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Novalis, capofila del romanticismo tedesco

«La poesia sana le ferite inferte dall'intelletto. Essa è appunto formata da elementi contrastanti - da una verità sublime e da un piacevole inganno». Novalis



GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i grandi poeti e letterati che ci hanno donato momenti di grande felicità.

I TEDESCHI

Goethe - Hesse - Heyse - Hoffmann - Lutero - Mann - Nietzsche - Novalis - Schiller

Novalis, pseudonimo di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg (Schloss Oberwiederstedt, 2 maggio 1772 – Weißenfels, 25 marzo 1801), è stato un poeta, teologo, filosofo e scrittore. Fu uno dei più importanti rappresentanti del romanticismo tedesco prima della fine del Settecento e creatore del fiore azzurro, ovvero il nontiscordardimé, uno dei simboli più durevoli del movimento romantico. Nato e cresciuto in una famiglia estremamente cristiana e solitaria, divenne ben presto appassionato di religione e prolifico autore di poesie dal contenuto mistico e filosofico, dotate d'uno stile sentimentale e amoroso originalissimo per la sua epoca. Viene considerato uno dei precursori della letteratura moderna. Giova ricordare che il Romanticismo è stato un movimento artistico, musicale, culturale e letterario sviluppatosi al termine del XVIII secolo in Germania (Romantik). Preannunciato in alcuni dei suoi temi dal movimento preromantico dello Sturm und Drang, si diffuse poi in tutta Europa nel XIX secolo. Come reazione all'Illuminismo e al Neoclassicismo, cioè alla razionalità e al culto della bellezza classica," il Romanticismo contrappone la spiritualità, l'emotività, la fantasia, l'immaginazione, e soprattutto l'affermazione dei caratteri propri di ogni artista".

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«L'acume geniale è l'uso acuto dell'acume» (Novalis, Frammenti - Rizzoli, 1976)

Friedrich von Hardenberg nacque secondo degli undici figli di Auguste Bernhardine Freifrau von Hardenberg, nata von Bölzig, e Heinrich Ulrich Erasmus Freiherr von Hardenberg. Dopo aver frequentato il ginnasio luterano a Eisleben, si iscrisse nel 1790, come studente di giurisprudenza, all'Università di Jena. Lì il suo vecchio tutore personale Carl Christian Erhard Schmid, che nel frattempo era diventato professore di filosofia e uno dei maggiori rappresentanti del kantismo a Jena, lo introdusse da Friedrich Schiller, anch'egli professore di filosofia.
Nel 1791 Novalis si trasferì a Lipsia, dove ampliò i suoi studi con la filosofia e la matematica. Per i risultati mediocri e gli scarsi progressi, il padre intervenne e lo fece trasferire all'Università di Wittenberg, dove concluse gli studi di diritto nel 1794 con il massimo dei voti. Il 1797 è una data che portò a un rafforzamento della sua educazione pietista, poiché proprio in quell'anno morirono la sua amata Sophie von Kuhn e suo fratello Erasmus. Iniziò in quest'anno la composizione degli Inni alla notte. Nel 1797 si dedicò allo studio della scienza mineraria presso Freiberg, con l'intento di divenire ingegnere minerario. Fu designato amministratore di alcuni giacimenti di salgemma.

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La casa di Novalis a Weißenfels, dove morì nel 1801


Ammalatosi di tubercolosi nell'agosto del 1800, morì nella sua casa di Weißenfels il 25 marzo dell'anno successivo, senza aver compiuto i ventinove anni, e fu sepolto nel cimitero della stessa città. L'educazione religiosa ricevuta in gioventù, insieme agli studi filosofici che compì, si riflesse largamente nella sua produzione letteraria. Il pensiero di Novalis ebbe una funzione decisiva nell'ambito della rilettura del passato operata dal romanticismo. La cultura europea cominciava a sostituire l'antichità greca come elemento di confronto e vagheggiamento fantastico con il Medioevo popolare e cristiano (processo che poi approderà, con il decadentismo wagneriano, al Medioevo mitologico germanico).
Il cenacolo di Jena - che inventò il movimento romanticista tedesco, poi dilagato in Europa grazie a Madame de Staël - riconobbe in Novalis un maestro. I principali esponenti del gruppo, Ludwig Tieck e i fratelli Wilhelm August e Friedrich Schlegel, si considerarono dopo la sua morte i suoi continuatori. Nonostante ciò, il saggio La Cristianità, ovvero l'Europa, da cui prese le mosse la rivalutazione del Medioevo cristiano, non fu pubblicato sulla rivista del gruppo, Athenäum: ci furono dissensi all'interno del gruppo e alla fine il verdetto sfavorevole di Goethe, chiamato come arbitro. Esso fu pubblicato solo nel 1826.

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Novalis nel 1799, opera di Franz Gareis

Negli scritti e articoli di Novalis sono presenti tutte le posizioni tipiche della fase eroica del romanticismo. Lo testimonia, fra l'altro, il frammento giovanile, databile intorno al 1789-1790, in cui parla della poesia e dell'"entusiasmo": chiama "la poesia, figlia del più nobile impeto e delle sensazioni e passioni più alte e forti". Scrive in un frammento del 1800:

«La poesia sana le ferite inferte dall'intelletto. Essa è appunto formata da elementi contrastanti - da una verità sublime e da un piacevole inganno».

Oppure ancora il frammento sulla traduzione, pubblicato su Athenaeum nel 1798 quando distingue fra tre tipi di traduzione e soprattutto delle

«...traduzioni mitiche che sono traduzioni nello stile più alto. Esse espongono il carattere puro e compiuto dell'opera d'arte individuale. Non ci presentano l'opera d'arte reale bensì il suo ideale».

Nel corpus degli scritti di Novalis sono innumerevoli anche le intuizioni, precorritrici di movimenti e climi poetici che saranno in altre stagioni della storia poetica europea.
Così l'idea di linguaggio come attività separata e autonoma, capace di giungere al significato proprio quando lo si separa dall'intenzionalità razionale: una posizione che rimanda alle "parole in libertà" dei dada e dei surrealisti.

