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Evoluzione delle varie specie di HOMO

Da Lucy al genere Homo, fossili e DNA stanno ricomponendo il cespuglio dell’evoluzione umana

Il punto sulla nostra storia evolutiva


Un secolo fa, al tempo in cui infuriava il dibattito scientifico sull’«anello mancante» dell’evoluzione umana, una studentessa di nome Josephine Salmons attirò l’attenzione di Raymond Dart, professore all’Università del Witwatersrand in Sudafrica, su un cranio fossile che aveva visto a casa di un amico.
Interessato a fondare una collezione di fossili nell’ateneo, Dart si recò sul sito del ritrovamento, dove nel giro di poche settimane scoprì un altro cranio, che illustrò su «Nature» all’inizio del 1925. Il bambino di Taung, che Dart denominò Australopithecus africanus, aveva tutta l’aria di essere un antenato umano.
Nelle parole di Dart, un «anello di congiunzione estinto tra l’uomo e il suo antenato scimmiesco». Se il bambino di Taung, datato a 2,8 milioni di anni fa, avrebbe sconvolto gli studi sulle origini dell’uomo, supportando l’ipotesi di Darwin che l’Africa fosse la culla dell’umanità, 35 anni più tardi nella Gola di Olduvai, in Tanzania, Louis e Mary Leakey scoprirono un fossile che sembrava individuare la più antica specie del nostro genere.
Battezzata Homo habilis e risalente a 1,8 milioni di anni fa, oggi la sua classificazione è ancora controversa, per via di una serie di caratteristiche ancora molto primitive.
Anni dopo, Maurice Taieb riunì un nutrito gruppo di paleoantropologi di fama mondiale, tra cui Donald Johanson e Yves Coppens, per aprire uno scavo nel promettente sito di Hadar, nella Depressione dell’Afar, in Etiopia.
Alla seconda stagione di scavi, il 24 novembre 1974 Johanson si imbatté nello scheletro incredibilmente ben conservato, risalente a 3,2 milioni di anni fa, di un esemplare di una nuova specie, che avrebbero poi chiamato Australopithecus afarensis. Il reperto fu ufficialmente catalogato con la sigla A.L. 288-1 ma, si sa, i paleoantropologi amano dare nomignoli alle loro creature, e nel campo risuonavano di continuo le note di una celebre canzone dei Beatles. E Lucy fu.

lucy

Ricostruzione dello scheletro di Lucy, esposta presso il Museo nazionale di storia naturale di Francia, a Parigi.

Sarà stato il nomignolo, o l’abbondanza di ossa che permettevano di ricostruirne quasi completamente lo scheletro, sarà stato l’entusiasmo degli addetti ai lavori per quello che sembrava essere il nostro antenato più antico, fatto sta che Lucy divenne subito una star mediatica.
A maggior ragione perché l’analisi delle sue caratteristiche anatomiche portava a dedurre che camminasse con postura eretta.
Una conclusione che avrebbe trovato conferma nel 1978, quando ancora i coniugi Leakey trovarono a Laetoli, in Tanzania, le famose impronte fossili risalenti a 3,7 milioni di anni fa e attribuite alla stessa specie, A. afarensis.
Tutti questi compleanni sono l’occasione per fare il punto su quello che abbiamo scoperto di nuovo sulla nostra storia, su come si stia ricomponendo il cespuglio genealogico dell’evoluzione umana grazie a nuovi fossili e nuovi strumenti di analisi, compreso lo studio dei DNA antichi, fin dove può esserci di aiuto.

