davvero se la produzione e
l’estrazione di trizio funzioneranno, né con quali risultati.
Macchine colossali
Il progetto di reattore a fusione più grande al mondo, chiamato ITER (che in latino significa «la via» ma è nato come acronimo
di «International Thermonuclear Experimental Reactor»), si trova
nel sud della Francia e per contenere il plasma userà un
tokamak con un raggio di 6,2 metri; in totale il macchinario peserà 23.000 tonnellate. Se tutto va secondo i piani, ITER, che ha il
sostegno di Unione Europea (UE), Regno Unito, Cina, India, Giappone, Corea del sud, Russia e Stati Uniti, sarà il primo reattore a
fusione a dimostrare che è possibile una produzione continua di
energia sulla scala di una centrale elettrica (circa 500 megawatt,
o MW). I lavori di costruzione sono iniziati nel 2007. La speranza iniziale era produrre il plasma nella camera di fusione entro il
2020 circa, ma il progetto ha subito numerosi ritardi e i costi, stimati in 5,45 miliardi di dollari, sono quadruplicati. A gennaio di
quest’anno i responsabili del progetto hanno annunciato un ulteriore ritardo: l’entrata in funzione, prevista nel 2035, sarà forse rimandata al decennio 2040-2050.
Comunque ITER non produrrà
energia per uso commerciale; come dice il nome, è un dispositivo esclusivamente sperimentale che intende risolvere i problemi
ingegneristici e aprire la strada a centrali elettriche funzionanti.
Questa nuova battuta d’arresto per quello che alcuni considerano un colosso ingombrante senza garanzia di successo ha dato il via a una nuova ondata di scetticismo. Però bisogna aspettarsi problemi del genere, secondo Hurricane, che afferma: «Oggi
ITER è oggetto di critiche pesanti, ma bisogna dare ai ricercatori un po’ di tempo e aspettare che risolvano i problemi». Chapman
concorda: «Era prevedibile che ci fossero problemi, sia politici che tecnici. Il progetto sta realizzando cose straordinarie, per
esempio sta dando vita a filiere di approvvigionamento che prima
non esistevano». Il ritardo è una delusione, ammette, «ma credo
che in futuro, guardando a quello che è stato ITER, non lo considereremo un problema. Lo considereremo un passo molto importante nella storia della fusione. Sono convinto che funzionerà».
Probabilmente i tokamak usati nelle centrali elettriche non dovranno essere altrettanto colossali, e di certo non potranno essere altrettanto costosi quanto il progetto ITER.
Negli ultimi tempi sta aumentando l’interesse verso impianti più piccoli con una
forma più sferica. L’UKAEA sta
portando avanti un progetto pilota con uno di questi dispositivi,
lo Spherical Tokamak for Energy Production (STEP), che oggi è
in fase di progettazione e sarà sviluppato parallelamente a ITER.
L’idea della struttura sferica è stata sperimentata con successo, a livello di prova di principio, con un dispositivo chiamato
Mega Ampere Spherical Tokamak (MAST), che è stato in funzione dal 1999 al 2013 sotto il controllo dell’UKAEA e della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom). Questi macchinari più
piccoli presentano una maggiore densità energetica e quindi un
rischio maggiore di danni dovuti al calore, soprattutto in fase di
estrazione del carburante esausto caldo. Una versione migliorata, MAST Upgrade, è stata attivata nel 2020 e ha avuto successo
nell’estrazione del calore con un’efficienza di circa 20 volte superiore a quella del modello originale. «Questo risultato apre davvero le porte all’idea di realizzare una centrale elettrica compatta»,
commenta Chapman.
Spherical Tokamak for Energy Production ( STEP ) è un concetto di impianto di fusione tokamak sferico proposto dalla United Kingdom Atomic Energy Authority (UKAEA) e finanziato dal governo del Regno Unito. Il progetto è una proposta di dispositivo successore di classe DEMO del tokamak ITER proof-of-concept, il reattore a fusione tokamak più avanzato fino ad oggi, che dovrebbe raggiungere una ' combustione plasma ' nel 2035. STEP mira a produrre elettricità netta dalla fusione su una scala temporale del 2040.
