A cura di Diego Fusaro
I
Quale vivente,
dotato di sensi,
non ama tra tutte
le meravigliose parvenze
dello spazio che ampiamente lo circonda,
la più gioiosa, la luce -
coi suoi colori,
coi raggi e con le onde;
la sua soave onnipresenza
di giorno che risveglia?
Come la più profonda
anima della vita
la respira il mondo gigantesco
delle insonni costellazioni,
e nel suo flutto azzurro
nuota danzando -
la respira la pietra scintillante,
che posa in eterno,
la pianta sensitiva che risucchia,
l'animale multiforme,
selvaggio e ardente -
ma più di tutti
il maestoso viandante
con gli occhi pieni di profondi sensi,
col passo leggero, e con le labbra
ricche di suoni
dolcemente socchiuse.
Quale regina
della natura terrestre
chiama ogni forza
a mutamenti innumerevoli,
annoda e scioglie vincoli infiniti,
avvolge ogni essere terrestre
con la sua immagine celeste. -
La sua sola presenza manifesta
il meraviglioso splendore
dei reami del mondo.
Da lei mi distolgo e mi volgo
verso la sacra, ineffabile
misteriosa notte.
Lontano giace il mondo -
perso in un abisso profondo -
la sua dimora è squallida e deserta.
Malinconia profonda
fa vibrare le corde del mio petto.
Voglio precipitare
in gocce di rugiada
e mescolarmi con la cenere. -
Lontananze della memoria,
desideri di gioventù,
sogni dell'infanzia,
brevi gioie e vane speranze
di tutta la lunga vita
vengono in vesti grigie,
come nebbie della sera
quando il sole è tramontato.
In altri spazi
piantò la luce le festose tende.
Mai più ritornerà
ai suoi figli che l'attendono
con fede d'innocenti?
Che cosa a un tratto zampilla
grondante di presagi
sotto il cuore
e inghiottisce la molle brezza
della malinconia?
Da noi derivi a tua volta piacere,
o buia notte?
Quale cosa tu porti sotto il manto
che con forza invisibile
mi penetra nell'anima?
Delizioso balsamo
stilla dalla tua mano,
dal mazzo di papaveri.
Le gravi ali dell'anima tu innalzi.
Noi ci sentiamo oscuramente
e ineffabilmente turbati -
con gioioso spavento
vedo un volto severo
che su di me si china
dolce e devoto,
e svela tra i riccioli
senza fine intrecciati
la cara giovinezza della madre.
Come infantile e povera
mi sembra ora la luce -
come grato e benedetto
l'addio del giorno -
Solo perché la notte distoglie
e allontana da te i tuoi fedeli,
tu seminasti per gli spazi immensi
le sfere luminose, ad annunziare
l'onnipotenza tua -
il tuo ritorno -
nel tempo della tua lontananza.
Più divini
delle stelle scintillanti
ci sembrano gli occhi infiniti
che in noi la notte dischiude.
Vedono oltre
le più pallide gemme
di quelle schiere innumerevoli -
non bisognosi di luce
frugano nel profondo
di un'anima amante -
voluttà ineffabile
colma uno spazio più alto.
Lode alla regina del mondo,
alta annunziatrice
di mondi santi,
custode del beato amore,
che a me ti manda -
tenera amata -
amabile sole notturno, -
ed ora veglio -
sono Tuo e Mio -
la notte mi annunziasti come vita -
mi hai fatto uomo -
consuma con l'ardore
dell'anima il mio corpo,
perché lieve nell'aria
con te più strettamente io mi congiunga
e duri eterna
la notte nuziale.
II
Deve il mattino sempre ritornare?
La potenza terrestre avrà mai fine?
Consuma un vano affaccendarsi il volo
celeste della notte. E mai l'offerta
segreta dell'amore
arderà in eterno?
Fu misurato alla luce il suo tempo;
ma il regno della notte è senza tempo
e senza spazio. - Eterno dura il sonno.
Sonno santo -
non fare troppo raramente lieti
i consacrati alla notte
in questa terrestre
quotidiana fatica.
Soltanto i folli non ti riconoscono
e di te nulla sanno se non l'ombra
che tu spandi su noi pietosamente
nel crepuscolo
della notte vera.
Non ti sentono
nel flutto d'oro del grappolo -
nell'olio miracoloso
del mandorlo, e nel latice bruno
del papavero.
Non sanno
che tu adombri il tenero seno
della vergine e il suo grembo fai cielo -
non indovinano
che uscita da antiche leggende
tu avanzi e schiudi i cieli,
portando la chiave
dei soggiorni beati,
silenzioso araldo
di misteri infiniti.
