«[...] Già il Sommo Padre, Dio Creatore, aveva foggiato, [...] questa dimora del mondo quale ci appare, [...]. Ma, ultimata l'opera, l'Artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un'opera così grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. [...] Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori [...] né dei posti di tutto il mondo [...]. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. [...]» (Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate, 1486)
GRANDI PERSONAGGI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.
ITALIANI (Giova ricordare che, partendo dagli scrittori latini, fino a oggi la letteratura italiana è la più ricca del pianeta).
Alfieri - Angiolieri -
Ariosto -
Boccaccio - Boiardo -
Carducci -
Cavalcanti -
D'Annunzio -
Da Lentini -
Dante -
Fibonacci - Foscolo -
Guinizzelli -
Leopardi -
Machiavelli -
Manzoni - Mirandola -
Monti -
Pascoli -
Petrarca -
Pirandello -
Poliziano - S. Benedetto -
Tasso -
Verga -
Dipinto di Cristofano dell'Altissimo raffigurante Giovanni Pico della Mirandola, Galleria degli Uffizi
Giovanni Pico dei conti della Mirandola e della Concordia, noto come Pico della Mirandola (Mirandola, 24 febbraio 1463 – Firenze, 17 novembre 1494), è stato un umanista e filosofo.
È l'esponente più conosciuto della dinastia dei Pico, signori di Mirandola.
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Genitori |
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Trisnonni |
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Francesco II Pico |
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Paolo Pico |
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Isabella Malaspina |
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Giovanni I Pico |
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Gianfrancesco I Pico |
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Guglielmo Bevilacqua |
Francesco Bevilacqua |
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Anna Zavarise |
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Caterina Bevilacqua |
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Taddea Tarlati |
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Giovanni Pico della Mirandola |
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Matteo Boiardo |
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Feltrino Boiardo |
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Bernardina Lambertini |
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Giulia Boiardo |
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Gherardo VI da Correggio |
Giberto IV da Correggio |
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Orsolina Pio |
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Guiduccia da Correggio |
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L'infanzia di Pico della Mirandola, di Paul Delaroche, 1842, Museo delle belle arti di Nantes (Francia)
Giovanni nacque a Mirandola, presso Modena, il figlio più giovane di Gianfrancesco I, signore di Mirandola e conte della Concordia, e sua moglie Giulia, figlia di Feltrino Boiardo, conte di Scandiano.
La famiglia aveva a lungo abitato il castello di Mirandola, città che si era resa indipendente nel XIV secolo e aveva ricevuto nel 1414 dall'imperatore Sigismondo il feudo di Concordia. Pur essendo Mirandola uno stato molto piccolo, i Pico governarono come sovrani indipendenti anziché da nobili vassalli. I Pico della Mirandola erano strettamente imparentati agli Sforza, ai Gonzaga e agli Este, e i fratelli e le sorelle di Giovanni si legarono tramite ulteriori vincoli matrimoniali con le famigle regnanti di Corsica, Ferrara, Bologna, Mantova e Forlì.
Durante la sua vita Giovanni soggiornò in molte dimore. Tra queste, quando visse a Ferrara, quella che si trovava in via del Turco gli permetteva di essere vicino agli Strozzi e ai Boiardo.
Epigrafe che ricorda Pico della Mirandola in via del Turco a Ferrara
Pico compì i suoi studi fra Bologna, Pavia, Ferrara, Padova e Firenze; mostrò grandi doti nel campo della matematica e imparò molte lingue, tra cui perfettamente il latino, il greco, l'ebraico, l'aramaico, l'arabo e il francese. Ebbe anche modo di stringere rapporti di amicizia con numerose personalità dell'epoca come Girolamo Savonarola, Marsilio Ficino, Lorenzo il Magnifico, Angelo Poliziano, Egidio da Viterbo, Girolamo Benivieni, Girolamo Balbi, Yohanan Alemanno, Elia del Medigo.
A Firenze in particolare entrò a far parte della nuova Accademia Platonica. Nel 1484 si recò a Parigi, ospite della Sorbona, allora centro internazionale di studi teologici, dove conobbe alcuni uomini di cultura come Lefèvre d'Étaples, Robert Gaguin e Georges Hermonyme. Ben presto divenne celebre in tutta Europa, e si diceva che avesse una memoria talmente fuori dal comune da conoscere l'intera Divina Commedia a memoria.
