Il potere è del popolo, l'autorità del senato» (Marco Tullio Cicerone, De Legibus,3,12)
GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.
GRECI E LATINI
Anassagora - Anassimandro -
Anassimene -
Aristofane -
Aristotele - Cicerone - Democrito - Diogene -
Empledoche -
Eraclito -
Euripide -
Lucrezio -
Ovidio -
Pitagora -
Platone -
Seneca -
Socrate - Solone -
Talete -
Zenone -
Marco Tullio Cicerone ( Arpino, 3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.) è stato un avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano.
Esponente di un'agiata famiglia dell'ordine equestre, fu una delle figure più rilevanti dell'antichità romana. La sua vastissima produzione letteraria, dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C. (tanto da poter essere considerata il modello della letteratura latina classica).
Grande ammiratore della cultura greca, attraverso la sua opera i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia greca. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina, vi fu la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per ogni termine specifico del linguaggio filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano, invece, le Lettere/Epistulae (in particolar modo, quelle all'amico Tito Pomponio Attico) che offrono numerose riflessioni su ogni avvenimento, permettendo così di comprendere quali fossero le reali linee politiche dell'aristocrazia romana.
Busto di Cicerone nei Musei Capitolini di Roma
Cicerone occupò, per molti anni, anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina (e aver così ottenuto l'appellativo di pater patriae), fu un membro eminente della fazione degli Optimates. Infatti, nelle guerre civili, difese strenuamente, fino alla morte, una repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo.
Marco Tullio Cicerone nacque, il 3 gennaio del 106 a.C., a Ponte Olmo, in prossimità del fiume Fibreno accanto al comune di Arpinum (area attualmente occupata dall'Abbazia di San Domenic). Gli Arpinati ricevettero la civitas sine suffragio nel IV secolo a.C. e i pieni diritti di cittadinanza nel 188 a.C.; in seguito, la città ottenne anche lo status di municipium. La lingua latina era in uso già da lungo tempo; tuttavia, ad Arpino, era diffuso anche l'insegnamento della lingua greca, che l'élite senatoriale romana preferiva spesso a quella latina, riconoscendone la maggiore raffinatezza e precisione.
Cicerone apparteneva alla classe equestre (la piccola nobiltà locale) e, anche se lontanamente imparentato con Gaio Mario (il corifèo dei Populares durante la guerra civile contro gli optimates di Lucio Cornelio Silla), non aveva alcun legame con l'oligarchia senatoriale romana; era dunque un homo novus. La famiglia era composta dal padre Marco Tullio Cicerone il Vecchio, uomo colto ma di origine sconosciuta; dalla madre Elvia, di nobile casato e dal fratello Quinto.
Il cognomen Cicero era il soprannome di un suo antenato abbastanza noto per un'escrescenza carnosa sul naso (presumibilmente, una verruca) che ricordava un cece (cicer, ciceris è il termine latino per cece). Quando Marco presentò, per la prima volta, la propria candidatura a un ufficio pubblico, alcuni amici gli sconsigliarono l'utilizzo del suo cognomen ma egli rispose che «avrebbe fatto sì che esso diventasse più noto di quello degli Scauri e dei Catuli».
Affresco di Cesare Maccari a Palazzo Madama in Roma che raffigura Cicerone mentre pronuncia una delle orazioni contro Catilina.
Cicerone si rivelò subito un fanciullo dotato di una straordinaria intelligenza (tanto da distinguersi, a scuola, dai propri coetanei) che gli fece accumulare fama e onore. Il padre, auspicando una brillante carriera forense e politica per i figli, li condusse a Roma dove Marco venne introdotto nel circolo dei migliori oratori (e protettori della sua famiglia): Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore; Crasso ebbe particolare influenza su Cicerone che lo considerò sempre un modello di oratore e di statista. A Roma, poté anche formarsi nella giurisprudenza, grazie alla scuola di Quinto Mucio Scevola. Tra i suoi compagni, ci furono anche Gaio Mario il Giovane, Servio Sulpicio Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, nonché, uno dei pochi che Cicerone considerò superiori a sé stesso) e Tito Pomponio (che prese poi il cognomen di Attico, dopo una lunga permanenza ad Atene, e che divenne intimo amico di Cicerone; infatti, gli scrisse in una lettera: «Sei per me come un secondo fratello, un alter ego al quale posso dire ogni cosa»).
In questo periodo, Cicerone si avvicinò anche alla poesia: in particolare, si cimentò nella traduzione delle opere di Omero e dei Fenomeni di Arato (opere che, in seguito, influenzarono le Georgiche di Virgilio).
Particolarmente attratto dalla filosofia, alla quale avrebbe dato grandi contributi (tra i quali, la creazione del primo vocabolario filosofico in lingua latina), nel 91 a.C. incontrò, assieme all'amico Tito Pomponio, il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma; entrambi ne rimasero affascinati ma solo Pomponio rimase, per tutta la vita, seguace della dottrina epicurea. Tra il 79 e il 77 a.C., conobbe il maestro di retorica Apollonio Molone (che istruì, pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare) e l'accademico Filone di Larissa che esercitò su di lui, un'influenza profonda: infatti, era a capo dell'Accademia di Atene che Platone aveva fondato circa trecento anni prima; di conseguenza, grazie a lui, Cicerone assimilò la filosofia platonica, tanto che arrivò spesso a definire Platone come il proprio dio (pur rigettando la sua teoria delle idee).
Poco tempo dopo, Cicerone incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo; tale movimento era già stato precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto larghi consensi grazie all'enfasi posta sul controllo delle emozioni e sulla forza di volontà (in linea con gli ideali romani). Cicerone non adottò completamente l'austera filosofia stoica ma preferì uno stoicismo modificato; in seguito, Diodoto divenne un protetto di Cicerone, dal quale fu ospitato fino alla morte. Giova notare che alcune grandi famiglie romane, come gli Scipioni, i Giuni, i Semproni gli Annei, avevano adottato la filosofia stoica processo che favorì poi l'introduzione del cristianesimo.
Marci Tullii Ciceronis Opera Omnia, 1566
Cursus honorum
Il sogno di infanzia di Cicerone era quello di "essere sempre il migliore ed eccellere sugli altri", in linea con gli ideali omerici: infatti, desiderava dignitas e auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla verga dei littori; c'era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia, era ancora troppo giovane per approdare a qualsiasi carica del cursus honorum ma non per acquisire l'esperienza preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. Tra il 90 a.C. e l'88 a.C., Cicerone servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della guerra sociale sebbene non provasse alcuna attrazione per la vita militare dato che si sentiva un intellettuale (infatti, molti anni dopo, scrisse al suo amico Attico che stava raccogliendo statue marmoree per le ville di Cicerone, "Perché mi spedisci una statua di Marte? Sai che io sono un pacifista!").
L'ingresso di Cicerone nella carriera forense avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima orazione pubblica, la Pro Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del tempo, Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a carattere politico (almeno secondo le testimonianze scritte pervenute), si ebbe con la Pro Roscio Amerino che conserva molto di scolastico nello stile esuberante: nell'orazione, difese, con successo, un figlio ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio nell'assumersene la difesa (il parricidio era, infatti, considerato tra i crimini peggiori a Roma) mentre i veri colpevoli erano sostenuti dal liberto di Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla avesse voluto, sarebbe stato fin troppo facile eliminare Cicerone, proprio alla sua prima apparizione nei tribunali.
Cicerone divise le sue argomentazioni in tre parti: nella prima, difese Roscio e tentò di provare che non era stato lui a commettere l'assassinio; nella seconda, attaccò quelli che avevano realmente commesso il crimine (tra cui, anche un parente dello stesso Roscio) e dimostrò come l'assassinio favoriva più loro che Roscio; nella terza, attaccò direttamente Crisogono, affermando che il padre di Roscio fosse stato assassinato per ottenere i suoi terreni a un prezzo conveniente, una volta messi all'asta. In forza di queste argomentazioni, Roscio fu assolto.
Per sfuggire a una probabile vendetta di Silla, tra il 79 e il 77 a.C., Cicerone si recò, accompagnato dal fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche dall'amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia e in Asia Minore : particolarmente significativa fu la sua permanenza ad Atene dove incontrò nuovamente l'amico Attico che, fuggito da un'Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in Grecia; Attico, in seguito, divenne cittadino onorario di Atene e poté presentare a Cicerone, alcune tra le più importanti personalità ateniesi del tempo. Ad Atene, inoltre, Cicerone visitò quelli che erano i luoghi sacri della filosofia, a cominciare dall'Accademia di Platone (di cui era allora a capo Antioco di Ascalona). Di quest'ultimo, Cicerone ammirò la facilità di parola, senza tuttavia condividerne le idee filosofiche (ben differenti da quelle di Filone, delle quali era convinto ammiratore). Dopo un breve soggiorno a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio, tornò in Grecia (dove fu iniziato ai misteri eleusini, che lo impressionarono molto) e dove poté visitare l'Oracolo di Delfi; in quell'occasione, domandò alla Pizia in quale modo avrebbe potuto raggiungere la gloria ed ella gli rispose che avrebbe dovuto seguire il suo istinto invece dei suggerimenti che riceveva.
Tornato a Roma dopo la morte di Silla, Cicerone iniziò la sua vera e propria carriera politica, in un ambiente sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C., dopo aver pronunciato la celebre orazione Pro Roscio comoedo, si presentò come candidato alla questura, la prima magistratura del cursus honorum. I questori, eletti per un massimo di venti membri, si occupavano della gestione finanziaria o assistevano propretori e proconsoli nel governo delle province. Eletto alla carica per la città di Lilibeo (l'odierna Marsala), nella Sicilia occidentale, svolse il proprio lavoro con scrupolo e onestà (tanto da guadagnarsi la fiducia degli abitanti del luogo). Durante la permanenza in Sicilia, visitò la tomba di Archimede a Siracusa: grazie al suo interesse per l'uomo, sono state rinvenute alcune importanti informazioni sullo scienziato (in particolare, per quanto riguardi il suo planetario).
Al termine del mandato, i siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre, colpevole di aver tiranneggiato l'isola nel triennio 73-71 a.C.. Cicerone raccolse le prove della colpevolezza, pronunciò due orazioni preliminari (Divinatio in Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem) e l'ex-governatore, attaccato da prove schiaccianti, scelse l'esilio volontario. Le cinque orazioni preparate per le successive fasi del processo (che costituiscono l'Actio secunda), furono pubblicate in seguito e costituiscono un'importante prova del malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme di Silla. Attaccando Verre, Cicerone attaccò la prepotenza della nobiltà corrotta ma non l'istituzione senatoria stessa (anzi, fece appello proprio alla dignità di tale ordine affinché ne estromettesse i membri indegni). Acquisì, inoltre, un enorme prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio Ortalo, considerato il più grande avvocato dell'epoca: "sconfitto", Ortensio dovette accettare che il suo posto venisse preso da Cicerone (il quale, si guadagnò il titolo di "Principe del Foro"); nonostante l'episodio, tuttavia, i due oratori strinsero, in seguito, un buon legame di amicizia (infatti, proprio a Ortalo che elogiò anche nel Brutus, Cicerone dedicò un'intera opera non pervenuta, l'Hortensius).
Cicerone mentre pronuncia un'orazione in Senato. Particolare, Cesare Maccari, 1882-1888, Villa Madama, Roma
A Roma, l'oratoria e l'attività forense erano uno dei principali mezzi di propaganda per i politici emergenti, poiché non esistevano documenti scritti di argomento politico (con l'eccezione degli Acta Diurna che, però, godevano di scarsa diffusione). Contro Cicerone, tuttavia, rimaneva la diffidenza dei nobili verso gli homo novus, accresciuta dal fatto che l'ultimo homo novus ad acquisire rilevante peso politico fosse stato un concittadino dello stesso Cicerone, Gaio Mario. Tuttavia, anche lo stesso Silla, fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni provvedimenti che permettevano e facilitavano l'ingresso degli equites nella vita politica, dando così a Cicerone la possibilità di raggiungere le vette del cursus honorum.
Il successo ottenuto da quelle orazioni (che vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici dei principi di un governo umano e ispirato a onestà e filantropia, portò Cicerone in primo piano sulla scena politica: nel 69 a.C., venne eletto alla carica di edile curule e, nel 66 a.C., diventò anche pretore con una elezione all'unanimità. Nello stesso anno, pronunciò il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de imperio Cn. Pompei, in favore del conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra mitridatica; in quell'occasione, Pompeo era appoggiato dai cavalieri, interessati alla rapida risoluzione della guerra in Asia, mentre gli era contraria la maggioranza del Senato. Il motivo dell'impegno di Cicerone in una causa ostile all'alta aristocrazia (che, d'altronde, era restìa ad accoglierlo tra le proprie file) stava probabilmente nell'importanza che essa aveva per i pubblicani (titolari degli appalti pubblici e della riscossione delle imposte) e gli affaristi, minacciati nei loro interessi da Mitridate VI. La provincia dell'Asia Minore, minacciata dal sovrano del Ponto, era, infatti, particolarmente attiva dal punto di vista dell'economia e del commercio.