III
Un giorno che versavo amare lacrime, che in dolore disciolta svaniva la mia speranza, e io stavo solitario presso l'arido tumulo che in un breve oscuro spazio chiudeva la forma della mia vita - solitario come nessuno era mai stato, sospinto da indicibile angoscia - privo di forze, in me soltanto un senso di miseria, come mi guardavo intorno cercando aiuto, non potevo avanzare né indietreggiare, e mi aggrappavo alla fuggente vita, spenta, con infinita nostalgia: - allora venne dalle azzurre lontananze - dalle altezze della mia antica beatitudine un brivido crepuscolare - si spezzò d'un tratto il vincolo della nascita - la catena della luce. Svanì la magnificenza terrestre e il mio lutto con lei - confluì in un mondo nuovo e impenetrabile la malinconia - e tu, estasi della notte, sopore del cielo scendesti su di me - la contrada lentamente si sollevò; e sulla contrada aleggiò il mio spirito nuovo, liberato. Il tumulo divenne una nube di polvere - attraverso la nube io vidi le fattezze trasfigurate dell'amata. Nei suoi occhi posava l'eternità - afferrai le sue mani, e le lacrime divennero un vincolo scintillante, inscindibile. Millenni dileguarono in lontananza, come uragani. Al suo collo piansi lacrime d'estasi per la nuova vita. - Fu questo il primo, unico sogno - e da allora sento un'eterna, immutabile fede nel cielo della notte e nella sua luce, l'amata.
IV
Ora so quando sarà l'ultimo mattino - quando la luce non mette più in fuga la notte e l'amore - quando eterno sarà il sonno e un solo sogno inesauribile. Celeste stanchezza sento in me. - Lungo e faticoso mi fu il pellegrinaggio alla tomba santa, grave la croce. Chi ha assaporato l'onda cristallina che, impercettibile ai sensi comuni, zampilla nel grembo oscuro del tumulo, ai cui piedi s'infrange il flutto terrestre, chi stette sopra le montagne all'estremo limite del mondo, e guardò di là, nella nuova terra, nella dimora della notte - costui davvero non torna al travaglio del mondo, alla terra dove la luce abita in eterna inquietudine. Lassù costruisce le sue capanne, capanne di pace, ardentemente desidera e ama, guarda al di là, finché la più gradita di tutte le ore non lo trascina giù, nella vena della fonte - dove galleggiano i residui terrestri, sospinti indietro dai turbini; ma ciò che sacro divenne al contatto d'amore, corre disciolto per tramiti oscuri alla sfera ultraterrena, dove si fonde, simile a vapore, con gli amori assopiti.
Ancora tu risvegli,
allegra luce,
lo stanco al lavoro - mi infondi
vita gioiosa -
però non mi attiri
lontano dal monumento
muscoso del ricordo.
Lieto voglio agitare
le mani operose,
guardarmi intorno, dovunque
tu avrai bisogno di me -
esaltare la piena
magnificenza del tuo splendore -
assiduamente perseguire
la bella concordanza
della tua opera ingegnosa -
lieto voglio osservare
il saggio cammino
del tuo potente orologio che splende -
scrutare l'equilibrio delle forze
e le norme
del giuoco prodigioso
degli spazi innumerevoli
e dei loro tempi.
Ma fedele il mio cuore
segreto rimane alla notte,
e a suo figlio, l'amore che crea.
Puoi tu mostrarmi un cuore
fedele in eterno?
Ha il tuo sole
occhi amici
che mi ravvisino?
e le tue stelle afferrano
la mia mano supplichevole?
Mi rendono in cambio
la tenera stretta
e la parola affettuosa?
Tu l'hai adornata
di colori e lievi contorni -
o fu lei che diede
significato più alto e più caro
alla tua grazia?
Quale voluttà,
quale godimento offre la tua vita,
che in fascino equivalgano
ai rapimenti della morte?
Non porta i colori della notte
tutto quanto ci esalta?
Lei ti porta
maternamente,
e tu le devi tutta la tua gloria.
Svaniresti in te stessa -
nell'infinito spazio
ti sperderesti,
se lei non ti tenesse,
né ti serrasse,
così che calda, accesa,
con la tua fiamma generassi il mondo.
Veramente ero prima che tu fossi -
la madre mi inviava ad abitare
coi miei fratelli il tuo mondo,
a consacrarlo con l'amore,
perché fosse un monumento
da contemplarsi in eterno -
e a trapiantarvi fiori
che non appassiranno.