NOTA A PARTE. (I Pico della Mirandola esistono ancora: un mio compagno del corso di laurea aveva una memoria prodigiosa, memorizzava un intero libro dopo averlo letto; dopo la laurea fu immediatamente cooptato dalle Università americane. Anni dopo conobbi un inglese che parlava correttamente 40 lingue; parlava un italiano prodigiosamente perfetto, sia come grammatica, che come pronuncia).
Nel 1486 fu a Roma dove preparò 900 tesi in vista di un congresso filosofico universale (per la cui apertura compose il De hominis dignitate), che tuttavia non ebbe mai luogo. Subì infatti alcune accuse di eresia, in seguito alle quali fuggì in Francia dove venne anche arrestato da Filippo II presso Grenoble e condotto a Vincennes, per essere tuttavia subito scarcerato. Con l'assoluzione di papa Alessandro VI, il quale vedeva di buon occhio la volontà di Pico di dimostrare la divinità di Cristo attraverso la magia e la cabala, nonché godendo della rete di protezioni dei Medici, dei Gonzaga e degli Sforza, si stabilì quindi definitivamente a Firenze, continuando a frequentare l'Accademia di Ficino.
Tombe di Giovanni Pico, Girolamo Benivieni e Poliziano nel Convento di San Marco a Firenze
Lapide nel chiostro di San Marco (Firenze)
Morì improvvisamente il 17 novembre 1494, all'età di trentun anni, per un avvelenamento da arsenico, mentre Firenze veniva occupata dalle truppe francesi di Carlo VIII durante le guerre d'Italia.
Già all'epoca della morte si vociferò che Pico fosse stato avvelenato: molti sospettarono come mandante Piero de' Medici, che temeva l'avvicinamento di Pico e Poliziano, già suoi amici, al governo di Savonarola. Fu sepolto nel cimitero dei domenicani dentro il convento di San Marco. Le sue ossa saranno rinvenute da padre Chiaroni nel 1933 accanto a quelle di Angelo Poliziano e dell'amico Girolamo Benivieni.
«Siamo vissuti celebri, o Ermolao, e tali vivremo in futuro, non nelle scuole dei grammatici, non là dove si insegna ai ragazzi, ma nelle accolte dei filosofi e nei circoli dei sapienti, dove non si tratta né si discute sulla madre di Andromaca, sui figli di Niobe e su fatuità del genere, ma sui principî delle cose umane e divine.»
(Pico della Mirandola)
Nel novembre del 2018, più di 500 anni dopo, uno studio coordinato del dipartimento di Biologia dell'Università di Pisa, del Reparto Investigazioni Scientifiche dell'Arma dei Carabinieri di Parma e di studiosi spagnoli, britannici e tedeschi, ha appurato che Pico della Mirandola sarebbe stato effettivamente avvelenato con l'arsenico.
Una lapide lo ricorda nella Certosa di Bologna, nel corridoio di accesso al Chiostro del 1500 che ospita varie lapidi cittadine qui spostate a seguito delle spoliazioni napoleoniche.
Volto di Giovanni Pico ricostruito con le moderne tecniche forensi
Di Pico della Mirandola è rimasta proverbiale la prodigiosa memoria. Si dice conoscesse a mente numerose opere su cui si fondava la sua vasta cultura enciclopedica, e che sapesse recitare la Divina Commedia al contrario, partendo dall'ultimo verso, impresa che pare gli riuscisse con qualunque poema appena terminato di leggere.
Ancora oggi si usa attribuire l'appellativo Pico della Mirandola a chiunque sia dotato di ottima memoria. Sulla scia di questa fama, il personaggio Disney Ludwig von Drake si chiama, nella sua versione italiana, Pico De Paperis.
Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola e Agnolo Poliziano, ritratti da Cosimo Rosselli nella Cappella del Miracolo del Sacramento a Firenze
Secondo voci popolari Pico della Mirandola avrebbe avuto un'amante o una concubina segreta. Ad Arezzo nel 1486, ebbe effettivamente una disavventura amorosa per una certa Margherita. Si è sostenuto poi che potrebbe aver avuto un rapporto amoroso con l'umanista Girolamo Benivieni, sulla base di alcuni scritti, tra cui sonetti, che quest'ultimo aveva dedicato a Pico, e di alcune allusioni poco chiare di Savonarola. Pico era comunque un seguace dell'ideale dell'amor socratico, privo cioè di contenuti erotici e passionali. Anche la figura femminile ricorrente nei suoi versi viene celebrata su un piano prevalentemente filosofico.