Se potessimo tornare indietro nel tempo a circa 6 milioni di anni fa, quando comparvero in Africa le prime forme di ominini, il gruppo di specie di cui facciamo parte noi e i nostri antenati, sarebbe impossibile immaginare il percorso evolutivo che ha portato, milioni di anni dopo, alla comparsa della nostra specie, Homo sapiens. L’evoluzione ha agito attraverso complesse dinamiche di adattamenti locali, variazioni casuali, estinzioni e ripopolamenti, dettati da condizioni contingenti difficilmente prevedibili. A posteriori, tuttavia, è possibile individuare in questo percorso alcuni momenti chiave che segnano fasi di transizione e di cambiamento concentrate nel tempo geologico.
Una di queste serie di eventi chiave è quella che si è verificata nelle fasi finali del Pliocene e che ha portato alla comparsa delle più antiche specie attribuite al genere Homo. Nell’arco temporale tra 4 e 3 milioni di anni fa i resti fossili di ominini sono relativamente numerosi, con varie specie fossili descritte e assegnate in larga misura al genere Australopithecus. A partire da circa 3 milioni di anni fa, sotto la spinta di un progressivo inaridimento del clima e di un aumento della variabilità nella successione di periodi umidi e periodi aridi, queste specie vanno incontro a pressioni selettive che hanno come risultato l’origine di due gruppi, profondamente diversi dal punto di vista morfologico dalle forme precedenti e diversi anche tra loro; un evento che viene descritto con il termine «bivio adattativo».
Le specie di questi due gruppi sono di solito attribuite a due generi diversi, il genere Paranthropus e il genere Homo. Le specie di Paranthropus sono caratterizzate da una specializzazione dell’apparato masticatorio, con aumento delle dimensioni dei denti premolari e molari, probabilmente legata alla necessità di elaborare cibi molto fibrosi. Queste specie sono documentate in Africa orientale e in Sudafrica fino a circa un milione di anni fa, quando si sono estinte. L’altro gruppo è quello del genere Homo. Le prime scoperte di quella finora considerata la più antica specie del genere Homo (H. habilis) risalgono agli anni sessanta quando, in livelli pleistocenici nella Gola di Olduvai, in Tanzania i paleoantropologi Louis e Mary Leakey scoprirono un fossile oggi indicato con la sigla OH 7 (cioè Olduvai Hominid 7), designato poi come l’olotipo (termine che indica il reperto sul quale viene descritta una specie) della specie Homo habilis, rappresentato da vari elementi appartenenti a un individuo subadulto, fra cui due ossa del cranio, una mandibola e 13 ossa delle mani.
Le ossa parietali del cranio, pur se incomplete, consentirono di stimare la capacità cranica a circa 650 centimetri cubi. Questa stima, superiore a quella dei reperti di Australopithecus noti fino a quel momento, insieme alle dimensioni relativamente ridotte dei denti mandibolari, convinse i ricercatori che si trovavano davanti a una specie di ominino più avanzata rispetto ad Australopithecus. Per questo nel 1964 i paleoantropologi Louis Leakey, Phillip Tobias e John Napier decisero di definire una nuova specie e attribuirla al genere Homo, chiamandola Homo habilis, per le dimensioni cerebrali ricostruite ma anche per la presenza, negli stessi livelli dei fossili, di semplici strumenti in pietra, da allora indicati come utensili di tipo olduvaiano. Analisi radiometriche successive portarono poi a definire l’età dei fossili a circa 1,8 milioni di anni fa. Negli anni seguenti altri fossili simili ritrovati a Olduvai confermarono la presenza di questa specie. Si venne così a creare un paradigma che legava la presenza di strumenti in pietra (che faceva supporre una notevole capacità manipolativa) a elevate dimensioni cerebrali, entrambi elementi che sembravano ben definire le più antiche specie del genere Homo.
Come spesso succede in paleoantropologia, la descrizione della specie H. habilis venne accolta con scetticismo. Prima di H. habilis la più antica specie del genere Homo che era stata proposta era Homo erectus, descritta alla fine dell’Ottocento sulla base di resti ritrovati in Indonesia, e si riteneva che non potesse essere esistita alcuna forma di Homo più arcaica di H. erectus. Molti autori sostenevano che i nuovi fossili da Olduvai non fossero così dissimili da quelli della specie Australopithecus africanus trovati in Sudafrica nei decenni precedenti, per cui le forme di Olduvai dovevano rappresentare una specie di Australopithecus tipica dell’Africa orientale. Poi, all’inizio degli anni settanta, nuove scoperte in un sito nel nord del Kenya denominato Koobi Fora, sulla sponda est del Lago Turkana, sembrarono dar ragione agli autori che avevano designato la specie H. habilis.

turkana

Lo scheletro di H. ergaster KNM-WT 15000, il «ragazzo del Turkana ». Il cranio è completo a parte i tori sopraorbitari; lo scheletro assiale presenta buona parte delle ossa, almeno da un lato. Mancano la maggior parte delle vertebre cervicali e alcune vertebre toraciche, parti del sacro e dell’osso iliaco e alcune coste. Gli arti superiori sono privi della scapola e dell’omero sinistri, di entrambi i radii e della maggior parte delle ossa della mano. Gli arti inferiori sono privi dell’estremità prossimale del femore destro, della maggior parte delle epifisi delle ossa della gamba e della maggior parte delle ossa del piede. Il volume endocranico è di 909 centimetri cubi.

