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Ovidio, cantore dei miti greci e latini.

«Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore:
del secondo debbo tacere le mie colpe»
(Tristia 2, 1, v.207 sg.)


GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.

GRECI E LATINI

Anassagora - Anassimandro - Anassimene - Aristofane - Aristotele - Diogene - Empledoche - Eraclito - Euripide - Fibonacci - Lucrezio - Ovidio - Pitagora - Platone - Seneca - Socrate - Talete - Zenone -

ovidio 1

Ritratto immaginario di Ovidio

Publio Ovidio Nasone, noto semplicemente come Ovidio ( Sulmona, 20 marzo 43 a.C. – Tomi, 17 o 18 d.C., è stato un poeta romano, tra i principali esponenti della letteratura latina e della poesia elegiaca. Fu autore di molte opere, il cui corpus è tradizionalmente suddiviso in tre sezioni:
La prima sezione, che si colloca tra il 23 a.C. e il 2 d.C., è rappresentata dalle opere elegiache di argomento amoroso e comprende gli Amores, le Heroides (Epistulae heroidum) e il ciclo delle elegie a carattere erotico-didascalico.
La seconda sezione, tra il 2 d.C. e l'8 d.C., è caratterizzata dalle Metamorfosi (Metamorphoses o Metamorphoseon libri) e dai Fasti, di intonazione religiosa, mitologica e politica.
La terza e ultima sezione, compresa tra l'8 d.C. e la morte (17 o 18 d.C.), include le elegie dell'invettiva e del rimpianto: Tristia, Epistulae ex Ponto, Ibis.
Fu autore anche di altre opere, andate oggi perdute, tra cui una Gigantomachia e una tragedia, la Medea. Di grande importanza erano anche le odi, di cui oggi ci restano solo piccoli frammenti.
La fama di Ovidio fu grande in vita quanto nelle epoche successive alla sua morte: ne riprendono i temi o ne imitano lo stile, tra gli altri, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Ludovico Ariosto, William Shakespeare, Giambattista Marino e Gabriele D'Annunzio. Inoltre, innumerevoli sono gli spunti che le Metamorfosi hanno fornito a pittori e scultori italiani ed europei.
Sulla vita di Ovidio non si conosce molto e le uniche testimonianze provengono proprio dal poeta stesso: scrive infatti un'elegia di natura autobiografica (la quarta dei Tristia).
Ovidio nacque a Sulmo (l'odierna Sulmona, in provincia dell'Aquila), nella Regio IV Samnium, il 20 marzo del 43 a.C. in una famiglia facoltosa appartenente alla classe equestre. All'età di 12 anni si reca a Roma con il fratello Lucio, poi morto prematuramente, per completare gli studi, dove ha appunto modo di frequentarne le lezioni di grammatica e retorica dai più insigni maestri dell'Urbe, quali Marco Aurelio Fusco e Marco Porcio Latrone.

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Statua di Ovidio a Sulmona, opera di Ettore Ferrari (1925)


Il padre lo vorrebbe oratore, ma Ovidio si sente già più portato per la poesia. Seneca il Vecchio ricorda che Ovidio declamava raramente, per lo più suasorie. Più tardi Ovidio si reca, com'era costume ormai da un secolo, ad Atene, visitando durante il viaggio di ritorno le città dell'Asia Minore; va anche in Egitto e per un anno soggiorna in Sicilia.
Tornato a Roma, Ovidio intraprende la carriera pubblica, senza distinguersi per zelo o importanza di honores. È uno dei decemviri stilibus iudicandis e dei tresviri, i funzionari, forse, di polizia giudiziaria. Non aspira poi al Senato romano, pago della propria dignità equestre; contrariamente al fratello e contro la volontà di suo padre si dedica agli studi letterari.
Inizialmente ha contatti con il circolo di Messalla Corvino (filorepubblicano), che lo stimola a dedicarsi alle lettere; più tardi invece entra nel circolo di Mecenate (filoaugusteo), conoscendo i più importanti poeti del tempo: Orazio, Properzio e, per poco, Virgilio. Questo ambiente culturale aiuta Ovidio, che in questi anni ritrova la serenità e l'incentivo necessario per esprimersi e produrre. Siamo nel periodo storico della pax augustea e i costumi di Roma tendono a rilassarsi, c'è una concezione più libera e rilassata della morale che arriva dall'influenza ellenistica.
Ovidio è il più giovane dei poeti elegiaci e si differenzia in gran parte da loro. Se essi rifiutavano il mos maiorum (le tradizioni degli avi), ma ne desideravano i benefici, Ovidio rifiuta questa contraddizione e il mos in toto. Si può parlare anche di relativismo poiché rifiuta i valori fissi e rigidi della vecchia società romana per aprirsi alle mode del tempo, cercando di assecondare il gusto volubile del pubblico.
Ovidio si sposa per tre volte: ma, se nei primi due casi, divorzia presto, il terzo matrimonio è invece il più significativo. Delle prime due mogli non si sa nulla, tranne che da una di loro nasce Ovidia, a sua volta scrittrice colta. Il terzo matrimonio avviene con Fabia, appartenente all'omonima gens, vedova con una figlia e fedele consorte nella gioia e nel dolore, della quale il poeta, nelle sue opere, conserva un ricordo commosso.