«Nessuno sa - scrive Novalis intorno al 1789-1790 - che la peculiarità del linguaggio è proprio quella di preoccuparsi solo di se stesso. Perciò esso è un mistero così portentoso e fecondo: se infatti si parla solo per parlare allora si pronunciano le verità più splendide e originali. Se invece si vuol parlare di qualcosa di determinato, allora il linguaggio, questo spiritoso, ci fa dire le cose più ridicole e insensate [...]. Potessimo far capire alla gente che per il linguaggio accade lo stesso che per le formule matematiche: costituiscono un mondo a sé, giocano solo con sé stesse, non esprimono altro che la loro meravigliosa natura e proprio perciò sono così espressive, proprio perciò vi si rispecchia l'insolito gioco dei rapporti tra le cose [...] solo nel loro libero moto si manifesta l'anima del mondo».


«Pur ritenendo di aver indicato con ciò, nel modo più chiaro, l'essenza e la funzione della poesia, so però anche che nessuno può comprenderle, e di aver detto delle sciocchezze, perché appunto ho voluto dirle, e così non nasce nessuna poesia. E se dovessi però parlare? E se quest'impulso linguistico al parlare fosse il contrassegno dell'ispirazione del linguaggio, dell'efficacia del linguaggio in me? E se poi la mia volontà volesse tutto ciò che io dovessi, ciò non potrebbe infine essere, senza che io lo sapessi o vi credessi, poesia, e non potrebbe rendere comprensibile un mistero del linguaggio? Sarei dunque così uno scrittore nato, visto che lo scrittore non è che un entusiasta del linguaggio?».

Questa la strada pionieristica di Novalis, che in altri ha portato all'idea dell'arte per l'arte e al rifiuto della realtà e dell'impegno in essa.
L'idea romanticista di Novalis ha una buona parte delle sue radici nella rilettura di Plotino e del pensiero neoplatonico in generale. Di contro al trionfo del pensiero sistematico, vince in lui un pensiero fortemente orientato al frammentismo, poetico e saggistico. Da questo punto di vista è un atteggiamento simile a quello di Leopardi. Sua idea centrale è il concetto di «immaginazione creatrice», la capacità che ha l'immaginazione di forza plastica, cioè plasmatrice e quindi magica: il logos come parola poetica. Novalis contrappone alla logica dell'intelletto, arida e razionalistica, la logica dell'immaginazione che egli chiama "fantastica".
La poesia, quando è veramente tale, ossia opera del genio ispirato, ci fa comprendere la realtà dal punto di vista del tutto, secondo un modello organicistico che affonda le sue radici nella Critica del Giudizio di Immanuel Kant. Passato e immaginazione sono due strumenti messi al servizio di una revisione dell'idea di progresso e di storia, che si concentra attorno alla nuova idea di Europa che Novalis presenta: un'Europa fortemente eurocentrica, unitarista, "forte" e germanica, una visione che non sarà senza conseguenze nella successiva assunzione dell'irrazionalismo romanticista da parte della mitografia reazionaria.

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Nontiscordardimé, il fiore azzurro di Novalis

Per capire meglio Novalis e il perché di questo scritto, non si può prescindere dalla formazione rigidamente pietistica ch'egli ricevette in famiglia. Il padre, il barone Erasmus, si sentì attratto da quella forma di religiosità protestante sorta in polemica con il luteranesimo istituzionale chiamata pietismo, che ebbe il suo centro di diffusione a Herrnhut (Dresda). Questa fu la via che imboccò il padre di Novalis, dopo essere rimasto scosso dalla perdita della prima moglie.
Quel lutto segnò così in modo decisivo non solo la sua vita, ma anche quella della famiglia che si costruì più tardi; il barone infatti, profondamente convinto della ragionevolezza di quella dottrina, per punizione, si costrinse, e costrinse i famigliari, a vivere una vita rigorosa, severa, che sfociò nel progressivo isolamento. Nonostante ciò l'esperienza religiosa di Novalis non sfociò nel rifiuto per essa: si fece esperienza poetica; ma quest'ultima porta ancora evidenti tracce della concezione pietistica e, più in generale, mistica della conversione, che è frutto di un'illuminazione e inizio di una strada che porta all'assoluto.
La struttura mentale di Novalis è quella di un mistico: certe immagini che egli adopera, certe metafore linguistiche, fanno parte della letteratura mistica. Uno sviluppo importante che il pietismo ebbe nella storia dello spirito e della letteratura fu la pratica dell'esame di coscienza, che aveva portato alla stesura di tante "confessioni" (una per tutte il sesto libro di Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe, intitolato Die Bekenntnisse einer schönen Seele) aveva dato vita ad un idealismo romanzesco che «...sembra essere a giusto titolo una delle forme germaniche e protestanti del bell'ingegno e del preziosismo»: v'era un tipo intellettuale e sentimentale nella società tedesca, che tentava di amalgamare le esigenze del cuore con il pensiero filosofico.
Era un tipo presentato da Jacobi nel romanzo Woldemar, appartenente a una classe sociale tale per cui risultava esonerato o quasi dalle necessità dell'esistenza e poteva dedicarsi con agio all'analisi interiore e ai godimenti intellettuali. Nel romanzo il protagonista e la partner godono del proprio cuore più che della passione realmente provata, adorano sé stessi nell'oggetto amato e nell'amore cercano soprattutto il loro proprio metodo per amare, vale a dire un'idea raffinata ed esaltata di sé stessi. Sul piano mondano il pietismo si trasforma in un'educazione mistica del sentimento.
In uno dei suoi Frammenti Novalis scrisse:

«Bisogna nobilitare la passione utilizzandola come un mezzo, conservandola a forza di volontà per farne il veicolo di un'idea bella. Per esempio di un'alleanza stretta con un "io" amato".»

È stretta la linea di confine che separa l'intenzione di coltivare la propria sensibilità per poter provare sentimenti più elevati, dall'intenzione di abbandonarsi ai più raffinati piaceri sensuali dell'immaginazione. E la passione di Novalis verso Sophie, la fidanzata bambina, rientra perfettamente in questo discorso: non è tanto rivolta al suo naturale oggetto (Sophie) quanto è prodotta piuttosto dal gioco d'immaginazione che nasce dall'esaminare, scrutare, indagare continuamente se stessi. Quest'amore quindi sarebbe «...un voluttuoso dell'immaginazione più ancora che dei sensi".»