Dottrina
Il pensiero di Pico della Mirandola si riallaccia al pensiero neoplatonico di Marsilio Ficino, senza però occuparsi della polemica anti-aristotelica. Al contrario, egli cerca di riconciliare aristotelismo e platonismo in una sintesi superiore, fondendovi anche altri elementi culturali e religiosi, come per esempio la tradizione misterica di Ermete Trismegisto e della cabala.
L'ideale di una filosofia universale[
Il proposito di Pico, esplicitamente dichiarato ad esempio nel De ente et uno, consiste infatti nel ricostruire i lineamenti di una filosofia universale, che nasca dalla concordia fra tutte le diverse correnti di pensiero sorte sin dall'antichità, accomunate dall'aspirazione al divino e alla sapienza, e culminanti nel messaggio della Rivelazione cristiana. In questo suo ecumenismo filosofico, oltre che religioso, vengono accolti non solo i teologi cristiani ed esoterici insieme a Platone, Aristotele, i neoplatonici e tutto il sapere gnostico ed ermetico proprio della filosofia greca, ma anche il pensiero islamico, quello ebraico e appunto cabalistico, nonché dei mistici di ogni tempo e luogo.[20]
Il congresso da lui organizzato a Roma in vista di una tale "pace filosofica" avrebbe dovuto inserirsi proprio in questo progetto culturale basato su una concezione della verità come princìpio eterno ed universale, al quale ogni epoca della storia ha saputo attingere in misura in più o meno diversa. In seguito tuttavia ai vari contrasti che gli si presentarono, sorti a causa della difficoltà di una tale conciliazione, Pico si accorse che il suo ideale era difficilmente perseguibile; ad esso, a poco a poco, si sostituirà nella sua mente il proposito riformatore di Girolamo Savonarola, rivolto al rinnovamento morale, più che culturale, della città di Firenze. L'armonia universale da lui ricercata in ambito filosofico si trasformerà così nell'aspirazione religiosa ad una santità e una moralità meno generica e più attinente al suo particolare momento storico. A differenza di Ficino, nel Pico emergono dunque nei suoi ultimi anni un maggiore senso di irrequietezza e una visione più cupa ed esistenziale della vita.[20]
La dignità dell'uomo
Al centro del suo ideale di concordia universale risalta fortemente il tema della dignità e della libertà umana. L'uomo infatti, dice Pico, è l'unica creatura che non ha una natura predeterminata, poiché:
«[...] Già il Sommo Padre, Dio Creatore, aveva foggiato, [...] questa dimora del mondo quale ci appare, [...]. Ma, ultimata l'opera, l'Artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un'opera così grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. [...] Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori [...] né dei posti di tutto il mondo [...]. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. [...]»
(Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate, 1486)
Dunque, per Pico, l'uomo può stabilire per se stesso a quale grado della scala degli esseri collocarsi:
«[...] Stabilì finalmente l'Ottimo Artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l'uomo come opera di natura indefinita e, postolo nel cuore del mondo, così gli parlò: "non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché [...] tutto secondo il tuo desiderio e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai senza essere costretto da nessuna barriera, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai." [...]»
(Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate)
Pico della Mirandola afferma, in sostanza, che Dio ha posto nell'uomo non qualità già fissate, ma un'indeterminatezza che è dunque la sua propria natura, e che si regola in base alla volontà, cioè all'arbitrio dell'uomo, che dirige tale indeterminatezza dove vuole, verso lo spirito (in alto), o verso la materia (in basso):
«[...] "Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine." [...] Nell'uomo nascente il Padre ripose semi d'ogni specie e germi d'ogni vita. E a seconda di come ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. [...] se sensibili, sarà bruto, se razionali, diventerà anima celeste, se intellettuali, sarà angelo, e si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio. [...]»
(Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate)
Giovanni Pico, in definitiva, sostiene che è l'uomo a «forgiare il proprio destino», secondo la propria volontà, e la sua libertà è massima, poiché non è né animale né angelo, ma può essere l'uno o l'altro secondo la «coltivazione» di alcuni tra i «semi d'ogni sorta» che vi sono in lui.
