Sezioni   Naviga Articoli e Testi
stampa

 

        Inserisci una voce nel rettangolo "ricerca personalizzata" e premi il tasto rosso per la ricerca.

Forse trovato l'antenato comune di H. Sapiens e H. di Neanderthal

La pistola fumante? È presto per dirlo, fu comunque un evento di grande significato evolutivo, che coincide con la data del bottleneck africano e che conferisce ulteriore importanza a questo passaggio, potendo segnalare l’origine evolutiva del LCA condiviso tra noi, i Neanderthal e i Denisova: alias Homo heidelbergensis.

L’umanità di mezzo e la ricerca dell’antenato.
Uno dei grandi enigmi dell’evoluzione umana riguarda l’identità dell’ultimo antenato comune tra noi e i Neanderthal. Prove di varia natura puntano a Homo heidelbergensis

Heidelberg

Riproduzione facciale forense di Homo heidelbergensis.

Solna (Stoccolma, Svezia), Karolinska Institut, 3 ottobre 2022. La professoressa Anna Wedell delinea la figura del genetista e antropologo svedese Svante Pääbo, partendo da queste parole: «Who are we and where do we come from?» In effetti, l’antichissima domanda «chi siamo e da dove veniamo» è proprio quella che dà meglio il senso della ricerca sulle origini e l’evoluzione dell’umanità, il campo di studi per cui veniva in quel momento conferito il premio Nobel per la fisiologia o la medicina.
Non era la prima volta che l’Accademia svedese premiava ricerche non strettamente «mediche», basti pensare ai premi Nobel a James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins per la struttura del DNA; a Konrad Lorenz, Nikolaas Tinbergen e Karl von Frisch per il comportamento animale; o a François Jacob, André Michel Lwoff e Jacques Monod per la regolazione genica. Tuttavia era la prima volta che il premio veniva assegnato nel campo della paleoantropologia e anche la prima volta (quasi incredibile a dirsi) che nella motivazione del premio veniva usata la parola «evoluzione».
Premio più che meritato, d’altra parte: Svante Pääbo e il suo gruppo di ricerca al Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie di Lipsia, in Germania, sono stati i pionieri (nel 1997) e fra i principali protagonisti di una nuova disciplina scientifica sviluppatasi come un fiume in piena nel corso degli ultimi decenni: la paleogenomica. Questo è un campo di studi che ha portato (fra gli altri risultati) alla decifrazione del genoma dei Neanderthal, la specie umana che conosciamo come ampiamente distribuita in Europa e Asia occidentale fino a circa 40.000 anni fa. A partire dal 1997, affiancandosi ai dati paleoantropologici e archeologici, questi studi ci hanno fornito una misura precisa dell’affinità fra i Neanderthal e noi, anche in termini di avvenuti scambi genetici, per i quali individui delle due specie si sono occasionalmente incrociati, lasciando ancora oggi piccole quote del loro DNA nel genoma di tutti gli esseri umani oggi viventi, con l’eccezione di popolazioni africane i cui antenati non vennero mai in contatto con l’altra specie. Nondimeno, diversi dati suggeriscono l’esistenza di barriere riproduttive, seppur incomplete e asimmetriche, tra le due specie e, per quanto esista un dibattito aperto tra studiosi di diversa formazione, rimane il fatto che Homo sapiens e Homo neanderthalensis furono effettivamente specie distinte, analogamente a lupi (Canis lupus) e coyote (Canis latrans) che pure occasionalmente si incrociano oggi in natura, producendo prole parzialmente fertile.
Allo stesso tempo, sono da considerare i dati della paleoantropologia e le informazioni che essi ci forniscono a partire dalla morfologia dei resti fossili. Da essi sappiamo che, nel corso del tempo – nel Pleistocene Medio, per la precisione, compreso tra 780.000 e 125.000 anni fa circa – le linee evolutive delle due specie avevano acquisito, rispettivamente a nord e a sud del Mediterraneo e del Sahara, caratteristiche morfologiche tipiche e ben riconoscibili, a seguito della separazione da un antenato comune, avvenuta ben prima che le due specie prendessero una loro precisa identità e venissero a incontrarsi, e a incrociarsi, così come avvenne nel momento in cui una delle due (Homo sapiens) iniziò a diffondersi dall’Africa verso l’Eurasia.
Chi era questo ultimo antenato comune (o Last Common Ancestor, in seguito LCA)? Quali caratteristiche aveva? Quanto tempo fa è vissuto? Come viveva? Proveremo a rispondere a queste domande nelle pagine che seguono. Un po’ come in un’indagine «poliziesca», andremo alla ricerca e all’identificazione di un LCA che rimane (almeno in parte) misterioso, sfuggente e controverso.
