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Cellule che si suicidono

Nell’arco di qualche ora, tutto quello che la cellula aveva costruito è in rovina: non resta altro che qualche bolla di membrana

In prima battuta, può essere difficile capire quando una cellula è sull’orlo dell’autodistruzione. Sembra che stia facendo le sue solite cose, trascrivere geni e fabbricare proteine. Gli organelli che funzionano come centrali elettriche in miniatura, i mitocondri, stanno diligentemente producendo energia. Ma poi un mitocondrio riceve un segnale ed ecco che le sue proteine, tipicamente placide, uniscono le forze per formare un congegno mortale.Demoliscono la cellula con una scrupolosità da togliere il fiato. Nell’arco di qualche ora, tutto quello che la cellula aveva costruito è in rovina: non resta altro che qualche bolla di membrana.
«Sono davvero incredibili la velocità e l’organizzazione con cui succede»,
commenta Aurora Nedelcu, biologa evoluzionista presso l’Università del New Brunswick, in Canada, che ha studiato il processo nelle alghe.
L’apoptosi, nome con cui il processo è conosciuto, sembra tanto improbabile quanto è violenta. Eppure ci sono cellule che vanno incontro a questa serie di tappe devastanti ma prevedibili per suicidarsi di proposito. Quando i biologi la osservarono per la prima volta furono scioccati dalla scoperta di una morte autoindotta in organismi viventi, in lotta per sopravvivere. E nonostante sia poi emerso che l’apoptosi è una forza creativa vitale per molte creature pluricellulari, per la cellula che la esegue significa la completa rovina. Come può essersi evoluto, e aver continuato a sussistere, un comportamento che ha esito nella morte improvvisa di una cellula?
I biologi molecolari hanno scoperto che gli strumenti per l’apoptosi sono bizzarramente diffusi. E mentre cercavano di identificarne le origini e i processi molecolari, hanno scoperto qualcosa di ancora più sorprendente: l’apoptosi può essere fatta risalire ad antiche forme di morte cellulare programmata messe in atto da organismi unicellulari – persino da batteri – che sembrano averle evolute come comportamento sociale.
Uno studio pubblicato nell’autunno 2023 suggerisce che l’ultimo antenato comune tra lieviti ed esseri umani – il primo eucariote, ossia una cellula con un nucleo e i mitocondri – aveva già gli strumenti necessari per uccidersi circa due miliardi di anni fa. E altre ricerche, tra cui un articolo fondamentale pubblicato a maggio 2023 su «Cell» da Aaron Whiteley, dell’Università del Colorado, indica che, quando questo organismo era in vita, una forma di morte cellulare programmata esisteva già da milioni di anni.

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Apoptosis. Al contrario della necrosi, che è una forma di morte cellulare risultante da un acuto stress o trauma cellulare, l'apoptosi è portata avanti in modo ordinato e regolato, richiede consumo di energia e generalmente porta a un vantaggio durante il ciclo vitale dell'organismo (è infatti chiamata da alcuni morte altruista o morte pulita). Durante il suo sviluppo, ad esempio, l'embrione umano presenta gli abbozzi di mani e piedi “palmati”: affinché le dita si differenzino, è necessario che le cellule che costituiscono le membrane interdigitali si autodistruggano.

