GOLDING
GRANDI PERSONAGGI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i più grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità ed emozioni. Io associo a questi grandi letterati una nuova stella che nasce nell'universo.
I BRITANNICI
Beckett -
Blake -
Byron -
Chaucer -
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Donne -
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Golding -
Keats - Kipling -
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Pinter - Pope -
Russell -
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Wyatt -
Wilde -
Wordsworth -
Yeats -
Dipinto di Charles Jervas, Alexander Pope
Alexander Pope (Londra, 21 maggio 1688 – Twickenham, 30 maggio 1744) è considerato uno dei maggiori poeti del XVIII secolo.
Più noto per la sua vena satirica che per il suo importante lavoro di traduzione dell'opera di Omero, ha rappresentato una svolta per la letteratura inglese, al punto da essere il terzo autore più citato per il Dizionario di Oxford delle citazioni, dopo William Shakespeare e Alfred Tennyson. Pope è anche noto per l'utilizzo del distico eroico.
Nacque da Alexander Pope Senior, un commerciante di tele e stoffe, e da Edith Pope, nata Turner, entrambi cattolici. La formazione del giovane fu influenzata dalla legge penale in vigore nell'epoca, che sosteneva la Chiesa d'Inghilterra e che vietava ai cattolici l'accesso all'insegnamento, di frequentare l'università, di votare e di accedere al pubblico impiego, a pena di prigione a vita. Fu così istruito dalla zia, per poi frequentare la scuola di Twyford nel 1698-9. In seguito, frequentò le scuole cattoliche di Londra, illegali ma tollerate in alcune aree.
Nel 1700, la sua famiglia si trasferì in una piccola proprietà presso Binfield nel Berkshire, vicino alla foresta reale di Windsor, per via del forte sentimento anticattolico che impediva ai cattolici di vivere entro dieci miglia da Londra o Westminster. Pope descrisse in seguito la campagna intorno alla sua casa nel poema La foresta di Windsor.
L'istruzione del giovane Pope proseguì attraverso lo studio dei grandi classici latini della satira, come Orazio, Giovenale, i poeti epici Omero e Virgilio, e gli autori della letteratura inglese, come Geoffrey Chaucer, William Shakespeare e John Dryden. Ma si dedicò anche alle lingue ed alla lettura di testi di autori Inglesi, Francesi, Italiani, Latini e Greci. Dopo anni di studio incontrò importanti personaggi della letteratura londinese, come William Wycherley, William Congreve, Samuel Garth, William Trumbull e William Walsh.
A Binfield, inoltre, ha cominciato a costruirsi amicizie importanti. Uno di loro, John Caryll (il futuro destinatario della poesia Rape of the Lock), venti anni più vecchio di Pope; e molte altre conoscenze nel mondo letterario di Londra. Fu presentato al commediografo William Wycherley e a William Walsh, un poeta secondario, che aiutò Pope a modificare e migliorare il suo primo maggiore lavoro, Pastorals. Inoltre ha incontrato le sorelle Blount, Teresa e (la sua futura amante presunta) Martha, entrambe rimaste sue amiche tutta la vita.
Dall'età di 12 anni, ebbe molti problemi di salute, fu affetto dalla malattia di Pott, una forma di tubercolosi delle ossa che deformò il suo corpo. Smise di crescere riportando una grave malformazione alla colonna vertebrale e per questo egli non crebbe oltre i 137 centimetri. Pope era già ai limiti della società perché cattolico e la mancanza di salute lo allontanò ancora di più da questa. Non si sposò, ma ebbe molte amiche con le quali scambiò un fitto carteggio e gli si attribuisce una sola presunta amante, la sopracitata Martha Blount. C'è chi sostiene addirittura che, dato che alla morte del poeta ella sarà nominata sua erede universale, Pope l'avesse sposata in segreto.
Massone, fu membro della loggia londinese n. 16 (fondata nel 1729 e sciolta nel 1745) che si riuniva nella taverna Goat-at-the Foot-of-the-Haymarket.
Prime opere
Nel maggio del 1709 fu pubblicato la Pastorals, nella sesta parte del Tonson's Poetical Miscellanies, per Pope fu un successo immediato. Seguì, nel maggio del 1711, il Saggio sulla critica, anch'esso ben accolto dai lettori.
Intorno al 1711, fece la conoscenza di John Gay, Jonathan Swift, Thomas Parnell e John Arbuthnot, che insieme formarono il gruppo di autori satirici Scriblerus Club. L'obiettivo del club era di ridicolizzare l'ignoranza e la pedanteria alla maniera di Martin Scriblerus. Inoltre conobbe Joseph Addison e Richard Steele, simpatizzanti Whig. Nel marzo del 1713 fu pubblicata La foresta di Windsor che ottenne un grande successo.
Nel 1712 Pope pubblicò il famoso poema Il ricciolo rapito (The rape of the Lock), di cui diede la versione rivisitata e definitiva nel 1714. Questo poemetto è l'opera più popolare dello scrittore, ed è di carattere eroicomico, in quanto è stato scritto per deridere la lite tra Arabella Fermor (la "Belinda" del poema) e Lord Petre, che le aveva strappato una ciocca di capelli senza il suo permesso. Pope descrive i suoi personaggi in stile epico: quando il Lord le ruba la ciocca di capelli, Belinda cerca di riaverli, i capelli volano nell'aria e si trasformano in una stella.
Durante la sua amicizia con Joseph Addison egli contribuì all'opera teatrale Il Catone e collaborò con The Guardian e The Spectator. In questo stesso periodo iniziò la traduzione dalla Iliade che fu un lungo e duro lavoro, la cui pubblicazione cominciò nel 1715 e si concluse solo nel 1720.
