S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo;
s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi’ madre.
S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.
Angiolieri
GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.
ITALIANI
- Angiolieri - Ariosto - Boccaccio - Carducci - Cavalcanti - D'Annunzio - Dante - Leopardi - Machiavelli - Manzoni - Pascoli - Petrarca - Pirandello - Tasso - Verga -Virgilio
Francesco Angiolieri, detto Cecco (Siena, 1260 circa – Siena, 1310/1313), è stato poeta e scrittore.
Contemporaneo di Dante Alighieri e appartenente alla storica casata nobiliare degli Angiolieri, non si hanno però molte notizie certe sulla sua biografia. Si sa che ebbe una vita molto avventurosa, fu dedito al gioco, subì processi per disturbo della quiete pubblica e dilapidò il patrimonio che gli aveva lasciato il padre. Nelle sue poesie, circa 110 sonetti, ci ha lasciato l'immagine di personaggio inquieto e ribelle che si accanisce contro la miseria e la sfortuna. Con i suoi modi sarcastici e dissacranti si prende gioco del Dolce stil novo; in altre poesie, più originali, esalta goliardicamente il gioco, il vino e maledice la famiglia, il mondo e la gente. Celebri sono i sonetti S'i' fosse foco, Tre cose solamente mi so 'n grado e La mia malinconia è tanta e tale.
Cecco Angiolieri nacque a Siena da una famiglia particolarmente benestante, intorno al 1260. Il padre era il banchiere Angioliero degli Angiolieri, figlio di Angioliero detto "Solafica"; fu cavaliere, fece parte dei Signori del Comune nel 1257 e nel 1273 (dopo essere stato priore per due volte) ed appartenne all'ordine dei Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria (i cosiddetti «Frati Gaudenti»). La madre era Monna Lisa, appartenente alla nobile e potente casata dei Salimbeni, anch'ella iscritta al suddetto ordine.
Si presume che il giovane Cecco trascorse la sua fanciullezza a Siena, dove ricevette anche una prima educazione. Di famiglia tradizionalmente guelfa, nel 1281 Cecco figurò tra i Guelfi senesi all'"assedio" dei concittadini ghibellini asserragliati nel castello di Torri di Maremma nei pressi di Roccastrada, e fu più volte multato per essersi allontanato dal campo senza la dovuta licenza. Da altre multe fu colpito a Siena l'anno successivo, l'11 luglio 1282, per essere stato trovato nuovamente in giro di notte dopo il terzo suono della campana del Comune, violando pertanto il coprifuoco («quia fuit inventus de nocte post tertium sonum campane Comunis»).
Siena, Via Cecco Angiolieri
Un ulteriore provvedimento lo colpì nel 1291 in circostanze analoghe; oltretutto, nello stesso anno fu implicato nel ferimento di Dino di Bernardo da Monteluco, pare con la complicità del calzolaio Biccio di Ranuccio, ma solo quest'ultimo fu condannato. Militò come alleato dei fiorentini nella campagna contro Arezzo nel 1289, conclusasi con la battaglia di Campaldino; è possibile che qui abbia incontrato Dante Alighieri, che pure figurava tra i combattenti dello scontro.
Il sonetto 100, datato tra il 1289 e il 1294, sembra confermare che i due si conoscessero, in quanto Cecco si riferisce a un personaggio che entrambi dovevano ben conoscere (Lassar vo' lo trovare di Becchina, / Dante Alighieri, e dir del mariscalco); questo mariscalco vanesio tra le donne fiorentine, anch'egli impegnato a Campaldino, è stato identificato con un tal Amerigo di Narbona, «giovane e bellissimo del corpo, ma non molto sperto in fatti d'arme» (Dino Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, I, 7).
Intorno al 1296 fu allontanato da Siena, a causa di un bando politico. Si desume dal sonetto 102 (del 1302-1303), indirizzato a Dante allora già a Verona, che in quel periodo Cecco si trovasse a Roma (s'eo so' fatto romano, e tu lombardo). Non sappiamo se la lontananza da Siena dal 1296 al 1303 fu ininterrotta. Il sonetto testimonierebbe anche della definitiva rottura tra Cecco e Dante (Dante Alighier, i' t'averò a stancare / ch'eo so' lo pungiglion, e tu se' 'l bue).
Dante Alighier, s’i’ so bon begolardo,
tu mi tien’ bene la lancia a le reni1,
s’eo desno con altrui, e tu vi ceni;
s’eo mordo ’l grasso, tu ne sugi ’l lardo;
s’eo cimo ’l panno, e tu vi freghi ’l cardo:
s’eo so discorso, e tu poco raffreni;
s’eo gentileggio, e tu misser t’avveni;
s’eo so fatto romano, e tu lombardo.
Sì che, laudato Deo, rimproverare
poco pò l’uno l’altro di noi due:
sventura o poco senno cel fa fare.
E se di questo vòi dicere piùe,
Dante Alighier, i’ t’averò a stancare;
ch’eo so lo pungiglion, e tu se’ ’l bue.
