Viemmi talor desio
Di cantar Cadmo, o l’uno e l’altro Atride,
Ma la cetera mia risuona Amore:
Testè le corde rinnovai; d’Alcide
Indi presi a cantar l’opre e ’l valore,
Ella rispose Amore:
Eroi, per sempre addio,
Che la cetera mia risuona Amore.
GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti, pensatori e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi personaggi una nuova stella che nasce nell'universo.
GRECI E LATINI
Alceo - Anacreonte -
Anassagora - Anassimandro -
Anassimene - Archiloco -
Aristofane -
Aristotele -
Cicerone -
Democrito -
Diogene -
Empledoche -
Epicuro -
Eraclito -
Eschilo -
Esiodo -
Euclide -
Euripide -
Lucrezio -
Ovidio -
Pindaro -
Pitagora -
Platone -
Saffo -
Seneca -
Socrate -
Solone -
Talete -
Virgilio -
Zenone -
Anacreonte (in greco antico Anakréon; Teo, 570 a.C. circa – Atene, 485 a.C. circa) è stato un poeta greco antico.
Al poeta di Teo si ispira la cosiddetta "poesia anacreontica", un genere poetico e letterario che caratterizzò il XVIII secolo in Europa, nato all'interno dell'ambiente rococò e che prende spunto dalle opere e dai temi di Anacreonte.
Nato a Teo, sulle coste dell'Asia Minore, combatté, perdendo lo scudo, contro l'invasione persiana della Ionia nel 545 a.C. circa, dovendo tuttavia abbandonare la patria insieme ai suoi concittadini a seguito della sconfitta. Dopo essersi rifugiato ad Abdera in Tracia, colonia di Teo, Anacreonte cominciò la sua carriera di poeta di corte, vivendo a lungo alla corte di Policrate di Samo, dove incontrò Ibico e Simonide, dei Pisistratidi ad Atene e degli Aleuadi in Tessaglia. Era un carissimo amico di Santippo di Atene, il padre di Pericle.
Crizia lo definì in un epigramma come un animatore di banchetti, un amante della cetra, un seduttore di donne, un dolce cantore privo di tristezza. Una leggenda narra che sia morto in patria, ultraottantacinquenne, soffocato da un acino d'uva.
Opere
La sua opera, ordinata dai filologi alessandrini, consta di 5 o 6 libri (di cui ci rimangono 160 frammenti) di Scolii, ionici quanto al dialetto, ma eolici quanto al contenuto, che trattano di temi vari tra cui soprattutto quelli del convivio, dell'amore e del canto. Il poeta scrisse elegie, giambi ma specialmente carmi melici.
Sotto il suo nome ci sono state tramandate una sessantina di Odi dal carattere amoroso ed edonistico, le cosiddette Anacreontee, opera di alcuni imitatori in epoca alessandrina e forse anche successiva. La loro editio princeps fu pubblicata nel 1554 a Parigi da Henri Estienne.
«L'arte del vero Anacreonte è il frutto più maturo della cultura ionica, satura di civiltà, che ormai stanca cede di fronte alla oppressione straniera e alla tirannide e si rifugia nelle gioie fugaci dell'esistenza, eludendo gli urgenti problemi del momento.»
(Guido Carotenuto)
Presso i tiranni non poteva fiorire una poesia di liberi sensi che cantasse gli ideali della polis e la virtù del cittadino, perciò l'arte di Anacreonte fu tipica arte d'evasione. La sua ispirazione non è profonda come quella di Saffo ed Alceo ma è caratterizzata da un sentimentalismo leggero e distaccato, attraverso il quale il poeta cerca di consolarsi dalle sventure e di cantare efebi (soprattutto un certo Batillo) e le etere.
Anacreonte raffigurato nell'atto di cantare e suonare la sua lira
La sua poesia lirica, dal tono di soffuso edonismo, raffinata e ironica – come s'è visto anche negli ultimi commenti rinvenuti nei papiri di Ossirinco – canta innanzi tutto dei piaceri dell'amore, rivolti sia verso le giovani donne sia verso i bei ragazzi, abbinati alla gioia dell'ebbrezza data dal vino; altri suoi temi caratteristici sono il ripudio della guerra, il tormento causato dalla vecchiaia e il culto dionisiaco. Assieme a Saffo e ad Alceo forma il gruppo dei poeti greci che cantavano accompagnati dalla lira.