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Una illustrazione risalente al 1474 di Circe e Odisseo con i compagni trasformati in animali


Nell'8 d.C. Ovidio cade in disgrazia presso l'imperatore Augusto e viene relegato nella lontana Tomis (oggi Costanza), un piccolo centro portuale sul mar Nero, nell'attuale Romania. Nei Tristia, scrive:

«Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore:
del secondo debbo tacere le mie colpe»
(Tristia 2, 1, v.207 sg.)


Il poeta dunque attribuisce l'esilio a un carmen et error, ma tale vaga espressione ha favorito il proliferare di interpretazioni diverse, alcune probabili, altre più fantasiose, riguardo al possibile error:

Ovidio avrebbe avuto illecite relazioni con Giulia maggiore, figlia dell'allora imperatore Augusto e della seconda moglie Scribonia, nonché già moglie del futuro imperatore Tiberio (figliastro di Augusto, in quanto figlio della terza moglie Livia Drusilla e del primo marito di costei): Giulia maggiore sarebbe cantata negli Amores con lo pseudonimo di Corinna; le allusioni e i parallelismi negli Amores attorno alla figura di Corinna furono visti come tentativo per danneggiare l'immagine di Tiberio, intralciando i piani di successione di Livia Drusilla madre di costui; sarebbe stato sospettato di favoreggiamento e forse di correità nelle relazioni di Giulia minore, figlia di Giulia maggiore, nipote di Augusto e moglie di Lucio Emilio Paolo, col giovane patrizio Decimo Giunio Silano; avrebbe scoperto illeciti rapporti di Augusto a corte o avrebbe curiosato imprudentemente sulla condotta privata e sulle abitudini intime di Livia Drusilla; avrebbe partecipato alla congiura di Agrippa Postumo, pretendente al trono, contro Tiberio.

Il termine carmen farebbe invece riferimento alle opere di Ovidio, in contrasto con i princìpi della restaurazione augustea (specialmente l'Ars amatoria): secondo Felice Vinci e Arduino Maiuri, avrebbe rivelato in un carme il nome segreto di Roma, che sarebbe stato Maia, la Pleiade madre di Mercurio; tale atto era passibile di pena capitale, ma Augusto lo avrebbe punito solo con l'esilio, mantenuto da Tiberio. D'altra parte, l'Ars amatoria, cioè il carmen, fu pubblicato oltre sette anni prima la condanna alla relegatio, per cui non può essere stata la sola causa della condanna: è necessario anche l'error citato da Ovidio insieme al carmen. Non si sa esattamente quale sia stato l'error ma deve sicuramente essere un fatto personale molto grave, tale da giustificare l'improvvisa decisione di Augusto il quale, per di più, non perdonò mai il poeta, nonostante le suppliche sue e degli amici.

Nemmeno Tiberio, succeduto ad Augusto nel 14 d.C. perdonò Ovidio, tant'è che il poeta muore tra il 17 e il 18 d.C. (più probabilmente nel 18), nella stessa terra, a lui del tutto estranea, dove è stato relegato un decennio prima.

L'oscurità delle cause dell'esilio di Ovidio ha dato luogo a infinite spiegazioni. Ovidio fa più volte riferimento al suo reato, fornendo però spiegazioni vaghe o contraddittorie, certamente soffrendo la relegatio che questo reato gli avrebbe causato. Per questo, nel 1923, J.J. Hartmann propose una nuova teoria: che Ovidio in realtà non abbia mai patito la relegatio, e che il riferimento all'esilio sia il prodotto della sua fervida immaginazione. Questa teoria ha avuto alterne fortune negli anni trenta del Novecento (i maggiori sostenitori furono alcuni autori olandesi).
Nel 1985, uno studio di Fitton Brown ha avanzato nuove argomentazioni a sostegno dell'ipotesi, scrivendo un articolo che provocò una piccola polemica, con una serie di riprese e confutazioni. L'elemento principale affermato da Fitton Brown per negare la realtà dell'esilio è che questo viene menzionato solo o soprattutto nelle opere dello stesso Ovidio, e non si trovano riferimenti a esso anche dove sarebbe stato lecito aspettarseli (ad esempio in storici che hanno trattato l'età di Augusto come Tacito o Svetonio). Le eccezioni, di poco posteriori alla morte di Ovidio, sono costituite da due brevissimi passaggi in Plinio il Vecchio, e in Stazio. Poi, più niente fino al IV secolo, con brevi menzioni in Girolamo e nell'Epitome de Caesaribus. Oggi, tuttavia, la maggior parte degli studiosi ritiene poco credibili le ipotesi che negano la realtà dell'esilio di Ovidio.
A Sulmona nel XV secolo fu costruita una statua di Ovidio, citata da Edward Lear nei suoi diari di viaggio in Abruzzo, ora conservata nel Museo civico archeologico Santissima Annunziata. Nel 1925 una nuova statua monumentale viene realizzata da Ettore Ferrari in piazza XX Settembre, lungo il corso intitolato al poeta. Di Ovidio a Sulmona si occuparono per primo Ercole Ciofano umanista, poi Emiliano De Matteis, storico, e poi Antonio De Nino e Giovanni Pansa.