Non sono ancora maturati
questi pensieri divini -
E sono ancora scarse le tracce
della nostra rivelazione -
Un giorno il tuo quadrante segnerà
la fine del tempo,
quando una nostra eguale,
o luce, tu sarai;
piena di nostalgia, di fervore
ti spegnerai e morirai.
Sento in me
la fine dell'opera tua laboriosa -
libertà celeste,
ritorno beato.
In selvaggi dolori
riconosco la tua lontananza
dalla nostra patria,
la tua riluttanza all'antico
splendido cielo.
La tua furia e il tuo sdegno sono vani.
Indistruttibile
sta la croce -
vittoriosa insegna
della nostra stirpe.
Mi libro al di là
ed ogni mia pena
sarà uno stimolo
di ebbrezza eterna.
Tra poco libero
sarò da catene,
giacerò inebriato
nel grembo d'amore.
In me vita ondeggia
potente, infinita:
io guardo dall'alto
laggiù, verso te.
Si spegne il tuo vivo
fulgore sul colle -
ed un'ombra porta
la fresca corona.
Aspirami in te,
o amato, con forza,
perché mi addormenti
e impari ad amare.
Sento in me della morte
l'onda che fa giovani,
in balsamo ed etere
si muta il mio sangue -
Io vivo di giorno
con fede e coraggio
e muoio le notti
in ardore sacro.
V
Sopra le stirpi degli uomini
largamente diffuse
nel passato regnava un destino
ferreo con muta violenza.
E un'oscura, grave
benda avvolgeva
la loro anima angosciata -
Immensa era la terra -
dimora degli dei,
e loro patria.
Da sempre esisteva
la sua arcana struttura.
Sui rossi monti del mattino,
nel grembo sacro del mare
dimorava il sole,
la viva luce che ogni cosa accende.
Un antico gigante
portava il mondo beato.
Incatenati sotto le montagne
giacevano i figli primigeni
della terra madre.
Impotenti
nella loro furia sterminatrice
contro la nuova
splendida stirpe di dei
e i loro simili,
gli uomini felici.
Il fondo oscuro,
verdeggiante del mare
era il grembo di una dea.
Nelle grotte cristalline
un popolo esuberante
viveva nell'abbondanza.
Fiumi, alberi,
fiori e animali
avevano sensi umani.
Più dolce era il sapore del vino
donato da una visibile
pienezza giovanile -
un dio nei grappoli -
un'amorosa, materna dea
cresceva nei gonfi, aurei covoni -
era la sacra ebbrezza
d'amore un dolce rito
della divinità più bella -
un'eterna, variopinta festa
dei figli del cielo
e degli abitatori della terra
passava stormendo la vita,
come una primavera,
attraverso i secoli -
Tutte le stirpi infantilmente
adoravano la multiforme,
tenera fiamma
come la cosa del mondo suprema.
Solo un pensiero, un'immagine
spaventosa di sogno era quella
che si accostò tremenda ai gai conviti
e in selvaggio terrore avvolse gli animi.
Non seppero gli dei dare un consiglio
che fosse di conforto ai cuori oppressi.
La via di questo demone era arcana,
non lo placava supplica né offerta;
fu la morte a interrompere quest'orgia
con l'angoscia, le lacrime e il dolore.
Per sempre ora da tutto ciò diviso
che a dolce voluttà qui muove il cuore,
lontano dagli amati, in cui si accende
vana sete quaggiù, lungo rimpianto,
parve assegnato al morto solo un sogno
fioco, a lui solo un'impotente guerra.
S'infranse l'onda del piacere contro
la roccia di un cordoglio interminato.
Con fuoco d'intelletto, animo audace,
l'uomo abbellì per sé l'orrenda larva,
un dolce efebo spegne il lume e dorme -
dolce è la morte come un soffio d'arpa.
Si scioglie la memoria in flutto d'ombre,
così fu il canto balsamo agli afflitti.
Ma un enigma restò la notte eterna,
di un lontano potere il grave segno.
Declinava verso la sua fine
il vecchio mondo.
Sfioriva il giardino di delizie
della giovane stirpe -
lassù, nel libero
spazio deserto
anelavano a salire
gli uomini divenuti
consapevoli, adulti.
Scomparvero gli dei col loro seguito -
Solitaria e inanimata
stava la natura.
La legavano con ferrea catena
l'arido numero
e il metro severo.
Come in polvere ed aria
si frantumò in parole oscure
l'immensurabile
fioritura della vita.
Fuggita era la fede evocatrice
e la celeste compagna
che tutto trasfigura,
tutto congiunge fraternamente,
la fantasia.
Soffiava un ostile
freddo vento del nord
sulla campagna spogliata,
e nell'etere si dissolse
l'irrigidita patria del miracolo.