O Dante Alighieri, se io sono un gran fanfarone (begolardo), tu mi segui molto da vicino (mi tien’ bene la lancia a l e reni, metafora). Lo stesso concetto – “se io ho un vizio, tu non sei da meno” – è ribadito insistentemente nelle quartine, attraverso un succedersi di metafore. S ’eo desno… tu vi ceni: se io pranzo con qualcuno, tu vi ceni. La congiunzione e – che ricorre in tutte le quartine – è paraipotattica: sembra presentare come proposizione coordinata quella che è, in effetti, la reggente della proposizione precedente («tu vi ceni» è l’apodosi del periodo ipotetico di cui «s’eo desno con altrui» costituisce la protasi). S ’eo mordo… ’l lardo: se io mordo il grasso, tu succhi il lardo. Anche qui le due espressioni hanno significato quasi identico. Il verso potrebbe riferirsi al vizio dell’avidità. S ’eo cimo… ’l cardo: se io tolgo il pelo al panno, tu vi strofini il pettine (cardo). Il verso sembra riferirsi al vizio della maldicenza. Livello metrico: Sonetto con rime incrociate nelle quartine e alternate nelle terzine. Lo schema è ABBA, ABBA; CDC, DCD. Il testo, che presenta alcune forme toscane (come il «so» dei vv. 1, 6, 8) o propriamente senesi (come il «misser» del v. 7), ed espressioni popolaresche (come «begolardo», v. 1) è costruito nelle quartine su una successione di periodi ipotetici, tutti coincidenti con un intero verso (tranne il primo, che si distende su due versi). Analisi del testo (“cimare il panno”, come nota Marti, è espressione analoga al nostro “tagliare i panni addosso a qualcuno”). Poiché il “cardare” è azione più energica del “cimare”, Cecco sostiene qui che Dante lo supera in maldicenza. S ’eo so… raffreni: se io sono andato troppo oltre (discorso), tu ti trattieni (raffreni) poco. S ’eo gentileggio… t’avveni: se io mi do arie da gran signore, tu ti atteggi a messere (misser; la forma con la -i protonica è senese). S ’eo so fatto… lombardo: se io sono stato costretto ad andare a Roma, tu in Italia settentrionale (“Lombardia” indicava nel medioevo un’area molto più vasta di quella attuale). Non si hanno notizie certe circa la permanenza – o forse l’esilio – di Cecco a Roma. Quanto a Dante, il sonetto potrebbe riferirsi a un momento in cui l’esule si rifugiò a Verona. Sì che… cel fa fare: Per cui, lodato Dio, ciascuno di noi due può rimproverare poco l’altro. La disperazione o la stupidità ci induce a farlo. La terzina si riferisce evidentemente a un precedente attacco polemico di Dante. E se di questo… ’l bue: E se su questo argomento vuoi parlare ancora, o Dante Alighieri, io finirò per stancarti; perché io sono il pungiglione, e tu sei il bue (metaforicamente, io sono in grado di infastidirti più di quanto tu possa fare con me).
Tuttavia non sono attestate risposte (tantomeno proposte) dantesche, per cui, se tenzone fra i due vi fu, ci rimane solo la parte composta da Cecco (e non sappiamo nemmeno se è tutta, peraltro). Inoltre, nelle opere di Dante, Cecco non è mai nominato, né suoi componimenti sono citati.
Nel 1302 Cecco svendette per bisogno una sua vigna a tale Neri Perini del Popolo di Sant'Andrea per settecento lire ed è questa l'ultima notizia disponibile sull'Angiolieri in vita. Proprio per questa ragione si oppose a ogni forma di politica proclamandosi persona libera e indipendente; si ritiene che questa sua imposizione fosse dovuta al bando politico che lo allontanò da Siena.
Dopo il 1303 fu a Roma, probabilmente sotto la protezione del cardinale senese Riccardo Petroni. Da un documento del 25 febbraio 1313 sappiamo che cinque dei suoi figli (Meo, Deo, Angioliero, Arbolina e Sinione; un'altra figlia, Tessa, era già emancipata) - rinunciarono all'eredità perché troppo gravata dai debiti. Si può quindi presupporre che Cecco Angiolieri sia morto intorno al 1310, forse tra il 1312 e i primi giorni del 1313.
Poetica
La poetica di Cecco Angiolieri rispetta tutti i canoni della tradizione comica toscana. I suoi sonetti da parte della critica sono generalmente considerati, specie dopo gli studi di Mario Marti, la caricaturale rifrazione del Dolce stil novo: questa posizione antistilnovistica emerge specialmente nella poesia dialogata Becchin' amor, dove si narra di un'amante sensuale e meschina, con connotati certamente antitetici a quelli angelici della Beatrice di dantesca memoria.
– Becchin’amor! – Che vuo’, falso tradito?
– Che mi perdoni. – Tu non ne se’ degno.
– Merzé, per Deo! – Tu vien’ molto gecchito.
– E verrò sempre. – Che sarammi pegno?
– La buona fé. – Tu ne se’ mal fornito.
– No inver’ di te. – Non calmar, ch’i’ ne vegno
.
– In che fallai? – Tu sa’ ch’i’ l’abbo udito.
– Dimmel’, amor. – Va’, che ti vegn’un segno!
– Vuo’ pur ch’i’ muoia? – Anzi mi par mill’anni.
– Tu non di’ ben. – Tu m’insegnerai.
– Ed i’ morrò. – Omè che tu m’inganni!
– Die tel perdoni. – E che, non te ne vai?
– Or potess’io! – Tègnoti per li panni?
– Tu tieni ’l cuore. – E terrò co’ tuoi’ guai..