Opere giovanili o amorose

La giovinezza e gli studi:

  • Amores, in tre libri: 49 carmi che narrano la storia d'amore per una donna chiamata Corinna (personaggio letterario), secondo lo stile e le convenzioni dell'elegia amorosa: il poeta è asservito alla domina, soffre per le sue infedeltà, è geloso degli altri ammiratori e contrappone la vita militare alla vita amorosa. Ma Ovidio non soffre drammaticamente come Catullo e mantiene sempre un certo distacco intellettuale: vede l'amore come un gioco e questa concezione amorosa si traduce e si esplica in un ribaltamento degli atteggiamenti e dei temi tradizionali (Ovidio giunge ad amare anche due donne contemporaneamente, chiede all'amata non di essergli fedele ma di nascondergli i tradimenti affinché lui possa fingere di non sapere).
  • Medea: tragedia a noi non pervenuta, ma lodata dai contemporanei.
  • Heroides: 21 lettere che Ovidio immagina scritte da donne famose ai loro amanti. Tre lettere, in particolare, hanno una risposta da parte dell'uomo amato. Si tratta di una tipologia completamente nuova per la letteratura latina: il filone erotico-mitologico viene per la prima volta svolto in forma epistolare (alcuni studiosi hanno trovato per questo analogie con le suasoriae, discorsi fittizi rivolti a personaggi mitici o storici per persuaderli o dissuaderli in determinate circostanze). Vi sono numerosi parallelismi con l'epica e con la tragedia (in particolare i monologhi delle eroine euripidee) e non mancano addirittura rivisitazioni e riscritture di alcuni miti (come nel caso della lettera di Fedra a Ippolito, nella quale la matrigna veste i panni di una scaltra seduttrice piuttosto che quelli di una donna disperata).
  • Ars amatoria, 1 a.C. - 1 d.C., in tre libri. Secondo Concetto Marchesi, si tratta del "capolavoro della poesia erotica latina" in cui Ovidio si fa praeceptor amoris, un ruolo comunque svolto da quasi tutti i poeti elegiaci ma che, grazie a una sapiente mescolanza di generi (elegia, epica didascalica, precettistica tecnica), riesce ad acquisire un'importanza maggiore. I primi due libri sono dedicati agli uomini e trattano, rispettivamente, la conquista della donna e le tecniche di seduzione, e come far durare l'amore. Il III libro si propone di dare preziosi consigli alle donne: il modello più frequente è quello "predatorio della caccia" e l'oggetto della caccia non è più l'amore, ma il sesso. Infatti, Ovidio consiglia di non innamorarsi, ma di saper vivere l'amore come un gioco, arrivando ad ammettere anche il tradimento in una relazione. Per Ovidio il tradimento è un elemento base della società del suo periodo, non si riferisce solo al rapporto del matrimonio e non è diffuso solo tra le donne per bene. Egli dà consigli alle liberte, alle schiave e alle cortigiane, per cui l'Ars amatoria rappresenta vivacemente il quadro sociale del tempo di Ovidio; dunque non stupisce il fatto che l'opera non sia stata apprezzata da Augusto (probabilmente per il velato rifiuto dei modelli etici arcaici).
  • Medicamina faciei femineae: operetta sui cosmetici delle donne. Di quest'opera ci sono pervenuti solo 100 versi: i primi 50 costituiscono il proemio, i successivi 50 propongono cinque ricette di creme da applicare sul viso.
  • Remedia amoris: 400 distici elegiaci per resistere all'amore o liberarsene.

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Lucas Cranach il Vecchio - Età dell'oro

Opere maggiori o della maturità

  • Metamorfosi, in 15 libri di esametri.
Il capolavoro di Ovidio, ultimato poco prima dell'esilio, contiene più di 250 miti di trasformazioni, dal Caos all'apoteosi di Cesare e Augusto. L'opera si chiude con una preghiera agli dei, affinché questi preservino a lungo l'imperatore Augusto. Scritto in esametri, in quindici libri (per circa 12 000 versi), vi si trova tutta la storia mitica del mondo, ma riorganizzata da Ovidio in una serie di racconti continuati. Il criterio generale di compilazione segue l'ordine cronologico, ma molto spesso Ovidio introduce eventi anteriori al fatto narrato o posteriori, collega le storie in base a rapporti familiari, elabora i racconti secondo affinità o diversità. Insomma si tratta di un racconto mosso e articolato, talvolta al limite dell'artificio, che mostra l'abilità stupefacente del poeta di legare tra di loro storie che apparentemente non hanno un filo logico comune. L'unico principio unificatore è la metamorfosi. Tra gli strumenti adottati dal poeta vi è il racconto nel racconto, grazie al quale il poeta trasforma i personaggi "narrati" in personaggi "narranti" che raccontano vicende proprie o altrui. L'opera lo rese illustrissimo presso i contemporanei.
  • Fasti, in sei libri.
Nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto essere di dodici libri, uno per ogni mese dell'anno, ma Ovidio ne scrisse solo sei (da gennaio a giugno) a causa dell'esilio. Egli intendeva illustrare (secondo un procedimento simile a quello utilizzato negli Aitia di Callimaco) le feste religiose e le ricorrenze varie del calendario romano introdotto da Cesare. Si tratta di un'opera di carattere eziologico ed erudito, ispirata al gusto alessandrino; Ovidio narra aneddoti, favole, episodi della storia di Roma, impartisce nozioni di astronomia, spiega usanze e tradizioni popolari. Ma l'intento celebrativo rimane esteriore, non essendo sorretto né da un interesse storico-religioso, né dal senso patriottico della grandezza di Roma.