Alcuni ricercatori pensano che le origini dell’apoptosi praticata nelle nostre cellule potrebbe essere fatta risalire al mitocondrio (vedi sotto), che riveste un ruolo curiosamente centrale in questo processo. Altri, invece, sospettano che le origini della morte cellulare possano risiedere in un antico patto stipulato tra i nostri antenati e i batteri. Qualunque sia stato il percorso, le nuove ricerche fanno venire a galla prove che fanno pensare che la morte cellulare programmata possa essere più antica di quanto avessimo mai immaginato, e più universale. Perché la vita è così perseguitata dalla morte?
Sul finire degli anni cinquanta del Novecento, il biologo cellulare Richard Lockshin cominciò a interessarsi a ciò che succede ai tessuti di cui un organismo non ha più bisogno. All’epoca lavorava alla Harvard University nel laboratorio dell’esperto di insetti Carroll Williams, che aveva ottenuto 20.000 bozzoli di baco da seta dall’Asia; quando arrivarono in laboratorio, la loro metamorfosi era già iniziata. In ogni bozzolo, le cellule del baco da seta stavano morendo, così che la creatura potesse diventare una farfalla. Lockshin procedette documentando la morte di tessuti specifici dentro i loro corpi, fenomeno che chiamò «morte cellulare programmata».
Circa nello stesso periodo, il patologo australiano John Kerr stava puntando un microscopio elettronico sulle cellule di embrioni di ratto, facendo una scoperta simile. Durante lo sviluppo dell’embrione, nuove cellule si aggiungevano alla struttura del corpo; allo stesso tempo, però, c’erano anche cellule che morivano. Non era un incidente, né il risultato di un infortunio: questa morte, che chiamò «apoptosi», era un «fenomeno attivo, intrinsecamente controllato», scrisse Kerr. Negli embrioni di ratto, la morte era parte integrante del piano di sviluppo.
I ricercatori che osservavano questo tipo di morte finirono per arrivare a una spiegazione plausibile. Durante lo sviluppo, un mucchio di cellule in rapida divisione diventa qualcosa con ali e antenne, oppure con dita dei piedi e delle mani; lungo il percorso, alcune di queste cellule devono togliersi di mezzo. La morte cellulare programmata aveva poi un senso scientifico anche negli adulti: le cellule non sane, come quelle con un DNA danneggiato, devono essere capaci di autoeliminarsi da un corpo pluricellulare, per non causare ulteriore distruzione alle cellule circostanti.

I ricercatori scoprirono inoltre che errori nel processo di apoptosi possono portare a malattie, cosa anch’essa coerente. Nel cancro, una cellula che sarebbe dovuta morire – una cellula il cui DNA è così pieno di errori che avrebbe dovuto autodistruggersi – non lo fa. Nelle malattie autoimmuni e in altre, cellule che non dovrebbero morire muoiono e, viceversa, cellule che dovrebbero morire non lo fanno.
Gli esperti pensavano, tuttavia, che questa capacità fosse un’esclusiva degli organismi pluricellulari, che hanno corpi fatti di molte cellule a vantaggio delle quali altre cellule possono morire. Che benefici potrebbe mai trarre un organismo unicellulare dalla propria stessa morte? Difficile che l’evoluzione favorisca un comportamento che rimuove il suo portatore dal pool genetico. «Non sembrava avere alcun senso che qualcosa si suicidasse attivamente », è il commento di Pierre Durand, biologo evoluzionista all’Università del Witwatersrand, in Sudafrica.
Man mano che gli scienziati definivano meglio i dettagli di questi meccanismi di morte, però, alcuni iniziarono a capire che anche gli organismi eucarioti unicellulari avevano strumenti e capacità simili. Nel 1997, un gruppo di ricercatori con a capo il biochimico Kai-Uwe Fröhlich riportò che le cellule di lievito si auto-disassemblavano metodicamente: il primo esempio noto di «organismi eucarioti unicellulari» che avessero i meccanismi di base della morte cellulare programmata. Presto le alghe unicellulari, i protisti e altri funghi si unirono ai ranghi delle creature note per praticare la morte autoindotta.
Mentre cercavano di capire come gli organismi avessero potuto evolvere questa capacità, i biologi si trovarono costretti ad affrontare un’altra questione: se la morte cellulare programmata non era comparsa con la pluricellularità, allora da dove veniva?

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Illustrazione di necrosi e apoptosi