Nel 1714, la situazione politica peggiorò con la morte della regina Anna e la successione contesa tra gli Hannover e i Giacobiti, che portò al tentativo di ribellione giacobita del 1715, ma nonostante Pope fosse cattolico non sostenne i giacobiti. Questi eventi determinarono una diminuzione immediata delle fortune dei Tories, e di Henry St John, primo visconte Bolingbroke, amico di Pope, che si rifugiò in Francia.
Saggio sulla critica
Il Saggio sulla critica comparve nel 1711 anonimo. Pope cominciò a scriverlo molto presto e lo terminò dopo tre anni.
Quando la poesia è stata pubblicata, lo stile del distico eroico (in cui fu scritto) era un nuovo genere di poesia molto ambizioso. L'opera voleva essere un tentativo di identificare e raffinare le sue opinioni di poeta e critico. La poesia era, a suo parere, una risposta a un dibattito continuo sul problema se la poesia dovesse essere naturale, o scritta secondo regole artificiali predeterminate, ereditate a partire dalle opere classiche del passato.
L'opera comincia con una discussione sulle regole standard che governano la poesia, in base alle quali il critico la giudica. Pope commenta gli autori classici che si sono occupati di questi standard e della loro indiscussa autorità. Egli conclude che le regole degli antichi autori sono come quelle della Natura e rientrano nella categoria della poesia e della pittura che, come la religione e la morale, riflettono la legge naturale.
Alcuni critici sostengono che il Saggio è volutamente poco chiaro e pieno di contraddizioni. Pope ammette che le regole sono necessarie per la produzione letteraria e per la critica, ma dà molta importanza alle qualità misteriose ed irrazionali dell'arte poetica.
Egli discute le leggi a cui un critico dovrebbe aderire nella critica poetica e precisa che i critici hanno un'importante funzione nell'aiutare i poeti nel loro lavoro, e non nel contrastarli.
Nella parte conclusiva Pope discute le qualità morali e le virtù del critico ideale, che è anche un uomo ideale.
Saggio sull'Uomo
Tra il 1730-32 Pope compose il suo più ambizioso poema: An essay on Man (Saggio sull'Uomo), tradotto per la prima volta in italiano nel 1756 da Anton Filippo Adami). L'opera è costituita da quattro epistole in versi, nelle quali sono racchiusi lo spirito filosofico del secolo e il sentimento di un'epoca: la consapevole accettazione di un ordine universale in cui odio e benevolenza, ferocia e mansuetudine, piacere e dolore trovano un loro senso imperscrutabile e in cui l'uomo - elemento intermedio ma non centrale della Grande Catena dell'Essere - deve deporre la velleitaria pretesa di comprendere il tutto. Elogiato da Voltaire e da Kant, An essay on Man diede a Pope una notorietà a livello europeo.
La traduzione dell'Iliade
Pope era stato affascinato da Omero fin dall'infanzia e nel 1713 annunciò la sua intenzione di pubblicare una traduzione dell'Iliade. L'opera sarà disponibile in volumi annuali, nel corso di sei anni. Egli stipulò un contratto rivoluzionario, con l'editore Bernard Lintot, che gli fruttò duecento ghinee per volume, una somma davvero molto alta all'epoca.
La sua traduzione dell'Iliade apparve tra il 1715 e il 1720, e fu acclamata da Samuel Johnson, come "un'opera che nessuna epoca o nazione potrà sperare di pareggiare". Ma lo studioso classico Richard Bentley scrisse: "È una bella poesia, [...] ma non si può dire sia l'opera di Omero."
La traduzione dell'Odissea
Incoraggiato dal successo della traduzione dell'Iliade, Pope decise di tradurre anche l'Odissea. L'opera apparve nel 1726, ma questa volta, di fronte alla difficoltà del compito, egli chiese l'aiuto di William Broome e di Elijah Fenton. Pope cercò di limitare la portata della collaborazione (lui tradusse dodici libri, Broome otto, Fenton quattro), ma il segreto trapelò e fece qualche danno alla sua reputazione per un certo tempo, ma non ai suoi profitti.
Stile
Pope guarda con ottimismo l'intera umanità, ma detesta i singoli individui ed è intollerante alle imperfezioni umane, al contrario di Jonathan Swift che detesta l'intera umanità e ama i singoli individui.
Egli scrive in modo elegante, con neoclassica chiarezza. Utilizza uno schema metrico rigoroso che adatta a ogni tipo di testo. È cantore di sentimenti universali in cui tutti possono riconoscersi e sostenitore del ruolo educativo della poesia. Alla grandezza dei versi classici da lui utilizzati si opponeva la piccolezza dei valori che animavano i salotti settecenteschi.
Pope sarebbe poi apparso ai romantici – specie a quelli della cosiddetta prima generazione – come l'antitesi del vero poeta e Wordsworth, proprio in reazione alla sua dizione poetica, diede inizio alla riforma romantica del linguaggio poetico. Al contrario, continuò nel XIX secolo ad essere apprezzato da chi ancora, a livello stilistico, si rifaceva ai modelli e ai dettami della poetic diction, fra cui, primo fra tutti, Lord Byron.
Opere principali
- Pastorals, 1709, (Pastorali)
- An Essay on Criticism, 1711,
- The Rape of the Lock, 1712,
- Windsor Forest, 1713, (La foresta di Windsor)
- Eloisa to Abelard, 1717
- Elegy to the Memory of an Unfortunate Lady, 1717
- The Dunciad, 1728, (La zucconeide)
- Moral essays, (1731-1735), (Saggi morali)
- An Essay on Man, 1734, (Saggio sull'Uomo)
- The Prologue to the Satires, 1735
Edizioni italiane
- Alexander Pope, Il riccio rapito, BUR, 1984
- Alexander Pope, Il ratto del ricciolo, Adelphi, 2009
- Alexander Pope, Saggio sull'uomo, Liberilibri, Macerata 1994
- Alexander Pope, I bassifondi della poesia, Adelphi, 2017
ODE IN ONORE DI SANTA CECILIA
Scendete, alme Sorelle, e il canto ordite.