Opere della relegazione

  • Tristia, in cinque libri di distici elegiaci: Ovidio riprende qui un tratto tipico della poesia elegiaca, il lamento. Ne derivano un centinaio di componimenti, raggruppati in questi cinque libri. Le elegie dei Tristia sono senza destinatario.
  • Epistulae ex Ponto, lettere poetiche raggruppate in quattro libri: le Epistulae sono elegie indirizzate a vari personaggi romani (tra cui la terza moglie del poeta, rimasta a Roma) affinché potessero intercedere presso l'imperatore per porre fine all'esilio o, quanto meno, trasferire il poeta in una località più vicina a Roma.
  • Ibis, carme imprecatorio contro un anonimo avversario di Ovidio, prima suo amico e poi calunniatore.
  • Halieutica, poemetto sulla pesca nel Ponto.
  • Phaenomena, poema astronomico non giunto.

Stile
La tendenza al galante e al piccante, a un certo ateismo di maniera, e l'indifferenza alla vita politica gli derivano dalla gioventù dorata imperiale, della quale Ovidio era uno dei rappresentanti più onesti, e per la quale egli scriveva.
I rapporti dell'autore con le sue fonti, sono problema importante per il filologo; ma più che ai suoi predecessori, egli deve molto all'ambiente culturale che lo circondava.
La vitalità del poeta è inesauribile. Il Medioevo lo considerò non inferiore a Virgilio e un'intera stagione della letteratura medievale volgare e mediolatina, la rinascita del XII secolo, può essere considerata anche come un rinascimento ovidiano (Ludwig Traube coniò per questo il termine di Aetas Ovidiana): in Italia, Francia, Germania, egli fu il "chierico d'amore". Brunetto Latini scrive di lui: «e in un ricco manto - vidi Ovidio Maggiore - che gli atti de l'amore - rassembra e mette in versi».
Lo testimoniano anche gli Integumenta super Ovidii Metamorphoses, le traduzioni di Giovanni del Virgilio, di Giovanni de' Buonsignori e di Arrigo Simintendi e l'Ovide moralisé.
Ebbe notevole influenza su poeti e scrittori inglesi quali Chaucer (La casa della fama, La leggenda delle donne eccellenti) e Shakespeare (Venere e Adone, Il ratto di Lucrezia, Romeo e Giulietta), così come su tutta la poesia umanistica italiana e sullo stile dotto e sui carmi dei filologi franco-olandesi.
Ovidio godette di un grande credito in tutti i secoli del medio evo e dell'età moderna. Dante Alighieri nella Divina commedia colloca Ovidio nel Limbo (I cerchio infernale) tra gli "spiriti magni" come personalità illustre, ma senza battesimo. Collocato da Dante accanto ai poeti Orazio e Lucano, ossia i principali poeti del Medioevo dopo Virgilio, presentati con un ordine indicativo in base probabilmente a una gerarchia d'importanza, Ovidio viene dopo Orazio ma prima di Lucano. I quattro 'Spiriti Magni' si felicitano per il ritorno di Virgilio nel Limbo e accolgono Dante nella loro 'bella scola': Dante si gloria di essere il sesto di 'cotanto senno'. L'importanza di Ovidio e della sua poesia ha un'importanza vitale nella Commedia: il repertorio mitografico delle Metamorfosi è per Dante strumento poetico fondamentale nonché inestinguibile fonte di immagini, similitudini e riferimenti al mondo classico. L'Alighieri non manca però di citare spesso l'autore e il suo poema anche in situazione di contrasto, come nel caso della poesia di Virgilio (episodio infernale di Caco, figlio di Vulcano), o per gareggiare in maniera esplicita con Ovidio stesso nel descrivere le trasmutazioni dei ladri della VII Bolgia, mettendole a confronto con quelle degli episodi narrati di Cadmo e Aretusa nelle Metamorfosi (IV, 563 ss. e V 572 ss.). Dante infatti in tutti i suoi scritti quando accenna alla mitologia antica si rifà sempre a Ovidio. Un altro periodo in cui l'autore latino venne particolarmente ammirato e preso a modello è il barocco, in primo luogo perché il gusto della Metamorfosi era particolarmente grato alla sensibilità di questo periodo. Basti citare il capolavoro del Bernini, Apollo e Dafne, che è una perfetta rappresentazione visiva dei versi ovidiani sull'argomento.


METAMORFOSI

LIBRO 1 A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l'estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi, ispirate il mio disegno, così che il canto dalle origini del mondo si snodi ininterrotto sino ai miei giorni.