La passione amorosa declamata da Anacreonte è fondamentalmente carnale e sensualissima. Le sue composizioni su questo argomento sono estremamente brevi, perlopiù poesie di celebrazione dedicate a un'anonima ragazza che egli chiama "puledra tracia" e quelle che si riferiscono ai litigi amorosi tra il poeta e i giovani di cui era innamorato (Smerdies, Batilo e Cleobulo). Si racconta a questo proposito un assai significativo aneddoto: essendogli stato un giorno domandato perché la sua poesia, invece di glorificare gli dei, celebrasse giovani garzoni, si dice ch'egli rispondesse: «Questi sono i nostri dei».
È passato alla storia come il poeta del simposio (dei banchetti e delle feste); contribuirono ad accrescere questa fama le Anacreontee (i cui contenuti sono solo ispirati al vero poeta e fin troppo enfatizzati, e perciò non del tutto reali), che ci hanno dato l'idea di un Anacreonte fin troppo sdolcinato ed edonista, lo stesso che l'Arcadia prese come modello. Anacreonte accenna spesso agli stretti rapporti sentimentali della poetessa Saffo di Lesbo con alcune tra le sue studentesse, riferendovisi come a vero e proprio amore sessuale: proprio su queste voci via via diffusesi sono nati i termini "amore saffico" e lesbismo.
Anacreonte, Bacco e Amore (Anacréon, Bacchus et l'Amour) è un dipinto a olio su tela del pittore francese Jean-Léon Gérôme
Eredità
Un'ode di intonazione amorosa o bacchica composta a imitazione di quelle di Anacreonte viene detta "anacreontica". Nella metrica greca è "Anacreontico" un tipo di metro frequente nella poesia di Anacreonte. Numerose furono le imitazioni che della sua poesia si fecero nell'età ellenistica, prediligendo i temi conviviali ed erotici. A Roma questo genere si diffuse di più delle opere autentiche: Orazio è considerato un continuatore dei modi e dei toni di Anacreonte.
Alla figura di Anacreonte è dedicata una nota opéra-ballet di Jean-Philippe Rameau, l'Anacréon, e il terzo atto dall'opéra-ballet Le Muse galanti di Jean-Jacques Rousseau.
Anacreonte è stato uno degli antichi poeti greci maggiormente studiato ed apprezzato dal giovanissimo Giacomo Leopardi durante i suoi anni di «studio matto e disperatissimo».
Nella famosa saga del Ciclo della Fondazione di Asimov, Anacreon è un pianeta Esterno molto vicino a Terminus, il mondo centrale della Prima Fondazione.
ALCUNE ODI
SOPRA LA PROPRIA CETRA.
Viemmi talor desio
Di cantar Cadmo, o l’uno e l’altro Atride,
Ma la cetera mia risuona Amore:
Testè le corde rinnovai;
d’Alcide
Indi presi a cantar l’opre e ’l valore,
Ella rispose Amore:
Eroi, per sempre addio,
Che la cetera mia risuona Amore.
LE DONNE
Natura al tardo bue le corna diede,
Il trar del calcio all’agile destriero,
Velocissimo piede
ai lepri,
ed ampie fauci al lion fero;
Il guizzo ai pesci snelli,
Il vol diede agli augelli,
All’uom senno e prodezza;
E alla donna che diè?
Dielle beltade,
La qual di mille scudi e mille spade
Puote agguagliar la forza.
Qual dur non rompe e spezža,
incendio non ammorza
D’un volto la bellezza?
AMORE
Allor che l’Orsa intorno
A le tacenti rote
Volgesi di Boote
Con pallido splendor;
E i corpi stanchi il sonno
Con dolce obblìo conforta,
Soletto alla mia porta
Sen viene e batte Amor.
Olà, chi batte? io grido,
Chi turba i sogni miei?
Aprimi, per gli Dei,
Apri, non paventar:
Sono un fanciul, che lasso
Erro a l’oscura pioggia,
Per cortesia m’alloggia
In sino all’albeggiar.
Pietà ne sento, il lame
Reco, la porta schiudo,
Coll’arco e l’ali ignudo
M’appare un fanciullin.
Fra le mie man le sue
Prendo, l’appresso al foco,
Gli rendo a poco a poco
Vigor, gli spremo il crin.
Ei, ristorato, appena,
Proviamo, a dir riprese,
Se l’acqua il nervo offese,
Proviam se l’arco val.