Ecco che cosa succede quando una cellula eucariotica si condanna a morire.
In primo luogo, arriva un segnale che la fine è vicina. Se proviene dall’esterno della cellula (se, cioè, le cellule circostanti hanno decretato la morte della vicina), il segnale arriva sulla superficie cellulare e si lega a un recettore letale, che dà l’avvio all’apoptosi. Se il segnale proviene dall’interno (se cioè il motivo della morte è, per esempio, un danno al genoma), il processo ha inizio con l’attacco dei mitocondri contro la cellula in cui si trovano. In ciascun caso, presto entrano in azione enzimi specializzati. Alcuni fattori apoptotici, come le caspasi negli animali, possono attivarsi l’un l’altro in una cascata di rapidità sorprendente che diventa uno sciame e taglia a fette le strutture cellulari. Dopodiché, il destino della cellula è segnato. «Molte strade portano alla morte cellulare», spiega L. Aravind, biologo evoluzionista al National Center for Biotechnology Information dei National Institutes of Health statunitensi, e coautore dello studio su «Cell» del 2023. Tutte finiscono con enzimi apoptotici e frammenti di proteine e DNA là dove un tempo c’era la cellula.
L’apoptosi è controllata in modo così stretto, e praticata così ampiamente, che è difficile non chiedersi dove abbiano avuto origine i suoi meccanismi, intendendo con questo sia i pezzi che ne costituiscono il macchinario, che devono essere stati i primi a formarsi, sia il modo in cui lavorano insieme. Questa curiosità è ciò che ha portato Szymon Kaczanowski e Urszula Zielenkiewicz, dell’Accademia delle scienze polacca, a una recente serie di esperimenti. I due volevano capire se le proteine apoptotiche di un organismo eucariote continuano a funzionare una volta inserite nella macchina apoptotica di un suo lontano parente.
Se il processo continua a funzionare, pensavano i ricercatori, le funzioni degli enzimi (il modo in cui fanno a pezzettini il DNA o attivano altre parti del processo) devono essersi conservate, in buona parte, per lunghi periodi di tempo.

Il gruppo di ricerca ha fabbricato lieviti chimerici contenenti enzimi apoptotici da tutto l’universo eucariotico: piante di senape, funghi mucillaginosi, esseri umani e il parassita che provoca la leishmaniosi. I ricercatori hanno poi indotto l’apoptosi. E hanno osservato che molte di queste chimere erano in grado di suicidarsi, a prescindere dall’origine delle proteine. In aggiunta, commenta Kaczanowski, «i diversi segni distintivi dell’apoptosi spesso mantenuti», compresa la rottura del DNA e la condensazione della cromatina nel nucleo.
I ricercatori si sono anche chiesti se le proteine batteriche potessero sostituirsi a quelle eucariotiche. Quando hanno inserito geni per proteine analoghe da una manciata di batteri, hanno osservato la morte programmata in alcune chimere, sebbene non in tutte. Questo, secondo i ricercatori, suggerisce che gli strumenti per la morte autoindotta precedano addirittura gli eucarioti. Non tutti sono d’accordo con questa interpretazione: alcune di queste proteine, in particolare quelle che tagliano il DNA e le proteine, secondo Aravind sono pericolose per la cellula, che potrebbe morire soltanto a causa dei danni inferti anziché per un processo apoptotico.
Nonostante ciò, Kaczanowski e Zielenkiewicz credono di aver osservato una vera e propria morte cellulare programmata. E una delle loro congetture sul perché i geni batterici possono funzionare negli eucarioti si collega a un’idea che circola tra i biologi da decenni.
Questa teoria chiama in causa il mitocondrio, un organello che un tempo era un batterio autonomo. Si tratta del produttore di energia della cellula, che entra in gioco più e più volte nei percorsi dell’apoptosi. Guido Kroemer, che studia il ruolo dei mitocondri nell’apoptosi, li ha soprannominati «gli organelli suicidi». «Molti lo chiamano il boia della morte cellulare», dice Nedelcu.

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Schema di un mitocondrio 1 Membrana interna 2 Membrana esterna 3 Cresta 4 Matrice