LIBRO 2 La caduta di Fetonte

LIBRO 3 Europa, Narciso, Bacco, Cadmo e le Baccanti

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Evelyn De Morgan - Cadmo, trasformato in serpente, avvolge la moglie Armonia che sta per trasformarsi anch'essa in serpente

LIBRO 4 Piramo e Tisbe, Marte, Venere, Tantalo e Perseo

LIBRO 5 I miti di Perseo, delle Pieridi, e di Proserpina

LIBRO 6 ILatona, Niobe e Aracne

LIBRO 7 Medea e Procri

LIBRO 8 Scilla, Icaro, Melagro e Bauci

LIBRO 9 Achelao, Deianira, Driope e Bibli

LIBRO 10 Euridice, Ciparisso, Giacinto, Pigmalione e Adone

LIBRO 11 Orfeo, Mida, Peleo, Teti e Alcione

LIBRO 12 La guerra di Troia

LIBRO 13 I miti di Aiace, Ulisse, Enea, Polissena e Galatea

LIBRO 14 Circe, Didone, Sibilla, Enea e Romolo

LIBRO 15 Pitagora e l'apoteosi di Roma

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Jacob Jordaens - Cadmo e Minerva


ARS AMATORIA

L'Ars amatoria (L'arte amatoria) è un poemetto in distici elegiaci, composto nell'1 a.C. o nell'1 d.C.. L'opera, che si divide in tre libri, offre agli uomini strategie di conquista delle donne e alle donne consigli su come attrarre il proprio amante. Ovidio compone quest'opera durante la sua maturità e più precisamente si ritiene che i primi due libri risalgano all'1 a.C. o all'1 d.C., quando il poeta doveva avere circa quarant'anni. Il terzo e ultimo libro, comparso subito dopo, doveva forse appartenere a un progetto che comprendeva anche i Remedia amoris.
Il ruolo del poeta e della donna
Nell'Ars amatoria, dall'alto della sua esperienza di poeta e di amante, Ovidio assume il ruolo di praeceptor amoris, professore di erotismo, che impartisce insegnamenti per praticare l'arte della seduzione. La novità di Ovidio sta nell'aver reinterpretato il ruolo di praeceptor. Se prima il poeta-amante dopo aver vissuto una storia tormentata con la dolce amata si sentiva socialmente in dovere di mettere al servizio degli altri la propria esperienza, ora il ruolo del poeta viene scisso dalla sua vita passata. Inoltre, mentre in precedenza il poeta-amante si definiva uno schiavo d'amore, ora, il praeceptor guarda dall'esterno il rapporto d'amore tra due partner e si diletta nel dare consigli dettagliati, invitando i lettori a seguirli in modo rigoroso, quasi come si segue una ricetta di cucina. Dunque quello che prima era un poeta-amante, diventa nell'Ars amatoria un poeta-regista, che muove gli amanti come pedine su una scacchiera.
Anche il ruolo della donna cambia all'interno dell'elegia di tipo erotico, essendo diventata solo una preda da cacciare tra tante altre. Nella tradizione infatti, la puella, soggetto delle attenzioni di un corteggiatore era una, ben determinata. Al contrario nell'Ars amatoria la puella non ha nome, è generica.
Le strategie d'amore
Per Ovidio bisogna godere degli aspetti positivi del rapporto, lasciando da parte le sofferenze, che fino ad allora sembravano inevitabili. E per far questo è necessario produrre strategie e tattiche, che il poeta nel suo manuale suggerisce con un rigore scientifico, tale da ricordare i trattati tecnici e giuridici. Il titolo stesso rimanda alle ars. Infatti così come i trattati dell'ars rhetorica, il poema si apre con la presentazione del tema di fondo dell'opera e con l'intentio, la raccolta degli argomenti veri o verosimili, per proseguire, conformemente alla tradizione didascalica, con la partitio, ossia “l'enumerazione introduttiva sui punti da trattare, prima di un'intricata narratio o di una argumentatio”.
Il poeta assicura che le strategie di conquista da lui proposte sono universali e valide per ogni fanciulla. Tuttavia, alla fine dell'opera, Ovidio tiene a sottolineare che a dispetto di quanto da lui esposto, l'amore non è una scienza esatta e ogni donna per essere conquistata richiede un metodo diverso, in quanto vive in contesti differenti, ha abitudini differenti.

I metodi utili sia per la conquista che per il mantenimento del rapporto sono principalmente due: l'inganno e la simulazione. Secondo il poeta, bisogna simulare di accondiscendere ad ogni richiesta e capriccio della preda, che riterrà così di essere davanti ad un amante fedele e prodigo. Egli consiglia agli amanti:

«Ingannate codeste ingannatrici»