Consolato
Cicerone presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console per l'anno successivo (ossia il 63 a.C.). La sua posizione venne illustrata dal fratello Quinto in un'opera (di dubbia attribuzione: la scrisse lo stesso Cicerone?), Commentariolum petitionis, scritta per consigliarlo nella campagna elettorale. Per un gioco delle classi, Cicerone risultò eletto con il voto di tutte le centurie. Assieme a lui risultò eletto il patrizio Gaio Antonio Ibrida, zio di Marco Antonio, futuro triumviro e acerrimo nemico dell'arpinate, accusato dallo stesso Cicerone (In toga candida, orazione - pervenutaci in condizioni frammentarie - tenuta in Senato come candidato poco prima delle elezioni del 64) di essere collusore di Lucio Sergio Catilina. La fiducia riposta in Cicerone dalla classe equestre venne ripagata già all'inizio del consolato con la pronuncia di quattro orazioni (De lege agraria) contro la proposta di redistribuzione delle terre del tribuno Publio Servilio Rullo.
Durante il proprio consolato Cicerone dovette contrastare il tentativo di congiura messo in atto da Catilina. Questi era un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con possibili brogli elettorali e infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica. Catilina contava soprattutto sull'appoggio della plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente portato ad assumere un potere monarchico o quasi, inoltre sembrerebbe fosse stato supportato politicamente da Gaio Giulio Cesare che venne però tenuto fuori dallo stesso Cicerone e non ebbe conseguenze. Venuto a conoscenza del pericolo che la Repubblica correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio, Cicerone fece promulgare dal Senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era previsto in situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai consoli. Sfuggito poi a un attentato da parte dei congiurati, Cicerone convocò il Senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria, che si apre con il celebre incipit
«Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?»
(Marco Tullio Cicerone, Catilinarie I,1)
Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura ad alcuni uomini di fiducia, Lentulo Sura e Cetego. Grazie alla collaborazione di una delegazione di ambasciatori inviati a Roma dai Galli Allobrogi, Cicerone poté però trascinare anche Lentulo e Cetego davanti al Senato: gli ambasciatori, incontratisi con i congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati fittiziamente e i documenti caddero nelle mani di Cicerone. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri davanti al Senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata, si scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale, Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la confisca dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, e avrebbe probabilmente convinto i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte. I congiurati furono quindi giustiziati, e Cicerone annunziò la loro morte al popolo con la formula:
«Vissero»
(Marco Tullio Cicerone)
poiché era considerato di cattivo auspicio pronunciare la parola "morte" (ed espressioni di significato affine come "sono morti") nel foro. Catilina fu poi sconfitto, nel gennaio 62, in battaglia assieme al suo esercito.
Cicerone, che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la salvezza dello Stato (si ricordi il famoso verso di Cicerone sul suo consolato: Cedant arma togae, trad: "che le armi lascino il posto alla toga [del magistrato]"), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di pater patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l'appello al popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo.
A seguito del riemergere dei contrasti tra senatori e populares, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni dell'oligarchia senatoria, Cicerone fu messo da parte. L'ultima possibilità di rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a Cicerone di appoggiare la legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. Cicerone, tuttavia, rifiutò non solo per non apparire un traditore dell'aristocrazia, ma anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli ottimati si proclamavano difensori.
Dopo questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, Cicerone si tenne fuori dalla politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico di Cicerone per un precedente processo per sacrilegio, fece approvare una legge con valore retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Si trattava, in realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare (che per l'appunto prima di partire per la Gallia attese che Cicerone fosse fuggito da Roma) che, attraverso il suo alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari più tenaci, che avrebbero potuto osteggiarlo durante la sua ascesa al potere. Cicerone fu dunque processato per la sua condotta durante il processo ai Catilinari Lentulo e Cetego e costretto all'esilio. Lasciò Roma la notte tra il 19 e il 20 marzo di quell'anno e si recò a Vibona, sperando di portarsi in Sicilia, ma il pretore Virgilio - benché suo vecchio amico - non glielo consentì: in effetti l'isola distava da Roma meno delle 500 miglia prescritte dal bando e pertanto Cicerone optò per la città di Brindisi, dove soggiornò tredici giorni negli orti di Lenio Flacco prima di salpare per Durazzo. In più occasioni nei suoi scritti l'oratore loda l'ospitalità e l'amicizia dei brindisini e della famiglia di Lenio Flacco. Nei mesi dell'esilio Cicerone non si diede pace, implorando le sue conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece approvare anche una serie di altre leggi che prevedevano che Cicerone non si potesse neppure avvicinare al confine dell'Italia, e che le sue proprietà venissero confiscate In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta, e una sorte simile toccò poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum. Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro: Cicerone poté dunque rientrare in Italia e, proveniente da Durazzo, giunse nuovamente a Brindisi - come narra lui stesso - il 5 agosto: nel porto oltre ai suoi familiari e la figlia Tullia che festeggiava il compleanno, c'era anche Lenio Flacco; le accoglienze tributate al retore furono raddoppiate dal fatto che nella città quel giorno ricorreva anche l'anniversario della deduzione a colonia.
Cicerone pronuncia in Senato la prima catilinaria - Cesare Maccari
Tornato a Roma riprese la sua lotta contro il tribuno della plebe. Simpatizzante degli optimates per via anche della sua personale amicizia con Milone, uno dei capi della fazione, tenne tre orazioni in difesa di tre optimates. Nel 56 a.C. Cicerone pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui allargava il suo precedente ideale politico: l'alleanza tra cavalieri e senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica. Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares: tale proposta prende il nome di Consensus omnium bonorum. Sempre lo stesso anno tenne l’orazione Pro Caelio con cui Cicerone si trova a difendere Marco Celio Rufo dall’accusa di tentato avvelenamento della sua amante, Clodia sorella del tribuno della plebe Clodio Pulcro e Lesbia di Catullo. Nonostante la donna venisse dipinta come colei che per prima aveva tentato di uccidere l’amante in quanto avversario politico del fratello le accuse erano inconsistenti e Cicerone spiegò il gesto compiuto da Marco Celio Rufo come un errore di gioventù. Nel 55 a.C. scrive In Pisonem, orazione contro il governatore di Macedonia Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Cesare. Patrizi e plebe si scontravano con l'uso di bande armate, e in uno di questi scontri, più precisamente sulla via Appia, Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno Clodio. Al processo per omicidio, tenutosi nel 52 a.C., Cicerone difese Milone improntando la sua orazione sulla differenza tra tirannicidio e omicidio; in questo caso sarebbe stato tirannicidio e per tanto giustificabile. Ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con la giusta forza per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i partigiani di Clodio nel foro, Milone venne condannato all'esilio a Marsiglia (una versione della Pro Milone venne pubblicata solo successivamente, dando modo di verificare come fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano giuridico).
Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C. al posto di Crasso, nel 51 a.C. come proconsole si recò in Cilicia, proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma, i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare le parti alla moderazione e alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del fanatismo che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare. Quando Cesare varcò il Rubicone, Cicerone cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l'Italia per unirsi a Pompeo. Sbarcò, dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse di quanto le speranze che egli riponeva in loro quali salvatori della repubblica fossero infondate: ognuno di loro era lì non in difesa degli ideali, ma soltanto per tentare di trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande vittoria di Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., Cicerone decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47 a.C.
Cicerone rivelava nelle sue opere e in lettere ad amici come Cornelio Nepote, riguardo alla personalità di Cesare:
«Non vedo a chi Cesare debba cedere il passo. Ha un modo di esporre elegante, brillante ed anche, in un certo modo si pronuncia in modo elegante e splendido... Chi gli vorresti anteporre, anche tra gli oratori di professione? Chi è più acuto o ricco nei concetti? Chi più ornato o elegante nell'esposizione?»
(Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 55.)
La speranza di Cicerone di collaborare al governo di Cesare venne troncata dalla piega assolutistica e monarchica presa dal potere. L'oratore si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico ed oratorio. A questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie Publilia, una giovinetta.
Quando Cesare fu ucciso, il 15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso Cicerone, si avviò una nuova fase politica, che avrebbe avuto termine solo con l'avvento dell'impero.
Cicerone non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei Liberatores, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò Cicerone definendolo l'uomo che avrebbe ristabilito l'ordine nella repubblica.
«Con te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa fai e che cosa succede.»
(Cicerone, Ad Familiares, vi, 15)
La data della missiva non è conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla congiura. L'espressione «quid agas quidque agatur» la indicherebbe come scritta prima che Cicerone si recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano trovato rifugio dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e protetti dai gladiatori di Bruto.
Cicerone, infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori rappresentanti della fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma Cicerone fu promotore di un accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva l'impunità a Bruto e Cassio. Poco dopo, i due, assieme agli altri congiurati, fuggirono verso la penisola ellenica.
Tra Cicerone ed Antonio, comunque, i rapporti non erano dei migliori, e i due, d'altra parte, si trovavano all'esatto opposto in ambito politico: Cicerone era il difensore degli interessi dell'oligarchia senatoriale, convinto sostenitore della repubblica, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di Cesare ed assumere gradualmente un potere monocratico. Intanto, un'altra figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico di Roma, la figura del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di Cesare e suo erede designato nel testamento. Ottaviano decise di adottare una politica filosenatoriale, senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di Cesare.
Cicerone, allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dèi per ristabilire l'ordine. Cicerone sperava, infatti, nell'affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito da un membro del senato di grande esperienza, come lo stesso Cicerone, riportasse la pace e riformasse la repubblica. Iniziò, inoltre, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di Filippiche in quanto richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio, nella volontà di condurre una nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena. Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che lo sconfissero.
Tornato a Roma, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono della politica cesariana, che avrebbe tenuto in vita l'agonizzante repubblica, e l'allontanamento dal Senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente. Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato, un accordo politico secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda opera di riforma della repubblica. Cicerone fu costretto ad accettare che sarebbe ora stato impossibile attuare il suo piano di un princeps, ma non per questo ritirò le severe accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche. Quest'ultimo, allora, nonostante la fievole opposizione di Ottaviano, decise di inserire Cicerone nelle liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.
Cicerone lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un liberto di nome Filologo, poterono trovarlo fin troppo facilmente. Cicerone, accortosi dell'arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Tale località prese il nome di Vindicio (dal latino "vindicta", vendetta), attuale frazione di Formia. Una volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere e indicare durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche, che furono esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli oppositori del triumvirato.
«Sporgendosi dalla lettiga ed offrendo il collo senza tremare, gli fu recisa la testa. E ciò non bastò alla sciocca crudeltà dei soldati: essi gli tagliarono anche le mani, rimproverandole di aver scritto qualcosa contro Antonio.»
(Livio - Ab Urbe condita libri, CXX - cit. in Seneca il Vecchio, Suasoriae, 6,17)
«Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso mentre sporgeva il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. Cicerone stesso infatti intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate Filippiche.»
(Plutarco, Vite parallele, Vita di Cicerone, 48, 4-6)
Una volta sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di Cicerone, come collega per il consolato, e proprio Marco comminò le pene ad Antonio, facendone abbattere le statue e decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere chiamato Marco.
Plutarco racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un nipote che leggeva le opere di Cicerone, gli prese il libro, e ne lesse una parte. Una volta che glielo ebbe restituito, disse:
"Era un saggio, ragazzo mio, un saggio, e amava la patria".