Le lontananze
del cielo si colmarono
di mondi luminosi.
In più profondo santuario,
in più alto spazio dello spirito
volò coi suoi poteri
l'anima del mondo -
per dominare là fino al sorgere
dell'albeggiante
magnificenza del mondo.
La luce non fu più
dimora degli dei
e segno celeste -
essi si avvolsero
nel velo della notte.
E la notte fu il grembo potente
delle rivelazioni -
là tornarono gli dei -
caddero nel sonno,
per ridestarsi in nuove
più splendide forme
sopra il mondo mutato.
Tra il popolo da tutti disprezzato,
precocemente maturo
e sdegnosamente divenuto estraneo
alla beata innocenza
della giovinezza,
apparve con volto
non mai veduto
il mondo nuovo -
Nella povertà
di una poetica capanna - Un figlio
della prima vergine e madre -
di misterioso abbraccio
frutto infinito.
La rigogliosa, presaga
sapienza d'Oriente
fu la prima a conoscere l'inizio
del tempo nuovo -
E all'umile culla
del re, una stella
le mostrava il cammino.
Nel nome del futuro lontano
gli resero omaggio
con profumo e splendore,
le più alte meraviglie della terra.
Solitario il cuore
divino si schiuse ad un calice
di onnipotente amore -
volgendosi al viso
sublime del Padre
e riposando sul seno
beato di presagi
della madre amabilmente grave.
Con divinizzante fervore
guardava il profetico occhio
del fiorente fanciullo
ai giorni del futuro,
e agli amati, germogli
della sua stirpe divina,
non curando il terrestre
destino dei suoi giorni.
Presto intorno a lui
si adunarono gli spiriti
candidi come fanciulli,
miracolosamente rapiti
da profondo amore.
E una nuova, strana vita
germogliava come i fiori
nella sua vicinanza.
Parole inesauribili
e lietissimi annunzi
caddero come scintille
di uno spirito divino
dalle sue labbra amiche.
Da rive lontane,
nato sotto il chiaro
cielo dell'Ellade,
venne un cantore alla terra
di Palestina e donava
tutto il suo cuore al fanciullo
miracoloso:
Tu sei il fanciullo che da lungo tempo
medita assorto sulle nostre tombe;
nella tenebra un segno che consola -
di umanità più alta inizio lieto.
Quanto in grave tristezza ci sommerse
ora al di là ci trae con dolce ardore.
Nella morte si aprì la vita eterna,
tu sei la morte, e noi sola risani.
Il cantore andò
pieno di gioia nell'Indostan, -
col cuore ebbro di dolce amore;
e lo versava in canti accesi
sotto quel mite cielo,
così che mille cuori
s'inchinarono a lui,
e il lieto annunzio
cresceva in migliaia di rami.
Subito, dopo l'addio del cantore,
la preziosa vita
fu offerta in sacrificio
alla profonda decadenza umana -
Morì giovane d'anni,
strappato via dal diletto mondo,
dalla madre in lacrime
dagli amici suoi sgomenti.
La bocca soave
vuotò l'oscuro calice
di dolori ineffabili -
In spaventosa angoscia
si avvicinava l'ora della nascita
del mondo nuovo.
Duramente lottò contro i terrori
dell'antica morte -
Gravava su di lui pesantemente
il vecchio mondo.
Ancora una volta
guardò la madre con occhi amorosi -
venne allora la mano liberatrice
dell'eterno amore -
e dolcemente egli spirò.
Solo per pochi giorni
si stese sul mugghiante
mare e sopra la terra
tremante un cupo velo -
lacrime innumerevoli
piansero gli amati -
Fu svelato il mistero -
spiriti celesti
sollevarono la pietra vetusta
dalla tomba oscura.
Angeli sedevano presso il dormiente -
dai suoi sogni
teneramente creati -
Risorto in nuova
magnificenza divina
egli ascese la cima
del mondo appena nato -
seppellì con la propria mano
l'antico cadavere
nell'antro abbandonato,
e vi posò con mano onnipotente
la pietra che nessuna
forza più solleva.
Piangono ancora i tuoi diletti
lacrime di gioia,
lacrime di commozione
e di infinita gratitudine
sul tuo sepolcro -
sempre ancora ti vedono,
con gioioso spavento,
risuscitare -
e se stessi con te;
ti vedono piangere
con dolce fervore
sopra il beato seno della madre,
con gli amici gravemente incedere,
dire parole
come strappate al tronco della vita;
ti vedono impaziente di tornare
tra le braccia del Padre,
portando l'umanità giovane,
e il calice inesauribile
del futuro dorato.