Per voi ne’ cavi risonanti bossi
Il fiato si ravvolga; a suon festivo
Ogni tacita corda, ogni canora
Cetra si desti. In tuon dolce-gemente
Lo stridulo liuto si quereli,
Alto frema la tromba, e intorno intorno
Da’ tetti la squillante Eco risponda,
Mentre allungate e tarde voci il cupo
Maestoso solenne organo sparge.
L’armonia molle e chiara in pria lambisce
Co’ numeri dolcissimi l’orecchio;
Indi più forte a mano a man s’ espande,
E d’ immenso fragore i cieli ingombra.
Altera s’erge in signoril trionfo,
E indomita fra l’aere diviso
In fluttuanti rote alto galleggia,
Finchè per gradi in un distanti e corti
Cade, si sperge, illanguidisce e muore.
Da lei le giuste tempre un’alma impara;
Nè tropp’alto trasvola o in giù trabocca.
Se procellosa gioja in petto ferve,
Con molli note l’Armonia l’acqueta;
O se da cure oppresso è il cor, su l’ali
De’ numeri vivaci al suol l’invola.
Ella i guerrier con gli animosi accenti
Empie di foco e alle sanguinee piaghe
De’ miseri amator balsamo infonde.
Tristezza il capo alle sue leggi estolle;
Morfeo dal letto in piè si slancia; Ignavia
Apre le braccia e i sonnacchiosi lumi;
Livore in atto d’ascoltare ir lascia
Per terra gli angui; da’ rubelli affetti
Non più rompono guerre; ogni empia setta
Vertiginosa il furor il cieco obblia.
Ma se civico dritto all’arme appella,
Quai fiamme un suon guerrier ne’ petti sveglia!
Certo allor quando il primo legno audace
Le procelle affrontò, dall’alta poppa
Musiche note il tracio Orfeo sciogliea ;
E vedeva Argo le materne querce
Scender dal Pelio in mar. Corona fangli
I semidei. Ogni uom da’ carmi scosso
Eroe diviene. A’ sovruman di Gloria
Incanti s’ accalora; ognun repente
Il settemplice scudo imbraccia, e snuda
II folgorante acciar, gridando: all’armi.
E mare e terra e ciel risponde: all’armi.
Quando poi lungo le tartaree sponde,
Che l’infocato Flegetonte accerchia,
Amor crudo, qual morte, il gran Cantore
Agli squallidi trasse orror dell’ombre,
Quai voci rintronar, quai forme in mostra
Vennero allor su le bollenti arene!
Torbidi lampi, disperate strida,
Rosse facelle, gemiti affannosi,
Lamenti inconsolabili, profonde
Smanie e clamor de’ tormentati spirti.
Ma udite! Ei tocca la dorata lira,
E le trist’alme han posa. A lui rincontro
Accorron le fantasme: il tuo gran sasso,
Sisifo, immobil pende: alto s’arresta
Su la rota Ission: pallidi spettri
Vagano in danza: sdraiansi le Furie
Su covacci di ferro, e intirizzite
Stan su’ lor capi ad ascoltar le serpi.
“Pei freschi rivi che perenni irrigano,
Per l’aure molli che alitando allegrano,
Gli elisj fiori, pe’ beati spiriti,
Cui d’asfodillo i crocei prati, o allettano
Le vaghe d’amaranti adorne pergole,
Per l’ombre armate degli eroi,che splendere
Fan gli oscuri viali, e per que’ giovani
Che spenti per amor fra i mirti spaziano,
Chieggo Euridice. O me qui ritenete,
O l’amata Consorte a me rendete.”
Tal ei cantò. Le armoniose preci
Erebo accolse; intenerissi il core
Alla crudel Proserpina, e la Bella
Di seco rimenarne a lui concesse.
Tal su la Morte e su l’Averno impero
Musica tenne. Perigliosa prova,
Ma non men gloriosa. Ancor che il Fato
Ben nove volte all’atre piagge avvolga
L’orrida Stige, pur di là tornano
Musica e Amor con la Vittoria al fianco.
Ma le cupide ciglia ah tosto ei gira:
Ella ricade, ahimè ! ricade e muore.
Com’or piegar potrai novellamente
Le fatali Sorelle? E non già colpa
La tua si fu, se non è colpa amore.
Or a piè di montagne alto-pendenti
Presso lubriche fonti, or dove l’Ebro
Volubile serpeggia, a tutti ignoto,
Solo e da nullo udito in lai si stempra,
E il caro spirto appella, ahimè! per sempre,
Per sempre a lui ritolto. Or dalle Furie
Agitato, straziato, desolato
Sul Rodope nevoso arrossa e trema.
Quand’ecco al par de’ venti impetuoso
Erme pendici alpestre intorno cerca,
E d’urli furibondi Emo rintona.
Ah ch’egli muore, e fino in morte canta
Euridice. Euridice ancor sul labbro
Gli trema; e boschi e fiumi e rupe e monti
Euridice ripetono, Euridice.
Dunque Armonia le dure smanie allenta,
E le atroci del Fato ire disarma;
I dolor calma; e riconforta e molce
I furor disperati. Ella condisce
Il gioir nostro in terra, ed anzi tempo
I superni diletti in sen ci versa.
Ben questa a pieno intese arte divina
La Vergin saggia, cui sù l’Ara incensi
Fuman oggi votivi, e al suo Fattore
Tutta sacrolla. Quando il pien concento
D’argentee canne alle vocali orchestre
Ella attemprava, in sacro foco asterse
Levava al Ciel su le solenni note
Le umane menti, e da’ balcon supremi
S’affacciavano a udir gli eterei spirti.