In effetti dagli Inni e dai Canti spirituali, come dagli aforismi, traspare una sottile malia erotica; espressioni a tutta prima indifferenti acquistano un timbro voluttuoso:

«Cos'è la fiamma? Uno stretto amplesso il cui frutto si espande in una voluta voluttuosa».

V'è una mistica erotica anche nella morte. Tutto, in definitiva, può trasformarsi in voluttà; tale è la morale segreta del sensuale mistico. È indubbio quindi che in Novalis debba esser considerata anche questa faccia del misticismo sensuale, diretta ma non necessaria derivazione di quello religioso-pietistico. La contaminazione tra sacro e profano si mantenne però quasi sempre in Novalis entro limiti accettabili e non raggiunse mai quegli estremi morbosi cui arrivarono altri scrittori romantici.
Novalis intrattiene uno stretto rapporto con la filosofia di Fichte, marcata dalla contrapposizione tra Io e non-Io, sempre rivolta a un Io superiore, che per Novalis è irraggiungibile, trasformandola in idealismo magico. Novalis studia inoltre l'alchimia, sempre da un punto di vista filosofico, affinché l'uomo possa realizzare appieno la sua essenza. Per questo il filosofo Rudolf Steiner traccerà un parallelo tra la poesia e l'esistenza stessa di Novalis, conclusasi precocemente, e il cammino artistico di Raffaello.
Gli Inni alla notte
Gli Hymnen an die Nacht, ovvero Inni alla notte, costituiscono l'unico ciclo di poesia compiuto pubblicato durante la vita di Novalis; il testo, comparso sull'ultimo numero di Athenaeum nell'agosto 1800, è quello definitivo dell'autore. Gli Inni - ad eccezione del VI, della fine del IV e di tre parti del V - furono scritti in prosa ritmica.
Le questioni sulla data di composizione degli Inni sono molte e non ancora risolte. Novalis infatti, singolarmente, non lasciò scritto in nessuna carta privata, o lettera che fosse, comunicazione alcuna a proposito di ciò che stava scrivendo; le sole e più importanti indicazioni che si ricavano dalle lettere degli amici furono quelle che ci vengono da Friedrich Schlegel, il quale asserì d'aver visto ai primi di marzo del 1798, tra le carte e le "opere a stampa", «splendidi pensieri sul cristianesimo e sulla morte».
Accanto al problema della datazione degli Inni, o meglio della datazione delle probabili, anche se non dimostrate, prime redazioni parziali, v'è anche quello della loro stesura. Le ipotesi che si lasciano formulare sono sostanzialmente tre: secondo la prima, che raccoglie il maggior numero di studiosi, il Gedicht è nato tutto in una volta; in base alla seconda, il IV inno è stato aggiunto in un momento successivo; per la terza, la redazione manoscritta e quindi il Gedicht ha avuto una formazione graduale. Ciò che appare comunque certo è che gli Inni non possano essere considerati l'espressione immediata di un'esperienza spirituale, e che anzi siano il risultato di un lungo e difficile processo mentale.
Gli Inni alla notte sono un poema in prosa ritmica e in versi, suddiviso in sei parti diseguali, che ha come punto di partenza un'esperienza eroico-filosofico-religiosa profondamente vissuta e come tema la vittoria sulla morte. Il nucleo dell'esperienza è la morte della fidanzata Sophie; gli Inni sono l'immagine artisticamente rielaborata dell'evoluzione subita da Novalis nello spirito, nel pensiero, nella poesia dalla scomparsa della ragazza sino quasi alla vigilia della propria morte. L'esperienza dolorosa, resa ancor più viva dalla scomparsa tre settimane più tardi del fratello prediletto, diede alla potenzialità del suo spirito una direzione unitaria. Novalis aveva scritto, sino ad allora, un buon numero di liriche e raccolto una messe di appunti, annotazioni e "frammenti" sulla politica, sulla filosofia e sulle scienze; a partire dal 1797 vengono concepite come opere unitarie, concluse, che contengono in modo organico la visione del mondo nuovo, "romantico", in consapevole contrasto con il mondo della Klassik e dell'Aufklärung (Illuminismo).
Fondamento primario di questa nuova dimensione (una sorta di novella "età dell'oro") è l'idea che: «Il mondo deve essere romantizzato», come scrive Novalis in un "frammento" del 1798, e "romantizzare", continua subito dopo, «non è altro che un potenziamento qualitativo. In questa operazione il sé inferiore viene identificato con un sé migliore». E ancora: «Conferendo all'ordinario un senso elevato, al consueto un aspetto misterioso, al conosciuto la dignità dell'ignoto, al finito un'apparenza infinita, io lo romantizzo».
Geistliche Lieder - Canti spirituali
Si tratta di quattordici componimenti, ideati e stesi tra il 1799 e il 1800. Poesie su argomenti religiosi non erano una novità nella produzione dell'autore in questione; vi rientrano alcuni componimenti giovanili, del periodo scolastico, quando la posizione dell'autore era sotto il segno del razionalismo illuministico e dell'ammirazione per Klopstock. Ma fu, ancora una volta, l'esperienza dolorosa della perdita della fidanzata a far maturare in lui il problema religioso con la certezza della mediazione di Cristo, e a rendere possibile una concezione tanto originale nell'ambito del canto religioso. I canti sono l'opera più popolare dell'autore, popolarità facilitata dalla semplicità, dalla scorrevolezza del ritmo, dalla luminosità delle immagini, dalla forza di sintesi del pensiero. Questi quattordici canti nacquero dal desiderio di rinnovare i libri dei canti in uso in quel periodo nelle chiese luterane.
Heinrich von Ofterdingen - Enrico di Ofterdingen
Questo romanzo incompiuto di Novalis – solo la prima parte è completa, della seconda esiste solo il capitolo iniziale – è ambientato nel Basso Medioevo, tra il XIII e il XIV secolo, e racconta l'iniziazione del giovane Enrico di Ofterdingen. All'inizio della storia uno straniero racconta a Enrico di luoghi remoti misteriosi e di un fiore azzurro. Quando questo meraviglioso fiore – quintessenza della capacità intuitiva di comprendere la realtà e della nostalgia (Sehnsucht) tutta romantica per l'infinito - gli appare in sogno e si trasforma nel viso di una fanciulla, Enrico presagisce quale sarà lo scopo della sua vita, ovvero seguire la vocazione per la poesia e l'amore. Guidato da questa visione e da un suo presentimento, Enrico inizia un viaggio che lo porterà a conoscere, tramite racconti e dialoghi, il senso della sua stessa vita e del suo tempo: il mondo delle esperienze della mitica Atlantide, dell'Oriente e della guerra, ma anche della natura e della storia gli appare via via attuale. Tutte queste conoscenze contribuiscono a "plasmare le forze interne" che dispiegano lo "spirito della poesia".
Giunto alla fine del suo viaggio, Enrico conosce il poeta Klingsohr e la figlia Mathilde. Klingsohr gli fa comprendere l'essenza della poesia, Mathilde, nella quale Enrico riconosce il viso di fanciulla che gli era apparso in sogno, gli fa conoscere l'amore. La fiaba che Klingsohr racconta alla fine della prima parte, introduce alla seconda parte incompiuta, che, con il definitivo annullamento dei confini tra realtà e sogno, doveva assumere essa stessa un carattere fiabesco.
Appunti contraddittori di Novalis accennano al proseguimento della storia: dopo la morte di Mathilde, Enrico entra nel regno dei morti per cercarla; successivamente prende parte alla gara dei cantori della Wartburg, viene incoronato poeta e può finalmente liberare il mondo dalla coercizione del tempo e dello spazio – ma tutto ciò potrà avvenire solo quando avrà conosciuto la vita di corte, la condotta di guerra e le epoche della storia dell'uomo e quando avrà percorso l'evoluzione della vita nella natura attraverso la metempsicosi.
Nella prima parte del testo il sogno può essere interpretato come torpore, mentre la veglia è l'esaltazione della ragione: essere completamente svegli permette di essere totalmente ricettivi al mondo circostante, una veglia capace di far emergere progressivamente ciò che in precedenza era sopito nell'inconscio. Il processo d'iniziazione diventa così il riconoscimento e il ricongiungimento con tutto ciò che è presente nella realtà. Per fare questo è necessario uscire dalla tradizione logica delle classificazioni mentali, degli stereotipi, degli status.