L'amore è quindi una guerra spietata in cui il fine giustifica i mezzi, onesti o sleali che siano. È pertanto importante che l'amante non si mostri mai debole agli occhi dell'amata e soprattutto che non diventi schiavo d'amore (come invece accadeva nelle precedenti esperienze elegiache), ma renda tale l'amante.
Ad appoggiare le sue idee il poeta cita molto spesso degli exempla, esempi di storie tratte dalle leggende e dai miti degli eroi e degli dei. Questa tecnica letteraria era molto nota non solo nell'ambito delle produzioni letterarie ma soprattutto in quelle di tipo pratico, come nei trattati giuridici o nelle orazioni. Qui gli exempla coprivano il ruolo fondamentale di confutare o dimostrare una tesi o un fatto oggetto della disquisizione. Addirittura i giudici, nei processi, erano soliti appellarsi a essi per assolvere o condannare gli imputati. È probabilmente dai manuali in cui erano appositamente raccolti che Ovidio trae l'abbondante numero di exempla di cui si serve.
Destinatario
Alla fine del proemio del libro I, Ovidio indica i suoi destinatari ma non lo fa nominando chi può e chi non può accostarsi alla lettura dei suoi carmi, bensì vi allude usando la tecnica della negazione: dice soltanto chi se ne deve assolutamente tenere lontano. Tuttavia egli non lo fa esplicitamente, ma menziona solo l'abbigliamento tipico delle donne che per statuto morale e sociale non possono accedervi.
Si tratta in primo luogo delle vestali e delle fanciulle vergini, a cui il poeta allude con le parole vittae tenues, tenui bende. Era usanza che solo queste categorie di donne vestissero queste bende di lana che cingevano il capo per poi annodarsi sul collo. L'altra e ancor più importante categoria era quella delle matrone, le donne sposate. Queste erano solite indossare l'instita, ossia un indumento che applicato alla parte posteriore della stola, scendeva lungo tutto il corpo, fino a coprire i piedi. Questi indumenti erano assolutamente vietati non solo alle cortigiane, ma anche alle libertae e alle libertinae, le schiave libere. In tal modo, ai lettori, che conoscevano queste usanze, giungeva chiaro il proposito del poeta, di rivolgersi soltanto alle donne libere, che fossero giovani o mature. Egli infatti insegna che le donne giovani, consapevoli della loro fresca bellezza, sono più difficili da conquistare e anche più pretenziose; le donne in età più avanzata, sfiorite dal tempo, sono esse stesse a concedersi e a voler conquistare.
Forma e stile
L'Ars amatoria prende come modelli principalmente le forme del poema didascalico, dell'elegia e dei trattati tecnico scientifici. Dal primo Ovidio prende la consequenzialità degli eventi narrati e la chiarezza dell'esposizione, mentre dall'elegia la tematica e il metro, ovvero il distico, distintivo della poesia erotico-elegiaca. Dai trattati è tratto il tipico tono severo degli insegnamenti. Lo stile si dimostra sempre elegante e lascia spazio all'ironia con cui il poeta descrive le parti salienti dell'approccio.

Per impartire i suoi precetti, il poeta fa uso di alcune metafore, che riprende in tutti e tre i libri del poema. Una di queste è quella della caccia. Egli invita entrambi gli innamorati a tendere delle trappole, a gettare l'amo, a pensare, insomma, come cacciatori. Proprio come questi, l'innamorato deve studiare la sua preda, conoscerne l'habitat, le abitudini e le sue compagnie, così da riuscire a sfruttare ogni occasione che si presenta per porre i propri inganni.
Altrettanto radicata nel pensiero del poeta è l'immagine dell'amore come una guerra in cui si scontrano due eserciti avversi che si combattono con le armi specifiche del proprio sesso: le armi che il poeta, giustappunto, si occupa di fornire ai suoi lettori. L'oggetto della contesa qui, non è l'amore, bensì soltanto il piacere sessuale. L'allievo-amante deve essere sempre ben attento a non farsi coinvolgere sentimentalmente, sicché possa continuare a tenere le redini del giogo anche dopo aver vinto la prima battaglia, quella della conquista.
Ogni consiglio o strategia viene sempre accompagnato da un racconto mitologico o leggendario. Un esempio suggestivo compare nei versi 525-562 in cui Ovidio rimanda al mito di Arianna per sottolineare l'importanza del luogo degli incontri e per raccomandare di tenere sempre presenti le condizioni "patologiche" della preda.

Libro I
Il libro I dell'Ars amatoria è composto da 770 versi ed è dedicato, insieme al secondo, agli uomini. Nella prima parte, che costituisce il proemio, il poeta si rivolge direttamente ai suoi lettori e li invita a "cogliere nuovi amori", una volta letto il suo poema e appresi i suoi insegnamenti. A vegliare su di lui vi sarà Venere, la quale lo aiuterà ad addomesticare Cupido con le sue arti. Nei versi 3-4 compare il primo di una lunga serie di exempla: così come Automedonte, l'abile auriga dell'eroe Achille, e come Tifi, l'impavido timoniere, anche Ovidio sarà timoniere e auriga di Amore, contro cui, al contrario dei due eroi, dovrà faticare. D'altra parte, a soccorrere il poeta vi è la giovane età del dio, che gli consentirà di essere guidato. Si sdoppia così il compito di praeceptor che Ovidio si propone di avere: se da un lato sarà insegnante di coloro che ancora non conoscono il mondo della seduzione, dall'altra sarà guida del dio che la permette. Per ribadire questo concetto, ricorre nuovamente ad Achille al quale fece da maestro il centauro Chirone, proprio come Ovidio lo sarà per Amore. Una differenza fondamentale tra il binomio studente-insegnante che contrappone Achille-Chirone a Ovidio-Amore consiste nel fatto che nella prima coppia è il puer, l'alunno, a intimorire “gli amici e i nemici”, mentre nel secondo caso sarà il praeceptor con la sua ars a dare paura al suo ribelle allievo. Sarà infatti con quest'opera che il poeta si vendicherà per la sofferenza che Amore, con le sue frecce avvelenate, gli ha inferto nella sua vita.