Non più subbietto ai ragionar de’ vati
Sieno i vanti d’Orfeo. Ben altra possa
Cecilia ottenne in don. Quei musicando
Dal finto Averno un’Ombra trasse, e questa
Fea l’alme sorvolare oltra le stelle.
CARME DI ELOISA AD ABELARDO
Abelardo ed Eloisa in una miniatura del XIV secolo
ELOISA. Era la figlia nata dalla scandalosa unione di Hersint di Champagne, Signora di Montsoreau (fondatrice dell'Abbazia di Fontevraud), con il siniscalco di Francia Gilberto di Ghirlanda.
Eloisa nacque tra il 1090 e il 1100 nell'Île de la Cité di Parigi. Adolescente, venne affidata al fratello di sua madre, il canonico Fulberto di Notre-Dame. Studiò nel convento di Argenteuil, attendendo con impegno alle arti liberali (dalla grammatica alla retorica, fino alla geometria e all'astronomia) e padroneggiando il latino, il greco e l'ebraico. L'abate di Cluny Pietro il Venerabile scrisse di lei che, da studentessa, era «celebre per erudizione».
Eloisa conobbe Pietro Abelardo intorno al 1117, quando già era conosciuta «per la sua cultura letteraria senza pari», stando all'Historia calamitatum. Eloisa studiò logica sotto Abelardo alla scuola di Sainte Geneviève, ma presto il rapporto maestro-allieva si trasformò in una relazione amorosa. Abelardo compose per Eloisa liriche d'amore che giunsero all'orecchio dei suoi studenti e si diffusero in tutta Parigi, diventando assai popolari. Rimasta incinta, Abelardo la rapì e la condusse al proprio paese natale di Pallet, nell'allora Bretagna minore, ospitandola nella casa della sorella: qui nacque nel 1118 il figlio Astrolabio.
Abelardo dichiarò di essere disposto a sposare Eloisa, a condizione che il matrimonio rimanesse segreto in quanto chierico. Eloisa era contraria al matrimonio, come documentano le sue lettere riportate nella Historia calamitatum. Eloisa e Abelardo si sposarono a Parigi, ma nonostante il segreto, la notizia venne divulgata. Per evitare scandali, Abelardo inviò Eloisa nel monastero di Argenteuil dove era stata educata. I parenti, convinti che Abelardo avesse costretto Eloisa a farsi monaca per liberarsi di lei, decisero di vendicarsi: una notte, mentre Abelardo dormiva nella sua casa, tre uomini lo aggredirono e lo castrarono. In seguito due di essi verranno catturati e, secondo la legge del taglione, accecati ed evirati a loro volta, mentre Fulberto, il mandante dell'aggressione, verrà solo sospeso dai suoi incarichi.
Nel 1129 Eloisa e le sue consorelle furono espulse dal convento di Argenteuil dall'abate Sugerio di Saint-Denis. In loro aiuto accorse Abelardo, il quale permise che le monache prendessero possesso dell'oratorio del Paracleto da lui fondato nella regione della Champagne. In qualità di badessa, Eloisa guidò l'oratorio rendendolo un'istituzione fiorente, e fondamentale centro di cultura della Francia nord-orientale.
Pochi sono i componimenti, e nostri e di fuora, i quali presentino tanta varietà e insieme tanta fiamma di affetti come questo di Alessandro Pope. Nessun altro agguaglia, crediam noi, la nobile industria dell’Autore nel figurare i moti di un animo appassionato, impotente bensì a depor la memoria delle dolcezze perdute, e a sostenere i mali che le seguitarono; ma pur non del tutto chiuso al raggio di speranze d’impermutabil ristoro. E il modo ch’ei tenne fu appropriato sì bene alla condizione della Infelice da lui posta in atto, che senz’altra fatica trae con sè la pietà e l’amore di qualunque spirito umano. Tutto insomma è quì mirabilmente inteso a un tal fine. Ogni idea ne sveglia molte e molt’altre: ogni espressione, che a prima vista parer può o accidentale od oziosa, è sempre inerente al concetto: la filosofia non è mai discompagnata dalla passione. La quale è anzi recata quì al più alto grado, senza però che mai ella oltrepassi i confini del vero. Credibili, quanto è a noi, ne sono tutti i particolari: evidenti le dipinture: ardentissimo il sentimento. Quell’aura occulta, che or ti consola col soave suo fiato, or ti trasporta in arcane visioni, vi spira per entro con un effetto maraviglioso. Il contrasto fra la Grazia celeste e l’Amore terreno vi è pennelleggiato con un vigore e artificio straordinario, a fine di render più luminoso il trionfo di quella. E il bollore e il delirio della passione sono spinti ivi quasi al massimo segno, all’oggetto di preparare il cuor de’ leggenti al prodigio che si dee da ultimo operar dalla Grazia. Si può in somma conchiudere, che in questo Carme, uscito dalla penna di quel generoso Britanno, sia lumeggiata dal Genio tuttaquanta l’istoria di Eloisa e di Abelardo, e insieme quella del cuore umano, ridotto alla condizione in cui si trovarono que’ due Sventurati. La fantasia entra quì come coadjutrice dell’ingegno: e l’ingegno si adopra come a fare spiccar maggiormente la ragione e la filosofia. Ogni verso contiene un’imagine: ed ogni imagine si accorda sì bene con la qualità degli affetti, che il cuore si trova talvolta sovrappreso da un tumulto che per se stesso non vale ad acquetare. Se non che questo è poi soavemente dissipato dal lume celestiale che quasi sempre succede ivi all’affanno e al vaneggiamento. In fine, la lettura di cotesti versi ti porta all’animo le più gagliarde scosse: ti conforta con le riflessioni e gli ajuti che vi contrappone: e mentre ti presenta un esempio solenne dell’umana fralezza, ti mostra eziandio in piena luce la potenza della mente e i miracoli della fede.