Questa visione verrà, seppur solo in parte, ripresa nel Seicento dallo scienziato e filosofo Blaise Pascal, che afferma che l'uomo non è né «angelo né bestia», e che la sua propria posizione nel mondo è un punto mediano tra questi due estremi; tale punto mediano, però, per Pico non è una mediocrità (in parte angelo e in parte bruto) ma è la volontà (o l'arbitrio) che ci consente di scegliere la nostra posizione. Dunque l'uomo, per Pico, è la più dignitosa fra tutte le creature, anche più degli angeli, poiché può scegliere quale creatura essere.
La sapienza della Cabala
Il secondo grande interesse di Pico è rivolto alla cabala, che viene da lui spiegata come una fonte di sapienza a cui attingere per decifrare il mistero del mondo, e nella quale Dio appare oscuro, in quanto apparentemente irraggiungibile dalla ragione; ma l'uomo può ricavare la massima luce da tale oscurità.
«Non esiste alcuna scienza che possa attestare meglio la divinità di Cristo che la magia e la cabala.»
(Giovanni Pico della Mirandola)
Connessa alla sapienza cabalistica è la magia: infatti, il mago, per Pico, opererebbe attraverso simboli e metafore di una realtà assoluta che è oltre il visibile, e dunque, partendo dalla natura, può giungere a conoscere tale sfera invisibile (ossia metafisica) attraverso la conoscenza della struttura matematica che è il fondamento simbolico-metaforico della natura stessa, per poi agire attivamente in essa. Principale prosecutore della sua dottrina cabalistica sarà l'umanista tedesco Johannes Reuchlin.
Critica dell'astrologia
Se la magia è giudicata positivamente da Pico della Mirandola, per quanto riguarda invece l'astrologia egli ebbe un atteggiamento diverso, che lo portò a distinguere nettamente tra «astrologia matematica o speculativa», cioè l'astronomia, e l'«astrologia giudiziale o divinatrice»; mentre la prima ci consente di conoscere la realtà armonica dell'universo, e dunque è giusta, la seconda crede di poter sottomettere l'avvenire degli uomini alle congiunture astrali.[27] Partendo dall'affermazione della piena dignità e libertà dell'uomo, che può scegliere cosa essere, Pico muove una forte critica a questo secondo tipo di credenze e di pratiche astrologiche, che costituirebbero una negazione proprio della dignità e della libertà umane.
Secondo Pico, questa scienza astrologica attribuisce erroneamente ai corpi celesti il potere di influire sulle vicende umane (fisiche e spirituali), sottraendo tale potere alla Provvidenza divina e togliendo agli uomini la libertà di scegliere. Egli non nega che un certo influsso vi possa essere, ma mette in guardia contro il pericolo insito nell'astrologia di subordinare il superiore (cioè l'uomo) all'inferiore (ossia la forza astrale). Le vicende dell'esistenza umana sono tanto intrecciate e complesse che non se ne può spiegare la ragione se non attraverso la piena libertà d'arbitrio dell'uomo.
Il suo Disputationes adversus astrologiam divinatricem (tale è il titolo dell'opera a cui Pico si dedicò nell'ultimo periodo della sua vita) rimase incompiuto e come tale fu pubblicato postumo, nel 1494, con il commento di Giovanni Manardo; tuttavia, alcuni concetti base furono ripresi e rielaborati da Girolamo Savonarola nel suo Trattato contra li astrologi.[28]
Opere
Opera quae exstant omnia di Pico della Mirandola stampata nel 1601
- Ad Hermolaum de genere dicendi philosophorum, 1485.
- Commento sopra una canzone d'amore di Girolamo Benivieni, 1486.
- Discorso sulla dignità dell'uomo, 1486.
- 900 tesi su tutte le cose conoscibili o Novecento conclusioni filosofiche, cabalistiche e teologiche in ogni genere di scienze, 1486.
- Apologia, 1487.
- Heptaplus: della settemplice interpretazione dei sei giorni della Genesi, 1489.
- Expositiones in Psalmos, 1489.
- De ente et uno, 1491.
- Disputationes adversus astrologiam divinatricem, (Dispute contro l'astrologia divinatrice), 1493.
- Altre opere
- Carmina.
- Auree Epistole.
- Sonetti.