Vita privata
Cicerone probabilmente sposò Terenzia all'età di 29 anni, nel 77 a.C. Il matrimonio - di convenienza - fu piuttosto armonioso per 30 anni. Terenzia era di famiglia patrizia ed era una ricca ereditiera, entrambi fattori particolarmente importanti per il giovane ambizioso che era Cicerone. Da Terenzia Cicerone avrà due figli: il primo Marco Tullio Cicerone, che come il padre diventerà un politico a Roma, la seconda Tullia o «la dolce Tulliola», come appunto viene descritta da Cicerone in una delle sue innumerevoli lettere; ella si sposò prima con un Pisone Frugi e poi in seconde nozze con Publio Cornelio Dolabella dal quale divorzierà perché il padre sosteneva la fazione degli ottimati mentre Dolabella era luogotenente di Cesare, infine morirà molto giovane all'età di 34 anni. Una delle sorelle o cugina di Terenzia era stata scelta come vergine Vestale, il che costituiva un grandissimo onore. Terenzia era una donna dal carattere forte e prese parte alla carriera politica di suo marito più di quanto permise a lui di prenderne negli affari di famiglia. Non condivise, tuttavia, gli interessi intellettuali di Cicerone né il suo agnosticismo. Cicerone lamenta a Terenzia in una lettera scritta durante il suo esilio in Grecia che
«...né gli dei che Lei ha adorato con tale devozione né gli uomini che io ho servito hanno mostrato il più piccolo segno di gratitudine nei nostri confronti».
Alla fine del 47 a.C. o all'inizio del 46 a.C. Cicerone ripudiò Terenzia. I motivi del distacco sono ignoti, ma Cicerone accusò la moglie di averlo trascurato durante la guerra, di non essere neppure venuta ad accoglierlo al suo ritorno e di avergli restituito la casa gravata di forti debiti.
Verso la fine del 46 a.C. Cicerone sposò Publilia, giovane e ricca fanciulla orfana di padre, che viveva sola con la madre. Secondo Terenzia (che accusava Publilia di essere la causa del suo divorzio), la giovinezza della fanciulla avrebbe causato l'innamoramento di Cicerone, mentre secondo Tirone, liberto dell'oratore, dietro la decisione ci sarebbe stato il desiderio di usufruire dei beni della giovane; Cicerone peraltro era già stato nominato tutore di Publilia, e ne amministrava le ricchezze.Poco dopo il matrimonio, Tullia, figlia di Cicerone, morì di parto. Egli rimase fortemente colpito e nel luglio del 45 a.C., mentre gli amici gli recavano conforto, decise di ripudiare Publilia colpevole di essersi rallegrata della morte di Tullia, dopo soli sette mesi di matrimonio.
Il divorzio dalla storica consorte Terenzia e le seconde nozze con Publilia, destinate anch'esse alla rottura, resero Cicerone oggetto di feroci critiche, come quelle rivoltegli da Antonio nelle repliche alle Filippiche.
Entrambe le mogli di Cicerone morirono in tardissima età, cosa insolita per quei tempi (Terenzia addirittura centenaria; in quanto a Publilia, era ancora viva durante l'impero di Tiberio, avendo sposato in seconde nozze il console Gaio Vibio Rufo, secondo quanto afferma Cassio Dione).
È universalmente noto l'amore di Cicerone per la figlia Tullia, sebbene il matrimonio con Terenzia, da cui lei era nata, fosse stato un matrimonio di convenienza. Tullia era l'unica persona che Cicerone non criticò mai. La descrive così in una lettera al fratello Quinto:
«Com'è affettuosa, com'è modesta, com'è intelligente!»
Quando lei si ammalò improvvisamente nel febbraio del 45 a.C. e morì, dopo che era sembrato che potesse guarire, dando alla luce un figlio, Cicerone scrisse ad Attico:
«Ho perso l'unica cosa che mi legava alla vita».
Attico invitò Cicerone ad andarlo a trovare nelle prime settimane dopo la morte di Tullia per poterlo consolare. Nella grande biblioteca di Attico, Cicerone lesse tutto quello che i filosofi greci avevano scritto circa il superamento del dolore,
«...ma il mio dolore sconfigge ogni consolazione».
Cesare e Bruto gli spedirono lettere di condoglianze, e così fece anche il suo vecchio amico e collega, l'avvocato Servio Sulpicio Rufo. Questi spedì una lettera che in seguito è stata molto apprezzata, piena di riflessioni sulla fugacità di tutte le cose.
Dopo un po', Cicerone decise di abbandonare ogni compagnia per ritirarsi in solitudine nella sua villa di Astura, appena acquistata. Si trovava in un bosco solitario, ma non lontano da Napoli, e per molti mesi non fece altro che camminare per il bosco, piangendo. Scrisse ad Attico:
«Io mi immergo là nel bosco selvatico e fitto la mattina presto, e vi soggiorno fino a sera».
Più tardi decise di scrivere un libro per insegnare a se stesso come superare il dolore; questo libro, intitolato Consolatio, fu estremamente apprezzato in antichità (in particolare da Sant'Agostino), ma sfortunatamente è andato perduto, e ne restano solo pochi frammenti. In seguito Cicerone progettò anche di far erigere un piccolo tempio alla memoria di Tullia, la "sua incomparabile" figlia, ma poi non portò a termine il progetto, per ragioni ignote.
Cicerone sperava che il figlio Marco scegliesse di diventare filosofo, ma era un'aspettativa priva di basi: Marco, per conto suo, desiderava intraprendere la carriera militare, e nel 49 a.C. si unì a Pompeo e al suo esercito, e partì con loro per la penisola ellenica. Quando nel 48 a.C., dopo la disastrosa sconfitta dei pompeiani a Farsalo, Marco si presentò a Cesare, questi lo perdonò. Cicerone, allora, non perse tempo, e lo mandò ad Atene a formarsi nella scuola del filosofo peripatetico Cratippo, ma Marco, ben distante dall'occhio vigile del padre, passò il tempo a mangiare, bere e divertirsi, seguendo le lezioni del retore Gorgia.
Dopo l'assassinio del padre, Marco si unì all'esercito dei Liberatores, guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, ma dopo la sconfitta nella battaglia di Filippi, nel 42 a.C., fu perdonato da Ottaviano. Questi, infatti, sentendosi in colpa per aver permesso che Cicerone fosse inserito nelle liste di proscrizione del secondo triumvirato, decise di favorire la carriera del giovane Marco. Quest'ultimo divenne, dunque, augure, e fu poi nominato prima console nel 30 a.C. assieme allo stesso Ottaviano, e poi proconsole in Siria e nella provincia d'Asia.
Cicerone politico
Il potere è del popolo, l'autorità del senato»
(Marco Tullio Cicerone, De Legibus,3,12)
Come uomo politico, Cicerone è sempre stato bersaglio della critica di antichi e moderni. Le accuse mossegli vanno dall'incoerenza alla vanità, alla poca lungimiranza. Ma la sua conduzione oggettivamente può essere giustificata se la si contestualizza nella politica del tempo, fatta in un mobile gioco di accordi e conflitti tra gruppi di potere e famiglie nobili, che sfruttavano le etichette di partito per mire personali.
«Cicerone era attaccato al governo repubblicano per tradizione e per ricordo, rammentando le grandi cose che esso aveva fatto e a cui egli, come molte altre persone, doveva le sue dignità, il suo grado sociale e il nome. Non poteva dunque pensare a rassegnarsi così facilmente alla sua caduta, anche se la libertà effettiva non esisteva più a Roma, e non ne restava che l'ombra. Non bisogna biasimare coloro, come Cicerone, che vi s'attaccano e fanno sforzi disperati per non lasciarla perire, poiché quest'ombra, questa apparenza li consola della libertà perduta e infonde loro qualche speranza di riconquistarla. Questo era ciò che pensavano i Romani che, come Cicerone, dopo matura riflessione, senza entusiasmo, senza passione, e senza speranza, andarono a raggiungere Pompeo»;
questo è ciò che Lucano fa dire a Catone in quei versi ammirevoli che esprimono i sentimenti di tutti coloro che, senza nascondere la triste condizione della Repubblica, si ostinarono a difenderla fino alla fine:
«Come un padre, che ha or ora perduto il figlio, prova una sorta di piacere a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani il rogo, non lo lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma, io non t'abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia. Io seguirò fino alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando non sarai più che un'ombra vana».
Preoccupazione costante di Cicerone fu la difesa dello status quo e dei diritti della grande proprietà latifondista, desideroso soprattutto di acquisire presso i notabili romani il credito necessario per entrare a far parte della classe dirigente. Egli si adoperò quindi per la conservazione del potere e dei privilegi di cui godeva la classe degli optimates, secondo una formula che, in sostanza, significava sicurezza e tranquillità (otium) per tutti i possidenti, e che implicava che il potere (dignitas) rimanesse nelle mani di un'oligarchia.
Il suo preteso desiderio che in questa élite si entrasse per "merito" e non per nascita, quand'anche non lo si voglia meramente intendere come un sottinteso riferimento alle sue vicende personali, rimase comunque un'astrazione teorica, un'utopia, anche per l'assenza, allora come oggi, di una vera modifica nel tessuto politico e sociale della Repubblica.
Cicerone fu, inoltre, sostenitore dell'ideale politico della concordia ordinum (intesa tra il ceto equestre e senatorio divenuta poi concordia omnium bonorum, ovvero concordia di tutti i cittadini onesti), e la esaltò, in particolare, nella quarta orazione contro Catilina: allora, per la prima volta nella storia tardo repubblicana, i senatori, i cavalieri ed il popolo si trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere, decisioni dalle quali dipendeva la salvezza dello stato. Cicerone auspicava che la concordia potesse durare per sempre, pur capendo che essa era nata, in quel particolare frangente, solo per la pressione emotiva: d'altronde, la concordia non faceva leva su un particolare progetto politico, ma solamente su motivi di carattere sentimentale ed economico.
Cicerone filosofo
Cicerone fu il primo degli autori romani a comporre opere filosofiche in latino: ne andava, infatti, molto fiero, ma si scusava, allo stesso tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto tempo. Alcuni, infatti, ritenevano che fosse disdicevole per un uomo romano dedicarsi alla filosofia, altri pensavano che comunque non bisognasse dedicarle più di un certo tempo. Altri ancora, infine, erano convinti sostenitori della totale superiorità della filosofia greca e consideravano per l'appunto solo le opere greche degne di essere lette.
Cicerone era però convinto che, se i Romani si fossero dedicati seriamente alla filosofia, avrebbero allora raggiunto le stesse vette dei Greci, che già avevano eguagliato nella retorica. Ma il gusto per le speculazioni filosofiche era totalmente estraneo alla società romana: il vir era, d'altronde, un uomo d'azione. I Romani conobbero la filosofia grazie al contatto con i Greci, ma consideravano inutile, se non addirittura deleteria, una vita spesa alla continua ricerca di un sapere che non portava nessuna gloria alla patria né alcuna ricchezza. Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere dall'Urbe i filosofi ateniesi che vi erano giunti in visita nel 155 a.C., Carneade, Diogene e Critolao.
La stessa nobilitas senatoriale non voleva, poi, che il popolo e i giovani si interessassero alla filosofia (che avrebbe prodotto in loro un certo amore per l'otium, allontanandoli dalla vita reale), ma furono costretti ad ammettere che nessun uomo degno di tale nome poteva restare estraneo a questa scienza. I senatori decisero di richiamare a Roma i filosofi che avevano scacciato per prendere da loro delle vere e proprie lezioni di filosofia, vietando, comunque, loro di insegnare la filosofia pubblicamente. Persino Marco Porcio Catone, fiero oppositore della penetrazione della cultura greco-ellenistica a Roma, studiò la filosofia greca, come tutti gli esponenti dell'oligarchia senatoriale del tempo.
A riscuotere un istantaneo successo a Roma fu lo stoicismo, ma presto a esso si unirono le altre dottrine, i cui esponenti arrivarono "in massa" a Roma nel corso del I secolo a.C. In poco tempo, dunque, la situazione aveva subito un totale ribaltamento e non esisteva più uomo estraneo alla filosofia.
Cicerone non si comportò diversamente dai suoi contemporanei, ma, almeno in gioventù, studiò la filosofia convinto che si trattasse esclusivamente di un valido supporto per la retorica: iniziò a comporre opere filosofiche, infatti, soltanto in tarda età, quando solo la composizione, appunto, poteva essere l'impiego del suo tempo libero. Nella filosofia Cicerone cercò e seppe trovare la consolazione di cui aveva bisogno, il rimedio somministratogli dall'antica saggezza.
Da giovane, Cicerone studiò l'epicureismo, dottrina che aveva avuto numerosi discepoli anche a Roma, tra cui Amafinio, Cazio e Lucrezio. In principio, Cicerone fu, infatti, allievo di filosofi epicurei, quali Fedro e Zenone. Più tardi, sotto l'influsso di altri maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non ne fu mai un convinto sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una personale fusione tra le due filosofie, in modo eclettico. Mostrò, tuttavia, forti preferenze per la dottrina accademica insegnatagli da Filone: la teoria del probabilismo e del verosimile si adattavano perfettamente a una personalità quale quella di Cicerone, a cui si addiceva perfettamente anche l'elevazione morale dello stoicismo. Questa particolare mescolanza fra più filosofie fu la vera filosofia di Cicerone.