Dipinto di Edmund Blair Leighton, Abelardo ed Eloisa.
In queste solitudini profonde,
In queste sacre celle, ove in Ciel fisa
Contemplazion dimora, e, sempre assorta
Nel meditar, Melanconia sol regna,
Ond’è il tumulto, che le vene occùpa
D’una Vestal? Perchè fuor del confine
Di quest’ultimo asil vola il pensiero?
Perchè la fiamma antica in sen rinasce?
Sì, troppo è ver, amo tuttor. Vergate
D’Abelardo per man fur queste note,
E ancor baciarne può Eloisa il nome.
Nome caro e fatal! Rimanti ascoso,
Nè le labbra varcar, cui feo suggello
Sacro silenzio. E tu, mio cor, lo ascondi
Sotto il secreto vel, dove commista
Vive con Dio sua lusinghiera imago.
Non lo scriver mia destra. - Oh, veh, che è scritto!
Via toglietelo, o lacrime. Ah! tu indarno
Gitti, Eloisa, le preghiere e ’l pianto:
Obbedisce la mano al cor che detta.
Inflessibili mura, a cui d’intorno
Di spontanei martir, di penitenti
Gemiti il suon si spande: ispidi sassi,
Usi a provar degli umili ginocchi
La dura pazïenza: orride grotte
Di spine ingombre: o voi, Reliquie sante,
Cui le vigili notti offrir son use
Le verginelle dalle grame luci:
O simulacri degli eterei Divi,
Onde quaggiuso a lacrimar si apprende;
Benchè fatta io mi sia gelida e muta
Al par di voi, pur non ancor m' impetro.
Tutto del Ciel non è mentre Abelardo
Parte ne tien. Metà del core usurpa
La ribelle natura: e i pertinaci
Suoi palpiti a frenar, fervida prece
Non vale, nè digiun, nè assiduo pianto.
Dischiuso appena con tremante mano
Il foglio n’ebbi, che il ben noto nome
In me svegliò tutti i passati affanni.
Oh nome, infausto sì, pur sempre amato!
Misto ai sospir’, sul labbro ognor mi suoni:
Pietosa lacrimetta ognor ti bagna. -
Del mio nome allo scontro, alto le membra
Tremor mi assal, e ne pavento il peggio.
Così tra dolor’varii e crude ambasce,
Di verso in verso il pavid’occhio scorre,
E a larga vena si distempra in pianto.
Or d’amoroso foco in sen divampo,
Or la florida età piango, perduta
Nella solinga oscurità del chiostro,
Ove gli stessi involontarii ardori
Religïon condanna, e spegne austera
Le passïon più care, amore e fama.
Ma pur mi scrivi, sì, tutto mi scrivi:
Confonder vo’ le mie colle tue pene
E a’ tuoi sospir’far eco. A noi fortuna,
O rio nimico tal poter non toglie.
Men tu dunque di lor sarai pietoso?
Mie pur son queste lacrime: nè avara
Esserne bramo: le domanda amore;
Amor, che a quelle sol dritto non ave,
Cui la preghiera elice. Or la più dolce
A’ dolenti occhi miei cura sol resta,
Leggere e lacrimar: e più non ponno.
Meco dunque, Abelardo, il tuo dividi
Aspro penar. Sì misero conforto
Per te negato non mi sia. - Che parlo?
Ah! diviso non già, tutto mei dona.
Degl’infelici a mitigar le angosce,
O di profugo amante, o di donzella
Imprigionata dal rigor, fu il Cielo,
Che di vergate messaggere carte
Il consiglio ne diè. Vivo ragiona
Lo scritto, e serba quel che amor gli spira.
Il suo calor l'alma gl’infonde, e tutti
Con interprete lingua apre gli arcani
Desir’secura. Muto il foglio vola:
E, scusando il rossor, di core in core
La genïal corrispondenza guida,
E trasporta un sospir dall’Indo al Polo.
Quando, del manto d’amistà vestito,
Amor mi s’appressò, ben sai che onesta
Era mia fiamma. Angelica natura
Mia fantasia ti diè: della superna
Mente, che in sè tutte bellezze aduna,
Te un raggio figurò: chiaro, celeste
Giorno piovea da’ tuoi ridenti lumi.
Innocente mirai. Pendere intenti
A’ tuoi canti parean gli eterei Cori,
E in soavi condilo e nove tempre,
Da’ tuoi labbri scendea l’eterno Vero.
Qual potea gentil core udir tue voci,
E schivarne il trionfo? Oimè! ben presto
Imparai, che l’amar colpa non era.
De' sensi in ver la traccia il passo tòrsi:
Nè più in colui, che qual mortai mi piacque,
Un angiolo bramai. Remote, oscure,
Le dilettanze mi parean de’ Divi:
Nè più lor seppi le beate sedi
Invidïar, che per te sol perdea.
Oh quante volte, all’imeneo sospinta,
Maladette, esclamai, le leggi tutte,
Da quelle in fuor, di che maestro è Amore!
Libero al par dell’aer, solo alla vista
Delle umane catene ei le lucenti
Ale dispiega, e qual balen s’invola.
D’illustre sposa agi ed onor’seguaci
Sien pur, sublimi l'opre e sacro il nome:
Agi, nome ed onor’, tutto, di un vero
E dolce affetto al paragon, vien manco.
Vindice il Dio di profanata fiamma,
Affannosi tumulti in sen risveglia,
Ed i sospir’de’ malaccorti inganna,
Che cercano in amor altro che amore.