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Tomba di Novalis a Weißenfels

Il fiore azzurro (die blaue Blume) è la metafora del raggiungimento, e in sé raccoglie tutte le forme della conoscenza che l'individuo deve acquisire per poter raggiungere la perfezione. Una maturazione che si sviluppa attraverso la ricerca personale, l'iniziativa, e non certo aspettando gli eventi, con la casualità. Durante il racconto vi è il continuo passaggio a scenari diversi, un'immersione nella natura e nello spazio per poter riemergere nelle forme di un altro scenario e di un altro spazio: una continua affermazione della vita, di una rinascita continua.
Il fiore non a caso è collocato nell'Eden, la condizione primordiale dell'uomo; raggiungerlo significherebbe quindi ricostituire la propria origine. Il principio che la perfezione è raggiungibile, e che si riscontra più tipicamente nelle popolazioni nordiche (Handerberg è tedesco) che nelle civiltà cattoliche. Novalis ci trasmette una costante: il sentimento inteso come fonte di energia, alimentazione della propria vita intellettiva, che per esprimersi al massimo deve saper conciliare razionalità e sentimenti. Quando il padre si risveglia e il figlio tenta di raccontargli il sogno, il genitore minimizza; ma Enrico insiste per far comprendere quanto l'analisi dei propri sogni o di che cosa si fa in sogno, può aumentare la conoscenza di noi stessi.
È quindi una sorta di laicizzazione del sogno (inteso come ricerca, percorso iniziatico), come attività della coscienza umana, che si rivitalizza e progressivamente si libera dagli schemi intellettivi portando alla luce potenzialità nascoste. Anche il viaggio con la madre rappresenta un'opportunità per fare il vuoto e rendersi disponibile a essere ricettivi, a voler conoscere, a voler sentire, a voler soffrire; è una concentrazione che permette di acquisire nuovi modi di vedere e di vivere, e la convivenza della moltitudine dei nuovi mondi della percezione che abbiamo conosciuto, permetterà di poter vivere afferrando e leggendo le corrispondenze che formano la trama della realtà.
E il racconto che Enrico ascolterà dai mercanti gli insegnerà un altro concetto fondamentale: la trama delle connessioni va afferrata in modo spontaneo e sinergico, leggendo ed interpretando nell'insieme, senza cadere nelle categorizzazioni, senza inscatolare ogni elemento della realtà in una categoria precostituita. Un concetto valido anche per il principio dell'amore: conoscendosi profondamente nessun aspetto della vita apparirà scontato. Nel sesto capitolo Enrico incontra Mathilde. I due giovani s'innamorano subito, come nella realtà (Friedrich e Sophie), dove Novalis dirà dell'incontro: «...furono i quindici minuti che cambiarono completamente la mia vita».
Un riferimento che ritroviamo anche nel testo: Enrico sente che doveva incontrarla in quel momento, una sorta di fatalità che si sarebbe trasformata nella più importante esperienza sentimentale. Un episodio raccontato in tre pagine, in tutta la sua spontaneità e naturalezza. Uno scrittore di romanzi avrebbe descritto la storia con centinaia di pagine attraverso la minuziosità dei dialoghi e dei particolari. Novalis invece ci riproduce tutto con immediatezza in quanto insieme al suo amore è proteso verso nuovi orizzonti e non sente la necessità di soffermarsi su qualcosa che non va descritto (l'amore), ma va vissuto in ogni momento. Mathilde è probabilmente una delle prime figure femminili in letteratura che s'innamora guardando e trovando negli occhi di una persona la sua stessa luce; e anche il dialogo a pagina 98 ci dimostra che il congiungimento tra uomo e donna, relazione d'armonia e di condivisione dove non esistono segreti, è possibile.
Dai due giovani nasce un figlio, Astralis, una valenza simbolica, che rappresenta la riproduzione della coscienza del padre e della volontà di continuare il percorso verso nuove esperienze. Sempre nel sesto capitolo Novalis descrive due personalità umane differenti tra loro: gli uomini d'azione, protesi verso la ricerca e la conoscenza, e gli uomini contemplativi, incapaci di prendere iniziativa, in balia delle emozioni e che affronteranno la vita soltanto quando le situazioni si presenteranno nella loro complessità.
La veglia di Enrico si caratterizza quindi per la capacità di osservare un mondo illuminato da una luce nuova, che permette di afferrare i legami analogici della realtà. L"Heinrich di Ofterdingen" è una narrazione esegetica: per comprenderla il lettore è invitato a immedesimarsi, unico modo per capire le parole e le emozioni del personaggio. Alla fine del romanzo incompiuto Heinrich avrebbe certamente colto il «fiore azzurro» e si sarebbe ricongiunto con Mathilde nel grande trionfo dell'"età dell'oro", nella grande, universale sintesi di natura e regno spirituale, ovvero nella sintesi che annulla ogni possibile contrasto.
Ma il cerchio si chiude comunque sull'assunto iniziale del filosofo trascendentale: se la natura è un «progetto del nostro spirito», ed è un qualcosa che può essere modificato dalla consapevolezza del soggetto pensante, allora plasmare l'individuo significa plasmare anche il mondo. Se «il compito più alto» dell'educazione consiste nel conquistare «l'io del proprio io», allora – nell'utopia novalisiana – educare sé stessi significa anche conquistare l'universo mondo e la tanto agognata "età dell'oro".