Le ricerche a Koobi Fora erano guidate da Richard Leakey (figlio di Louis e Mary) e dalla moglie Meave. Nell’arco di pochi anni venne alla luce un’enorme quantità di fossili di ominini, poi attribuiti in parte a Paranthropus boisei e in parte a H. habilis, sulla base di affinità morfologiche con i fossili di Olduvai. Fra i reperti più significativi vi sono due crani, relativamente ben conservati, ai quali ci si riferisce con il loro numero di catalogo del Kenya National Museum, e cioè KNM-ER 1470 (datato a circa 2,1 milioni di anni fa) e KNM-ER 1813 (1,9) . Le ridotte dimensioni dentarie e l’elevata capacità cranica furono fra gli elementi che indussero Richard Leakey ad attribuire questi fossili alla specie H. habilis. Le notevoli differenze fra i due nelle dimensioni complessive vennero interpretate come dovute a dimorfismo sessuale: KNM-ER 1470 fu considerato un individuo maschile e KNM-ER 1813 uno femminile. I due fossili sembravano quindi confermare la validità della specie H. habilis, che venne progressivamente riconosciuta dalla maggior parte degli autori.
In questa formidabile collezione di resti fossili vi sono altri due reperti molto significativi. Il primo è un altro cranio ben conservato, noto come KNM-ER 3733. Il secondo reperto è uno spettacolare scheletro quasi completo di un individuo non ancora adulto indicato come KNMWT 15000, noto anche come il ragazzo del Turkana, proveniente dalla località di Nariokotome, sulla sponda occidentale del lago Turkana e datato a circa 1,5 milioni di anni fa.
Lo studio dei resti craniali, mandibolari e dentari di Koobi Fora fu condotto da Bernard Wood, ora alla George Washington University, che, con un accurato lavoro di descrizione e analisi metrica comparativa, concluse che nel campione di Koobi Fora potevano essere individuate tre specie diverse appartenenti al genere Homo. Una era riconducibile a H. habilis e rappresentata dal cranio KNMER 1813, mentre le altre due erano rappresentate rispettivamente dai crani KNM-ER 1470 e KNM-ER 3733, che mostravano una serie di caratteri diversi rispetto a quelli di H. habilis. Alla luce di ciò, Wood propose nel 1992 il nome di H. rudolfensis per la specie rappresentata dal cranio KNM-ER 1470 e quello di H. ergaster per i reperti come KNMER 3733 e il ragazzo del Turkana. Forme analoghe a H. ergaster (indicate come Homo aff. erectus, modalità con cui si indicano fossili che presentano affinità con H. erectus) si ritrovano anche nei siti sudafricani di Swartkrans, Drimolen e Kromdraai, con un’antichità simile o maggiore di quella dei siti dell’Africa orientale, anche se la documentazione fossile è più frammentaria.
Se la specie H. ergaster fu riconosciuta valida da molti autori (mentre altri la considerano la variante africana della specie H. erectus, distribuita anche in Asia), la definizione di H. rudolfensis come specie distinta da H. habilis lasciò perplessi i ricercatori, che interpretavano le differenze tra i due gruppi di fossili come dovute alla variabilità intraspecifica, quindi anche in termini di dimorfismo sessuale. Poi, nel 2012, la descrizione e l’interpretazione di nuovi reperti craniali rinvenuti nella località di Ileret anch’essa sulle sponde del lago Turkana, ha indicato le affinità di questi col cranio KNM-ER 1470 e le differenze rispetto al cranio KNM-ER 1813, portando quindi alla loro attribuzione a H. rudolfensis e confermando l’ipotesi di Wood del 1992.