Panoramica alfabetica di tutte le opere filosofiche
- Academica priora (prima stesura dei libri sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica).
- Catulus (Dialogo), la prima parte dell'Academica priora, perduto.
- Lucullus (Dialogo), la seconda parte dell'Academica priora, conservato.
- Academici libri (versione tarda del trattato sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica, in quattro libri).
- Cato Maior de senectute. Cicerone immagina Catone il Censore all'età di 84 anni ed esprime la sua nostalgia del buon tempo antico, quando a Roma l'uomo politico eminente poteva mantenere prestigio e autorevolezza fino alla più tarda età.
- Consolatio: una consolazione a sé stesso scritta alla morte dell'amata figlia Tullia, in cui Cicerone esorta a considerare la caducità di ogni cosa e l'importanza della filosofia. L'opera è andata perduta.
- De Divinatione ("Sulle profezie"): Quest'opera, probabilmente la più originale tra tutte quelle composte da Cicerone, mette in luce un'opinione molto esplicita sulla fiducia che bisogna riporre nell'arte aruspicina. .
- De finibus bonorum et malorum ("Sui confini del bene e del male"). È un dialogo in cinque libri che si pone il problema di cosa sia il sommo bene, tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che, rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere.
- De Fato ("Sul Fato"), giuntoci non integralmente. Viene argomentata la dottrina provvidenzialistica degli stoici.
- Sull'essenza degli dei: Il De natura deorum fu scritto nel 44 a.C., subito prima della morte di Cesare, ed inviato a Bruto.
- Sui doveri: Il De officis, che - pare - fu scritto dopo la morte di Cesare è l'ultima opera filosofica di Cicerone, che la dedicò al figlio Marco, che si trovava ad Atene. L'opera, ispirata ad un lavoro dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il primo tratta di ciò che è onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo traccia una comparazione tra utile ed onesto. Nell'opera, Cicerone non fornisce profonde spiegazioni con rigore scientifico, ma enuncia una serie di ottimi precetti, indispensabili per fare di un uomo un buon cittadino romano, ligio ai suoi doveri e dunque in grado di vivere nell'ottica della virtus.
- Hortensius: sorta di protrettico ovvero esortazione alla filosofia, modellata su un'analoga opera perduta di Aristotele. Come testimoniato dal proemio al II libro del De divinatione, in essa appariva Quinto Ortensio Ortalo, il quale svalutava l'attività filosofica; contro questa tesi si pronunciava Cicerone. L'opera fu assai apprezzata nell'antichità.
- Lelio" o "sull'amicizia".
- Paradoxa Stoicorum (Teoremi di spiegazione dei paradossi etici della scuola degli stoici.
- Tusculanae disputationes ("Conversazioni a Tusculum")
- Sulla repubblica
- De legibus ("Sulle leggi"): Il De legibus fu composto probabilmente dopo che Cicerone era stato nominato augure.
ORAZIONI
«All'inizio di un discorso mi tremano le gambe, le braccia e la mente.» (Marco Tullio Cicerone)
Cicerone è certamente il più celebre oratore dell'antica Roma. Nel Brutus egli ritiene completato con se stesso (non senza un certo fine autocelebrativo) lo sviluppo dell'arte oratoria latina, e già da Quintiliano la fama di Cicerone quale modello classico dell'oratore è ormai incontrastata. Cicerone ha pubblicato da sé la maggior parte dei suoi discorsi; cinquantotto orazioni (alcune parzialmente lacunose) sono state rinvenute nella versione originale mentre circa cento sono conosciute per il titolo o per alcuni frammenti. I testi si possono dividere tra orazioni pronunciate di fronte al Senato (o al popolo) e tra le arringhe pronunciate in qualità di - utilizzando termini moderni - avvocato difensore o pubblica accusa, nonostante anche questi ultimi abbiano spesso un forte substrato politico come nel celeberrimo caso contro Gaio Verre (unica volta in cui Cicerone compare come accusatore in un processo penale). Il suo successo è dovuto alla sua abilità argomentatoria e stilistica, che si sa adattare perfettamente all'oggetto dell'orazione e al pubblico, soprattutto alla sua tattica astuta, che si adatta di volta in volta al particolare uditorio, appoggiando appropriatamente diverse scuole filosofiche o politiche, al fine di convincere il pubblico contrario e raggiungere il proprio scopo.
Tecniche di memorizzazione
Per memorizzare i suoi discorsi Cicerone utilizzava una tecnica associativa che venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle stanze. Egli scomponeva il discorso in parole chiave e parole concetto che gli permettessero di parlare dell'argomento desiderato e associava queste parole, nell'ordine desiderato, alle stanze di una casa o di un palazzo che conosceva bene, in modo creativo e insolito. Durante l'orazione egli immaginava di percorrere le stanze di quel palazzo o di quella casa, e questo faceva sì che le parole concetto del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza desiderata. È da questo metodo di memorizzazione che derivano le locuzioni italiane "in primo luogo", "in secondo luogo" e così via.
Panoramica alfabetica di tutte le orazioni
- Sulla propria casa, al collegio pontificale": arringa pronunciata per uno scopo particolare: durante l'esilio di Cicerone il suo avversario Clodio aveva consacrato una parte della proprietà di Cicerone sul Palatino alla dea Libertas; Cicerone dichiara questa consacrazione invalida per ottenerne la restituzione. È da tale contesto che nasce la locuzione Cicero pro domo sua.
- Sul responso degli aruspici: Clodio redige un passo sulla profanazione di alcune reliquie durante una perizia degli aruspici sul terreno di Cicerone sul Palatino e chiede la demolizione di una casa di Cicerone ivi in costruzione. Contro questa ed altre accuse Cicerone si rivolge con un appello al Senato, nel quale spiega, che la maggior parte delle accuse di Clodio si basano su indagini dolosamente carenti.
- Sul comando di Gneo Pompeo, orazione di carattere politico pronunciata di fronte al popolo in occasione dell'attribuzione, effettuata su proposta del tribuno della plebe Gaio Manilio, a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare contro Mitridate VI.
- Sulla legge agraria (contro Rullo): orazione pronunciata durante l'anno di consolato, tenuta in Senato (I) e davanti al popolo (II/III); un quarto dell'orazione è stato perduto.
- Sulle province consolari", orazione pronunciata in senato riguardo alle province consolari romane.
- Sui beni di Silla.
- Dibattito contro Cecilio, dibattito riguardo all'assunzione del ruolo di accusatore nel processo contro Verre. Quinto Cecilio Nigro fu sotto Verre in Sicilia e presentò la propria candidatura nel ruolo di accusatore. Per Cicerone egli era infatti invischiato nelle macchinazioni di Verre.
- Contro Lucio Calpurnio Pisone, orazione d'accusa politica.
- Contro Catilina I-IV" ovvero "Le Catilinarie", orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8 novembre 63 a.C. pronunciati di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i discorsi della scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3 dicembre di fronte al popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV)
- Contro Publio Vatinio, orazione accusatoria contro P.Vatinio riguardo all'interrogatorio nel processo contro P.Sestio.
- Prima accusa contro Verre, orazione accusatoria nel processo contro Verre, accusato di concussione (crimen pecuniarum repetundarum)
- Seconda accusa contro Verre I–V, questi cinque discorsi non sono mai stati pronunciati a causa dell'esilio volontario di Verre, ma vennero comunque pubblicati in forma scritta.
- Oratio cum populo gratias egit , ringraziamento a tutti coloro che hanno appoggiato il ritorno di Cicerone dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica.
- Oratio cum senatui gratias egit ("Ringraziamento al senato",), ringraziamento a tutti coloro che in Senato hanno appoggiato il ritorno di Cicerone dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica.
- Le filippiche, orazioni contro Marco Antonio.
- In difesa di M. Emilio Scauro.
- In difesa di Tito Annio Milone, orazione difensiva, originariamente diversa dalla versione pubblicata, non sortì il proprio effetto in quanto la curia era assediata dai fedeli della fazione clodiana. Dopo l'esilio di Milone subirà profonde modifiche per essere pubblicata quale ci è pervenuta: la più bella orazione di Cicerone. Contiene tra l'altro la celebre citazione "Inter arma enim silent leges"
- In difesa di Archia, orazione pronunciata nel ruolo di difensore del poeta antiochiano Aulo Licinio Archia.
- In difesa di Aulo Cecina, orazione tenuta per il querelante in un processo civile per un'azione di rivendicazione. Il fondamento giuridico è l'interdetto de vi armata (rimedio del possessore contro lo spossessamento violento). Sostenitore della parte avversa è Gaio Calpurnio Pisone; entrambe le parti fanno ricorso manifestamente all'autorevolezza del giurista Gaio Aquilio Gallo.
- Pro M. Caelio ("In difesa di M. Celio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro A. Cluentio Habito ("In difesa di Aulo Cluenzio Abito", 66 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro G. Cornelio ("In difesa di Gaio Cornelio", 65 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro L. Cornelio Balbo ("In difesa di Lucio Cornelio Balbo", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro P. Cornelio Sulla ("In difesa di Publio Cornelio Silla", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Marco Fonteio ("In difesa di Marco Fonteio", 69 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Q. Ligario ("In difesa di Quinto Ligario" 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Quinto Ligario, indirizzata a Cesare in quanto dittatore.
- Pro Marco Marcello ("In difesa di Marco Marcello", 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Marcello, indirizzata a Cesare in quanto dittatore.
- Pro muliere Arretina ("In difesa di una donna di Arezzo", 80 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Lucio Murena ("A favore di Murena", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore in un processo di corruzione elettorale.
- Pro Gneo Plancio ("In difesa di Gneo Plancio", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Publio Quinctio ("In difesa di Publio Quinzio", 81 a.C.), il più antico discorso giuridico tradizionale di Cicerone a favore del querelante in un processo civile.
Oggetto del contendere è la legittimità dell'azione di sequestro preventivo eseguita dal convenuto Sesto Nevio contro il cliente di Cicerone Publio Quinto. - Difensore della parte avversa è Quinto Ortensio Ortalo, giudice è Gaio Aquilio Gallo.
- Pro C. Rabirio perduellionis reo ("In difesa di Gaio Rabirio, colpevole di alto tradimento", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Rabirio Postumo ("In difesa di Rabirio Postumo"), 54 a.C./53 a.C. oppure 53 a.C./52 a.C.), orazione difensiva pronunciata nella fase pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa di concussione nelle province. Verte attorno alla presenza di "bustarelle" in connessione con la reintegrazione al trono d'Egitto di Tolomeo XII Aulete.
- Pro rege Deiotaro ("In difesa del re Deiotaro", 45 a.C.), orazione in difesa del Re Deiotaro, rivolta a Cesare
- Pro Sex. Roscio Amerino ("In difesa di Sesto Roscio da Amelia", 80 a.C.), orazione di difesa, è la prima arringa di Cicerone in un processo per omicidio. Sesto Roscio era accusato di parricidio. Durante la guerra civile un parente si era impossessato del patrimonio del padre di Roscio e ora cercava di assicurarsi il maltolto, il quale apparteneva ai legittimi eredi del deceduto. Cicerone ottenne l'assoluzione.
- Pro Q. Roscio Comoedo ("In difesa dell'attore Quinto Roscio", circa 77 a.C. o 76 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro P. Sestio ("In difesa di Publio Sestio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Titinia ("In difesa di Titinia", 79 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Marco Tullio ("In difesa di Marco Tullio", 72 a.C./71 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro L. Valerio Flacco ("In difesa di Lucio Valerio Flacco", 59 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
Scritti di retorica
Così come per Cicerone è difficile distinguere tra vita ed opere, così in particolare differenziare tra scritti filosofici e retorici è sì pratico e chiaro, tuttavia non rappresenta pienamente la concezione e l'opinione di Cicerone. Già nella sua prima opera conservata (De inventione I 1-5) chiarisce che la sapienza, l'eloquenza e l'arte del governare hanno sviluppato un legame naturale, che indubbiamente ha contribuito allo sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere ristabilito. Egli ha in mente quest'unità come modello ideale sia negli scritti teoretici sia anche nella sua propria vita activa al servizio della Repubblica - o almeno è così che egli ha voluto idealizzare e vedere la propria realtà.