«Quanto più amore mi trafisse, quanto più crudelmente m'arse, su di lui tanto più grande prenderò vendetta»

Nei vv 25-27 il poeta opera una recusatio (una delle cinque parti della retorica): nega l'ausilio sia di Apollo che delle Muse, elemento invece richiesto dalla tradizione. Non saranno loro a ispirargli il carme, bensì solamente la sua esperienza. Dopo aver innalzato il tono del canto con queste parole, Ovidio termina il proemio con i versi più contestati della sua opera, quelli a cui successivamente si appellerà per difendersi dall'accusa di corruttore dei costumi. Quivi egli indica le uniche donne a cui si riferisce l'opera: le donne libere.
Dal verso 35 si entra nel vivo degli insegnamenti: per prima cosa, egli suggerisce il luogo in cui il giovane può cercare l'amata. Sono da privilegiare i luoghi affollati come il circo, il teatro, il banchetto o addirittura il Foro. Questo suggerimento era in aperto contrasto con la tradizione dell'elegia erotica, in quanto i poeti precedenti che cantavano la stessa materia preferivano gli spazi chiusi dove gli amanti potevano rimanere soli, piuttosto che quelli aperti e affollati. Molto propizie sono, inoltre, le corse dei cavalli, sport amato dai romani. Qui, avvistata la preda, sarà necessario che il cacciatore si dimostri sicuro di se stesso e prontamente chiacchieri con la fanciulla di un qualsiasi argomento. Qualora egli non sappia rispondere a qualche sua domanda, deve ricorrere all'invenzione e mai tacere.
Dal verso 392 poi, Ovidio passa a disquisire sui modi per conquistare la giovane, senza minimamente prendere in considerazione la possibilità che essa possa rifiutare il corteggiamento, perché

«Meglio sa la donna nascondere l'ardore. Se per primi non chiedessimo più pietà di baci, la donna, vinta, chiederebbe lei.»

A conferma di questa ipotesi, il poeta narra, dal verso 289 al verso 326, la nota leggenda di Pasifae, la regina di Creta, che non seppe frenare il desiderio e si unì con un toro. Dalla stessa famiglia, per altri motivi, sarà attinto successivamente un altro exemplum, quello che vede protagonista Arianna, la figlia di Pasifae. Altro consiglio è quello di conoscere l'ancella più fidata, quella a cui la donna affida i più segreti pensieri e che può aiutare il corteggiatore a entrare nelle sue grazie. Qualora poi sia l'ancella a mostrarsi disponibile, non è, secondo il poeta, disdicevole accontentarla, purché questo non ostacoli la riuscita della caccia. Fondamentali per attrarre la preda nella rete della seduzione sono i munera, i doni. Il poeta ne dedica una lunga sezione, in cui specifica che non bisogna fare doni all'amante, ma bisogna solamente prometterli. Perché con la speranza di riceverli lei si legherà ancor di più al corteggiatore e si concederà. Se invece sarà lei a riceverli, perderà l'interesse del suo benefattore. È in questo che si evidenzia il gioco delle parti: da una parte sarà vittoria del corteggiatore ottenere la fanciulla senza dare nulla; dall'altra sarà vittoria della corteggiata ricevere dei doni, senza concedersi. Ovidio prosegue il carme occupandosi dell'aspetto del corteggiatore, che non deve essere troppo curato, bensì pulito e ben vestito. La carrellata di consigli termina con la metafora della nave che si ferma per breve tempo, per continuare il suo viaggio nel libro successivo.
Libro II
Il secondo libro è sempre dedicato agli uomini, ma ora Ovidio si occupa di istruire l'amante su come, una volta conquistata la fanciulla, debba conservare il rapporto. Per prima cosa sono da evitare i litigi, caratteristica tipica dei coniugi. Ma poiché qui non si parla di tali, bensì di amanti liberi da accordi matrimoniali, questi devono nutrire il loro amore con le carezze e con le attenzioni, anche perché i litigi non fanno altro che far perdere giorni di felicità. A fare da testimone a questo consiglio, questa volta non c'è un exemplum, ma un'esperienza personale del poeta:

«alla mia donna un giorno, se lo ricordo! Scompigliai le chiome, vinto dall'ira. Quanti giorni belli, tutti d'amore, mi costò quell'ira!»