Il sonetto è costruito su fittissimo scambio di battute tra il personaggio di Cecco e la donna amata, Becchina: una popolana venale, il cui vero nome era probabilmente Domenica, la quale – come risulta da altre poesie – ha assecondato Cecco finché questi ha avuto la borsa piena, e poi gli si è rivoltata contro. La battuta di Cecco occupa sempre la prima metà del verso, la risposta della donna la seconda. Per comodità, nella parafrasi faremo precedere ogni battuta dall’iniziale del nome di chi la pronuncia. C: Becchina, amore! B: Che vuoi, bugiardo traditore (tradito, forma derivata dal nominativo latino traditor; di norma, invece, i vocaboli italiani derivano dall’accusativo singolare: “traditore” discende da traditorem)? C: che mi perdoni. B: Tu non ne sei degno. C: Pietà, per Dio! B: Tu vieni molto umile. C: E verrò sempre. B: Che cosa me lo potrà garantire (sarammi pegno)? C: La buona fede. B: Tu ne sei poco provvisto (mal fornito). C: Non nei tuoi confronti (inver’ di te: Cecco ammette di essere insincero, ma proclama la sua buona fede almeno nei confronti della donna). B: Non cercare di placarmi (non calmar), perché ho appena sperimentato (i’ ne vegno, lett. vengo in questo momento da lì; l’interpretazione del verso, comunque, non è semplice). C: In cosa ho sbagliato (fallai)? B: Tu sai che io ne ho (abbo, forma toscana popolare vicina all’etimo latino habeo) avuto notizia (udito, lett. l’ho sentito dire: Becchina è venuta a conoscenza di un tradimento di Cecco). C: Dimmelo, amore. B: Va , che ti venga un malanno (segno: l’espressione indica probabilmente, per metonimia, un malanno tale da lasciare il segno. Un’altra possibile interpretazione è che ti possano sfregiare)! Vuo’ pur… m’inganni: C: Vuoi proprio (pur) che io muoia? B: , anzi non vedo l’ora (mi par mill’anni, lett. mi sembra di aspettare questo momento da mille anni). C: Tu dici una cosa crudele (non di’ ben, litote). B: Tu mi insegnerai (ironico). C: Allora io morirò. B: Ahimè, che tu mi inganni (Becchina si rammarica che i propositi di morte di Cecco non siano veri). Die… guai: C: Dio te lo perdoni (riferito alla crudeltà della donna). B: Ma come (E che), non te ne vai? C: Magari (Or) ne avessi la forza (potess’io)! B: ti trattengo per i vestiti (panni; l’interrogativa retorica è evidentemente ironica)? C: Tu tieni il cuore. B: E terrò con tuo danno (co’ tuoi guai).
Questa sua polemica contro i poetae novi del dolce stile, attuata con uno smodato uso della mimesi caricaturale e con uno stile tagliente e impetuoso, viene inoltre calata nei vicoli tumultuosi della sua Siena natia, tanto da far esclamare a Marti «quante figure di scorcio nei suoi sonetti!».
Lo stesso Marti ci offre un buon compendio dei connotati dei sonetti di Cecco, che si distingue per:
«[gli] incipit iperbolici, la sua tecnica "a catena", l'improvvisa introduzione della battuta dialogata, la conclusione esclamativa, la sua sintassi impervia, il suo lessico dialettale, ma pur ricco di parole nuove e preziosissime, l'uso scoperto di formule e di figure retoriche, le cadenze sentenziatrici e proverbiose suggerite dalle Artes, le modulazioni scanzonate e motteggiatrici» (Mario Marti)
S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo;
s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi’ madre.
S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.
Nei suoi sonetti emergono l'attenzione per la vera realtà della vita borghese e la rappresentazione realistica e schietta dell'amore e della sessualità. L'inventio di Cecco, in realtà assai ristretta, culmina nell'ampio utilizzo della parodia, utilizzata per rovesciare tutti i caratteri propri dello stilnovismo, e nell'invenzione dell'invettiva antipaterna, cinicamente rivolta in S'i' fosse foco ai genitori.
Così Mario Marti:
«Cecco ha saputo fissare in arte quel riso malizioso e un po' grossolano, ma, in fondo, innocente, che affiora spontaneamente nell'animo, in maggiore o minore misura, quando linee caratteristiche di cose o difetti caratteristici di uomini sono accentuati fino all'esagerazione: che può esser segno di sprezzo, ma anche d'amore»
(Mario Marti)
Tre cose solamente mi so ’n grado,
le quali posso non ben men fornire:
ciò è la donna, la taverna e ’l dado;
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.
Ma sì me le conven usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’al mentire;
e quando mi sovvien, tutto mi sbrado,
ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire.
E dico: – Dato li sia d’una lancia! –
Ciò a mi’ padre, che mi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.
Trarl’un denai’ di man serìa più agro,
la man di pasqua che si dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.
Importante sottolineare, infine, che i suoi sonetti spesso contengono allusioni autobiografiche, per lungo tempo considerate vere: si veda, ad esempio, l'amore per la linguacciuta Becchina, le diatribe con la moglie, pettegola e arcigna, una vita gaudente e spensierata trascorsa tra i dadi ed il buon vino. Seppure sia fuori di dubbio che sia stato un uomo dal temperamento ardente, scapigliato, e che la sua vita sia stata segnata dalla sregolatezza e dalla dissipazione, secondo la critica da Marti in poi sarebbe da escludere che i suoi componimenti contengano precise indicazioni autobiografiche. Becchina, "figlia d'un agevol cuoiaio", sarebbe quindi il capovolgimento dell'immagine stilnovista della donna-angelo. E nel sonetto precedente dice quali sono le tre cose che gli fanno «'l cuor lieto sentire»: «la donna, la taverna e 'l dado».