Perciò non è affatto sorprendente se Cicerone ha sviluppato i suoi scritti filosofici con i mezzi della retorica e strutturato le sue teorie della retorica su principi filosofici. La separazione tra sapienza ed eloquenza Cicerone l'addossa alla "rottura tra linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore III 61) e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa frattura; e quindi per una migliore attuazione la filosofia e la retorica secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra (v. p.e. De oratore III 54-143); Cicerone stesso dichiara che "io sono diventato un oratore [...] non nelle scuole dei retori ma nei saloni dell'Accademia": con ciò allude alla sua formazione sulle dottrine della Nuova Accademia di Carneade e Filone di Larissa, suo maestro.
Panoramica alfabetica delle opere sulla retorica pervenuteci
- Brutus: il libro dedicato a Marco Giunio Bruto venne scritto all'inizio del 46 a.C. e tratta, nella forma di un dialogo tra Cicerone, Bruto ed Attico, la storia dell'arte retorica romana fino a Cicerone stesso. Dopo un'introduzione (1-9) Cicerone inizia un confronto con la retorica greca (25-31) e sottolinea che l'arte oratoria poiché è la più complessa di tutte le arti solo tardi giunse alla perfezione. Mentre ritiene gli antichi oratori romani appena mediocri, parla di Catone come base della propria esperienza. Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti del De oratore, sono dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo un'escursione sull'importanza del giudizio del pubblico (183-200) e una riflessione sull'oratore Ortensio (201-283), Cicerone respinge fermamente il modello dell'Atticismo (284-300). L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di Ortensio e di Cicerone stesso, non senza una notevole dose di autocelebrazione (301-328), egli infatti presenta se stesso come il punto d'arrivo di un processo di sviluppo dell'arte oratoria. Punto principale dell'opera è la critica alla diffusione nello stile neoattico, a cui anche il giovane Bruto appartiene, difendendo il suo stile, assai più ricco e magniloquente, dalla critica di essere un esempio dello stile asiano.
- De inventione: ("L'invenzione retorica"): sviluppato tra l'85 a.C. e l'80 a.C. questo è il primo di due libri di una descrizione globale della retorica, mai completata. Cicerone rinunciò a completarla, per dedicarsi ad una più accattivante rappresentazione nel De oratore, e tuttavia l'opera servì, nonostante il carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al Medioevo. La parte completata tratta nel primo libro dei concetti principali della retorica (I 5-9), la dottrina dell'insegnamento della retorica in riferimento ad Ermagora di Temno (I 10-19) nonché il ruolo dell'oratore (I 19-109); il secondo libro tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto nelle arringhe giuridiche (II 11-154) nonché brevemente delle orazioni di fronte al popolo (II 157-176) e in occasione di celebrazioni (II 177-178). Le dichiarazioni di Cicerone per quanto riguarda il contenuto dell'opera presentano molte somiglianze con la Rhetorica ad Herennium, ma per lungo tempo erratamente ritenuta sua, cosa che ha portato a numerose discussioni tra gli studiosi riguardo al rapporto tra le due opere. Entrambi gli scritti sono all'incirca dello stesso periodo e si basano direttamente o indirettamente sulle medesime o su affini fonti greche. Inoltre c'è una notevole somiglianza letterale in alcuni periodi, cosa che suggerisce probabilmente anche una comune fonte latina, forse originata da un comune insegnamento dottrinario che ha mediato il preponderante contenuto di origine greca.
- De optimo genere oratorum ("Sulla miglior arte dell'oratoria"): questa breve opera, scritta probabilmente nel 46 a.C. o, secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è un'introduzione alla traduzione delle orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte. L'introduzione verte soprattutto sugli atticisti romani, all'incirca con le stesse argomentazioni dell'Orator. La traduzione comunque non ci è pervenuta, e non è chiaro se Cicerone l'abbia mai effettivamente completata. L'autenticità dell'opera è stata più volte messa in discussione, ma oggi è per lo più accettata.
- De oratore (Sull'oratore): la più importante opera sulla retorica di Cicerone non dev'essere confusa con l'opera quasi omonima Orator. È un'opera composta nel 55 a.C. in forma di dialogo, così come per il Brutus. I protagonisti stavolta sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo Cicerone, dei più grandi oratori della generazione precedente. Nel I libro è Crasso (portavoce di Cicerone) ad esporre la tesi principale dell'opera ossia che il buon oratore deve avere un'approfondita conoscenza dell'argomento di cui vuole trattare, osteggiando la concezione di alcuni retori greci che ritenevano sufficiente una formazione basata su regole, tecnicismi ed esercizi per affrontare qualsiasi discorso. Il II libro tratta invece delle "parti" in cui si suddivide la retorica, cioè l'inventio, la dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello stile, cioè l'elocutio, e dell'actio, cioè il modo in cui l'oratore deve comportarsi durante l'orazione. Il de oratore è considerata l'opera di Cicerone scritta con più cura formale e per questo motivo è sempre stata utilizzata e studiata come modello primo dello stile ciceroniano.
- Orator ("L'oratore"): Venne scritta nell'estate del 46 a.C. ed è anche questa dedicata a Marco Giunio Bruto e descrive un modello ideale del perfetto oratore, riprendendo molti dei temi già trattati nel De oratore. Contrariamente alla disputa di quel tempo tra gli atticisti, che - come Bruto - pretendono dall'oratore uno stile sobrio e preciso, e gli asiani, che prediligono uno stile molto ricercato e magniloquente, Cicerone ritiene che il perfetto oratore, come Demostene, deve dominare tutti gli stili e saper passare da uno all'altro con naturalezza. Per questo motivo bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo così potranno svolgere i tre compiti dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere), i quali vengono bene ordinati e descritti (76-99). Cicerone parla anche qui brevemente dell'inventio (44-49), della dispositio (50) ma tratta soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure retoriche e sulla costruzione ritmica del periodo.
- Partitiones oratoriae ("Partizione dell'arte oratoria"): Quest'opera venne scritta nel 54 a.C., quando il figlio di Cicerone, Marco, stava studiando la retorica, ed è ideata come una sorta di 'catechismo', trattando la teoria della retorica, soprattutto con divisioni schematiche, nella forma di domanda e risposta tra padre e figlio. L'originalità di Cicerone in quest'opera spicca molto meno, a causa dello stile molto semplice e delle poche novità introdotte.
- I Topica (44 a.C.): scritti nel corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio, trattano della dottrina dell'inventio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper trovare gli argomenti. In questa produzione retorica vengono considerati i luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni genere di argomento ed utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia, ecc.)
Epistolario
Edizione delle
Epistole agli amici, Venezia 1547
Le epistole di Cicerone furono riscoperte tra il 1345 e il 1389 da Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati. Complessivamente furono ritrovate circa 864 lettere, delle quali una novantina furono scritte da corrispondenti, e ciò inizialmente provocò un grande entusiasmo, temperato successivamente dal fatto che l'immagine che traspariva di Cicerone non era quella dello strenuo eroe difensore della Repubblica, come si era sempre dipinto nelle sue opere e nelle sue orazioni, ma una versione molto più umana, con le sue debolezze e i suoi aspetti meno retorici, ma certamente affascinanti nella loro genuinità.
Le epistole furono raccolte e archiviate dal segretario di Cicerone, Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4 categorie:
- Epistole agli amici (16 libri)
- Epistulae ad Quintum fratrem (3 libri)
- Epistole a Marco Giunio Bruto (2 libri)
- Epistole ad Attico (16 libri)
Panoramica alfabetica delle opere poetiche ed epico-storiche di Cicerone
- Alcyones: epillio composto da Cicerone dopo il 92 a.C. nel quale veniva cantato il mito di Alcione e del marito Ceice. Dato che questi si paragonavano a Giove e Giunone per la loro ricchezza, sfarzosità e potenza, gli dei fecero fare loro naufragio durante un tragitto in mare. Dato che Ceice morì nella tempesta, Alcione si lasciò annegare per il dolore, così Giove tramutò entrambi i defunti in uccelli alcioni.
- Aratea: libera traduzione giovanile dei Fenomeni celesti del poeta ellenistico Arato di Soli.
De consulatu suo: poemetto autobiografico composto da Cicerone tra il 60 a.C. e il 55 a.C. in cui si parla dell'ascesa al consolato dell'autore e della sua vittoria nel processo contro Lucio Sergio Catilina.
- De temporibus suis: altra opera autobiografica perduta scritta nel 54 a.C. in cui Cicerone celebrava i suoi interventi migliori durante il consolato.
- Epigrammata ("Epigrammi"): componimenti satirici scritti da Cicerone quando aveva circa vent'anni. Stando alle testimonianze di Quintiliano, l'opera era di genere comico e ironico e trattava di vari argomenti fantastici e reali.
- Limon: il titolo deriva dal sostantivo greco ?e?µ??, "prato"; ciò sottolineava il carattere variegato dell'opera, un poema in esametri in cui venivano trattati diversi argomenti letterali e sociali. Infatti una testimonianza di Svetonio riporta un giudizio severo dell'autore riguardo a un'opera del commediografo Terenzio.
- Marius: poema epico-storico in cui Cicerone parla delle imprese del console Gaio Mario. L'opera è importante per il passaggio dell'autore dal genere alessandrino a quello storico mescolato alla poesia, cioè epico.
- Nilus: opera quasi sconosciuta. Si pensa che Cicerone l'abbia scritta per lodare le qualità del fiume Nilo dell'Egitto.
Pontius Glaucus: componimento in stile alessandrino di Cicerone. Scritto circa nel 93 a.C., l'opera trattava del mito di Glauco, il quale dopo aver mangiato un'erba afrodisiaca dai poteri magici, si trasformò in un animale marino.
- Tymhaeus: vasti frammenti del lavoro compiuto sul Timeo di Platone, che Cicerone presumibilmente non ha mai pubblicato, preparando semplicemente abbozzi di traduzione.
- Uxorius: opera nota quasi esclusivamente attraverso il titolo, che significa Il marito devoto (alla moglie); si ritiene avesse argomento leggero e carattere scherzoso, se non apertamente comico.
Tuscolanae disputationes
Nei momenti di maggiore impegno politico, Cicerone vedeva nell'attività intellettuale e nella ricerca filosofica la base d'ispirazione per lo svolgimento di una giusta attività politica, non concede a queste una dimensione autonoma esente da un risvolto pratico perché ciò avrebbe condotto all'otium, all'allontanamento dalla vita pubblica e dall'impegno civico. Nelle Tusculanae invece, scritte in un periodo di emarginazione di Cicerone dalla vita politica, sembra delinearsi un più ampio margine di autonomia della sfera intellettuale. Questo tentativo di rivendicazione del primato di discipline artistiche e filosofiche si inscrive in un più ampio progetto di emancipazione della cultura latina dalla condizione di inferiorità rispetto a quella greca. La stessa cultura politica di Cesare operava proponendo la concessione della cittadinanza romana agli intellettuali greci, contrariamente a quanto era accaduto nel 161 a.C. quando un decreto senatorio sancì l'espulsione da Roma di filosofi e retori di lingua greca. Provvedimento che venne reiterato nel 92 a.C. quando dei censori fecero espellere da Roma retori latini il cui insegnamento andava al di là del mos maiorum. Era evidente che si trattava di un provvedimento politico, data la capacità della retorica di diventare una pericolosa arma politica. L'educazione greca a Roma iniziava ad essere avvertita dal ceto dirigente come una minaccia per la propria egemonia e qualcosa che avrebbe condotto al di là del solco della tradizione romana. In Cicerone, tuttavia, non si troverà mai un completo distacco tra teoria e prassi, seppure rivendica un ruolo di autonomia per la sfera intellettuale, continua ad attribuire alla cultura filosofica una finalità pratica di rigenerazione etico-politica della res publica da utilizzare come strumento educativo per i gruppi dirigenti di Roma e dell'Italia. Emerge dalla lettura delle Tusculanae un Cicerone abbattuto che confida nella funzione consolatoria della filosofia, fino a rivolgerle quasi un inno nel proemio del libro V:
“Ma sia per correggere questo sbaglio (il cedere alle passioni quando ci si trova in situazioni avverse piuttosto che mantenere un atteggiamento virtuoso) sia per tutti gli altri nostri errori e manchevolezze ci si deve rivolgere alla filosofia. E io, che fin da bambino mi ero gettato fra le sue braccia per scelta volontaria e con gran zelo, ora, sconvolto dalla tempesta di queste grandissime vicende, mi sono rifugiato nel medesimo porto da cui mi ero allontanato. Oh filosofia, che sei guida nella vita, che ricerchi la virtù e scacci i vizi! Senza di te, che cosa sarebbe potuto accadere, non dico di me, ma dell'intera esistenza umana? Tu hai dato origine alla città, tu hai chiamato a vita comune gli uomini dispersi, tu hai creato dei vincoli tra loro: prima l'abitazione, poi le nozze, poi la comunanza della scrittura e del linguaggio; tu hai istituito le leggi tu sei stata maestra di morale e di civiltà; in te cerco rifugio, a te chiedo aiuto, a te mi affido, se già prima in gran parte, ora completamente con tutto me stesso”.