- Duodecim regulae, (Le dodici regole).
- Duodecim arma spiritualis pugnae, (Le dodici armi della battaglia spirituale.
- Duodecim conditiones amantis, (Le dodici condizioni di un amante).
- Deprecatoria ad Deum, (Preghiera a Dio).
- De omnibus rebus et de quibusdam aliis.
Secondo alcuni studi, a Pico della Mirandola sarebbe da attribuire anche la paternità dell'Hypnerotomachia Poliphili
L'UOMO INTERPRETE DEL SUO DESTINO
Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana
sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della
divinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania, aveva avvivato di
anime eterne gli eterei globi, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie
le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di
un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità.
Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo1, pensò da ultimo
a produrre l’uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la
nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da largire in retaggio al nuovo figlio,
né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore
dell’universo. Tutti ormai erano pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei
medi, negli infimi gradi.
Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno, quasi impotente,
nell’ultima fattura; non della sua sapienza rimanere incerto in un’opera necessaria
per mancanza di consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in se stesso.
Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio
fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri.
Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del
mondo così gli parlò:
«Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né
un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto,
quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio
ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio,
alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu
scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi
e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose
inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose
superiori che sono divine».
O suprema liberalità di Dio padre! O suprema e mirabile felicità dell’uomo! A cui
è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere seco recano dal seno materno tutto quello che avranno. Gli spiriti superni
o dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell’uomo
nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. E secondo che
ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta; se sensibili, sarà bruto; se razionali, diventerà animale
celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte
di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo
con Dio, nella solitaria caligine del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose
starà sopra tutte le cose.
NDR Giova ricordare che la frase Homo faber fortunae suae è attribuita all'autore romano Appio Claudio Cieco (350–271 a.C.), che la usò nelle sue Sententiae riferendosi alla capacità dell'essere umano di guidare il proprio destino e gli eventi che lo circondano.
EPISTOLE
A ERCOLE D'ESTE
llustrissime Princeps ac excellentissime Domine, Domine mi obsevandissime.
Essendomi venuto a notitia come il Conte Antonio Maria mio fratello s’è querelato a la Celsitudine Vostra circa il facto de la provisione etc., dubitando io esser stimato circa ciò de simile animo et intentione, m’è parso per questa mia far noto a la Excellentia Vostra che, essendomi stato continuamente il Magnifico Messer Galeoto non fratello ma patre, mia intentione è non descompiacergli mai in veruna cosa; anzi le demonstration grandissime d’amore che de continuo me ha facto con li boni effecti me persuadeno a voler essere sempre obedientissimo, prima però a la Excellentia Vostra come bono et fidelissimo servitore, poi a Sua Signoria come bon figliolo. A la prelibata Celsitudine Vostra et a la Illustrissima sua consorte humiliter me raccomando.
A FEDERICO GONZAGA
Illustris et excelse Domine, Domini mi honorandissime etc.
Hauendo deliberato di andare fra quindeci o venti dì a Ferrara al studio, dove forsi per tal causa dimorarò circha quatro o cinque anni, et volendo mandare a quella citate quelle robe le quale mi serano necessarie per il mio stare ivi et de la famiglia mia, lo inventario de le quale serà monstrato a Vostra Excellentia per lo presente exhibitore, èmmi necessario per maggior commoditate, movendole dal nostro castello de la Concordia et arivando al fiume di Po, passare per il tenire di Vostra Ilustrissima Signoria. Per la qual cosa io prego quella si voglia dignare di concedermi uno mandato per vigore del quale possi liberamente senza alcun pagamento de dacii, de portione di gabelle né di altra inquietudine che si potesse fare, condure le dicte robe et altre che successivamente di tempo in tempo mi siano necessarie ut supra. Farammi di ciò grandissima comoditate, et singularissimo appiacere ne riceverò da Vostra Excellentia di usarmi tal liberalitade, a cui continuamente mi raccomando etc.
AD ALFANO DEGLI ALFANI
Alphano mio. Hebbi da M. Angelo el vostro libro, et molto caro ve ne ringratio: li caratteri sono indiani. Vi prego diciate al Maxeo ch’io ho ad Roma, con altri mei libri, certi soi quinterni. Como li ho qui, glieli manderò, alli piaceri vostri.
A LORENZO DEI MEDICI
Magnifico Lorenzo.