Così dicendo, il crudo
In man l’arco riprende,
E ratto il nervo tende,
Vibra l’acuto stral.
M’entra nel petto acerba
La punta e il cor divide,
Egli saltella e ride;
Poi dice volto a me:
Godi, che il nervo e l’arco
È sano, ospite pio;
Ma come l’arco mio
Sano il tuo cor non è.
SE STESSO
Sul verde trifoglio
Sedendo fra tenere
Mortelle ben voglio;
E il figlio di Venere
In veste che sorga
Leggiadra sugli omeri
La tazza mi porga.
L’etate si volve
Qual rota fugace,
E l’uom poca polve
Fra breve si giace,
O poche arid’ossa
Che asconde nell’orrido
Suo ventre la fossa.
Non sparger l’unguento,
Non spargere i vini
Sul mio monumento:
Ma questi miei crini,
Amor; finchè ho vita,
Profuma, ed intessimi
Ghirlanda fiorita.
Qui siedi, qui chiama
Fra i doler diletti
La donna che m’ama;
Che pria ch’io m’affretti
Per entro le oscure
Carole dell’Erebo
Vo’ spegner le cure.
LA ROSA
La rosa, il fior d’Amore,
A Liéo s’accompagni; e con festevoli
Risa e con liete voglie
Mescendo il soavissimo licore,
Su la fronte giojosa
Poniam la rosa
Dalle purpuree foglie.
O rosa, o fiore eletto,
Cura più dolce de’ novelli zefiri,
Voluttà degli Dei:
Se con le ignude Grazie il fanciulletto
Amor danza talora,
Di rose infiora
I dorati capei.
Fammi di rose adorno
Il bianco crine, o Bacco; e a suon di cetera
Carole graziose
Andrò menando a l’are tue d’intorno
Con vergine avvenente,
Leggiadramente
Coronato di rose.
UN SOGNO
Era la notte, ed io prendea riposo
In purpureo tappeto,
E mi sentia, mercè del generoso
Licor di Bacco, il cor tranquillo e lieto,
Quando volar mi pare
Su le punte de’ piè veloci e snelle
Fra stuol di verginelle;
Mi par che fanciulletti ebbri e lascivi
Di me si prendan gioco;
Io d’amoroso foco
Tutt’ardo e coglier vo’ baci furtivi;
Ma in un col sonno si dileguan tutti,
Onde co’ labbri asciutti
Abbandonato e solo mi ritrovo,
E dormir bramo e vaneggiar di nuovo.
UNA COLOMBA
D’onde movesti l’ale,
O amabile colomba, ed a che tanti
Odor per l’aure esali?
Dirne ti piaccia il tuo Signor chi sia.
Me al suo Batillo, che de’ cuori amanti
È re leggiadro, Anacreonte invia.
Venere a lui mi diede
Ed un inno gentil n’ebbe in mercede.
Fida lo servo, e queste desiate
Lettere porto, ond’ei promette darmi
In premio al ben servir la libertate.
Ma se m’affranca, io bramo
In servitù restarmi.
Che mi giova il volar per monti e piagge,
E posando or su questo or su quel ramo
Cibar cose selvagge?
Or di pane mi ciba
Spesso co’ le sue mani Anacreonte,
E mi disseta al vin, ch’egli preliba.
Sazia del ber saltello
E fo dell’ali a la canuta fronte
Del mio Signore ombrello:
E se stanchezza io sento,
Su la cetra m’adagio e m’addormento.
Tutto sai, passeggero: or vanne ratto,
Chè loquace m’hai fatto
Oggi sì, che non gracchia
Mai tanto una cornacchia.
UNA RONDINE
Qual sarà pena alle tue colpe uguale,
Rondinella loquace?
Che sì, che sì ch’io ti spennacchio l’ale,
E, qual Terèo novello,
Quella tua lingua svello;
A l’apparir de la diurna face
Stridendo intorno a me voli e rivoli,
E a’ dolci sogni miei Batillo involi.
ALLA SUA DONNA
La figliola di Tantalo
Piangendo su gl’Idèi colli impietrò:
Progne, già bella vergine,
Subitamente rondine, volò.
lo speglio vorrei farmi, o giovinetta,
Perchè tu ’l guardo in me tenessi intento;
O mutarmi nel bianco vestimento
Che il dilicato corpo ti circonda:
Deh! far mi potess’io chiara e fresc’onda
Per bagnar le tue membra, o molle unguento
Per diffondere in te fragranza eletta;
Monile al tuo bel collo vorrei farmi,
O zona al colmo seno;
O in socco pur cangiarmi
Sì che il tuo piede mi premesse almeno.