Opere

  • Hymnen an die Nacht (1797, 1800), vedi Inni alla notte
  • Blütenstaub (1798)
  • Die Lehrlinge zu Sais (1798-1799)
  • Christenheit oder Europa (1799)
  • Geistliche Lieder (1799)
  • Marienlieder (1799)
  • Heinrich von Ofterdingen (1798-1801, 1802)

Traduzioni italiane

  • Opere, a cura di Giorgio Cusatelli, Milano, Guanda, 1982.
  • Inni alla notte. Canti spirituali, Milano, Garzanti, 1986
  • Opera filosofica, a cura di G. Moretti e F. Desideri, Torino, Einaudi, 1993 (nuova edizione in un volume con il titolo Scritti filosofici, Brescia, Morcelliana, 2019).
  • Inni alla notte - Canti spirituali, a cura di Susanna Mati, Milano, Feltrinelli, 2012.
  • Enrico di Ofterdingen, Milano, Adelphi, 1997 (prima edizione 1942).
  • La Cristianità o Europa, a cura di Alberto Reale, Milano, Bompiani, 2002.
  • I discepoli di Sais, a cura di Alberto Reale, Milano, Bompiani, 2001.

INNI NELLA NOTTE

A cura di Diego Fusaro

I

Quale vivente,

dotato di sensi,

non ama tra tutte

le meravigliose parvenze

dello spazio che ampiamente lo circonda,

la più gioiosa, la luce -

coi suoi colori,

coi raggi e con le onde;

la sua soave onnipresenza

di giorno che risveglia?

Come la più profonda

anima della vita

la respira il mondo gigantesco

delle insonni costellazioni,

e nel suo flutto azzurro

nuota danzando -

la respira la pietra scintillante,

che posa in eterno,

la pianta sensitiva che risucchia,

l'animale multiforme,

selvaggio e ardente -

ma più di tutti

il maestoso viandante

con gli occhi pieni di profondi sensi,

col passo leggero, e con le labbra

ricche di suoni

dolcemente socchiuse.

Quale regina

della natura terrestre

chiama ogni forza

a mutamenti innumerevoli,

annoda e scioglie vincoli infiniti,

avvolge ogni essere terrestre

con la sua immagine celeste. -

La sua sola presenza manifesta

il meraviglioso splendore

dei reami del mondo.

Da lei mi distolgo e mi volgo

verso la sacra, ineffabile

misteriosa notte.

Lontano giace il mondo -

perso in un abisso profondo -

la sua dimora è squallida e deserta.

Malinconia profonda

fa vibrare le corde del mio petto.

Voglio precipitare

in gocce di rugiada

e mescolarmi con la cenere. -

Lontananze della memoria,

desideri di gioventù,

sogni dell'infanzia,

brevi gioie e vane speranze

di tutta la lunga vita

vengono in vesti grigie,

come nebbie della sera

quando il sole è tramontato.

In altri spazi

piantò la luce le festose tende.

Mai più ritornerà

ai suoi figli che l'attendono

con fede d'innocenti?

Che cosa a un tratto zampilla

grondante di presagi

sotto il cuore

e inghiottisce la molle brezza

della malinconia?

Da noi derivi a tua volta piacere,

o buia notte?

Quale cosa tu porti sotto il manto

che con forza invisibile

mi penetra nell'anima?

Delizioso balsamo

stilla dalla tua mano,

dal mazzo di papaveri.

Le gravi ali dell'anima tu innalzi.

Noi ci sentiamo oscuramente

e ineffabilmente turbati -

con gioioso spavento

vedo un volto severo

che su di me si china

dolce e devoto,

e svela tra i riccioli

senza fine intrecciati

la cara giovinezza della madre.

Come infantile e povera

mi sembra ora la luce -

come grato e benedetto

l'addio del giorno -

Solo perché la notte distoglie

e allontana da te i tuoi fedeli,

tu seminasti per gli spazi immensi

le sfere luminose, ad annunziare

l'onnipotenza tua -

il tuo ritorno -

nel tempo della tua lontananza.

Più divini

delle stelle scintillanti

ci sembrano gli occhi infiniti

che in noi la notte dischiude.

Vedono oltre

le più pallide gemme

di quelle schiere innumerevoli -

non bisognosi di luce

frugano nel profondo

di un'anima amante -

voluttà ineffabile

colma uno spazio più alto.

Lode alla regina del mondo,

alta annunziatrice

di mondi santi,

custode del beato amore,

che a me ti manda -

tenera amata -

amabile sole notturno, -

ed ora veglio -

sono Tuo e Mio -

la notte mi annunziasti come vita -

mi hai fatto uomo -

consuma con l'ardore

dell'anima il mio corpo,

perché lieve nell'aria

con te più strettamente io mi congiunga

e duri eterna

la notte nuziale.

II

Deve il mattino sempre ritornare?

La potenza terrestre avrà mai fine?

Consuma un vano affaccendarsi il volo

celeste della notte. E mai l'offerta

segreta dell'amore

arderà in eterno?

Fu misurato alla luce il suo tempo;

ma il regno della notte è senza tempo

e senza spazio. - Eterno dura il sonno.

Sonno santo -

non fare troppo raramente lieti

i consacrati alla notte

in questa terrestre

quotidiana fatica.