Se nostro S.r vole commettere qui, o ad quello Vescovo che scrive lo oratore, o ad altri che intenda s’io sento delle conclusione mie quello che sua S.tà ne ha determinato, o altramente, lo po’ fare et io sarò paratissimo et ad lui et ad ogni altro far sempre intendere ch’io ho le predecte conclusioni per tale, quale nostro S. ha indicato che lo siano: nè mai o in scripti o in parole tentarò cosa alcuna in oppositum.
Quando volessino ch’io confessassi havere mai per alcun tempo transgresso lo edicto di N.S. et non observato quello che S.S.tà nella bolla sua comanda, prima a loro non è onore che de’ loro comandamenti sia stato tenuto poco conto, alla fede non è utile, ma piuttosto scandalo, a me è gravissimo preiuditio, perchè quantunche io sia poi absoluto dalla pena che ne consequirebbe, non posso mai essere absoluto dall’infamia et onta del peccato, del quale bisogna nella absolutoria si faccia expressa mentione, et quod peius est saria cosa iniustissima, perchè io confessarei havere facta cosa ch’io non fea mai. Il che a loro po’ esser manifestissimo: però che la bolla di N.S. fu publicata in Roma a dì XV di Dicembre, et non prima, di che tutta a città po far testimone, et ad mia notitia pervenne alli sei del mese sequente, essendo io nel cammino di Franza. E benchè la data della bolla sia del mese di Agosto, nondimeno sanno ch’io non sono, nè veruno altro è obligato ad obedirgli insino che la non è publicata. Da quello tempo in qua, non solo io non ho transgresso in parte alcuna lo edicto di N.S., ma non ho mai curato altro, se non da ogni canto et per ogni via a me possibile far constare alla S.tà sua la mia obedientia et levargli ogni suspitione che potesse essere in contrario. Di questo ne ponno far fede gli Oratori soi che erano in Franza, se non voglono tacere el vero, alli quali offersi non una, ma molte volte et privatim et publice etiam nel mezo della Università di Parigi confessare el iuditio mio delle conclusioni esser tale, quale N.S. havea iudicato. La M.tia Vostra si po ricordare quante volte gli ho fatto intendere ch’io non desidero altro che far cognoscere al nostro S.re la obedientia mia.
Quando loro allegassino che prima ch’io partissi da Roma io giurai non diffendere le conclusioni dannate da quelli padri ad li quali nostro S.re havea data questa cura, io non giurai mai questo, ma bene giurai de avere le conclusioni mie per tale quale Nostro Signore et loro le iudicassino. Et benchè del parere delli Padri fussi già certo, non era certo di quello di N.S., dal quale principalmente dependeva, nè mai seppi el loro iuditio esser confirmato da sua Santità, se non quando lessi la bolla, ne la quale Sua S.tà dice: quorum iuditium apostolica auctoritate firmamus.
Hor voglo intrar in iustificatione della causa mia, nè per altro merito cercho la declaratione di N.S. che per intercessione della M.tia V. la quale non mi valerebbe a niente se la causa mia fusse chiara talmente che etiam li inimici miei in modo alcuno la potessino calumniare. Vaglami la auctoritate vostra ad questo, che senza altra discussione di questa cosa, la quale avendosi ad far e per lettera sarebbe di gran tempo et gran fastidio, che N.S. sia contento fare in mio benefitio quello più ch’el può senza preiudicare o alla fede o al honor suo. Quello che io desidero è un breve ne la forma ch’io scriverò di sotto. Faccia vedere la Sua Santità se per concederlo ne li po nascere o danno o vergogna o scandalo alcuno nella ecclesia di Dio, ch’io so gli sarà dicto di no, se ne saranno domandati uomini non passionati. El breve voria che fusse in questa forma:
«Havendo tu già proposto per disputare alcune conclusioni etc., fu iudicato per noi che el libro di quelle non fusse letto, come in una nostra tale bolla si contiene etc.; di poi nacque qualche suspitione che tu non avessi obedito ad lo edicto nostro etc. Et havendo noi indagato questa cosa diligentemente tandem ad noi è constato della innocentia tua circa ciò et havemo apertamente conosciuto te non havere in cosa alcuna contrafacto ad la decta bolla nostra, poichè tu havesti notizia d’esta. Et per questo, ad ciò che la tua innocentia sia così nota ad ogni altro come la è ad noi, declariamo per questo breve te non essere incorso alcuna pertinacia eretica e consequentemente niuna censura o pena debita ad chi incorre in simile errore, ma t’havemo per bon figlolo di Santa Chiesia».