Se della terra il regnator la destra
Col soglio in un mi offrisse, e destra e soglio
Certo rifiuto avrian. Discaro sona
Per l' ardente mio cor di sposa il nome,
Se del mortai non è, cui solo adoro:
O se altro nome è pur, che più soave
E più libero sia, quello mi dona.
Oh stato avventuroso, allor che un’alma
È con vivo desio nell’altra immersa,
Ed è Amor libertà, legge Natura!
Tutto è perfetto allor: con bella gara
Serve l’un l'altro e regna: il vòto petto
Non contrista la vita: e nel pensiero
Mentre il pensier si avvien pria che figura
130Sul labbro acquisti, ogni più calda brama
Esce alterna dal cor. Verace è questa
Felicità, se v’ha felici al mondo:
E tal d’entrambi un dì fu la ventura.
Or quanto, oimè, diversa! Orrida scena
Mi sta davante, del suo sangue intriso,
Ignudo geme un amator. Dov’era,
Dove allor Eloisa? Il suo lamento,
La destra, il ferro, al barbaro comando
Fatto contrasto avrian. - Ti arresta, o crudo:
Il colpo non vibrar: comun è il fallo:
Sia la pena comun. Da sdegno vinta
E da vergogna, altro ridir non posso:
Le lacrime e ’l rossor parlino il resto.
Quel giorno infausto, quel solenne giorno
Porre in obblio puoi tu, che di quest’are
Cademmo appiè, vittime unite? Il pianto
Puoi tu scordar, ch’io sparsi, allor che al mondo
Diedi nel fior di gioventù l' addio?
Quando con fredde labbra il sacro velo
Baciai, del tempio per l'orror fur viste
Le reliquie tremar: pallido apparve
Delle lampade il lume: il Ciel rimase
Della vittoria in forse: e mio solenne
Voto, dal cor discorde, a udir sospesi
Con attonito orecchio erano i Santi.
Mentre a queste tremende are fui tratta,
Era in te sol, non nella Croce affissa.
Non grazia, non fervor, tenero affetto
Sol mi parlava in sen. Ah! s’io te perdo,
Perdo me stessa ancor. Vieni: col guardo
E con gli accenti, unico ben, che il Cielo
In te mi serba, il mio dolor conforta.
Su quel tenero petto ancor la fronte
Lascia ch’io pòsi, e da’ tuoi rai delibi
165L’amoroso veleno, e sulle labbra
Penda, e ti stringa ai cor. Tutto mi dona
Quanto donarmi puoi: lascia che il senso
Il più col vano imaginar si finga. -
Ah! no: con vario stil meglio mi addita
D’altri diletti, che de’ tuoi, le norme:
D'altre bellezze gli occhi miei rallegra:
Fa che a me tutto si discopra il Cielo,
E fuggendo Abelardo, a Dio mi doni.
Deh, pensa almeno, che tua greggia è questa:
Che di tua man piante siam noi, le figlie
Delle preghiere tue. Per te, degli anni
In sul fiorir, dall’ingannevol mondo
Fra inospite foreste ed aspri monti
Volser le meste verginelle il passo:
Surse per te questa solinga chiostra;
Sen compiacque il deserto: e in mezzo a nudi
Campi da te fu il Paradiso aperto.
De’ paterni tesor’ gli sculti vasi
E i pavimenti di sottil lavoro
Non qui lussureggiar l’orfano mira,
Nè argentei simulacri (ultima offerta
D’egri languenti, onde far mite il Cielo,
Di que’ doni mal pago) ornan gli altari:
Ma nudo, uníl, come a pietà si addice,
N’è albergo e tempio: e con perpetuo metro
Sol delle laudi del Signor risona.
In quest’ermo ricetto, eterna meta
Del viver mio, sotto questi orrid’archi,
Ove al merigge incerto lume appena
Giù dagli alti discende angusti varchi,
Soave calma e sovrumano riso
Spandean già tue pupille, e, a lor concordi,
Fean della gloria i rai più chiaro il giorno.
Ma, oimè! il contento dal divin tuo volto
Più quà non giunge: tutto inonda il lutto.
Mira or tu come delle alterne preci
Senta in me la virtù ( pietoso inganno
Di ardente carità! )... Ma qual poss’io
Nelle preci non mie ripor fidanza?
Vien tu, sposo, german, padre ed amico:
Di me, tua suora, ancella tua, tua figlia,
Deh ti prenda pietà! Pietà ti prenda
Della tua cara in fin: nome, che tutti
I più teneri nomi in sè raccoglie.
210I foschi pini, onde le spalle carche
Han queste rupi, ed aquilon si frange:
L’ errante rivo, che fra i poggi splende;
L’antro, che alle sonanti acque risponde;
L’ aura, che moribonda in tra le foglie
Mormora, e ’l lago che s'increspa al vento,
Fausti per me, d’altri pensieri avvinta,
Più al meditar non son: più non alletta
La campestre natura i miei riposi:
Chè tra i boschetti dalla dubbia luce
E i lungo-risonanti archi e le sparse
Tombe Melanconìa tetra si asside,
E funereo silenzio a sè d’intorno
Spande e tremenda calma. A lei davante
Sol mestizia e squallor spira la scena:
La verdura s’infosca: il fior vien manco:
Rauco della cadente onda montana
Il fragor fassi: e d’orror freddo cinta,
Quasi per alta notte, appar la selva.
Pur sempre qui viver degg’io, — qui sempre!
(Oh! a qual ne astringe obbedïenza Amore!)
A morte, a morte sola, infranger lice
La tenace catena: e quì mia polve
Restar dovrà, quì depor fiamma e falli,
Ed aspettar sinchè alla tua frammista
Senza colpa esser possa. — Oimè! che dissi?