Visto al microscopio, il mitocondrio è proprio grazioso: una sacca ovale ordinata che contiene un labirinto di membrane. Scompone gli zuccheri per generare l’ATP, una molecola la cui energia alimenta quasi tutti i processi cellulari. Non sappiamo di preciso come è finito dentro di noi. Il batterio originale potrebbe essere stato preda del nostro antenato unicellulare ed essere sfuggito alla sua digestione in modi ancora misteriosi. O potrebbe essere stato una cellula adiacente che ha condiviso le risorse con il nostro antenato fino al punto in cui i loro destini si sono così intrecciati che i loro corpi sono diventati uno solo.
Quali che siano state le sue origini, il mitocondrio ha un suo proprio, piccolo genoma, residuo dell’epoca in cui era indipendente. Molti dei suoi geni, tuttavia, si sono spostati nel genoma dell’organismo ospite. Nel 2002, Aravind ed Eugene Koonin hanno scritto un articolo fondamentale in cui prendevano in considerazione l’idea che gli eucarioti potrebbero aver acquisito alcuni dei loro geni per l’apoptosi dai mitocondri. Questo minuscolo residuo di batterio potrebbe essere la fonte di alcuni degli strumenti che le cellule eucariotiche usano per suicidarsi.
I geni per l’apoptosi ricordavano a Kaczanowski e a Zielenkiewicz una corsa agli armamenti tra un predatore e la preda. Nel loro nuovo articolo hanno ipotizzato che potrebbero essere residui degli strumenti che furono evoluti nella notte dei tempi da un organismo preda – presumibilmente il batterio mitocondriale originario – per difendersi.
Forse, una volta catturate all’interno del nostro antico antenato, le proteine apoptotiche diventarono un modo, per il mitocondrio, di spingere l’ospite a cambiare comportamento: questa è un’ipotesi raccolta da Durand e da Grant Ramsey, un filosofo della scienza dell’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, in un articolo di rassegna pubblicato su «History and Philosophy of the Life Sciences» a giugno 2023. O forse sono il residuo di un modo con cui il mitocondrio si assicurava che l’ospite non potesse sbarazzarsi di lui: un veleno di cui solo il mitocondrio possedeva l’antidoto. In qualche punto del percorso, il processo è stato inglobato o trasformato dall’ospite e una sua variante si è evoluta nell’apoptosi vera e propria.
La ricerca di risposte sulle origini dell’apoptosi eucariotica sembra portare gli scienziati sempre più in profondità nel mondo dei batteri. Alcuni, infatti, si chiedono se queste risposte non possano risiedere nel motivo per cui gli organismi unicellulari si tolgono la vita. Se una qualche forma di morte cellulare programmata è più antica della vita pluricellulare, più antica persino degli eucarioti, forse comprendere perché ha luogo in organismi che non hanno corpi che ne traggano un vantaggio né mitocondri per accelerare il processo può spiegare come tutto ha avuto inizio.

Un motivo per cui un organismo unicellulare potrebbe scegliere di morire è aiutare i suoi vicini.
Negli anni Duemila, quando Durand era un ricercatore post-dottorato presso l’Università dell’Arizona, durante un esperimento con un’alga eucariotica unicellulare scoprì qualcosa di molto interessante. Quando nutriva le alghe con i resti di loro simili che erano morte per morte cellulare programmata, le cellule vive prosperavano; quando, invece, le nutriva con i resti delle loro consimili morte in modo violento, la crescita delle alghe rallentava.
A quanto pareva, la morte cellulare programmata generava, a partire da frammenti morti, risorse utilizzabili. Il ricercatore scoprì però che questo processo portava vantaggi soltanto a parenti dell’alga morta. «Per organismi di specie diverse, in realtà era dannoso», ha detto. Nel 2022 un altro gruppo di ricerca ha confermato il risultato in un’alga diversa. Questa scoperta forse spiega come possa evolversi la morte cellulare in creature unicellulari. Se un organismo è circondato dai suoi simili, la sua morte può portare loro nutrienti e, di conseguenza, promuovere la sopravvivenza di organismi con cui è imparentato. Ciò crea un’opportunità perché la selezione naturale selezioni gli strumenti coinvolti nella morte autoindotta. Anche i batteri sono unicellulari e molti vivono tra i propri simili. Che siano anche loro capaci di morire per il bene comune? Ci sono indizi che, nelle condizioni giuste, batteri infettati da un virus potrebbero suicidarsi per bloccare la diffusione della malattia. Queste rivelazioni hanno riplasmato il modo in cui i ricercatori considerano la morte cellulare programmata. E di recente, Aravind ha scoperto un altro tassello del puzzle.
Questo tassello coinvolge regioni proteiche chiamate domini NACHT, presenti in alcune proteine apoptotiche animali. I domini NACHT esistono anche nei batteri; in natura, osserva Aravind, i microbi che hanno il maggior numero di domini NACHT condividono quella che ha tutti gli aspetti di una vita pluricellulare. Vivono in colonie, cosa che li rende particolarmente vulnerabili al contagio e suscettibili di beneficiare di un mutuo sacrificio. Un collega di Aravind, Aaron Whiteley, nel suo laboratorio all’Università del Colorado ha dotato Escherichia coli di domini NACHT, ha fatto crescere questi batteri in provetta e li ha infettati con virus. I ricercatori hanno osservato con stupore che le proteine con i domini NACHT innescavano una forma di morte cellulare programmata e che le cellule infettate si suicidavano così rapidamente che i virus non riuscivano a replicarsi. Il loro sacrificio, ha detto Aravind, proteggeva dall’infezione le cellule circostanti.
Secondo Aravind, la conservazione di questi domini racconta una storia delle origini dell’apoptosi. «Avevamo già un apparato precostituito per la morte cellulare che era lì, in certi batteri», osserva. E poi, a un certo punto, alcune linee evolutive di cellule eucariotiche si sono impossessate di questa cassetta per gli attrezzi, che ha finito per dotare le cellule degli organismi pluricellulari di un meccanismo per morire a vantaggio del bene comune. Il ricercatore non crede più che le prove puntino al mitocondrio come unica fonte batterica delle proteine apoptotiche. Il mitocondrio è il principale residuo batterico ancora in vita nella maggior pare delle cellule eucariotiche, e 25 anni fa, a suo parere, era il candidato più logico per questi geni misteriosi. Da allora, però, è emersa un’altra consapevolezza: probabilmente il mitocondrio non era solo.