In questa sententia vorei el breve adaptandolo con quelli termini che usa la corte et che sono necessarii per far la absolutione la più efficace, di che se haverà parere da chi se ne intende quando nostro S. sia disposto al farlo. Potrà anche la M.tia dell’Oratore mandare un poco di minuta del breve voranno far loro, se N.S. è disposto.
E perchè el Conte Antonio mio fratello mi dice Monsignor di Napoli havergli decte due cose, l’una che da non so che Vescovo da Parigi gli è stato significato ch’io parlai là contro la bolla di N.S., l’altra ch’io scrivo di novo di questa materia, alla prima dico che sono contento che N.S. mai mi faccia grazia alcuna quando possa con vero intendere che a Parigi in veruno loco nè publico nè privato parlassi contro alla bolla sua. Anzi feci sempre lo opposito, come ho dicto e sanolo li oratori che erano là se lo voglano dire.
Alla S.ria io non ho scripto altro di nuovo che quella expositione sopra el Genesi ch’io ho mandata alla M.tia. Vostra, e lei po far fede se è contra el Papa o no, che tanto è distante dalle materie di quelle conclusioni quanto è el cielo dalla terra. Et per certo questa mia opera sarebbe in tutto vana di cercare con tanta instantia ch’el se intendesse ch’io fussi stato obediente a N. S. quando io fussi in proposito di far pubblicamente l’opposito.
A NICOLO' MICHELOZZI
Prestantissimo viro domino Nicolao Michel. Magnifici Laurenti Med. Secretario Amico optimo honorando. Romae.
Ser Niccolò mi carissimo et honorando. Vi ringratio sommamente della ambasciata mi mandasti per Roberto alla partita vostra. Heri el Magnifico Lorenzo mi mandò a dire per el cancelliere ch’io scrivessi ad Messer Cosmo di Pazzi che ’l vi faccia intendere tutti li bisogni che ’l vede li per expedientia delle cose mie che lui ve havea data amplissima commissione sopra epse. Io l’ho più caro che s’io gli fussi io in persona perché so farete con quello medesimo animo per me che faresti per vui et saprete molto meglio che non saprei io. Ho scripto a Messer Cosmo el volere del Magnifico Lorenzo. Nunc tibi et me et causam meam commendo.
Se voi potete con destro modo cavare dal Maestro di Casa del Papa li libri di Mitridate, mi farete cosa gratissima et ve li rimandarò in uno mese; pagarò le vetture e gabelle et ogni spesa: ma non bisogna mostrare di volerli per me che non ve li darebono. Ad vui mi raccomando.
SONETTI
E quando mai con sì crudel ventura
Avrem pace mio cuor? Di doglia in doglia
Or ti gira il destino, or la tua voglia;
Se l’un pace ti dà, l’altra la fura.
Quall’uom ch’erto sentier fra nebbia oscura
Tenti lento e dubbioso, ove la scioglia
Breve raggio, allor teme, allor s’addoglia,
Che il periglio in scoprir men s’assicura.
Tal, poichè di sciagure aspro cammino
Tristo men corro, in più d’angoscia trarmi
Speme incerta vid’io, che rado apparve.
E se vinco talor voglia, e destino,
Nasce da usanza il duol ch’a tormentarmi
Sorge nero pensier con finte larve.
Volto colà, dove più bella parte
Sparge il Ciel sovra noi di sua virtude,
Quant’opra arte, o natura in se racchiude
Mostrommi il mio pensiere a parte a parte.
Piagge, e colli mirai, dove comparte
Ogn’astro i più bei rai; fonti, ove chiude
Sua pace Amor; selve di mostri ignude;
Aer cui dal piacer nulla diparte.
Che mai non vidi! E pur vago il desìo
Anzi più mi chiedea: quinci il raccolsi
Tolto al Bel di quaggiù, dentro il cuor mio.
Nell’alma allora, e non so come, accolsi
Raggio improvviso, e un’altro fui; ond’io,
Gridai: perchè non prima in lui mi volsi?
30 aprile 2024 - Eugenio Caruso
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