Il corpus delle opere filosofiche
Le Tusculanae disputationes sono state composte insieme ad altre opere filosofiche tra il 45 e 44 a.C. Data la mole e la velocità con cui Cicerone ha prodotto le opere, si sospetta che in realtà esse siano state frutto di una semplice revisione e che Cicerone si sia rifatto a dossografie. Ma in questo modo verrebbe meno il senso del lavoro filosofico svolto da Cicerone. Infatti egli si vantava di aver dato a Roma una letteratura filosofica valida, data la scarsa presenza di opere filosofiche latine e la loro bassa qualità. Si iniziava così a colmare quel divario culturale che vi era tra Roma e la Grecia.
Per quanto riguarda la struttura nel complesso delle opere filosofiche, sembra che Cicerone abbia avuto in mente un piano espositivo generale, quasi che ci fosse un filo rosso tra le varie opere e che la loro stesura in senso cronologico corrispondesse ad un senso logico; a supporto di questa tesi, infatti, nel proemio al secondo libro del De divinatione, Cicerone mostra quale sia stato il senso della sua impostazione. Ma non bisogna cadere nella tentazione di vedere il complesso delle sue opere come un “sistema”, cercando di annullare le oscillazioni e le contraddizioni di pensiero che caratterizzano queste opere.
Adesione al probabilismo neoaccademico
L'adesione di Cicerone al probabilismo neoaccademico avvenne per mezzo di Filone di Larissa, filosofo greco che successe Clitomaco nella direzione dell'Accademia e che fu un maestro di Cicerone nell'88 quando durante la Guerra mitridatica trovò rifugio a Roma. Per Filone la percezione si distingue dall'evidenza, il fatto che una cosa è evidente non implica che sia effettivamente percepita, trattandosi per evidenza della semplice presenza delle cose nella nostra mente. Poiché della percezione non abbiamo segni tangibili, questo fa sì che il vero e il falso restino sempre probabili. Tuttavia Filone si discosta dal principio scettico della totale sospensione dell'assenso e considera la possibilità per l'uomo di accostarsi a un minimo di certezza attraverso l'opinione e la ricerca di ipotesi più probabili. Quindi la stessa probabilità diventa un criterio di attendibilità nella realtà delle cose.
Il probabilismo neoaccademico ciceroniano che traspare dalle Tusculanae, non approda ad un totale scetticismo e sospensione di giudizio ma sembra piuttosto muoversi verso direzioni più positive che probabilmente derivano dall'insegnamento impartitogli da Filone che aveva cercato di dare al suo probabilismo toni meno forti rispetto alla visione di Carneade di Cirene. Lo scetticismo predicava l'impossibilità dell'uomo di poter approdare alla verità ultima delle cose, si muoveva in una direzione anti-dogmatica rifiutando ogni tipo di dottrina, le quali esprimendo molteplici punti di vista del mondo discordi e in lotta tra loro non facevano altro che essere una controprova della tesi scettica dell'impossibilità di poter giungere a certezze. Mentre a Roma prendevano sempre più piede la filosofia stoica ed epicurea, l'adesione di Cicerone a questo tipo di filosofia non avvenne senza obiezioni, derivanti dalla preoccupazione per le ripercussioni che una tale scelta avrebbe potuto comportare sul piano etico conducendo all'abbandono dei principi morali. Cicerone stesso afferma che il suo non è un rifiuto del vero ma è la consapevolezza che in tutte le cose il vero è mischiato al falso ed è difficile distinguerli. Egli vedeva nell'adesione al probabilismo ciò che gli avrebbe permesso di condurre una ricerca libera da preconcetti, adottando posizioni diverse tra loro, talvolta muovendosi sull'orlo della contraddizione, ciò di cui viene accusato da uno degli interlocutori delle Tusculanae, precisamente nel libro V, a cui Cicerone risponde acutamente:
“Codesto metodo va usato con altri, con quelli che nelle discussioni seguono leggi prestabilite; noi invece viviamo giorno per giorno e qualunque cosa abbia colpito la nostra mente per la sua probabilità, noi la diciamo, perciò siamo liberi”.
Nelle Tusculanae sembra apportare una trasformazione nel metodo accademico, nel momento in cui il suo interesse si sposta dal semplice avvicinamento a ciò che è verosimile all'assenso di ciò che è in grado di conferire senso all'esistenza, come nel caso della concezione platonica dell'immortalità dell'anima da lui condivisa nel libro I e appoggiata con maggiore impeto nelle confidenze dell'epistolario. Anche nel suo avvicinamento allo stoicismo, da lui precedentemente criticato per l'inapplicabilità delle sue teorie, è evidente la motivazione pratica e non logica che vi è alla base. Lo stoicismo con la sua visione delle passioni, il suo concetto di felicità conseguibile solo con la virtù, era ciò che poteva garantire la tranquillità nell'esistenza dell'uomo.
Passaggio dall'oratoria alla filosofia
La stesura delle opere filosofiche avviene durante la dittatura di Cesare, momento in cui, tramontata la libertà nel dibattito politico, erano scomparse le battaglie in senato e nelle assemblee e l'oratoria era ormai solo un ricordo, con il Brutus si era celebrato, infatti, l'elogio funebre. Nasce così in Cicerone l'idea di un'autonomia dell'attività intellettuale, una filosofia che doveva porsi come fondamento dell'attività pratico-politica. Non a caso Cicerone, è convinto di questo bisogno di autonomia da parte della filosofia, in un momento in cui la possibilità di un dibattito politico aperto non è possibile e soprattutto la sua condizione di emarginazione dalla politica gli appare definitiva. Non appena muore Cesare, nel De divinatione la filosofia viene di nuovo presentata come un'attività alla quale dedicarsi nei momenti di otium, per poi cambiare di nuovo idea, quando sarà costretto ad un nuovo ritiro e nel De officiis dirà che il dedicarsi agli studi, è un'attività inefficace alla solitudine forzata. Cicerone reagisce alle sue vicende personali; quello che appare molto chiaro è il disprezzo da parte del pubblico romano alla filosofia, considerata come dannosa, perché vista come una forma di otium che allontanava dal negotium e dalla politica.
Valore della filosofia a Roma e in Cicerone
Nei proemi ai primi due libri delle Tusculanae, Cicerone mostra il quadro culturale romano e parla del divario che vi è tra Roma e la Grecia. Roma pur essendo superiore, a detta di Cicerone, della sua vicina, mostra tante carenze in vari ambiti disciplinari, quali: la matematica, che è utilizzata solo per i calcoli in campo commerciale e prettamente pratico, ignorata come disciplina teorica; la poesia, che insieme alla filosofia e alle attività artistiche, culturali ed intellettuali, costituiscono una perdita di tempo e una distrazione dalla vita politica e socialmente attiva. Queste attività, per la Roma contemporanea a Cicerone, sono da praticare nei momenti di otium oppure attività come la filosofia sono prese in considerazione solo come mezzo, ovvero utili all'oratoria. In quest'opera è evidente come la filosofia, e il saggio di conseguenza, abbiano come finalità, quella di affiancare l'attività degli uomini al potere e fungere da consiglieri e precettori al ceto dirigente, per un corretto funzionamento della res publica. Questa idea sarà una costante in Cicerone. Egli, infatti, si proporrà come tutor e consigliere, nei rispettivi momenti di apice al potere, a Pompeo, Cesare e Ottaviano. Idea che rimane un'utopia come nel La nuova Atlantide di Bacone o ne La città del sole di Campanella.
Libro I
Proemio
Nel proemio del primo libro, Cicerone si rivolge a Bruto e lo informa che, essendo libero dal suo impegno politico, può ora dedicarsi agli studi di filosofia. Decide di affrontare l'argomento in latino, perché si accorge che ai Romani manca la letteratura filosofica e sono in ritardo rispetto ai Greci su alcune discipline, nonostante la loro netta superiorità. Infatti la poesia è considerata un disvalore perché distrae dalla vita politica, così come la filosofia, utile per l'oratoria o da praticare solo nell'otium, oppure come la matematica utilizzata solo per i calcoli pratici.
Libro I
Cicerone quindi racconta delle sue lezioni di filosofia nella sua villa a Tuscolo, tenute davanti ad un pubblico di discenti. L'incipit della prima disputa, pronunciato da un allievo, con cui inizierà il dialogo, è:
“A me sembra che la morte sia un male”
Il ragazzo sostiene che la morte sia un male per tutti, per i morti e per coloro che devono morire, il che implica per Cicerone un'infelicità estesa a tutti gli uomini, condannati sin dalla nascita. Per dimostrare l'assurdità di questa tesi, Cicerone si appresta ad analizzare caso per caso questo argomento così complesso. Partendo con l'analisi delle persone già morte, le quali dovrebbero essere infelici, spiega come gli “Inferi” sono soltanto frutto di miti, fantasia e superstizione, quindi non esistono infelici in un posto che non esiste; il discente sostiene che i morti siano infelici, perché non più partecipi della vita, ma Cicerone sostiene che questo sia assurdo perché:
“Ma non ti accorgi che ti contraddici? Quale maggiore contraddizione infatti dell'attribuire, non dico l'infelicità, ma una qualsiasi forma di esistenza a chi non esiste?”
L'allievo si convince che i morti, non essendo più nulla, non possono soffrire della loro condizione, e chiede a Cicerone di dimostrare come non ci sia infelicità neppure nel dover morire. L'obbiettivo di Cicerone è dimostrare che la morte non è un male, ma addirittura un bene. Tutto sta nel capire cosa si intenda per morte, morte fisica e dell'anima, oppure morte fisica e separazione dell'anima dal corpo. Partendo dal presupposto che l'anima esista, poiché come l'idea delle divinità è presente in tutti gli esseri umani, così l'idea di anima è presente in tutte le tradizioni e filosofie, pur non sapendo che forma abbia, di che materiale sia fatta (soffio, fuoco o quinto elemento) e dove risieda (testa, cuore). Una volta stabilito che l'anima si stacca dal corpo, l'idea comune è che risieda sotto terra, negli Inferi, ma è un errore connesso al nostro essere seppelliti. In realtà l'anima si stacca e sale in cielo, sia che sia fuoco o soffio (Fisica aristotelica ), sia che sia una quinta essenza divina, inoltre perché non vi è nulla più veloce dell'anima. Conoscere se stessi vuol dire conoscere la propria anima, e secondo Platone “Ciò che sempre si muove è eterno”, per cui l'anima si muove da sé e, essendo principio di se stessa, non ha avuto origine da altro, quindi non avrà una fine; quindi "l'anima è eterna".
Qui Cicerone, si ricollega alla teoria di Platone della reminiscenza, per la quale la nostra anima ha memoria della vita precedente ed imparare è ricordare. La memoria è una facoltà notevole, che ci rende quasi divini, insieme alla creatività, al senno e alla vitalità. L'anima quindi può o staccarsi dal corpo e sopravvivere per poco tempo, a lungo (come dicono gli Stoici) o per sempre; oppure l'anima è mortale; Panezio sosteneva che l'anima soffre, nasce ed è somigliante a quella del genitore, quindi deve anche morire. Ma la somiglianza non implica la nascita quindi l'anima non muore Cicerone riconferma che l'anima sia eterna. Per quanto riguarda il distacco dal corpo, questo non provoca sofferenza, poiché non ce ne accorgiamo. Con la morte, afferma Cicerone, ci liberiamo dai mali della vita, e non dobbiamo usareil verbo “mancare” (carere), poiché il morto non prova sensibilità, quindi nulla ci riguarda dopo la morte, così "come nulla ci riguardava prima della nascita".
Avviandosi alla conclusione del primo libro, Cicerone ripete che se con la morte muore anche l'anima, allora possiamo paragonarla ad un lungo sonno, per cui è vantaggiosa. Dobbiamo ricordare inoltre che la vita ci è stata data in prestito dalla natura, e questa può venire in qualsiasi momento a riprendere ciò che ci ha dato; in ogni caso noi dobbiamo esserle grati, poiché non è importante la durata, ma il vivere. Un'ulteriore prova della bontà della morte è questa:
“nulla di ciò che la natura ha dato è male, e rendiamoci conto che, se la morte è un male, il male è eterno.”
Se invece l'anima si trasferisce in cielo, la sua condizione è ottimale. Qui potrà incontrare i personaggi della storia e parlare.
Il corpo invece, dopo il distacco rimane senza sensibilità e quindi non bisogna preoccuparsi per la sepoltura, ogni tradizione e paese ha i suoi riti.