È qui che entra in gioco STEP, che vuole essere proprio quello: un prototipo di centrale elettrica con guadagno netto di energia. L’impianto è ancora in fase di progettazione concettuale, ma
il governo britannico si sta già muovendo con norme ad hoc per
un progetto che (per la prima volta al mondo nell’ambito della fusione) elimina la necessità di una licenza nucleare convenzionale.
Lo scorso ottobre i direttori del progetto hanno scelto il sito di costruzione: una centrale elettrica a carbone nel nord dell’Inghilterra, che è stata dismessa a marzo e dovrebbe essere demolita a inizio 2024. Il sito dispone già di un sistema di approvvigionamento
idrico per il raffreddamento ed è collegato alla rete elettrica nazionale e a quella ferroviaria.
Anche l’UE sta progettando un prototipo di centrale, chiamato
DEMOnstration Power Plant (DEMO) e gestito dal consorzio EUROfusion. Il progetto prevedeva inizialmente un impianto da 500
MW, ma lo scorso anno, a seguito delle incertezza dovute ai ritardi di ITER, il consorzio ha deciso di ridimensionare l’obiettivo e di
portarlo a circa 200 MW. I lavori di costruzione potrebbero iniziare poco dopo il 2040, secondo Tony Donné, direttore di programma per EUROfusion. «Sono convinto che possiamo costruire
un impianto del genere in dieci anni».
Donné aggiunge che ci sono simili progetti «intermedi» di centrali a fusione in Corea del Sud, Giappone e Cina, mentre gli Stati
Uniti hanno progettato un impianto più piccolo, la Fusion Nuclear
Science Facility. «La Cina si è attivata un po’ in ritardo, ma oggi sta
investendo molto e sta anche sviluppando rapidamente la forza
lavoro», spiega Chapman. «Si sta sicuramente rimettendo in pari con quello che già esiste in Europa e negli Stati Uniti». Donné è
convinto che un po’ di sana competizione, un po’ come una corsa allo spazio ma con l’obiettivo di realizzare il primo prototipo di
impianto a fusione, possa rivelarsi utile, purché gli Stati continuino a condividere le informazioni.
Il mondo delle start-up
Comunque non esistono solo i grandi progetti nazionali e internazionali. I piccoli tokamak sferici sono una delle tecnologie
che hanno messo la fusione alla portata delle aziende private. Le
start-up dedicate alla fusione sono spuntate a decine in tutto il
mondo, per esempio la Commonwealth Fusion Systems (CFS), nel
Massachusetts, la General Fusion, in Canada, e la Tokamak Energy, nel Regno Unito.
Con il sostegno dell’UKAEA, la General Fusion ha da poco iniziato la costruzione di un impianto dimostrativo che spera (ambiziosamente) di mettere in funzione entro il 2025. Secondo l’ex
amministratore delegato dell’azienda, Christofer Mowry, sarà «la
prima dimostrazione su larga scala utile a realizzare una centrale
elettrica». Intanto CFS, in partenariato con il Plasma Science and
Fusion Center (PSFC) del Massachusetts Institute of Technology
(MIT) e altri organismi, sta costruendo un prototipo chiamato
SPARC, che secondo le previsioni sarà pronto a sua volta nel 2025.
SPARC sarà un tokamak di medie dimensioni in cui il plasma è saldamente confinato da campi magnetici intensissimi prodotti da
nuovi magneti superconduttori ad alta temperatura sviluppati
dal MIT e presentati nel 2021. Questi magneti sono stati accolti come un grande passo avanti per la fusione a confinamento magnetico, perché la densità di energia del plasma aumenta rapidamente via via che aumenta la forza del campo magnetico.
Il gruppo che lavora a SPARC intende ottenere un guadagno
netto di energia dal plasma (ricavando circa dieci volte più energia rispetto a quella immessa) e generare tra i 50 e i 140 MW di
energia da fusione. Anche se SPARC è molto più piccolo di ITER,
il direttore del PSFC Dennis Whyte afferma che ha una missione
simile: risolvere gli ostacoli scientifici e tecnologici sulla via dello
sfruttamento commerciale. Il dispositivo non immetterà energia
nella rete nazionale, ma vuole aprire la strada all’idea di un reattore a fusione «economico, robusto e compatto» sviluppata dal MIT
e perseguita dal CFS, che Cowley considera «l’azienda di maggior
impatto» oggi.