Soltanto i folli non ti riconoscono

e di te nulla sanno se non l'ombra

che tu spandi su noi pietosamente

nel crepuscolo

della notte vera.

Non ti sentono

nel flutto d'oro del grappolo -

nell'olio miracoloso

del mandorlo, e nel latice bruno

del papavero.

Non sanno

che tu adombri il tenero seno

della vergine e il suo grembo fai cielo -

non indovinano

che uscita da antiche leggende

tu avanzi e schiudi i cieli,

portando la chiave

dei soggiorni beati,

silenzioso araldo

di misteri infiniti.

III

Un giorno che versavo amare lacrime, che in dolore disciolta svaniva la mia speranza, e io stavo solitario presso l'arido tumulo che in un breve oscuro spazio chiudeva la forma della mia vita - solitario come nessuno era mai stato, sospinto da indicibile angoscia - privo di forze, in me soltanto un senso di miseria, come mi guardavo intorno cercando aiuto, non potevo avanzare né indietreggiare, e mi aggrappavo alla fuggente vita, spenta, con infinita nostalgia: - allora venne dalle azzurre lontananze - dalle altezze della mia antica beatitudine un brivido crepuscolare - si spezzò d'un tratto il vincolo della nascita - la catena della luce. Svanì la magnificenza terrestre e il mio lutto con lei - confluì in un mondo nuovo e impenetrabile la malinconia - e tu, estasi della notte, sopore del cielo scendesti su di me - la contrada lentamente si sollevò; e sulla contrada aleggiò il mio spirito nuovo, liberato. Il tumulo divenne una nube di polvere - attraverso la nube io vidi le fattezze trasfigurate dell'amata. Nei suoi occhi posava l'eternità - afferrai le sue mani, e le lacrime divennero un vincolo scintillante, inscindibile. Millenni dileguarono in lontananza, come uragani. Al suo collo piansi lacrime d'estasi per la nuova vita. - Fu questo il primo, unico sogno - e da allora sento un'eterna, immutabile fede nel cielo della notte e nella sua luce, l'amata. 

IV

Ora so quando sarà l'ultimo mattino - quando la luce non mette più in fuga la notte e l'amore - quando eterno sarà il sonno e un solo sogno inesauribile. Celeste stanchezza sento in me. - Lungo e faticoso mi fu il pellegrinaggio alla tomba santa, grave la croce. Chi ha assaporato l'onda cristallina che, impercettibile ai sensi comuni, zampilla nel grembo oscuro del tumulo, ai cui piedi s'infrange il flutto terrestre, chi stette sopra le montagne all'estremo limite del mondo, e guardò di là, nella nuova terra, nella dimora della notte - costui davvero non torna al travaglio del mondo, alla terra dove la luce abita in eterna inquietudine. Lassù costruisce le sue capanne, capanne di pace, ardentemente desidera e ama, guarda al di là, finché la più gradita di tutte le ore non lo trascina giù, nella vena della fonte - dove galleggiano i residui terrestri, sospinti indietro dai turbini; ma ciò che sacro divenne al contatto d'amore, corre disciolto per tramiti oscuri alla sfera ultraterrena, dove si fonde, simile a vapore, con gli amori assopiti.

Ancora tu risvegli,

allegra luce,

lo stanco al lavoro - mi infondi

vita gioiosa -

però non mi attiri

lontano dal monumento

muscoso del ricordo.

Lieto voglio agitare

le mani operose,

guardarmi intorno, dovunque

tu avrai bisogno di me -

esaltare la piena

magnificenza del tuo splendore -

assiduamente perseguire

la bella concordanza

della tua opera ingegnosa -

lieto voglio osservare

il saggio cammino

del tuo potente orologio che splende -

scrutare l'equilibrio delle forze

e le norme

del giuoco prodigioso

degli spazi innumerevoli

e dei loro tempi.

Ma fedele il mio cuore

segreto rimane alla notte,

e a suo figlio, l'amore che crea.

Puoi tu mostrarmi un cuore

fedele in eterno?

Ha il tuo sole

occhi amici

che mi ravvisino?

e le tue stelle afferrano

la mia mano supplichevole?

Mi rendono in cambio

la tenera stretta

e la parola affettuosa?

Tu l'hai adornata

di colori e lievi contorni -

o fu lei che diede

significato più alto e più caro

alla tua grazia?

Quale voluttà,

quale godimento offre la tua vita,

che in fascino equivalgano

ai rapimenti della morte?

Non porta i colori della notte

tutto quanto ci esalta?

Lei ti porta

maternamente,

e tu le devi tutta la tua gloria.

Svaniresti in te stessa -

nell'infinito spazio

ti sperderesti,

se lei non ti tenesse,

né ti serrasse,

così che calda, accesa,

con la tua fiamma generassi il mondo.

Veramente ero prima che tu fossi -

la madre mi inviava ad abitare

coi miei fratelli il tuo mondo,

a consacrarlo con l'amore,

perché fosse un monumento

da contemplarsi in eterno -

e a trapiantarvi fiori

che non appassiranno.

Non sono ancora maturati

questi pensieri divini -

E sono ancora scarse le tracce

della nostra rivelazione -

Un giorno il tuo quadrante segnerà

la fine del tempo,

quando una nostra eguale,

o luce, tu sarai;

piena di nostalgia, di fervore

ti spegnerai e morirai.

Sento in me

la fine dell'opera tua laboriosa -

libertà celeste,

ritorno beato.

In selvaggi dolori

riconosco la tua lontananza

dalla nostra patria,

la tua riluttanza all'antico

splendido cielo.

La tua furia e il tuo sdegno sono vani.

Indistruttibile

sta la croce -

vittoriosa insegna

della nostra stirpe.

Mi libro al di là

ed ogni mia pena

sarà uno stimolo

di ebbrezza eterna.

Tra poco libero

sarò da catene,

giacerò inebriato

nel grembo d'amore.

In me vita ondeggia

potente, infinita:

io guardo dall'alto

laggiù, verso te.

Si spegne il tuo vivo

fulgore sul colle -

ed un'ombra porta

la fresca corona.

Aspirami in te,

o amato, con forza,

perché mi addormenti

e impari ad amare.

Sento in me della morte

l'onda che fa giovani,

in balsamo ed etere

si muta il mio sangue -

Io vivo di giorno

con fede e coraggio

e muoio le notti

in ardore sacro.