In conclusione, la morte è in ogni caso un bene, e la vita:
“ non è mai troppo breve se si è adempiuto al dovere della virtù”.
Libro II
Proemio
Nel proemio del secondo libro, Cicerone sostiene che sia necessario per lui dedicarsi alla filosofia, in maniera totale, perché non si possono conoscere solo pochi argomenti, ma il più possibile. La filosofia, infatti, funge da medicina dell'anima, elimina le ansie e le paure, la paura della morte, ad esempio, di cui si è discusso nel primo libro delle Tusculanae. Nonostante la sua efficacia e la sua importanza, la filosofia è osteggiata dai molti ed è sempre stata riservata per un élite di persone, per pochi dotti a Roma. Veniva utilizzata e studiata solo perché costituiva un esercizio per l'arte dell'oratoria, in funzione della politica; la tecnica era quella già enunciata da Aristotele di discutere pro e contro di un argomento.
Libro II
La filosofia, quindi, è capace di curare l'anima ed eliminare le ansie; “come un campo per quanto fertile, non può dare frutti senza coltivazione, così l'anima senza insegnamento; tale è al debolezza di entrambi gli elementi in assenza dell'altro. Ora, nel caso dell'anima la coltivazione è la filosofia, essa estirpa i vizi fin dalle radici, e prepara le anime ad accogliere le sementi ”. L'incipit del secondo libro, pronunciato dall'allievo con cui Cicerone intrattiene il dialogo, è:
“Considero il dolore il più grande di tutti i mali”
Cicerone risponde: “Più grande del disonore?”
In questo modo, Cicerone ha già smontato il suo allievo; per un uomo il disonore è il male più grande, anche perché se si considera il dolore il sommo male, capitando prima o poi a tutti, nessuno può essere felice. Il rimedio per Cicerone è saper sopportare, in questo modo si comporta il saggio. Dice che nella loro educazione non sono stati abituati a sopportare il dolore, un esempio sono i poeti che rappresentano eroi che si lamentano e portano gli animi ad indebolirsi. Cicerone, poi, passa a smontare la filosofia di Epicuro, una filosofia per lui falsa e dannosa, infatti questa considera anche il più piccolo dolore peggiore del massimo disonore. Invece l'uomo deve saper avere il controllo di se stesso, guardando a quelle che sono le quattro virtù cardinali, prudenza, giustizia, temperanza e fortezza, imprescindibili l'una dall'altra. Il dolore si vince con la pazienza. Fatica e dolore sono diversi, infatti la prima è l'esecuzione da parte del corpo o dell'animo di un'attività gravosa, mentre il dolore è “un brusco movimento del corpo, in contrasto con i sensi”. Ma, se ci si abitua alla fatica, ci si abitua anche al dolore, così come fanno i soldati, non a caso infatti si usa la parola esercito (exercitus, da exercere – esercitare), allo stesso modo si deve comportare il saggio. La parola virtù (virtus) deriva da vir (uomo); virile è la fortezza che si esplicita in due compiti principali, il disprezzo per la morte e quello per il dolore. Il sommo bene è la virtù ovvero ciò che trae origine da essa o è desiderabile di per sé, che è lodevole per natura. La virtù, sostiene Cicerone, si raggiunge con l'uso della mente. Quest'ultima è divisa in due parti, la parte che costituita dalla ragione e quella di cui è ne priva, che nel sapiente deve obbedire alla prima. Il saggio infatti stimola e arma se stesso, con lo sforzo, l'incoraggiamento e il dialogo interiore, l'anima è come il corpo, così come i muscoli per sollevare i pesi devono allenarsi ed essere tesi, allo stesso modo l'anima deve essere tesa e abituata a sopportare. I dolori e le fatiche si sopportano meglio, se si agisce per ciò che è nobile, per la nobiltà morale e per la gloria. In questo modo le fatiche diventano tollerabili, come per il soldato, così per l'uomo politico e per il saggio. Ciò dice Cicerone deve avvenire senza ostentazione e lontano dalla gente, poiché il vero pubblico è la coscienza.
Libro III
Proemio
Qui Cicerone esprime la sua concezione per cui l'uomo per natura non è lontano dalla virtù, tuttavia il cammino verso una vita retta è ostacolato da opinioni errate che ci allontanano dalla possibilità di conseguire la felicità. Tali opinioni derivano dall'educazione impartita dai genitori ai figli, dai maestri, dai poeti le cui parole si imparano a memoria, dalla moltitudine, dallo scambiare la gloria che è una diretta conseguenza delle azioni giuste, definita “concorde lode degli onesti”, con la popolarità che non fa altro che acclamare vizi e colpe.
Quando l'animo viene deturpato da passioni fino al punto di sfiorare la follia diventa necessario sottoporlo ad una cura che Cicerone non può che individuare nella filosofia.
Libro III
L'argomento del terzo libro viene sollevato da una questione posta da uno dei presenti nell'Accademia il quale sosteneva che anche i saggi potevano essere soggetti a passioni. Cicerone comincia a trattare questo argomento partendo con l'esposizione in forma sillogistica del paradosso stoico per cui “ogni stolto è pazzo”:
“Tutte le passioni dell'anima poi i filosofi le chiamano malattie, e sostengono che non esiste nessuna persona stolta che sia priva di queste malattie, dunque tutti i non sapienti sono insani[pazzi]”.
Procede nella trattazione avvalendosi in un primo momento del metodo stoico della logica delle proposizioni che gli permetteva di assumere maggiore precisione concettuale. Per trattare le questioni con maggiore profondità cercando di indagarne le cause, predilige invece il metodo accademico-peripatetico che si avvaleva di un linguaggio meno spinoso e più raffinato rispetto a quello utilizzato dagli stoici, seppur dei peripatetici non condivideva la teoria del “giusto mezzo” cioè la visione per cui si pensava di poter mettere un limite alle passioni senza doverle estirpare in maniera definitiva.
Con una serie di sillogismi dimostra che l'anima del sapiente non può essere in alcun modo soggetta ad afflizione perché dotata di forza, di frugalità, non animata da ira, libera da invidia e da compassione, passioni che se ci fossero comporterebbero afflizione. Passa ad affrontare la questione in modo più ampio attraverso il metodo accademico peripatetico, ma restando legato comunque alle opinioni degli stoici che ai suoi occhi mostravano maggiore acutezza in questo campo. Le passioni sono moti dell'anima che muovono contro la ragione, per poterle eliminare è necessario individuarne le cause che gli stoici vedono dell'opinione.
Esse si dividono in quattro generi: due nascono dall'opinione dei beni e sono la gioia smodata per i beni presenti, e la brama per i beni presunti. Le altre due nascono dall'opinione dei mali e sono il timore che deriva dall'opinione di un male futuro e l’afflizione che nasce dall'opinione di un male presente. I mali peggiori sono quelli che derivano dall'afflizione poiché essi distruggono completamente l'anima.
Cicerone appoggia in parte la visione cirenaica per cui a produrre afflizione sono soprattutto i mali improvvisi, sostenendo che sicuramente la riflessione su quello che può accaderci nella vita, sulla condizione umana, contribuisca a lenire il dolore. Tuttavia la mancanza di previsione non può essere considerata come l'unico aspetto che procura afflizione, potrebbe ad esempio contribuire ad alimentarla il fatto che il male è recente ed è necessario del tempo per mitigarlo. La riflessione sulla comune condizione umana, resta comunque un aspetto importante in Cicerone, che contro Carneade, individua come metodo di consolazione, poiché aiuta a sopportare le pene con moderazione, non le aumenta né tantomeno può essere considerata propria di chi è malvagio e gioisce delle pene altrui, come invece sosteneva Carneade. Ma la critica maggiore è riservata da Cicerone ad Epicuro. Secondo la concezione epicurea non ha senso pensare ad un male che potrebbe accadere, poiché il pensiero in sé costituirebbe già un male e se poi questo non dovesse realizzarsi ci si sarà procurati infelicità per niente. A questa visione Cicerone oppone che la riflessione sulla condizione umana trova rimedio per le avversità attraverso un triplice ordine di consolazione: pensare sempre che una cosa può capitarci contribuisce a diminuire il dolore, si arriva a capire che le vicende umane sono sopportabili dall'uomo, e che non esiste male nelle cose di cui non abbiamo colpa.
L'altra critica che rivolge al filosofo edonista è riferita al fatto che egli sostiene sia possibile dimenticare le pene volgendo l'attenzione ai beni, cosa improbabile per Cicerone soprattutto in virtù dell'identificazione epicurea del sommo bene con il piacere:
“A me sembra che il sommo bene stia nell'anima, a lui invece nel corpo; a me nella virtù, a lui nel piacere”.
Restando fedele al metodo accademico di passare in rassegna tutte le concezioni dogmatiche, critica anche la visione peripatetica per cui la causa dell'afflizione non può risiedere nella nostra volontà ma è una conseguenza naturale dei mali che ci accadono, contro cui non possiamo niente. Contro questi sostiene che la causa dell'afflizione non può essere nella natura ma solo nell'opinione.
In conclusione individua nella consolazione tre rimedi, il primo consiste nel dimostrare che il male non c'è o se c'è è molto piccolo, il secondo nel riflettere sulla condizione generale della vita umana, soprattutto di chi soffre, il terzo nel pensare che lasciarsi abbattere dal dolore non porta nessun vantaggio ed è segno di stoltezza. Il sapiente non potrà essere colto d'afflizione, perché essa è inutile, non deriva dalla natura ma da un errore della volontà, è accolta senza motivo di conseguenza non è in alcun modo compatibile con la saggezza.
Libro IV
Proemio
Cicerone delinea i motivi per cui la vera filosofia, quella che derivava da Socrate e continuava con i peripatetici e gli stoici, non aveva lasciato nessuna testimonianza in latino, nonostante non si potesse dire che a Roma non esistesse un interesse antico per gli studi filosofici. I romani cercavano di conseguire nella vita piuttosto che negli scritti la scienza del vivere bene, erano impegnati in grandi imprese e pensavano fosse difficoltoso diffondere questo tipo di studio tra gente non acculturata, non a caso a Roma si diffuse soprattutto la filosofia epicurea per il suo richiamo al piacere e per la scarsa difficoltà che richiedeva nell'essere compresa.
Libro IV
In questo quarto libro l'intento di Cicerone è quello di dimostrare che il saggio è libero da ogni passione e per farlo sviluppa un'intensa trattazione che come nel libro precedente, parte dalle minuziose definizioni e ripartizioni che gli stoici danno delle passioni, per poi passare a delineare dei metodi di cura delle stesse facendo riferimento a quelli di Cleante e Crisippo.
Mentre per le tre passioni: gioia, bramosia e paura, gli stoici avevano individuato in corrispondenza di ognuna altri tre contrapposti stati di equilibrio, ciò non fecero per l'afflizione. La bramosia e la gioia appartengono all'opinione dei beni. È naturale essere attratti dal bene ma se questo avviene in maniera smodata si tratterà di bramosia, se avviene con equilibrio si tratterà invece di volontà, questa appartiene solo al saggio ed è definita dagli stoici come la facoltà di desiderare secondo ragione. Lo stato di equilibrio che si contrappone alla gioia è invece la contentezza che indica il modo in cui l'anima, che si trova in una condizione di bene, si lasci coinvolgere in modo equilibrato e non smodato come invece avviene per la gioia. È naturale anche cercare di prendere le distanze dal male, ora se questo avviene con ragione ed equilibrio si tratterà di precauzione che è propria solo del saggio, in caso contrario, cioè se questo si verifica con prostrazione, allora si tratterà di paura che è propria solo degli stolti. Sembra evidente che non esiste un corrispettivo stato di equilibrio che si contrapponga all'afflizione, questo perché per i mali presenti non esiste uno stato preciso nei sapienti.
Ad ogni passione corrispondono diverse specie:
- All'afflizione corrispondono l'invidia, la rivalità, la gelosia, la compassione, l'angoscia, il cordoglio, la tristezza, la sofferenza, il dolore, il lamento, l'inquietudine, la pena, l'abbattimento, la disperazione.
- Alla paura corrispondono la pigrizia, la vergogna, il terrore, il timore, lo spavento, lo smarrimento, lo sconvolgimento, l'ansia.
- Al piacere corrispondono la malevolenza, il diletto e l'ostentazione.
- Alla bramosia corrispondono l'ira, il furore, l'odio, l'inimicizia, il rancore, l'instabilità e la smania.