Tuttavia nel corso del secolo e mezzo di studi su Cecco Angiolieri, un'altra linea interpretativa è carsicamente riaffiorante: quella che vede in lui un irriverente scrittore sì, ma fondamentalmente "sincero" nel poetare, e soprattutto senza intenzioni parodiche. La prima parte di questa linea interpretativa, quella della "sincerità", depurata degli autobiografismi romantici alla D'Ancona e consapevole della letterarietà delle composizioni, ha oggi il suo esponente principale in Antonio Lanza; invece è stato Claudio Giunta a sostenere la non parodicità dei suoi componimenti.
Francesco Flora, a proposito di Cecco Angiolieri, riferendosi particolarmente al suo più noto sonetto, «S'i' fossi foco, arderei 'l mondo», analizza l'impeto «della sua matta e sinistra vitalità», che lo travolgerebbe fino al pensiero del delitto dei propri genitori, se tale pensiero, espresso in forma elaborata, non fosse domato «in una trasfigurazione verbale» talmente audace da confinare con l'innocenza.
Numero dei sonetti e autenticità
Il problema testuale è centrale per la lettura e l'interpretazione dell'opera angiolieresca, per due motivi: il primo è che le edizioni attualmente in uso differiscono nel numero dei sonetti a lui attribuiti; il secondo, che è la causa del primo, è che dal 1874, anno in cui Alessandro D'Ancona pubblicò il suo studio su Cecco Angiolieri, al poeta senese si sono attribuiti sonetti che invece sono opera di altri autori, in primis Meo de' Tolomei, suo concittadino e contemporaneo. L'equivoco si è chiarito solo negli anni cinquanta del XX secolo, tuttavia continua a dare adito a problemi di attribuzione.
La nascita del volgare
A partire dalla prima metà del XIII secolo , ossia alle origini della letteratura u italiana c’è un duplice fattore poetico che si sviluppa nello stesso periodo in regioni diverse d’italia, si esprime in lingue volgari differenti, un esempio è la poesia religiosa umbra che celebra l’amore per Dio, e la poesia siciliana che, invece, esalta l’amore per una donna.
La poesia religiosa si diffonde nell’Italia centrale più esattamente in area Umbria, essa nasce da movimenti di devozione popolare che coinvolgono masse di credenti. Il principale esponente della poesia religiosa è Francesco d’Assisi, che ha scritto il cantico di frate sole, poi troviamo jacopone da Todi che pubblica le sue laude religiose alla fine del XIII secolo, la lingua in cui scrivono questi due autori e’ il v olgare umbro. La poesia d’amore dei siciliani, essa nasce nell’itala meridionale intorno al 1224/25, scritta in volgare siciliano il più importate poeta è Jacopo da lentini che inventa la forma del sonetto. Poi troviamo i poeti siculo toscani, il più importante è Guittone D’Arezzo. La lingua di questi temi e’ Il volgare toscano. Nello stesso periodo nasce Una produzione poetica in Toscana definita “poesia comico-realistica” perché tratta temi della realtà, il più famoso tra i poeti comico-realistici è Cecco Angiolieri, la lingua usata e’, appunto, il volgare toscano.
La poesia comico-realistica
Con l’espressione di poesia comico-realistica ci si riferisce a un insieme molto variegato di autori, accomunati da due elementi:
la lontananza dalla linea poetica che, dalla poesia provenzale, arriva allo stilnovo;
il ricorso a temi legati alla quotidianità e a un linguaggio vicino alla lingua parlata.
Lo stesso aggettivo “comico” va inteso nel senso medievale di poesia umile, che ricorre a un tono basso, mentre “realistica” si riferisce al contenuto di questa lirica, che affronta temi quotidiani (ma senza vere e proprie aspirazioni al realismo, inteso in senso moderno).
I riferimenti di questa poesia si possono rinvenire:
nei versi goliardici della poesia mediolatina (l’esempio più noto sono i Carmina Burana);
nella parodia (genere presente in varie letterature), cioè la descrizione con linguaggio alto di un argomento basso.
Nella poesia comico-realistica, quindi, c’è un ribaltamento dei valori cortesi. Tutto, piuttosto, viene deformato per andare verso il ridicolo. Si possono così ritrovare caricature di persone conosciute, rappresentazioni ben poco idealizzate dell’amore sensuale, donne volgari e sentimenti che non hanno niente di nobile.
Allo stesso tempo, però, è una poesia che tiene in considerazione la lezione della poesia colta dell’epoca. Ne è una dimostrazione la complessità che si ritrova nella costruzione formale di alcuni componimenti. I temi trattati, inoltre, sono dei topoi, che non necessariamente affondano le loro radici nel vissuto del poeta o fanno riferimento a fatti realmente accaduti. Inoltre, trattandosi di un filone poetico che rifiuta il conformismo e le gerarchie sociale, dà voce a temi come l’emarginazione e il dissenso.
Il fiorentino Rustico di Filippo (1230-1291/1300) è il più antico autore riconducibile a questo filone, nonché uno dei più rappresentativi. Dei suoi 58 sonetti, 29 sono di tipo comico. Sono composizione che si caratterizzano per una rude energia e per un registro molto ampio, che spazia dai termini aulici a quelli popolani.