Oggi si viene quindi a delineare l’esistenza di una radiazione adattativa alle origini del genere Homo, con tre specie diverse e in parte coeve: H. habilis, i cui fossili coprono un intervallo temporale tra 2,1 e 1,65 milioni di anni fa; H. rudolfensis (2,1-1,78) e H. ergaster (2,0-1,0). L’evidenza fossile indica anche che alcune popolazioni di queste specie sono coesistite negli stessi areali, come l’area sulle sponde nel nord-est del Lago Turkana. Si può quindi pensare che avessero strategie adattative differenti tra loro per poter occupare gli stessi ambienti. La distribuzione temporale di tutte e tre queste specie a partire da 2 milioni di anni fa suggerisce anche che il modello tradizionale di una semplice derivazione di H. ergaster/erectus da H. habilis è probabilmente troppo semplicistico. Inoltre, la presenza di tre specie diverse fra loro morfologicamente già a 2 milioni di anni fa prefigura un’origine ben più antica del genere Homo.
A questo riguardo i resti fossili attribuiti a Homo nell’arco temporale fra i 3 e i 2 milioni di anni fa si contano sulle dita di una mano. A parte i ritrovamenti di singoli denti isolati in alcune località dell’Africa orientale, le evidenze più complete sono relative a tre soli fossili. Si tratta di reperti isolati, distribuiti su un ampio arco temporale e su una vasta area geografica: una mandibola completa con denti, scoperta nel sito di Uraha, in Malawi, datata fra i 2,3 e i 2,5 milioni di anni fa e attribuita a Homo rudolfensis; una mascella con alcuni denti scoperta nel sito di Hadar in Etiopia, datata a 2,33 milioni di anni fa e attribuita a Homo aff. habilis; e una emi-mandibola sinistra con alcuni denti premolari e molari, rinvenuta nella località di Ledi Geraru, in Etiopia, e datata a circa 2,8 milioni di anni fa, senza un’attribuzione specifica. La combinazione di tratti morfologici primitivi già presenti in Australopithecus con tratti più derivati tipici delle specie di Homo più recenti permette di considerare questi fossili come le più antiche evidenze del genere Homo. La mandibola di Ledi Geraru è di particolare interesse in quanto rappresenta a oggi il più antico fossile di una specie di Homo e testimonia una lunga storia evolutiva, che precede di molto le evidenze che troviamo a partire da circa 2 milioni di anni fa; un’idea che deriva anche da un recente lavoro di rianalisi dell’olotipo di H. habilis OH 7. Resta da stabilire quali siano le precise relazioni tra questi tre fossili e le specie successive. Pur nella notevole diversità morfologica, le tre specie sono tutte caratterizzate da una capacità cranica media più grande di quella di Australopithecus, una maggiore altezza della volta cranica, un prognatismo facciale ridotto, denti premolari e molari più stretti e lunghi.