Cowley accoglie con entusiasmo progetti del genere, ma mette in guardia dal considerarli una scorciatoia per far diventare la
fusione una fonte energetica utile a livello commerciale. «Vediamo queste start-up che arrivano piene di entusiasmo, e si concentrano soprattutto su una parte specifica del problema», racconta.
È molto improbabile che una di queste aziende riesca a rendere
commerciale l’energia da fusione prima dei pezzi grossi, e molte finiranno solo per chiudere i battenti, come succede spesso a
certe start-up. Tuttavia Chapman ritiene che altre aziende porteranno valore con la loro esperienza e con la fornitura di componenti specializzati come i magneti. «Per la maggior parte, le aziende piccole che si occupano di fusione diventeranno anelli della
filiera», afferma.
Varietà di progetti
Le soluzioni per la fusione a confinamento magnetico non si
limitano necessariamente ai tokamak. Negli anni cinquanta l’astrofisico Lyman Spitzer sostenne che il plasma si potesse confinare in modo più efficiente in una camera toroidale con pareti ad
anello attorcigliato. In questa configurazione, il sistema poteva
confinare il plasma usando campi magnetici generati da correnti nel plasma stesso.
La struttura di questo sistema, chiamato stellarator, è più complessa e difficile da realizzare a livello ingegneristico, ma ci sono
alcuni progetti avviati in questo senso.
Schema di confinamento dello stellarator
Un esempio è lo
stellarator Wendelstein 7-X a Greifswald, in Germania, completato nel 2015 e oggi di nuovo in funzione dopo un intervento di potenziamento durato tre anni. «Uno stellarator presenta vantaggi, ma tecnicamente è più complicato», spiega Donné. «In Europa
stiamo lavorando allo stellarator come sistema di riserva rispetto al tokamak». La tecnologia è ancora a uno stadio relativamente iniziale, perciò è probabile che se a un certo punto si dovesse
ricorrere davvero al sistema di riserva, i tempi necessari per realizzare la fusione con impianti utilizzabili a livello commerciale si
dilaterebbero di nuovo.
La strategia della NIF è diversa da tutti questi progetti. Invece di usare una grande quantità di plasma confinato da campi magnetici, l’esperimento della NIF accende una piccola sfera di deuterio e trizio. Si innesca la fusione con una compressione rapida
e un intenso riscaldamento del plasma, che quando è in fusione
è tenuto fermo brevemente solo dalla sua stessa inerzia. La NIF
raggiunge le condizioni estreme necessarie all’innesco concentrando sul bersaglio fasci laser ad alta intensità. L’energia di fusione è rilasciata in una breve scarica prima che il plasma caldo
si espanda, perciò la produzione avviene in modo pulsato e bisogna introdurre costantemente nuove capsule di carburante nella camera di reazione. Secondo le stime della maggior parte degli
esperti, per rendere utilizzabile questo approccio le capsule andrebbero sostituite circa dieci volte al secondo.
Le difficoltà della fusione a confinamento inerziale scoraggiano chiunque, perciò attualmente sono poche le strutture in tutto
il mondo che la studiano. Oltre alla NIF, che è la più grande, ci sono il Laser Mégajoule in Francia e l’impianto laser Shenguang-III
in Cina; è possibile che anche la Russia stia portando avanti tentativi in questa direzione, tuttavia è difficile conoscerne con certezza i dettagli. La generazione di energia in realtà non è tra gli
obiettivi principali della NIF: la missione dell’impianto consiste
soprattutto nell’innescare reazioni nucleari da studiare per mantenere aggiornato l’arsenale nucleare degli Stati Uniti. «Il lavoro
principale della NIF è stato interamente sovvenzionato dal settore della sicurezza nazionale negli Stati Uniti», spiega Hurricane.
«Non è un reattore a fusione, e non ha l’obiettivo di dare una dimostrazione di come si possa produrre energia da fusione in senso pratico».
C’è ancora molto lavoro da fare prima che la fusione a confinamento inerziale possa diventare davvero una possibile soluzione per rispondere al fabbisogno energetico. «I lavori si sono
concentrati sulla scienza di base, mentre non ci siamo impegnati
altrettanto a studiare le tecnologie di supporto necessarie per una
centrale elettrica», spiega Tammy Ma, che guida l’iniziativa della
NIF in questo campo.