Cecco Angiolieri è il più famoso autore di questo filone poetica. Nacque a Siena, nel 1260 circa, da una famiglia nobile di orientamento guelfo. Di temperamento anticonformista e gaudente, ebbe una vita sregolata.
Le fonti gli attribuiscono 130 sonetti, dei quali però una ventina è spuria. Lo stesso Angiolieri contribuisce a creare l’immagine del vagabondo gaudente con cui è conosciuto, molto probabilmente esagerando alcuni tratti che dovevano essere tipici del suo carattere. Si descrive infatti come un uomo dedito alla crapula, che odia i genitori perché non voglio dargli i soldi e la moglie perché lo rimbrotta di continuo.
Il suo componimento più famoso è il sonetto S’i’ fosse fuoco, che ruota attorno a una serie di affermazioni contro famiglia, società, religione e politica. Il tutto in un crescendo di violenza, secondo una accentuazione iperbolica. Ma è solo un gioco letterario, smorzato dall’invito finale a godere dei piaceri immediati. Grande però è la cura formale che Cecco dedica al sonetto: ha una struttura simmetrica, e l’anafora (la ripetizione della frase S’i’ fosse all’inizio di ogni verso) attribuisce al testo un andamento martellante. Quest’ultimo è acuito dalla presenza della cesura in nove versi su quattordici.
A Cecco Angiolieri si fa risalire un filone particolarmente fortunato nella letteratura italiana, che riusce autori come Pulci, Folengo e Rusante. Autori di opere dissacranti, in cui si racconta di personaggi irregolari, contrapponendo spiritualità a realtà materiale.
A Folgóre da San Gimignano (vissuto tra il XIII e il XIV secolo) sono attribuiti 22 sonetti scritti tra il 1309 e il 1317. Di questi:
14 sonetti compongono una corona, in cui si spiega come trascorrere lietamente i mesi dell’anno;
8 sonetti parlano dei giorni della settimana;
gli altri componimenti affrontano tematiche politiche o celebrano le virtù cavalleresche.
C’è infatti, nell’opera di Folgóre, una nostalgia per la passata età della cortesia, scomparsa in seguito all’avvento del mondo mercantile. Si è persa, in questo modo, l’arte dello spendere e del donare, cosa a cui il poeta cerca di rimediare, spiegando nelle sue opere come spendere il tempo in modo signorile. Sono quindi sonetti in cui l’autore magnifica lo sfarzo e spiega come l’antica cortesia si sia adattata al nuovo spazio della città. Il mondo feudale, contrapposto a quello borghese, diventa così un luogo di evasione. Ma la poesia di Folgóre non è priva di ironia: non mancano infatti elementi caricaturali e toni realistici.
I SONETTI
– Accorri accorri accorri, uom, a la strada!
– Che ha’, fi’ de la putta? – I’ son rubato.
– Chi t’ha rubato? – Una che par che rada
come rasoio, si m’ha netto lasciato.
– Or come non le davi de la spada?
– I’ dare’ anz’a me. – Or se’ ’mpazzato?
– Non so che ’l dà, così mi par che vada.
– Or t’avess’ella cieco, sciagurato!
– E vedi che ne pare a que’ che ’l sanno?
– Di’ quel che tu mi rubi. - Or va con Dio,
ma anda pian, ch’i’ vo’ pianger lo danno,
ché ti diparti. – Con animo rio!
– Tu abbi ’l danno con tutto ’l malanno!
– Or chi m’ha morto? – E che diavol sacc’io?
***
Or non è gran pistolenza la mia,
ch’i’ non mi posso partir dad amare
quella che m’odia e nïente degnare
vuol pur vedere ond’i’ passo la via?
E dammi tanta pena, notte e dia,
che de l’angoscia mi fa sì sudare,
che m’arde l’anima, e niente non pare;
certo non credo ch’altro ’nferno sia.
Assa’ potrebb’uom dirm’: – A nulla giova! –
Ch’ell’è di tale schiatta nata, ’ntendo,
che tutte son di così mala pruova.
Ma per ch’i’ la trasamo, pur attendo
ch’Amor alcuna cosa la rimova:
ch’è sì possente, che ’l può far correndo.
***
I’ ho sì poco di grazia ’n Becchina,
in fé di Di’, ch’anche non tèn a frodo,
che in le’ non posso trovar via né modo,
né medico mi val né medicina;
ch’ella m’è peggio ch’una saracina
o che non fu a’ pargoli il re Rodo;
ma certo tanto di le’ me ne lodo,
ch’esser con meco non vorrìe reina.
Ecco ’l bell’erro c’ha da me a lei:
ch’i’ non cherre’ a Di’ altro paradiso
che di basciar la terr’, u’ pon li piei;
ed i’ fossi sicur d’un fiordaliso,
ch’ella dicesse: – Con vertà ’l ti diei! –
e no ch’i’ fosse dal mondo diviso!
***
Oimè d’Amor, che m’è duce sì reo,
oimè, che non potrebbe peggiorare;
oimè, perché m’avvene, segnor Deo?
oimè, ch’i’ amo quanto si pò amare,
oimè, colei che strugge lo cor meo!
Oimè, che non mi val mercé chiamare!
oimè, il su’ cor com’è tanto giudeo,
oimè, che udir non mi vol ricordare?
Oimè, quel punto maledetto sia,
oimè, ch’eo vidi lei cotanto bella,
oimè, ch’eo n’ho pure malinconia!
Oimè, che pare una rosa novella,
oimè, il su’ viso: dunque villania,
oimè, cotanto come corre ’n ella?