ledi geraru

Ledi-Geraru è un sito archeologico che si trova lungo i fiumi Ledi e Geraru, due affluenti di sinistra dell'Auasc, nella regione degli Afar in Etiopia. Le prime ricerche furono condotte tra il 1972 e il 1974. Il sito è noto soprattutto perché qui, nel 2013, fu trovata una mandibola di ominide, un fossile repertato come LD 350-1, datata 2,8 milioni di anni, che potrebbe rappresentare uno dei primi esemplari del genere Homo. Qui sono stati ritrovati anche diversti strumenti in pietra, datati circa 2,6 milioni di anni, come anche ossa di animali, appartenute ad animali come gazzelle e giraffe, tipiche delle savane.

L’interpretazione della diversità morfologica nei fossili attribuiti a H. habilis, H. rudolfensis e H. ergaster è stata oggetto di molti lavori per cercare di stabilire le relazioni tra le varie specie. Da metà anni novanta vari specialisti condussero analisi filogenetiche usando le nuove specie descritte come gruppi distinti (tecnicamente detti unità tassonomiche), e confrontandole sia con specie di Australopithecus sia con varie specie di Homo. Pubblicazioni diverse portavano a risultati differenti circa le affinità di H. habilis, H. rudolfensis e H. ergaster con Australopithecus, H. erectus e H. sapiens. Il gruppo delle prime tre specie non appariva come un gruppo omogeneo, al di là di vaghe affinità morfologiche quali una capacità cranica assoluta superiore a quella delle specie di Australopithecus. La questione quindi si pose in questi termini: a parte le differenze fra loro a livello specifico, quali sono gli elementi che distinguono queste specie nel loro complesso da quelle del genere Australopithecus? O anche, quali sono i caratteri che permettono la loro inclusione nel genere Homo? E, più in generale, quali sono i caratteri che definiscono il genere Homo? Il tema era di importanza notevole, dato che riguardava anche la definizione della nostra specie – genere Homo, specie H. sapiens – e fu affrontato nel 1999 da Wood e Mark Collard, allora allo University College di Londra, in un significativo lavoro di sintesi, aggiornato poi nel 2015 sulla base di nuove ricerche e nuovi fossili scoperti dopo il 1999.
In primo luogo, Wood e Collard partirono dalla definizione della categoria tassonomica di «genere» in biologia. Rivedendo il concetto di genere definito da Ernst Mayr nel 1950, proposero che un genere deve essere un gruppo di specie (o anche una sola specie) monofiletico, cioè derivante da un unico antenato, che condivide una singola zona adattativa. Questo termine indica l’insieme delle strategie adattative che le varie specie mettono in atto per sopravvivere in un dato ambiente, quali procurarsi il cibo o riprodursi. Circa alcune di queste strategie è possibile ricavare informazioni dalla documentazione paleontologica; per esempio le dimensioni corporee, le modalità di locomozione, le caratteristiche dell’apparato masticatorio, eccetera.
Per poter stabilire se un gruppo di specie è assegnato correttamente a un determinato genere, Wood e Collard proposero due criteri:
1) le specie devono appartenere allo stesso gruppo monofiletico della «specie tipo» di quel genere, dove nel caso del genere Homo la specie tipo è H. sapiens, dato che è quella che è stata descritta per prima (nel nostro caso da Linneo nel 1758);
2) le strategie adattative delle specie di un genere devono essere più simili a quelle della specie tipo del genere nel quale sono incluse rispetto a quelle della specie tipo di un altro genere, per esempio A. africanus, specie tipo del genere Australopithecus.
Un esempio permette di chiarire il concetto. Uno dei caratteri distintivi della nostra specie è l’andatura bipede obbligata, cioè esclusiva (non siamo in grado di muoverci agevolmente usando altre modalità di locomozione, quali l’arrampicamento o l’andatura quadrupede). Quindi l’andatura bipede obbligata è uno degli elementi che deve caratterizzare tutte le specie che appartengono al genere Homo.
Il primo passo del lavoro di Wood e Collard fu stabilire se le specie appartenenti al genere Homo formassero un gruppo monofiletico o meno. Le specie considerate furono H. sapiens, H. neanderthalensis, H. heidelbergensis, H. erectus, H. ergaster, H. habilis, H. rudolfensis, oltre a quelle dei generi Australopithecus e Paranthropus. Attraverso una sofisticata analisi filogenetica, Wood e Collard misero in evidenza che soltanto le specie H. sapiens, H. neanderthalensis, H. heidelbergensis, H. erectus e H. ergaster formavano un gruppo monofiletico ben definito. Le relazioni filogenetiche di H. habilis e H. rudolfensis risultavano più ambigue. Per il secondo criterio, l’insieme delle strategie adattative dello stesso gruppo di cinque specie (cioè le informazioni derivanti dalla ricostruzione di dimensioni e forma del corpo, modalità di locomozione e tipo di