Creduta invan sposa d’Iddio, la schiava
D’Amor vantarmi e d’un mortai? Mi aita,
O benefico Ciel! — Ma donde move
Il supplichevol grido? È furor cieco
O pietà che lo inspira? In questi alberghi,
Ove la fredda Castità si cela,
Fra i gemiti e i sospir’ sovente un’ara
Per gli obblïati affetti amor ritrova.
Mia fiamma, il so, spegner dovrei: ma il core
Fa contrasto al dover: l’amante piango,
Ma non piango l’error: veggo la colpa,
Ma dolce parmi: e della gioja antica
Mentre incerta mi pento, altre ne bramo:
E al Ciel rivolta, or de’ passali falli
Mi accuso, or a te penso, e fin l’istessa
Innocenza detesto. È dell’antico
Gioir l’obblìo la più severa prova
Per un amante cor. Come, se vivo
Il senso ne ri man, toglier la colpa?
E mentre l’offensor pur sempre adoro.
Come, deh, come, abbominar l’offesa,
E il caro oggetto separar dal fallo,
E penitenza dall’interna voglia?
Alla possa di un cor trafitto e frale
Cura è troppo inegual sanar la piaga.
A ricovrar la già smarrita pace,
Quanto soffrir! Qual sostener tenzone
Alma dee combattuta! Ama e disama
Tra speranza e timor, dispetto ed ira:
Nè per vicenda mai d’opre o d’affetti
Perde del tristo rimembrar l’usanza.
Ma tocca appena dal divino foco,
Di subito divampa, e a sè rapita,
Per sovruman vigor poggia alle sfere.
Ah! vieni, ah! dimmi tu con qual poss’io
Arme vittrice soggiogar natura,
E tutta di Dio piena, amore e vita
In bando porre, e te non men: chè mai
Non fia che questo cor, dopo Abelardo,
Trovi pace ed ajuto altro che in Dio.
Felice (oh quanto!) è l’innocente ancella
Che dal mondo obblïata, il mondo obblia!
Sereno lume in lei perpetuo splende:
Ne sono i preghi accetti: a suo talento,
Senza fatica ogni desir depone,
E han sue leggi il riposo e l’opra alterna:
Misti con dolci lacrimose stille,
La via del Ciel conoscono i sospiri.
Cinta la Grazia d’immortal fulgore,
Nel suo volto traspar: gli eletti Spirti
Le van bei sogni mormorando: a lei
Spunta dell’Eden la virginea rosa,
Vivace sempre in suo nativo stelo:
Per lei dalle agitate argentee penne
De’ Serafini prezïosa piove
Apparecchia lo sposo; e le donzelle,
Pronube d’Imeneo, sciolgono il canto.
D' arpe celesti al suono ella trapassa,
E si dilegua nell’eterno die.
Ma d’altre visïon, d’altri desiri,
D'altr’ estasi l'errante alma si pasce.
Quando, al cader d’ogni doglioso giorno,
Spietatamente rinnovata l'opra
Della vendetta fantasia si pinge.
Mia coscïenza allor si acqueta: e sciolto
Dal mortal senso, a te lo spirto vola.
Oh infausti e cari della cieca notte
A me sol noti orrori! È dalla colpa
Fatto il gioir più vivo. Ogni ritegno
Il rio dissolve tentator Nimico,
E schiude in me tutta d’amor la vena.
T’odo, ti veggio, il grazïoso volto
Mi alletta, e l’ombra colle braccia stringo.
Mi desto: ed ahi! non più tua voce ascolto,
Più non ti miro, e al par di te scortese
Si dilegua il fantasma. Alto lo chiamo:
Nè a me risponde. Ambe le vòte palme
Disïosa gli stendo; e più mi fugge.
Della perduta visïone in traccia,
Spontanea chiudo alfìn le luci al sonno.
Larva soave, dilettoso inganno.
A me ritorna! — Oimè! non più raminga
Per orridi deserti e fiere balze
Tua seguace mi penso: e l’un mi sembra
Pianger dell’altro al pianto. Alfìn là giunto,
Ove la pallid’ edera ricopre
Cadente torre, e spaventoso pende
Sulla cieca vorago arduo dirupo,
Rapido all’etra ascendi, e a me ti volgi.
Nemboso è l’aer: precipita la piova:
Infuria il vento. Lamentoso un grido
Gitto: ed ugual mi s’apre orrenda scena.
Alle angosce di pria così mi desto.
Tra la pena e ’l gioir freddo intervallo
Per te il destin piacevolmente austero
Frappose. Lunga, ineccitabil calma
Il riposo rassembra a te concesso:
Polso non cresce in te: sangue non bolle:
Tranquillo sei come del giusto il sonno,
O equoreo pian pria che lo turbi il vento,
E dall’imo il sollevi iniquo Spirto.
Dolce tuo volto appar quasi nascente
Limpido raggio di promesso Ciclo.
Vieni, Abelardo: che a temer ti resta?
D’amor la face per gli estinti è muta.
È repressa natura: i miei lamenti
Biasma Religïon: tu se' di gelo:
Pur t’amo ancor. Ahi, miseranda fiamma!
Alla fiamma simil che l'arid'urna
Riscalda, e a lato alle defunte salme
Splende, infeconda in me ti nutri e duri.
Quale, ovunque mi volga, infausta scena
Mi turba i sensi! All’ara in faccia, al bosco,
La cara idea mi sorge innante, ’l core
M'infetta, e nelle luci erra lasciva:
Tra gemiti per te la mattutina
Lampa consumo: e tua diletta imago
Fra me stassi e ’l mio Dio. Nel suon degl’inni
Tua voce ascolto: e troppo dolci stille
Trae dagli occhi ogni prece. Allor che in nube
D’odorato vapor s’alzan gl'incensi,
E degli organi il suon l'alma sublima,
E a te rivolto, un sol pensier la sacra
Pompa da me allontana, ara, facelle
E tempio e sacerdoti a me davanti
Si dileguan repente: in mar di fiamme
Inabissata è l'alma, ardon gli altari,
E improvviso tremor gli Angioli investe.