***
Quanto un granel di panico è minore
del maggior monte che abbia veduto;
e quanto è ’l bon fiorin de l’or migliore
di qualunca denaro più minuto;
e quanto m’è più pessimo el dolore
ad averlo, e l’ho, ch’a averlo perduto:
cotant’è maggio la pena d’amore,
ched io non averei mai creduto.
Ed or la credo, però ch’io la provo
en tal guisa che, per l’anima mia,
di questo amor vorrìa ancor esser novo.
Ed ho en disamar quella bailìa
c’ha ’l pulcinello ch’è dentro da l’ovo,
d’uscir ‘nnanzi ched el su’ tempo sia.
***
Quando veggio Becchina corrucciata,
se io avesse allor cuor di leone,
sì tremarei com’un picciol garzone
quando ’l maestro gli vuol dar palmata.
L’anima mia vorrebbe esser non nata,
nanzi ch’aver cotale afflizïone;
e maledico el punto e la stagione
che tanta pena mi fu destinata.
Ma s’io devesse darmi a lo nemico,
e’ si convien che io pur trovi la via
che io non temi el suo corruccio un fico.
Però, s’e’ non bastasse, io mi morrìa;
ond’io non celo, anzi palese ’l dico,
ch’io provarò tutta mia valentìa.
***
La mia malinconia è tanta e tale,
ch’i’ non discredo che, s’egli ’l sapesse
un che mi fosse nemico mortale,
che di me di pietade non piangesse.
Quella, per cu’ m’avven, poco ne cale;
che mi potrebbe, sed ella volesse,
guarir ’n un punto di tutto ’l mie male,
sed ella pur: – I’ t’odio – mi dicesse.
Ma quest’è la risposta c’ho da lei:
ched ella non mi vol né mal né bene,
e ched i’ vad’a far li fatti mei;
ch’ella non cura s’i’ ho gioi’ o pene,
men ch’una paglia che le va tra’ piei:
mal grado n’abbi Amor, ch’a le’ mi diène.
***
Amor, poi che ’n sì greve passo venni
che, chi vedìemi, ciascun dicìe: – Fiù! –
e di me beffe facìen maggior, più
ch’i’ dir non so, schernendomi per cenni,
era sì fuor di tutti e cinque senni,
ch’a ’maginar quanto ’n tutt’era giù
d’ogn’intelletto, ch’om di’ aver chiù,
sarìa lament’, e a pensar du’ m’attenni
ch’i’ non perìo; ma al tu’ gentil soccorso
che mi donasti quand’i’ venìe meno,
ciascun membro gridò: – No’ sbigottiamo! –
Di guiderdon ma’ non potre’ aver ramo
ch’i’ renderti potesse; ma tal freno
m’hai messo ’n bocca, che mai non lo smorso.
***
Se si potesse morir di dolore,
molti son vivi che serebber morti,
i’ son l’un desso, s’e’ non me ne porti
’n anim’e carn’ il Lucifer maggiore;
avvegna ch’i’ ne vo con la peggiore,
ché ne lo ’nferno non son così forti
le pene e li tormenti e li sconforti,
com’un de’ miei, qualunqu’è ’l minore.
Ond’io esser non nato ben vorrìa,
od esser cosa che non si sentisse,
poi ch’i’ non trovo ’n me modo né via,
se non è ’n tanto che se si compisse
per avventura omai la profezia,
che l’uom vuol dir che Anticristo venisse
***
Sonetto, da poi ch’i’ non trovo messo
che vad’a quella, che ’l me’ cor disìa,
merzé, per Dio! or mi vi va’ tu stesso
da la mia parte, sì che bene istia;
e dille ca d’amor so morto adesso,
se non m’aiuta la sua cortesia;
e quando tu le parli, istà di cesso,
ch’i ho d’ogni persona gelosia.
Se mi degnasse volerm’a servente,
anche non mi si faccia tanto bene,
promettile per me sicuramente
che ciò ch’a la gentile si convene,
io ’l farò di bon cor, sì lealmente,
ch’ella averà pietà de le mie pene.
UN'OPINIONE SU ANGIOLIERI VS DANTE
La formazione culturale di Cecco Angiolieri, maestro di Dante. Nell’Etica nicomachea Aristotele sostiene che è meglio “non tenere conto degli affetti personali quando si tratta della salvezza della verità”. Ma già in Platone si trova un tale concetto quando nel Fedone si fa dire a Socrate che i suoi interlocutori dovevano preoccuparsi meno di lui e più della verità.
Anche Cicerone nelle Tusculanae Disputationes (I, XVIII) afferma che preferisce sbagliare con Platone piuttosto che sostenere cose vere con i pitagorici. Il paradosso del logico Alfred Tarsky, secondo cui “Platone è un nemico, ma nemica più grande è la falsità”, porta a dedurre che nessun rapporto di amicizia dovrà essere più importante della verità.
Tirando le somme: l’amicizia trova un limite invalicabile nella fedeltà connessa con la relazione verso l’amico, ma siccome è massimamente discrezionale stabilire in che cosa consiste la verità, il rapporto fra verità e amicizia porterebbe a considerarci esonerati dall’obbligo morale insito nella relazione con l’amico.
Quando si tratta di scegliere fra due cose “sacre”, privilegiando ora l’una ora l’altra, si commette un tradimento, che tuttavia non è mai “assoluto”, sia che si scelga la fedeltà all’amicizia o alla verità.