V

Sopra le stirpi degli uomini

largamente diffuse

nel passato regnava un destino

ferreo con muta violenza.

E un'oscura, grave

benda avvolgeva

la loro anima angosciata -

Immensa era la terra -

dimora degli dei,

e loro patria.

Da sempre esisteva

la sua arcana struttura.

Sui rossi monti del mattino,

nel grembo sacro del mare

dimorava il sole,

la viva luce che ogni cosa accende.

Un antico gigante

portava il mondo beato.

Incatenati sotto le montagne

giacevano i figli primigeni

della terra madre.

Impotenti

nella loro furia sterminatrice

contro la nuova

splendida stirpe di dei

e i loro simili,

gli uomini felici.

Il fondo oscuro,

verdeggiante del mare

era il grembo di una dea.

Nelle grotte cristalline

un popolo esuberante

viveva nell'abbondanza.

Fiumi, alberi,

fiori e animali

avevano sensi umani.

Più dolce era il sapore del vino

donato da una visibile

pienezza giovanile -

un dio nei grappoli -

un'amorosa, materna dea

cresceva nei gonfi, aurei covoni -

era la sacra ebbrezza

d'amore un dolce rito

della divinità più bella -

un'eterna, variopinta festa

dei figli del cielo

e degli abitatori della terra

passava stormendo la vita,

come una primavera,

attraverso i secoli -

Tutte le stirpi infantilmente

adoravano la multiforme,

tenera fiamma

come la cosa del mondo suprema.

Solo un pensiero, un'immagine

spaventosa di sogno era quella

che si accostò tremenda ai gai conviti

e in selvaggio terrore avvolse gli animi.

Non seppero gli dei dare un consiglio

che fosse di conforto ai cuori oppressi.

La via di questo demone era arcana,

non lo placava supplica né offerta;

fu la morte a interrompere quest'orgia

con l'angoscia, le lacrime e il dolore.

Per sempre ora da tutto ciò diviso

che a dolce voluttà qui muove il cuore,

lontano dagli amati, in cui si accende

vana sete quaggiù, lungo rimpianto,

parve assegnato al morto solo un sogno

fioco, a lui solo un'impotente guerra.

S'infranse l'onda del piacere contro

la roccia di un cordoglio interminato.

Con fuoco d'intelletto, animo audace,

l'uomo abbellì per sé l'orrenda larva,

un dolce efebo spegne il lume e dorme -

dolce è la morte come un soffio d'arpa.

Si scioglie la memoria in flutto d'ombre,

così fu il canto balsamo agli afflitti.

Ma un enigma restò la notte eterna,

di un lontano potere il grave segno.

Declinava verso la sua fine

il vecchio mondo.

Sfioriva il giardino di delizie

della giovane stirpe -

lassù, nel libero

spazio deserto

anelavano a salire

gli uomini divenuti

consapevoli, adulti.

Scomparvero gli dei col loro seguito -

Solitaria e inanimata

stava la natura.

La legavano con ferrea catena

l'arido numero

e il metro severo.

Come in polvere ed aria

si frantumò in parole oscure

l'immensurabile

fioritura della vita.

Fuggita era la fede evocatrice

e la celeste compagna

che tutto trasfigura,

tutto congiunge fraternamente,

la fantasia.

Soffiava un ostile

freddo vento del nord

sulla campagna spogliata,

e nell'etere si dissolse

l'irrigidita patria del miracolo.

Le lontananze

del cielo si colmarono

di mondi luminosi.

In più profondo santuario,

in più alto spazio dello spirito

volò coi suoi poteri

l'anima del mondo -

per dominare là fino al sorgere

dell'albeggiante

magnificenza del mondo.

La luce non fu più

dimora degli dei

e segno celeste -

essi si avvolsero

nel velo della notte.

E la notte fu il grembo potente

delle rivelazioni -

là tornarono gli dei -

caddero nel sonno,

per ridestarsi in nuove

più splendide forme

sopra il mondo mutato.

Tra il popolo da tutti disprezzato,

precocemente maturo

e sdegnosamente divenuto estraneo

alla beata innocenza

della giovinezza,

apparve con volto

non mai veduto

il mondo nuovo -

Nella povertà

di una poetica capanna - Un figlio

della prima vergine e madre -

di misterioso abbraccio

frutto infinito.

La rigogliosa, presaga

sapienza d'Oriente

fu la prima a conoscere l'inizio

del tempo nuovo -

E all'umile culla

del re, una stella

le mostrava il cammino.

Nel nome del futuro lontano

gli resero omaggio

con profumo e splendore,

le più alte meraviglie della terra.

Solitario il cuore

divino si schiuse ad un calice

di onnipotente amore -

volgendosi al viso

sublime del Padre

e riposando sul seno

beato di presagi

della madre amabilmente grave.

Con divinizzante fervore

guardava il profetico occhio

del fiorente fanciullo

ai giorni del futuro,

e agli amati, germogli

della sua stirpe divina,

non curando il terrestre

destino dei suoi giorni.

Presto intorno a lui

si adunarono gli spiriti

candidi come fanciulli,

miracolosamente rapiti

da profondo amore.

E una nuova, strana vita

germogliava come i fiori

nella sua vicinanza.

Parole inesauribili

e lietissimi annunzi

caddero come scintille

di uno spirito divino

dalle sue labbra amiche.

Da rive lontane,

nato sotto il chiaro

cielo dell'Ellade,

venne un cantore alla terra

di Palestina e donava

tutto il suo cuore al fanciullo

miracoloso:

Tu sei il fanciullo che da lungo tempo

medita assorto sulle nostre tombe;

nella tenebra un segno che consola -

di umanità più alta inizio lieto.

Quanto in grave tristezza ci sommerse

ora al di là ci trae con dolce ardore.

Nella morte si aprì la vita eterna,

tu sei la morte, e noi sola risani.

Il cantore andò

pieno di gioia nell'Indostan, -

col cuore ebbro di dolce amore;

e lo versava in canti accesi

sotto quel mite cielo,

così che mille cuori

s'inchinarono a lui,

e il lieto annunzio

cresceva in migliaia di rami.

Subito, dopo l'addio del cantore,

la preziosa vita

fu offerta in sacrificio

alla profonda decadenza umana -

Morì giovane d'anni,

strappato via dal diletto mondo,

dalla madre in lacrime

dagli amici suoi sgomenti.