Altra tattica, che viene accennata anche nel primo libro, è quella di fare tutto ciò che l'amante vuole; farla vincere al gioco dei dadi, mantenerle lo specchio mentre si pettina (compito che era dovuto all'ancella), raggiungerla ogni qual volta l'amante sia invitato. Oppure viene suggerito, come nel libro precedente, di guadagnarsi l'amicizia dell'ancella della fanciulla. Questa volta però l'autore propone di curarsi non solo di lei, ma di tutti gli altri servi, anche mediante piccoli doni. Per quanto riguarda i doni destinati all'amante, il poeta non consiglia di evitarli, purché siano modesti e scelti con cura. Una particolare forma di munera è costituita dalla poesia: secondo Ovidio le donne apprezzano molto i versi a loro dedicati. Bisogna poi riempirle di complimenti, a prescindere che siano pensati o solo di facciata. Dal verso 558 inizia la trattazione del tradimento; per Ovidio il tradimento è lecito dopo aver consolidato il rapporto. L'unica accortezza è di non farsi scoprire dalla donna, perché la sua furia, che coglie l'amante con una rivale, è inarrestabile. Bisogna che questi quindi prenda delle precauzioni: non frequenti gli ambienti in cui l'amata è solita andare, non regali presenti riconoscibili dalla amata, non renda pubblico il secondo rapporto. È invece utile far ingelosire l'amata, farle credere che l'amante, che ha sempre avuto tanta premura per lei, stia perdendo l'interesse, così sarà lei a cercarlo e il legame non perderà la sua solidità, ma al contrario, si rinforzerà. Se invece è l'amata a tradire, l'amante deve tacere e fingere di non esserne al corrente, se vuole evitare di essere deriso. Dopo essere passato ai consigli riguardanti l'amplesso, Ovidio chiude il carme con dei versi che lasciano presagire l'intenzione di dedicare un libro alle donne.
Libro III
Riprendendo la metafora ovidiana dell'amore come guerra, rappresenta i due amanti mentre combattono. Il libro III si apre con la metafora della guerra: dopo aver dato consigli agli uomini, ossia di averli dotati di armi, Ovidio si propone di fare altrettanto per le donne. Ovidio consiglia alle donne come luoghi da frequentare, gli stessi che aveva consigliato agli uomini nei libri precedenti. In questo libro il poeta descrive le donne come delle ingannatrici, ancor più furbe degli uomini, nel trarre in trappola i loro corteggiatori. Egli infatti non insegna loro a difendersi dagli inganni degli amanti, ma semplicemente a rendersi più attraenti ai loro occhi. Tuttavia, il poeta riconosce che non ci sono solo donne pronte a trarre in inganno e a far soffrire gli uomini, ma ve ne sono altre che hanno sofferto a causa loro. Naturalmente a supportare questa tesi egli cita numerosi esempi, tratti soprattutto dal mondo degli eroi. Se da un lato vi sono donne, che come Elena di Troia, hanno abbandonato il proprio marito per scappare con un amante, dall'altra vi sono donne fedeli, come Penelope, che ha atteso per venti anni il prode Ulisse.
Ancora una volta, Ovidio ribadisce che i suoi precetti non sono destinati alle donne sposate, ma a quelle libere. Queste avranno le armi per non perdere il loro uomo, cosa che è invece accaduta a quelle che non conoscevano ancora l'arte della seduzione. Una vasta sezione è dedicata in particolare all'aspetto, che deve essere sempre gradevole e curato. È qui che si nota in modo particolare il tono rigoroso che rimanda ai trattati tecnico scientifici. Ovidio descrive con massima premura abbigliamento, acconciature, cura del corpo e portamento. Raccomanda però di non mostrare agli amanti i propri trucchi di bellezza e soprattutto di non farsi trovare da loro con le creme sul viso, perché di certo non le faranno sembrare più attraenti.
Dopo aver curato ogni aspetto di cui si devono occupare le donne che vogliono trovare un uomo, nell'ultima parte del carme l'autore, così come aveva fatto nel libro precedente, tratta le tecniche sessuali. Ancora una volta infine, raccomanda alle donne, così come aveva fatto con gli uomini, di rendere noto il nome del poeta che ha insegnato loro a sedurre.

Fortuna dell'opera
L'Ars Amatoria ebbe particolare fortuna a partire dal Medioevo, epoca in cui, nonostante la severità e lo stretto controllo esercitato dalla Chiesa, fu maggiormente apprezzato. L'influenza di Ovidio sulla letteratura latina medievale è stata individuata da Ludwig Traube come un carattere connotante di una stagione culturale iniziata con il Rinascimento del XII secolo e prolungatasi fino al XIII secolo: a tale proposito, lo studioso tedesco coniò il paradigma di Aetas Ovidiana, che faceva seguito alla Aetas Vergiliana che aveva connotato la rinascita carolingia (VIII-X secolo), e alla Aetas Horatiana dei secoli X e XI. Appartiene a questo periodo una versione dell'opera in lingua d'oïl, composta da Chrétien de Troyes, poi andata perduta. Nel Duecento poi, molti letterati francesi addirittura fecero dell'Ars amandi un manuale per laici e chierici. Roger de Lafforest, scrittore e giornalista di parapsicologia, radiestesia e magia, fa riferimento a sette versi[8] dell'Ars amatoria di Ovidio che nessuno traduttore oserebbe citare, per una qualche superstizione che li avvolge. Egli non riporta quali siano i sette versi, ma nella sua traduzione in francese moderno, anche Roger de Lafforest li ha volutamente evitati, come molti altri traduttori.


18 febbraio 2024 - Eugenio Caruso

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