Se Platone e Aristotele, fossero solo pseudonimi del falsario senese che nel XIV secolo compose le opere da lui attribuite non solo ai due massimi filosofi, ma anche a tanti altri autori greci e latini, Cecco Angiolieri, il vero autore dei surrogati di una gran massa di capolavori scomparsi nel buco nero delle invasioni barbariche, con questo piano mirò a riempire le lacune della cultura europea creando una produzione letteraria con cui si prese gioco dell’umanità, della sua logolalia e delle sue convinzioni talvolta aleatorie e assurde.
Si nascose non solo dietro le opere attribuite a Platone e a Aristotele, ma anche dietro quelle molto numerose che fanno capo a Cicerone, un bravo avvocato e un influente uomo politico trasformato dal senese in letterato di prim’ordine e perfino in specialista capace di risolvere almeno in parte le difficoltà testuali, talvolta insormontabili, presenti nel De rerum natura del poeta epicureo Lucrezio, sconvolto e portato alla pazzia e alla morte dagli effetti di un filtro d’amore.
Come testimone autorevole di questa storiella, capace di far nascere non pochi dubbi, si presenta addirittura Girolamo, grande letterato innalzato alla santità dalla Chiesa per i suoi meriti di traduttore dei testi sacri, ma forse più precisamente un rielaboratore dotato di idee molto personali sconfinanti nell’eresia.
Nessun altro se non un grande giullare colto come Cecco (il maestro tuttora sconosciuto di Dante Alighieri), in grado di servirsi alla perfezione di lingue morte e vive europee, avrebbe potuto architettare questo piano letterario incredibile.
I posteri, orgogliosi del proprio glorioso passato, da secoli continuano a ritenere solido e affidabile un imponente castello di carte, incuranti di recenti ipotesi, ritenute folli.
Il fatto è che Cecco non si limitò a un piano destinato dopo poco la sua morte a rivelarsi una buffonata piena di irrisioni nei confronti dei dotti che ne avrebbero sostenuta l’autenticità. Il senese ci lavorò sopra con tanto impegno geniale e serietà, che nonostante qualche voce isolata contraria, un favore incondizionato e quasi unanime al riguardo è bastato a eliminare ogni dubbio per secoli. Tanto più che all’inizio un atteggiamento contrario sarebbe stato considerato nocivo alla gloria di Firenze, in massima parte basata sulla Commedia: il pensiero che Dante si fosse limitato a scrivere quel solo capolavoro non passò nemmeno nell’anticamera del cervello dei suoi concittadini più colti.
Così sul nome e cognome dell’Alighieri, apposti dal falsario nel frontespizio di svariate opere dantesche cosiddette minori, nessuno ebbe a che ridire. In chi avesse invocato una maggiore cautela si sarebbe visto come il nemico di una città ricca per le sue intraprese industriali e commerciali, ma non certo eccelsa per cultura fino al XIV secolo inoltrato.
Provate oggigiorno a sostenere non solo in qualche ambiente universitario, ma anche in una piazza di Firenze che la Vita nova o le Rime, per di più contenenti molte espressioni tipiche del senese antico, sono dei falsi: vi andrà di lusso se sarete trattati solo a male parole.
In fondo, quando Platone, Aristotele e Cicerone parlano dei rapporti umani, lo fanno animati da grande serietà. Chi mai avrebbe potuto arguire dalle loro parole e dai loro atteggiamenti propri di grandi pensatori che in essi fosse presente qualche intento di irrisione o vendetta contro i propri simili?
Oggi su Cecco siamo venuti a conoscere tante cose finora ignorate. Ci eravamo fatta l’idea, ricavata dall’unica opera con il suo vero nome, vale a dire quel centinaio di sonetti composti in senese antico, che oltre a un bravo poeta realistico fosse una semispecie di giullare incline ai banchetti, alle allegre comitive spensierate e spenderecce, agli amori con le donne giovani e belle, al gioco, tutti vizietti capaci di azzerare un’eredità paterna cospicua.
Non sta proprio così. Questo bisessuale, per di più eretico, oltre che dedito alla cultura enciclopedica, fu un grande conoscitore delle lingue europee maggiori e perfino della lingua ebraica.
A mio parere quei sonetti in gran parte costituiscono una creazione fuorviante escogitata dal senese per lasciare di sé un’immagine lontana dalla realtà. Non c’è alcun dubbio che Cecco avesse la passione della buona tavola: ce ne hanno lasciate le prove Dante con il Ciacco del canto dei golosi e Cecco-Boccaccio stesso nel Decameron.
La cultura dell’Angiolieri fu vasta, profonda e enciclopedica, come per esempio testimonia il suo Tresor, ma quando sotto le false vesti di Iacopone da Todi ne assegna in una Lauda la colpa, più che il merito, a suo padre Angioliero descritto come un tiranno, si ha la netta impressione che dica una bugia: la cultura Cecco se la fece con quanto nei suoi viaggi per tutta l’Italia e per l’Europa riuscì a trovare del poco sopravvissuto alle invasioni barbariche, ma soprattutto con doti eccezionali di fantasia mediante la quale animò e arricchì le scarse notizie del mondo antico provenienti per lo più da fonti disparate e da tradizioni talvolta leggendarie.