La bocca soave

vuotò l'oscuro calice

di dolori ineffabili -

In spaventosa angoscia

si avvicinava l'ora della nascita

del mondo nuovo.

Duramente lottò contro i terrori

dell'antica morte -

Gravava su di lui pesantemente

il vecchio mondo.

Ancora una volta

guardò la madre con occhi amorosi -

venne allora la mano liberatrice

dell'eterno amore -

e dolcemente egli spirò.

Solo per pochi giorni

si stese sul mugghiante

mare e sopra la terra

tremante un cupo velo -

lacrime innumerevoli

piansero gli amati -

Fu svelato il mistero -

spiriti celesti

sollevarono la pietra vetusta

dalla tomba oscura.

Angeli sedevano presso il dormiente -

dai suoi sogni

teneramente creati -

Risorto in nuova

magnificenza divina

egli ascese la cima

del mondo appena nato -

seppellì con la propria mano

l'antico cadavere

nell'antro abbandonato,

e vi posò con mano onnipotente

la pietra che nessuna

forza più solleva.

Piangono ancora i tuoi diletti

lacrime di gioia,

lacrime di commozione

e di infinita gratitudine

sul tuo sepolcro -

sempre ancora ti vedono,

con gioioso spavento,

risuscitare -

e se stessi con te;

ti vedono piangere

con dolce fervore

sopra il beato seno della madre,

con gli amici gravemente incedere,

dire parole

come strappate al tronco della vita;

ti vedono impaziente di tornare

tra le braccia del Padre,

portando l'umanità giovane,

e il calice inesauribile

del futuro dorato.

Presto la madre ti raggiunse -

in trionfo celeste -

Per prima ti fu accanto

nella nuova patria.

Lunghi tempi trascorsero da allora,

e in sempre più alto splendore

si muoveva la nuova tua creazione -

e da angosce e tormenti

vennero a te mille cuori,

pieni di fede, ardore e devozione -

si librano con te

con la vergine celeste

nel regno dell'amore -

servono nel tempio

della celeste morte

e sono tuoi in eterno.

La pietra è sollevata -

l'umanità è risorta -

noi tutti siamo tuoi,

non sentiamo più vincoli.

Fugge ogni pena amara

davanti all'aurea coppa,

se nell'ultima Cena

terra e vita dileguano.

La morte invita a nozze,

chiare ardono le lampade -

sono pronte le vergini,

d'olio non c'è mancanza -

Già gli spazi lontani

del tuo corteo risuonino,

e noi le stelle chiamino

con lingua e voce umana.

Già verso te, Maria,

mille cuori si levano.

In questa vita d'ombre

anelano a te sola.

Sperano, con presaga

gioia, che li risani -

se tu li stringi, o santa,

al tuo petto fedele.

Tanti spiriti, ardendo

consunti in pene amare,

da questo mondo in fuga

si sono a te rivolti;

e in nostro aiuto accorrono

nell'ora del bisogno -

per restare in eterno

con te, ci uniamo a loro.

Non piange su nessuna

tomba chi crede ed ama.

Ora a nessuno il dolce

bene d'amore è tolto -

Lo esalta, per placare

il suo ardore, la notte -

figli fedeli in cielo

vegliano sul suo cuore.

Consolata va la vita

verso la vita eterna;

da ardore intimo esteso

si schiara il nostro senno.

Fluirà il mondo degli astri

in succo aureo di vita,

noi potremo gustarlo,

saremo chiare stelle.

L'amore è liberato,

non più separazione.

La vita ondeggia piena

come un mare infinito.

Solo una notte d'estasi -

Solo un poema eterno -

e il sole di noi tutti

è il volto di Dio. 

VI • ANELITO ALLA MORTE

Laggiù nel suo grembo, lontano

dai regni della luce, ci accolga

la terra! Furia di dolori e spinta

selvaggia è segno di lieta partenza.

Dentro l'angusta barca è veloce

l'approdo alla riva del cielo.

Sia lodata da noi l'eterna notte,

sia lodato il sonno eterno.

Ci ha riscaldati il torrido giorno,

ci ha fatti avvizzire il lungo affanno.

Non ci attraggono più terre straniere,

vogliamo tornare alla casa del Padre.

Qui nel mondo che fare se la nostra

fedeltà più non conta, né l'amore?

L'antico è già da tutti abbandonato

e noi del nuovo siamo incuranti.

Sta solitario, in preda allo sconforto,

chi ardente e devoto ama il passato.

Il tempo in cui gli spiriti ardevano

luminosi in altissime fiamme,

e gli uomini conoscevano ancora

la mano e il volto del Padre.

Qualche nobile spirito incorrotto

alla sua prima immagine era eguale.

Il tempo, in cui fiorivano ancora

smaglianti i ceppi antichissimi,

e per il regno del cielo i fanciulli

si votavano al martirio, alla morte.

E se anche parlavano vita e piacere,

più di un cuore si spezzò per amore.

Il tempo, in cui Dio stesso agli uomini

si è rivelato in giovane ardore,

e ha consacrato la sua dolce vita

per forza d'amore a morte immatura.

E angoscia e dolore non ha respinto

da sé, soltanto per esserci caro.

Con ansia struggente vediamo il passato

avvolto in notte profonda,

non sarà mai placata l'ardente

sete nel nostro tempo caduco.

E noi dovremo tornare in patria

per vedere questo sacro tempo.

Che cosa indugia il nostro ritorno?

Già riposano in pace i più cari.

Conclude il corso della nostra vita

la loro tomba: siamo ansiosi e tristi.

Più nulla abbiamo qui da cercare -

il cuore è sazio - il mondo è vuoto.

Per ogni vena ci trascorre un dolce

brivido, misterioso e infinito -

mi sembra di udire, da lontananze

profonde, un'eco del nostro lutto.

Per noi sospirano anche gli amati,

ci mandano il soffio del loro anelito.

Laggiù ci accolga la sposa

soave, e Gesù prediletto -

Consolato spunta il crepuscolo

per gli amanti, i cuori afflitti.

Un sogno spezza i nostri legami

e ci immerge nel grembo del Padre.

Eugenio Caruso - 1 giugno 2024

 

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Tratto da

1

www.impresaoggi.com