Presto la madre ti raggiunse -
in trionfo celeste -
Per prima ti fu accanto
nella nuova patria.
Lunghi tempi trascorsero da allora,
e in sempre più alto splendore
si muoveva la nuova tua creazione -
e da angosce e tormenti
vennero a te mille cuori,
pieni di fede, ardore e devozione -
si librano con te
con la vergine celeste
nel regno dell'amore -
servono nel tempio
della celeste morte
e sono tuoi in eterno.
La pietra è sollevata -
l'umanità è risorta -
noi tutti siamo tuoi,
non sentiamo più vincoli.
Fugge ogni pena amara
davanti all'aurea coppa,
se nell'ultima Cena
terra e vita dileguano.
La morte invita a nozze,
chiare ardono le lampade -
sono pronte le vergini,
d'olio non c'è mancanza -
Già gli spazi lontani
del tuo corteo risuonino,
e noi le stelle chiamino
con lingua e voce umana.
Già verso te, Maria,
mille cuori si levano.
In questa vita d'ombre
anelano a te sola.
Sperano, con presaga
gioia, che li risani -
se tu li stringi, o santa,
al tuo petto fedele.
Tanti spiriti, ardendo
consunti in pene amare,
da questo mondo in fuga
si sono a te rivolti;
e in nostro aiuto accorrono
nell'ora del bisogno -
per restare in eterno
con te, ci uniamo a loro.
Non piange su nessuna
tomba chi crede ed ama.
Ora a nessuno il dolce
bene d'amore è tolto -
Lo esalta, per placare
il suo ardore, la notte -
figli fedeli in cielo
vegliano sul suo cuore.
Consolata va la vita
verso la vita eterna;
da ardore intimo esteso
si schiara il nostro senno.
Fluirà il mondo degli astri
in succo aureo di vita,
noi potremo gustarlo,
saremo chiare stelle.
L'amore è liberato,
non più separazione.
La vita ondeggia piena
come un mare infinito.
Solo una notte d'estasi -
Solo un poema eterno -
e il sole di noi tutti
è il volto di Dio.
VI • ANELITO ALLA MORTE
Laggiù nel suo grembo, lontano
dai regni della luce, ci accolga
la terra! Furia di dolori e spinta
selvaggia è segno di lieta partenza.
Dentro l'angusta barca è veloce
l'approdo alla riva del cielo.
Sia lodata da noi l'eterna notte,
sia lodato il sonno eterno.
Ci ha riscaldati il torrido giorno,
ci ha fatti avvizzire il lungo affanno.
Non ci attraggono più terre straniere,
vogliamo tornare alla casa del Padre.
Qui nel mondo che fare se la nostra
fedeltà più non conta, né l'amore?
L'antico è già da tutti abbandonato
e noi del nuovo siamo incuranti.
Sta solitario, in preda allo sconforto,
chi ardente e devoto ama il passato.
Il tempo in cui gli spiriti ardevano
luminosi in altissime fiamme,
e gli uomini conoscevano ancora
la mano e il volto del Padre.
Qualche nobile spirito incorrotto
alla sua prima immagine era eguale.
Il tempo, in cui fiorivano ancora
smaglianti i ceppi antichissimi,
e per il regno del cielo i fanciulli
si votavano al martirio, alla morte.
E se anche parlavano vita e piacere,
più di un cuore si spezzò per amore.
Il tempo, in cui Dio stesso agli uomini
si è rivelato in giovane ardore,
e ha consacrato la sua dolce vita
per forza d'amore a morte immatura.
E angoscia e dolore non ha respinto
da sé, soltanto per esserci caro.
Con ansia struggente vediamo il passato
avvolto in notte profonda,
non sarà mai placata l'ardente
sete nel nostro tempo caduco.
E noi dovremo tornare in patria
per vedere questo sacro tempo.
Che cosa indugia il nostro ritorno?
Già riposano in pace i più cari.
Conclude il corso della nostra vita
la loro tomba: siamo ansiosi e tristi.
Più nulla abbiamo qui da cercare -
il cuore è sazio - il mondo è vuoto.
Per ogni vena ci trascorre un dolce
brivido, misterioso e infinito -
mi sembra di udire, da lontananze
profonde, un'eco del nostro lutto.
Per noi sospirano anche gli amati,
ci mandano il soffio del loro anelito.
Laggiù ci accolga la sposa
soave, e Gesù prediletto -
Consolato spunta il crepuscolo
per gli amanti, i cuori afflitti.
Un sogno spezza i nostri legami
e ci immerge nel grembo del Padre.
Eugenio Caruso - 1 giugno 2024
Tratto da