Alla base di tutte queste gli stoici individuano l'intemperanza che agisce contro il volere della ragione a differenza della temperanza che è quella virtù che ci permette di obbedire ai suoi precetti, di placare gli istinti garantendo quell'armonia che determina la salute dell'anima. Solo l'anima del saggio libera da passioni e temperata può essere felice. A questo proposito muovendo oltre le schematizzazioni e definizioni stoiche per parlare dei i metodi che curano l'anima e la liberano dalle passioni, Cicerone comincia criticando due concezioni peripatetiche. La prima è rivolta all'idea per cui sarebbe possibile porre un limite alle passioni, sostenendo che è impossibile porre un limite al vizio perché l'anima una volta sconvolta ed eccitata non potrà che peggiorare:
“[…] chi infatti pone un limite ai vizi, se ne assume una parte; cosa che oltre ad essere odiosa di per sé, è tanto più molesta perché i vizi si muovono su un terreno scivoloso e, una volta eccitati, rotolano all'ingiù, e non c'è modo per fermarli”.
Altro punto in cui è in disaccordo con i peripatetici è la visione per cui le passioni oltre ad essere naturali, ci sono state date dalla natura per il nostro bene. Vedono ad esempio nella collera lo strumento per affinare il coraggio, nell'afflizione ciò che ci aiuta a scontare le nostre colpe. A questo proposito Cicerone adduce una serie di esempi che testimoniano vicende dove si poteva dire che questi uomini erano animati da fortezza ma non da collera come l'Aiace di Omero quando affronta Ettore, il pontefice Massimo Publio Cornelio Scipione Nasica quando muoveva contro Tiberio Gracco e via dicendo. Riprende la definizione che Crisippo dà della fortezza e si spinge sino al punto di considerare agli stoici come gli unici veri filosofi:
“La fortezza è la cognizione di ciò che si deve sopportare o la disposizione dell'anima che, nel soffrire e nel sopportare, ubbidisce senza timore alla legge suprema”.
Esclusa la visione peripatetica del porre un limite alle passioni è importante cercare il modo per estirparle, curarle. A questo proposito Cicerone fa riferimento a dei metodi di cura delle passioni:
Il metodo di Cleante per cui le passioni possono essere cancellate partendo col far notare come in realtà non sia un bene ciò da cui nasce gioia e bramosia, e non un male ciò da cui nasce paura ed afflizione.
Il metodo di Crisippo consiste invece nel dimostrare che le passioni sono in sé viziose, non sono né naturali né necessarie. Un'altra via indicata da Cicerone è quella che vuole eliminare sia le opinioni errate che le afflizioni che risulta essere la più utile ma anche la più complicata e per questo non percorribile da tutti.
Al di là di questi differenti metodi che i filosofi delineano, tutti devono essere concordi nel considerare viziosi e quindi da estirpare i moti dell'anima che vanno contro la ragione ossia le passioni, a prescindere dal fatto che siano beni o mali le opinioni che le generano. Quindi tutti devono incontrarsi un unico metodo di cura che non si preoccupi di indagare sulla natura di ciò che genera le passioni (cioè se sia un male o un bene) ma si occupi di estirpare il turbamento in sé.
La radice delle passioni non può che risiedere nelle opinioni, nei giudizi soggettivi, errori che la filosofia può aiutare ad estirpare:
“Ma sia per l'afflizione che per le altre malattie dell'anima il rimedio è uno solo: dimostrare che dipendono tutte dall'opinione e dalla volontà e che vengono accolte perché si crede sia giusto così. Questo errore che costituisce per così dire la radice di tutti i mali, la filosofia promette di estirparlo completamente. Affidiamoci dunque alle sue cure e permettiamole di guarirci. Finché infatti tali mali risiedono dentro di noi, non possiamo non dico essere felici, ma neppure sani. In conclusione, o affermiamo che con la ragione non si può raggiungere nessun risultato - quando, in realtà, senza ragione non c'è nulla che possa avvenire correttamente - oppure, visto che la filosofia consiste nell'apporto di principi razionali, chiediamo ad essa, se vogliamo essere onesti e felici, ogni aiuto e sostegno per una vita onesta e felice”.
Libro V
Proemio
In questo libro sembra emergere con maggior evidenza un Cicerone sconvolto dalla “tempesta di gravissime vicende” che ritrova nella filosofia quel rifugio che da bambino aveva già scoperto ma dal quale si era allontanato. Il tema affrontato in questo libro: la virtù basta da sola a rendere un uomo felice, è da lui stesso considerato il “più importante e nobile” fra tutte le concezioni filosofiche. Rivolge alla filosofia un inno di lode, essa ha dato origine alla civiltà, senza la sua guida l'umanità sembra destinata a perdersi, il singolo solo seguendo i suoi principi potrà evitare gli errori, perseguire la virtù ed avere una vita tranquilla.
Libro V
Anche qui nel dimostrare al suo interlocutore che la virtù basti da sola a garantire la felicità, mostra la sua vicinanza alle tesi stoiche in contrapposizione alle posizioni di Aristone e Antioco Per gli Stoici poiché non esistono beni al di fuori della virtù, essa sarà l'unica a garantire la felicità. Tutte le vicende umane, gli eventi determinati dal caso, non potranno nulla contro il saggio pago dell'unico bene che si possa desiderare, la virtù. Nella visione di Antioco e Aristo, invece, seppure il sommo bene coincideva nella virtù, esistevano beni minori come la ricchezza, la salute, la gloria, l'onore che contribuivano a rendere un uomo ancora più felice. Concezione poco coerente per Cicerone perché annoverando tra i beni anche ciò che non rientra nella virtù si pongono le condizioni per l'infelicità, in quanto venuto meno un di questi beni instabili e indipendenti dalla nostra volontà, non si potrà certo dire più di essere felici.
È importante che la povertà, la bassa estrazione sociale, la perdita dei cari, il dolore fisico, l'esilio, non vengano considerati dei mali, ma piuttosto eventi voluti dal caso contro cui non si può nulla, se non mantenere un atteggiamento virtuoso di indifferenza. A tal proposito Cicerone critica ancora Aristo e Atioco e a questi aggiunge Aristotele e altri che seppur affermavano che il sapiente è sempre felice, considerando le situazioni date dalla sventura dei mali, mettevano a repentaglio la felicità di quest'ultimo che certo non poteva essere immune dal caso.
Cicerone fa notare che il precetto per cui la virtù garantisce la felicità non era una prerogativa stoica essendo già presente in Platone che nel Gorgia chiaramente afferma che i giusti sono felici mentre non si può dire lo stesso dei malvagi o ancora nel Menesseno dove dice che è felice chi ripone speranza in sé stesso.
In polemica con i Peripatetici che dividono i beni in tre categorie, beni dell'anima, del corpo e della fortuna, sostiene che “nessuno può essere felice se non in presenza di un bene stabile, fisso e perenne” e la virtù è l'unico bene che possegga queste caratteristiche. L'uomo felice è colui che non teme di poter perdere qualcosa perché tutto ciò che possiede dipende da sé stesso, ha “fortezza” ed “autocontrollo” l'una lo protegge da paura ed afflizione, l'altro dalla bramosia e dalla gioia smodata. Cicerone considera il fatto che seppure la migliore definizione di sommo bene la diedero gli Stoici, gli altri filosofi di cui non condivideva le teorie manifestarono comunque spiriti virtuosi. Riporta una serie di esempi a testimonianza di questo: Epicuro, era il filosofo che identificava il sommo bene con il piacere, ma nello stesso tempo teneva in gran conto la sobrietà, Senocrate aveva rifiutato la cospicua somma di denaro che gli era stata offerta da ambasciatori di Alessandro invitandoli ad una modesta cena per far capire loro quanto poco bastava per vivere bene, Democrito si compiaceva del fatto che nessuno l'aveva riconosciuto ad Atene a testimonianza del proprio rifiuto di gloria.
La povertà non potrà in alcun modo intaccare la felicità del sapiente, né la bassa estrazione sociale, né l'impopolarità, anzi egli disprezza gli “onori del popolo” cosa che Cicerone stesso dice di essersi pentito di non essere riuscito a fare. Persino l'esilio non è un male per il saggio, perché non teme il disprezzo del popolo né la sottrazione dei beni, tra l'altro Cicerone si domanda che valore possa avere una civitas che scaccia i sapienti. Il saggio potrà essere felice anche se cieco e sordo perché non considera questi dei mali e se i dolori fisici dovessero essere troppo forti non c'è motivo per cui debbano essere sopportati essendoci un'altra possibilità: la morte dove si trova rifugio per l'eternità e dove viene meno ogni sensazione. In conclusione Cicerone afferma che la cosa fondamentale, a prescindere da come i filosofi definiscano il sommo bene, è che tutti quelli degni di questo nome riconoscano al saggio la possibilità di una vita felice.
I destinatari dell'opera
A differenza dell'oratoria, era opinione comune che la filosofia non andasse alla ricerca di un pubblico esteso, ma che fosse invece riservata a un pubblico elitario, una cerchia riservata di intellettuali che potessero comprenderne a pieno l'importanza. Le letteratura filosofica che circolava a Roma era per la maggior parte in testi originali greci, destinati ai pochi dotti capaci di tradurre. Quello che possiamo immaginare è una filosofia prettamente di carattere tecnico e scolastico. Un altro genere di filosofia, contemporanea a Cicerone, che si stava diffondendo anche negli strati più umili della popolazione, per il suo carattere consolatorio e ottimistico, era l'epicureismo, che risultava odioso a Cicerone per la sua forma sciatta e trascurata e per il suo invito al disimpegno dall'attività politica e civilmente impegnata e al piacere. L'identificazione dei destinatari delle Tusculanae è difficile; difatti sembra che Cicerone si muova su due livelli: il primo che vede nella filosofia un carattere totalmente assorbente, come afferma nel proemio del secondo libro, quindi riservata ad un'élite di intellettuali; il secondo, invece, che vede nella filosofia una guida al comportamento e una medicina dell'anima, destinata ad un pubblico di “occupati”, di gente attivamente impegnata. La filosofia, in questo modo, non rimane come qualcosa di solamente teorico, ma si trasforma in una guida pratica alla vita e alla morale.
L'interlocutore e la messa in scena
Se è così difficile individuare il pubblico a cui vuole rivolgersi con questi libri Cicerone, è anche perché l'interlocutore a cui si rivolge è, praticamente, nascosto e quasi fasullo. Cicerone compone i libri a mo' di dialogo tra lui e i suoi discenti e amici, con cui conversa la mattina di argomenti retorici e nel pomeriggio di filosofia nella sua villa di Tuscolo. Sceglie quest'ambientazione perché, dall'epistolario, veniamo a conoscenza di come questa villa sia la più amata. Ma, a differenza di altre opere, qui l'ambientazione è solo citata; vi è una povertà scenica analoga solo al Brutus. Alla povertà scenografica corrisponde una inconsistenza del personaggio dell'interlocutore: questo è un semplice discente, e volutamente Cicerone fornisce pochi cenni, presentandocelo più come un “tipo” che come un personaggio reale. Egli è “uno dei presenti” a cui Cicerone si rivolge per avere uno spunto per dare avvio ad una conversazione. A ulteriore sostegno della tesi dell'inconsistenza del personaggio è il modo con cui gli si rivolge: egli ha nei suoi confronti un atteggiamento presuntuoso e arrogante, di superiorità e saccenza.
Carattere e stile
Nelle Tusculanae disputationes, come dice il titolo “Conversazioni a Tusculo”, l'argomentazione è articolata come un dialogo tra Cicerone, il maestro, e il discente fittizio. Il dialogo è “espositivo”, di matrice aristotelica, con l'interlocutore che di tanto in tanto interviene e espone i suoi dubbi e le sue incertezze. Lo stile è quasi quello della diatriba, per la presenza di domande retoriche e la ricchezza di esempi. Questo modo di insegnare era tipico delle scuole di filosofia di matrice ellenistica, poiché denunciando l'inconsistenza della tesi opposta, si arrivava facilmente a dimostrare la validità e l'efficacia della propria tesi. Gli interventi del personaggio “tipo” sono in realtà funzionali a presentare spunti di riflessione per Cicerone, e a dissolvere le incertezze e le obiezioni, che gli si potevano muovere. I libri si presentano come una dossografia di letteratura filosofica, con i vari stili di pensiero che Cicerone presenta per i vari argomenti. Il dialogo diventa così, più che altro, un suo “monologo”, in cui egli ha come obiettivo quello di costruire una morale valida che si possa seguire nel corso della vita, rivolgendosi prima di tutto a sé stesso che agli altri.
25 febbraio 2024 - Eugenio Caruso
Il fiore di girasole, logo del sito, unisce natura, matematica e filosofia.
Tratto da