dieta) risultò più simile a quello di H. sapiens che non di A. africanus; per H. habilis e H. rudolfensis, invece, le evidenze mostravano maggiori affinità con Australopithecus. Le conclusioni di Wood e Collard furono quindi che, per rispettare i criteri stabiliti per l’inclusione nel genere Homo, le specie H. habilis e H. rudolfensis dovrebbero essere rimosse da questo genere e incluse, come soluzione più semplice, nel genere Australopithecus. Quindi, alla luce delle ipotesi di Wood e Collard, la più antica specie del genere Homo sarebbe H. ergaster (da alcuni indicato come H. erectus africano) la cui struttura scheletrica, ben documentata dal reperto del ragazzo del Turkana, presenta una «architettura» sostanzialmente di tipo moderno, che dimostra un adattamento all’andatura bipede obbligata e alla corsa di resistenza.
L’idea che le specie H. habilis e H. rudolfensis siano più simili a forme di Australopithecus che non di Homo ha trovato negli ultimi anni più conferme, derivanti da una serie di ricerche indipendenti fra loro su temi diversi relativi alle strategie adattative di queste e delle altre specie di ominini. In breve, queste evidenze riguardano: 1) la locomozione; 2) il tipo di dieta; 3) la struttura interna dei denti.
Per le indicazioni relative alla modalità di locomozione il fossile chiave è rappresentato da uno scheletro parziale scoperto a Olduvai e descritto nel 1987, indicato come OH 62 e attribuito a H. habilis, l’unico scheletro relativamente completo di questa specie. Il reperto ha l’osso del braccio (omero) relativamente più lungo dell’osso della coscia (femore). Già questa era una prima indicazione del fatto che questo esemplare avesse proporzioni degli arti più simili a quelle di Australopithecus che di Homo. Poi nel 2009 Chris Ruff, della Johns Hopkins University, analizzò lo spessore della sezione più esterna dell’omero e del femore (porzione indicata come corticale), confrontandola con la condizione osservabile in H. sapiens e negli scimpanzé. La differenza principale tra noi e gli scimpanzé sta nel fatto che in questi ultimi lo spessore della corticale dell’omero è molto più marcato, e ciò rappresenta un adattamento per resistere alle forze che si generano quando le braccia vengono usate per arrampicarsi sugli alberi. In H. sapiens lo spessore della corticale dell’omero è minore, perché con l’andatura bipede obbligata l’uso dell’arto superiore è ridotto, in quanto non lo si impiega per arrampicarsi sugli alberi. In OH 62 la struttura ossea dell’omero rispetto al femore è molto simile a quella degli scimpanzé, a indicare come questo individuo (e quindi per estensione la specie H. habilis) avesse ancora una forte componente di arrampicamento nel proprio repertorio di locomozione.
Si tratta in questo caso di un’evidenza relativa non solo alla morfologia esterna (le proporzioni degli arti) ma anche alla funzionalità dell’osso, che dimostra una condizione analoga ad Australopithecus e non alle altre specie del genere Homo. Una tecnica che consente di ricostruire la dieta dei Mammiferi (viventi ed estinti) prevede di analizzare il contenuto di alcuni elementi chimici presenti nelle ossa e nei denti, e in particolare le loro forme isotopiche stabili. Gli isotopi usati in questo tipo di analisi sono di solito il carbonio-13 e l’azoto-15, che si sono rivelati buoni indicatori del tipo di dieta, sia negli animali sia in varie specie di ominini fossili, e anche in popolazioni di H. sapiens. Questa analisi, e in particolare lo studio del carbonio-13 nelle ossa, è stata condotta nel 2019 da David Patterson della University of North Georgia e colleghi, su un campione molto ampio di specie fossili di mammiferi africani rinvenuti in vari siti dell’Africa orientale nell’arco di tempo tra 4,4 e 1,5 milioni di anni fa. Fra le specie considerate vi erano anche otto specie di ominini, dei generi Ardipithecus, Australopithecus, Paranthropus e Homo. Il dato che emerge – tecnicamente indicato come «segnale isotopico» – dei livelli di carbonio-13 è molto simile nelle specie più antiche quali Ardipithecus ramidus e poi Australopithecus afarensis, fino a H. habilis e H. rudolfensis inclusi. Questo indica una dieta in larga misura frugivora per questo gruppo di specie.
La cesura nel segnale isotopico avviene nelle specie più recenti rispetto a H. habilis, a iniziare da H. ergaster, e ciò è stato interpretato come legato a un marcato cambiamento di dieta; questo sarebbe da ricondurre a una maggiore componente carnea nella dieta di H. ergaster legata a un più elevato consumo di prede animali, in larga misura la vasta gamma di specie di ungulati presenti nelle savane africane, attivamente cacciate da questi ominini. Il cambiamento radicale nel tipo di dieta – con tutte le conseguenze che ciò ha comportato, e cioè una dieta di più elevata qualità che avrebbe permesso un ulteriore incremento delle dimensioni cerebrali – sarebbe avvenuto quindi a partire da H. ergaster, e non prima.