Mentre nell’umiltà del mio dolore
Genuflessa quì giaccio, e dolce, onesto
Pianto da’ rai distillo, e nella polve
Supplice mi ravvolgo, e su i miei falli
Della grazia spuntar l’alba rimiro,
Vieni, se ardisci, allor: tutti dispiega
I vezzi antichi: al Ciel te stesso opponi,
E ’l mio cor gli contrasta. Oh! vieni: e un guardo
Di tue care pupille in questo petto
Ogni pura disgombri idea superna.
Quella Grazia da me, da me quel pianto
Respingi, e duolo e penitenza e preci:
E quando ancor fia che all’Empiro io poggi,
Ai dèmoni ti aggiungi, e a lui mi togli.
E dal sen del suo Dio svelli Eloisa.
Ah no: fuggi da me, fuggi, e lontano
Come polo da polo. Ambo disgiunga
Alto oceàno e insuperabil alpe.
No, più non ti appressar: più a me vergato
Foglio non giunga, nè un pensier, nè brama
D’un solo de’ miei guai meco diviso.
La data fè ti rendo. A me più mai
Di te non sovverrà. Scorda tu stesso
La misera Eloisa, e tutto abborri
Quanto di lei già fu. — Vivaci lumi,
Sguardi amorosi, che ho tuttor presenti;
O lungamente vagheggiata imago,
Addio: da tutto mi diparto. Or vieni,
Serena Grazia, tu: vieni, o Virtute,
Divinamente bella, o santo obblio
Delle terrestri cure, o sempre verde
Speme, figlia del Cielo. E tu, verace
Fe’, di beata eternità foriera,
Ospite amica nel mio sen t’infondi,
E mi solleva all’immortai riposo.
Sovra una tomba, colla fronte inchina,
Mira Eloisa dal morir non lunge.
Par che uno Spirto, al sibilar d’ ogni aura,
E dell’eco maggior, si aggiri e chiami.
A moribonda fiaccola davante
Mentr’io veglio, dell’urna appiè, che serba
Di santa spoglia il venerato avanzo,
Cupa voce ne ascolto, e sì mi parla:
«Vieni, o sorella, vieni: è quì tua stanza:
Non indugiar. Come tu preghi e piangi,
Vittima io pur d’un’amorosa cura,
Piansi un tempo e pregai. Beata or sono:
Chè tutto in questa eterna vita è pace.
I lai quì scorda il Duolo, Amore i pianti,
Superstizion medesma i suoi timori.
Qui un Dio, non l’uom, i nostri falli assolve».
Eccomi dunque. I non caduchi serti
Di rose mi apprestate e l’auree palme
Tra i Serafin’ di pure fiamme accesi,
Ove sol trova il peccator quïete.
E tu, Abelardo, il mesto ufficio estremo
Adempì, e l’alma peregrina aita.
Mira: il labbro mi trema, e nella morte
Nuotano i lumi. Or l’ultimo respiro
Suggi, e lo spirto fuggitivo accogli.
Ah! no: presso Eloisa in sacra vesta
Rimanti: e stretta d’una man la face,
Coli’ altra a sue pupille offri la Croce:
A morir l'ammaestra, e in un lo impara.
Guata securo allor l’amata donna:
Chè più colpa non fia. Le passeggiere
Rose svanir sulle mie guance mira:
La scintilla vital mira ne’ lumi
Al suo fin giunta: e insin che polso e moto
In me non taccia, e non sii tu più mio,
Non ti partir. Morte eloquente, e sola
Testimon di qual polve il cor si accenda,
Ove d’amor per un mortai sia preso!
Quando tue dolci grazïose forme,
Di mie colpe ragion, de’ miei diletti,
Dal fato estremo fien distrutte, oh possa
Bell’estasi assorbirne il duol compagno,
E chiara scender nuvoletta, e ’l coro
A te vegghiar degli Angioli d’intorno,
E sfavillar giù dagli aperti cieli
La gloria, e con desir, che il mio pareggi
Incontro a te stender le braccia i Santi!
Nostre misere salme indi una sola
Cara tomba racchiuda: e d’Eloisa
L’amor s’innesti all’immortal tuo nome.
E se alla tarda etade, allor che tutti
Fien cessati i miei mali, e del ribelle
Cor gli affannosi palpiti, due fidi
Esuli amanti alle solinghe mura
Del Paracleto ed all’argentee fonti
La sorte guidi, sovra i bianchi marmi
Con bassa fronte, e di scambievol pianto
Molli, diranno per pietà: «Deh mai,
Come il lor arse, nostro cor non arda!»
E se, allor che l’Osanna alto rimbomba,
E del tremendo sacrifizio ferve
L’augusta pompa, avvenga un dì che al sasso,
Del nostro fral custode, alcun si volga
Occhio pietoso, un tenero pensiero
Involerà Devozïone al Cielo,
E una stilla di pianto avrà perdono.
Poi, se da pare avversità percosso,
Vate fia mai, che dal suo ben per lunghi
Anni lontano, e col pensiero i vezzi
Costretto a figurar, negali al guardo,
D’amore avvampi al nostro egual, de’ tristi
Casi ristoria con pio slil ne dica;
E alcun verrà da’ ben cantati affanni
Conforto a mia dolente ombra pensosa.
Delle pene d’amor la viva imago
Ritrar può sol chi più d’amor si dolse.
9 maggio 2024 - Eugenio Caruso
Il fiore di girasole, logo del sito, unisce natura, matematica e filosofia.
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