A BELLA FANCIULLETTA
Me non fuggir, perchè il mio crine è bianco.
Perchè in te non vien manco
Di giovinezza il fiore
Disdegnerai, fanciulla, il nostro amore?
Ve’ le ghirlande, ve’ come al vermiglio
Di fresche rose ben s’accoppia il giglio!
UN CONVITO
Lietamente beviamo
Il giocondo licore,
Facciamo a Bacco di sue lodi onore.
Bacco fu primo a muovere
In agil danza il piede;
Bacco festivi cantici
Cupidamente chiede;
Ei, per dolce uso antico,
D’Amor compagno e di Ciprigna amico.
Per lui gli scherzi nacquero
E le grazie leggiadre;
Egli d’ebbrezza e di letizia è padre.
Bacco ogni cura allevia,
Ogni anima consola:
Or che spumanti calici
Porge il fanciul, sen vola
Da noi melanconia,
E si mesce col vento che va via.
Su dunque, il colmo calice
Ognun si rechi in mano,
E ogni tristo pensier si stia lontano:
O tu che ingombri l’animo
Di mestizia e d’affanno,
Dimmi, le cure, i torbidi
Pensier qual pro’ ti fanno?
Chi l’avvenir n’addita?
Continua incertitudine è la vita.
Io d’odorosi balsami
Lieto, e di vini eletti,
In compagnia d’ornati giovinetti
E graziose vergini
Di carolar sol bramo:
Chi vuol, s’attristi e mediti.
Lietamente beviamo
Il giocondo licore,
Facciamo a Bacco di sue lodi onore
A DIANA
Io prego Te, che per le antiche selve
I cervi rapidissimi saetti,
Bionda figlia di Giove,
Dominatrice de le agresti belve,
Artemide: qui dove
S’ingorgan l’acque del Letèo, discendi:
Tutte qui son dell’avvenir pensose
Le menti, e di paura ingombri i petti;
A noi volgi pietose
Le luci, o Dea; questi che in cura prendi
Cittadini non han spirto feroce,
Qui non è muta di pietà la voce.
LA PAURA DELLA MORTE
Sono già brinati questi miei cernecchi: il capo è bianco:
la gentile giovinezza non c’è più: scrollano i denti:
della dolce vita molto tempo più non mi rimane.
E però sovente gemo, ch’ho del Tartaro paura:
oh! la stanza dell’Oscuro, come orrenda! grave andare
colaggiù, poi ch’è destino: chi giù venne, su non vada.
DI CERA UN VAGO AMORE;
Di cera un vago Amore
Mentre vendeasi un dì,
M’accosto al venditore
E dico a lui così:
Di così bella immagine
Dimmi il valor qual è?
E quegli in lingua dorica
Disse: Qual piace a te,
Né artefice son io
Di cera a dirti il ver,1
Ma un giorno questo dio
Comprai per mio piacer.
Perchè tu vuoi rivenderlo
Almen saper si può?
Fanciulli incontentabili
In casa mia non vo.
Dammi quell’idoletto,
Ecco una dramma a te,
Soggiungo al giovanetto;
Amor vogl’io con me.
Ascolta: O col tuo incendio
Oggi mi infiamma il cuor,
O dentro il foco a struggere
Io ti condanno Amor.
LA FECONDA NIOBE
Già la feconda Niobe
In ruvido macigno
Sulle colline frigie
Fu convertita un dì.
E un dì la vaga e bella
Sposa del crudo Tereo
Si vide in rondinella
Cangiata ancor così.
Cangiarmi in vetro lucido,
Mio bene, anch’io vorrei,
Perchè il tuo volto amabile
Veder potessi in me.
Oh in ricco manto adorno
Gli dei mi trasformassero
Per esser qualche giorno
Portato almen da te.
Perchè le membra tenere
Potessi circondarti,
D’un fresco fonte e limpido
Esser vorrei l’umor.20
Luce degli occhi miei,
Per la tua pelle morbida
Esser non sdegnerei
Un delicato odor.24
Al sen ricolmo e tumido
Servir vorrei di cinto,
O pure al collo candido
Di lucido monil.28
Esser vorrei cangiato
Anche in negletto sandalo,
Per esser poi calcato
Dal piede tuo gentil.