Il terzo tipo di evidenza che ha permesso di riconsiderare la classificazione di H. habilis e H. rudolfensis deriva dall’analisi della struttura interna dei denti molari e premolari, e in particolare di quella zona del dente che prende il nome di giunzione smalto- dentina. Quest’area si trova all’interno di ognuno dei nostri denti nella zona di contatto, come dice il nome, tra lo smalto, che rappresenta lo strato più esterno che compone buona parte della corona dentaria, e la dentina, che costituisce la struttura portante del dente al suo interno, incluse le radici. Lo strato di cellule che compone la giunzione smalto-dentina si forma nelle primissime fasi dello sviluppo dentario e riflette l’informazione genetica che contribuisce alla definizione della forma finale del dente. La sua morfologia ha una forte componente genetica e, rispetto ad altre porzioni dello scheletro, è influenzata solo in misura minima da fattori ambientali. Questa morfologia rimane intatta anche nel dente adulto, e può essere analizzata e quantificata grazie a tecniche di microtomografia computerizzata ad alta risoluzione.
Negli ultimi vent’anni sono stati condotti numerosi studi sulla morfologia della giunzione smalto-dentina in varie specie di primati viventi e fossili, ed è emerso che questa consente di discriminare bene fra loro i denti di specie diverse di primati anche molto vicini filogeneticamente, quali per esempio, fra gli scimpanzé, le due specie Pan troglodytes e Pan paniscus. Fra le specie di ominini fossili sono state analizzate specie del genere Australopithecus, Paranthropus e Homo, da H. erectus fino a H. neanderthalensis e H. sapiens. Solo molto di recente, nel 2024, l’analisi della giunzione smalto-dentina dei denti premolari e molari è stata applicata ai reperti di H. habilis e H. rudolfensis dai siti dell’Africa orientale, fra i quali Olduvai e Koobi Fora. I risultati sono stati abbastanza sorprendenti, ma non inaspettati, in quanto la massima parte di questi denti ricadono, per la loro morfologia, all’interno della variabilità del genere Australopithecus, e ben distinti rispetto alle altre specie del genere Homo. Il gruppo che include H. ergaster e H. erectus, invece, ha una morfologia della giunzione smaltodentina ben distinguibile da quella degli australopitechi. Anche per quanto riguarda la morfologia dentaria, quindi, la transizione verso forme diverse da Australopithecus sembra essere avvenuta non con H. habilis e H. rudolfensis, bensì con H. ergaster.
Dal complesso delle tre linee di evidenze discusse, del tutto indipendenti tra loro (modalità di locomozione, dieta e ultrastruttura dentaria), pare emergere in maniera chiara l’ipotesi che fossili finora attribuiti a H. habilis e H. rudolfensis dovrebbero trovare una diversa collocazione sistematica. Una possibilità potrebbe essere, come suggerivano Wood e Collard, di considerarle come specie del genere Australopithecus; un’altra quella di inserirli in un nuovo genere, tuttora da definire.
Esattamente sessant’anni fa, nel 1964, veniva descritta la specie H. habilis, allora considerata la più antica specie di Homo, da cui si riteneva si fosse originato H. erectus. Oggi il quadro che abbiamo dell’origine del genere Homo è profondamente cambiato, grazie a nuovi fossili descritti in questi anni e a nuove datazioni dei contesti di provenienza. Inoltre, le recenti interpretazioni sono anche il risultato dell’impiego di nuovi e sofisticati metodi di analisi dei dati morfologici e di altri tipi di dati che consentono di ricostruire le strategie adattative di queste specie. Le nuove evidenze hanno mostrato un’antichità del genere Homo di gran lunga superiore a quanto pensavamo fino a pochi anni fa e l’esistenza di tre specie distinte (H. habilis, H. rudolfensis, H. ergaster/ erectus) fra loro coeve, a indicare una radiazione adattativa (il termine radiazione adattativa o radiazione evolutiva descrive un fenomeno di rapida (in termini geologici) diversificazione di nuove specie a partire da un progenitore comune) che risale probabilmente alle fasi finali del Pliocene, piuttosto che una semplice relazione di antenato/discendente tra H. habilis e H. ergaster/ erectus.
Altre questioni rimangono aperte, quali le relazioni filogenetiche fra le tre specie e la posizione sistematica di H. habilis e H. rudolfensis come specie del genere Homo o meno. Tutto questo ci consente oggi di proporre nuove ipotesi e nuovi modelli evolutivi che potranno essere ulteriormente testati in futuro, anche grazie a nuovi fossili, ancora in attesa di essere scoperti.
di Jacopo Moggi Cecchi e Alessandro Riga

Eugenio Caruso - 23 gennaio 2025



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