Quanto alla formazione culturale dell’Angiolieri, dopo che io, dimostrando con l’analisi del Tresor l’inconsistenza culturale di Brunetto Latini, ho sostenuto che il senese fu il vero maestro di Dante, se le mie ipotesi saranno accolte, gli studiosi negli anni futuri dovranno precisare e decidere se Cecco, partendo dal proprio mondo culturale, sia stato in grado di falsare l’intera tradizione umanistica.
DANTE E CECCO, TRA GUELFO E GUELFO NON METTER BECCO.
La rivalità tra Dante Alighieri e Cecco Angiolieri è da sempre stata raccontata come uno scambio di scortesie tra i due poeti, quasi ad incarnare quell’inimicizia storica tra senesi e fiorentini.
In realtà la vicenda è un po' diversa da come la raccontano gli appassionati di storia patria e i due grandi menestrelli di fine Duecento non si sfidarono poi più di tanto a suon di rime. O meglio, da quel poco di scritto che ci è arrivato, sembrerebbe che gli attacchi a suon di penna in realtà fossero tutti da una parte sola.
E comunque ci fu sicuramente anche amicizia tra di loro.
I due personaggi tra l’altro fecero parte della stessa fazione politica: quella guelfa.
Dante era un “guelfo bianco”, poi costretto all’esilio per le vicissitudini che videro a Firenze una drammatica spaccatura all’interno della stessa frangia.
Anche la famiglia Alighieri fu di parte guelfa da sempre e nel periodo in cui i due poeti erano giovani anche Siena, dopo la sconfitta di Colle Val d’Elsa del 1269, aveva ormai abbandonato definitivamente il partito ghibellino.
Fu così che i due ragazzi si ritrovarono a combattere fianco a fianco nella battaglia di Campaldino, nella piana di Poppi, nel giugno del 1289. Proprio in quel frangente ebbero modo di conoscersi, come del resto capita di fare nei momenti drammatici della vita. Dante fu uno dei fanti che con il pavese (scudo) piantato in terra sostenne il primo urto della cavalleria aretina rischiando veramente la vita, mentre Cecco faceva parte del contingente senese inviato in aiuto dei fiorentini sul campo di battaglia. Per loro fortuna i ghibellini vennero sconfitti duramente e i morti guelfi furono pochi (circa trecento), mentre quelli aretini furono quasi duemila. Molti furono poi i nemici catturati e fatti prigionieri e tra questi alcune centinaia morirono nelle prigioni di Firenze. Se le cose fossero andate diversamente forse non avremmo mai conosciuto i sonetti dell’Angiolieri e la Divina Commedia di Dante.
Fatto sta che in alcune rime i due poeti ricordano e menzionano questa battaglia ed i suoi protagonisti. Dante lo fa più volte ricordando ad esempio la morte del comandante aretino Buonconte da Montefeltro (Purgatorio Canto V) e dando una soluzione all’enigma del suo corpo mai ritrovato dopo la battaglia, ma cita anche Corso Donati che a Campaldino fu a capo delle riserve pistoiesi di parte guelfa.
Anche Cecco in un sonetto composto tra il 1290 e il 1293 prende in giro la figura di un “marescalco” assai vanesio con le donzelle fiorentine. Si trattava di Amerigo di Narbona, capitano di guerra francese (parte guelfa) nella stessa battaglia e che il Compagni descrisse come «gentile uomo, giovane e bellissimo del corpo, ma non molto sperto in fatti d’arme», giudizio corrispondente al ritratto che ne fece burlescamente l’Angiolieri.
Certo non deve essere stato facile ritrovarsi improvvisamente in un campo di battaglia e Dante lo conferma descrivendo la grande paura che ebbe durante l’attacco aretino, dicendo chiaramente che pensava di morire.
Anche Cecco partecipò allo scontro sicuramente più per obbligo che per convinzione. A quei tempi tutti erano costretti, in caso di chiamata, a prendere le armi e partire se il Comune lo richiedeva e non ci si poteva tirare indietro.
L’Angiolieri tra l’altro non era nuovo a sottrarsi al proprio dovere ed esimersi dagli ordini militari. Lo aveva già fatto durante l’assedio del castello di Torri (1281), vicino a Roccastrada, quando si era allontanato più volte dal campo senza licenza ed era stato pesantemente multato. Gli episodi di intolleranza alle regole poi lo avevano portato a subire molti processi e condanne per rissa, per non aver rispettato il coprifuoco, per il ferimento di un certo Dino da Monteluco ecc..
Dunque, due caratteri che, seppur sensibili alla poesia e all’arte, erano difficilmente compatibili. Ci sono molti studi che hanno cercato di capire il motivo della rottura della loro amicizia, addossata addirittura alla diversa interpretazione dello stil novo o al diverso ruolo con il quale interpretavano la poetica, ma a giudicare dall’asprezza degli ultimi scritti di Cecco pare ci sia stato qualcosa di più.
Il terzo sonetto di Cecco a Dante (Dante Alghier, s’i’ so bon begolardo…) scritto tra il 1303 e il 1304, dimostra quanto oramai il limite fosse superato: “S’eo so’ fatto romano, e tu lombardo”
Purtroppo, la evidente rottura non trova un contraltare in Dante (le probabili risposte dell’Alighieri sono perdute) e quindi abbiamo solo la voce dell’uno senza il contraltare dell’altro, ma certo è che, pur non conoscendo quale fosse la scintilla iniziale non deve essere stata cosa da poco conto.
By AUGUSTO CODOGNO 10 Set 2021
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25 dicembre 2023 - Eugenio Caruso
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