Fusione a confinamento inerziale
Guardando al futuro
In questo panorama variegato di progetti, quanto siamo davvero vicini alla produzione di energia da fusione in un modo che
sia utilizzabile a livello pratico? Chapman è netto: «Oggi non c’è in
corso neanche un solo progetto che abbia l’obiettivo di costruire
una centrale per la produzione di energia da fusione».
E per costruire le centrali vere e proprie, cioè quelle che non
si limitano a essere prototipi, ci vogliono circa dieci anni. «Gli
esperimenti stanno facendo progressi e questi progressi sono
impressionanti – continua Chapman – ma la fusione non diventerà una fonte energetica significativa funzionante nel giro di pochi anni». Donné è ancora più netto: «Chiunque oggi mi dica che
avrà un reattore in funzione nel giro di cinque o dieci anni è un
completo ignorante oppure un bugiardo».
Prevedere quando arriverà l’energia da fusione è sempre stata una scommessa difficile, ma oggi gli esperti sono generalmente d’accordo sull’arco temporale approssimativo. «Immaginiamo di avere un impianto pilota funzionante per la fine degli anni
trenta di questo secolo, anche se è una supposizione un po’ ottimista», afferma Cowley. Una struttura del genere probabilmente
non sarà un progetto utile da usare per realizzare impianti di tipo commerciale, perciò, continua, «credo che ci vorrebbero altri
dieci anni circa dall’impianto pilota al primo reattore commerciale». Chapman concorda che gli impianti a fusione potranno iniziare a immettere energia nella rete elettrica nazionale attorno al
2050 e poi potranno diventare sempre più importanti per il bilancio energetico nella seconda metà del secolo, soprattutto a partire dal 2060.
Probabilmente le centrali a fusione saranno circa delle stesse dimensioni di quelle attuali a combustibili fossili o a fissione,
con una produzione di qualche gigawatt. Questo significa che si
potranno costruire sugli stessi siti, sostituendo una centrale con
un’altra e sfruttando quindi tutte le infrastrutture necessarie già
esistenti per il collegamento alla rete elettrica. «Si può dire che sarà facile sostituire i combustibili fossili o la fissione con la fusione», commenta Donné. «La transizione potrà avvenire senza scossoni». L’esperto prevede che le centrali a fusione sostituiranno prima gli impianti a carbone ancora attivi, poi quelli a petrolio e a
gas e infine quelli a fissione.
Sul lungo periodo potrebbe rivelarsi l’opzione migliore per
soddisfare il nostro fabbisogno energetico. Lev Artsimovich, esperto sovietico che fu un pioniere
della fusione e «padre del tokamak», ebbe a dire che il mondo avrà
la fusione nucleare quando deciderà di averne bisogno. Al momento non abbiamo altra soluzione a lungo termine per arrivare alle
emissioni zero, soprattutto se consideriamo che stando alle proiezioni attuali il fabbisogno energetico globale triplicherà tra il
2050 e il 2100. «La fusione è essenziale» per rispondere a quel fabbisogno, afferma Chapman. «Non vedo altra soluzione possibile».
Le rinnovabili, come l’energia eolica e quella solare, avranno di
sicuro un ruolo da svolgere, secondo Donné, ma probabilmente
non basteranno.
Costruire un nuovo tipo di infrastruttura energetica a partire da zero presenta nuove opportunità e nuove sfide. I progettisti che si occupano di fissione nucleare hanno fatto errori enormi
in termini di progetti e di relazioni pubbliche, ma l’industria della fusione, che oggi è ai suoi albori, ha la possibilità di imparare
da quegli errori e di fare meglio, anche riflettendo sulle questioni
di equità e giustizia energetica. «Quando avremo questi impianti, dove li metteremo per offrire una fonte di energia pulita alle
comunità di ogni tipo?», chiede Ma, della NIF. «Come realizziamo una forza lavoro inclusiva e variegata? Come facciamo, mentre sviluppiamo questo settore, ad assicurarci che il personale sia
addestrato e possa apprendere quelle capacità che saranno necessarie in futuro? Questa volta abbiamo almeno la possibilità di fare
le cose per bene».
LE SCIENZE DI AGOSTO - 17 agosto 2023
Tratto da