A poco a poco i ricercatori hanno compreso che i genomi eucariotici contengono molte tracce di geni batterici, residui di una sfilata silenziosa di altre creature che hanno lasciato i propri segni su di noi. Potrebbero essere stati dei simbionti, come il mitocondrio, che sono comparsi e scomparsi da varie linee evolutive eucariotiche lasciandosi dietro dei geni. «Ormai dovremmo renderci conto che probabilmente questa situazione è continuata durante tutta l’evoluzione degli eucarioti», commenta Aravind. I geni coinvolti nell’apoptosi potrebbero essere arrivati da precedenti partner simbiotici che, da allora, sono scomparsi. O potrebbero essere il risultato di un trasferimento di geni orizzontale – un processo un tempo ritenuto raro, ma che oggi si considera relativamente diffuso – in cui i geni possono saltare da un organismo all’altro attraverso processi che stiamo ancora cercando di comprendere. Pacchetti di geni utili possono spostarsi tra i vari regni della vita e persistere in nuovi organismi, se danno vantaggi abbastanza grandi.
Uno di questi vantaggi, per quanto strano possa sembrare, potrebbe proprio essere l’autodistruzione programmata. Tutto ciò è importante perché mette l’accento sull’intricata realtà che si nasconde dietro l’espressione superficiale «sopravvivenza del più adatto». L’evoluzione opera in modi sorprendenti, e i geni hanno molti scopi. Eppure, sta diventando sempre più chiaro che qualche tipo di collettività primitiva – e, con essa, auto- sacrifici organizzati di creature viventi – è vissuta, probabilmente per miliardi di anni, prima della nascita della vita pluricellulare. Forse, mentre gli scienziati continuano a ricostruire le origini della morte cellulare, capiremo meglio che cosa sia la morte e, con essa, la vita.
L’originale di questo articolo è stato pubblicato il 6 marzo 2024 da QuantaMagazine.org, una pubblicazione editoriale indipendente on line promossa dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di «Le Scienze». Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.

MITOCONDRIO

Il mitocondrio è un organulo cellulare multiplo dotato di DNA proprio presente nella maggior parte degli organismi eucarioti, sia animali sia vegetali. Tre specie di Loricifera e l'Henneguya zschokkei, organismi eucarioti pluricellulari anaerobi, non posseggono mitocondri. Alcune ricerche hanno dimostrato che alcuni organismi eucarioti, come ad esempio i parassiti Giardia lamblia, Entamoeba histolytica e Trachipleistophora hominis, che apparentemente non possiedono mitocondri, hanno subito una loro involuzione, con la trasformazione in organelli vestigiali mancanti della loro funzione biochimica originaria. I mitocondri sono sede della respirazione cellulare aerobica, da cui si genera adenosina trifosfato (ATP) che viene utilizzata in tutta la cellula come fonte di energia chimica. Eseguono inoltre la sintesi degli acidi grassi (mtFASII), essenziale per la biogenesi mitocondriale e la respirazione cellulare. Furono scoperti da Albert von Kölliker nel 1857 nei muscoli volontari degli insetti. Il termine mitocondrio fu coniato da Carl Benda nel 1898. Sono stati definiti "la centrale elettrica della cellula" dal biologo Philip Siekevitz nel 1957[6

Eugenio Caruso - 12 gennaio 2025



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