Confrontando il genoma dei Neanderthal con quello degli esseri umani moderni e applicando le tecniche del cosiddetto orologio molecolare, è possibile risalire all’orizzonte temporale in cui le rispettive linee evolutive hanno iniziato a divergere, un evento noto come «punto di coalescenza». Questo momento si colloca interamente nel Pleistocene, precisamente nel Pleistocene Medio, ricadendo in un intervallo cronologico stimato – in base ai diversi marcatori genetici usati, nucleari e mitocondriali – tra circa 450.000 e 750.000 anni fa, con una media attorno a 600.000. Si tratta di un indizio importante. Ci suggerisce infatti che, prima e durante questo periodo, sia esistita una specie ancestrale non ancora chiaramente definita in senso né moderno né Neanderthal, ma con tratti che potrebbero essere stati ereditati da entrambe le specie. Indica anche che dovremmo trovare nel record fossile successivo tracce di popolazioni che, a seguito di eventi di dispersione, si separarono in differenti aree geografiche pur rimanendo ancora riferibili tassonomicamente alla specie ancestrale.
Da tenere a mente che queste popolazioni semi-isolate (anche dette «paleodemi») hanno continuato nel tempo a sviluppare caratteristiche che progressivamente le avvicinavano all’umanità moderna da un lato e ai Neanderthal dall’altro, lungo le rispettive linee di evoluzione geografica e filogenetica.
Dobbiamo precisare che il punto di coalescenza delle linee filetiche non rappresenta né l’uno né l’altro evento di origine delle nuove specie. In linea teorica, esso si riferisce al momento in cui alcune popolazioni, probabilmente a seguito di separazione geografica e conseguente ridotto flusso genico, iniziano ad accumulare differenze che solo successivamente portano all’origine di nuove specie, con l’insorgere di barriere riproduttive più o meno complete. Lo studio dei fossili e del DNA antico può aiutare a determinare quanto tempo dopo la separazione delle rispettive linee evolutive Neanderthal e uomini moderni si siano effettivamente differenziati in due specie distinte. Questo ci permette di stabilire il limite temporale entro il quale cercare LCA, perché questo antenato deve necessariamente essere vissuto prima della loro caratterizzazione genetica e morfologica. I fossili riferibili a Neanderthal o a Homo sapiens (anche quelli più antichi) si riconoscono per una serie di caratteristiche uniche e costanti che li differenziano tra loro e dalle forme umane precedenti. Per esempio, i Neanderthal hanno una scatola cranica voluminosa e molto allungata in senso antero-posteriore con alcuni rilievi ossei tipici, che sono visibili nella parte posteriore (occipitale) e anteriore (frontale). Soprattutto, con un profilo che può essere inscritto quasi perfettamente all’interno di un’ellisse se il cranio viene osservato da dietro.
Il profilo ricurvo dei parietali, che viene definito en bombe, è il risultato della riorganizzazione e dell’espansione laterale di alcune aree cerebrali che secondo l’interpretazione del paleoneurologo Emiliano Bruner, italiano ma già da anni in Spagna e ora in forza al Museo di storia naturale di Madrid, si collegano a un’accresciuta coordinazione psico-motoria. Si tratta quindi di un cambiamento evolutivo importante, che segna anche un certo grado di discontinuità.
È un buon indizio di una avvenuta speciazione, insomma. Fossili con questa caratteristica sono quindi identificabili come i primi Neanderthal e compaiono nel record fossile circa 250.000 anni fa, inizialmente in Europa e successivamente anche nel Vicino Oriente. Tuttavia, negli stessi territori europei, ma con cronologie più antiche (tra 250.000 e 500.000 anni fa circa), troviamo fossili che possiamo definire ante-Neanderthal, poiché condividono (in vario grado) con i successivi Neanderthal alcune morfologie, come il prognatismo medio-facciale e altri tratti morfologici della regione occipitale del cranio. Anche l’orizzonte culturale cambia contestualmente: dopo il MIS 8 (stadio isotopico marino, MIS appunto, che indica una fase fredda all’incirca corrispondente all’intervallo 250.000-300.000 anni fa) compare in Europa il Paleolitico Medio, avanzato rispetto al precedente Paleolitico Inferiore di Modo 2 o Acheuleano, caratterizzato quest’ultimo dalla presenza di strumenti a scheggiatura bifacciale e a forma di mandorla – i cosiddetti «bifacciali» acheuleani, o «amigdale» o «asce a mano» – e tipicamente associato in Europa alle popolazioni che precedono i Neanderthal.
La paleogenomica ci dice che tutta la variabilità genetica osservata nei Neanderthal ha un punto di coalescenza tra 316.000 e 219.000 anni fa (con una media di circa 270.000), per quanto riguarda il DNA di origine mitocondriale, mentre la variabilità del DNA nucleare ha un’origine che è stimata attorno a 150.000 anni fa (tra 199.000 e 125.000). Va ricordato che il DNA mitocondriale, esterno al nucleo delle cellule, è trasmesso esclusivamente per via materna e offre una prospettiva lineare alla ricostruzione delle genealogie – non subendo ricombinazione, come peraltro accade anche per il DNA del cromosoma Y (che si trasmette invece per via paterna) – rispetto a quelle derivate dal DNA nucleare (cromosoma Y a parte) che è soggetto a ricombinazione. I genetisti, comunque, non sono molto contenti di questa discrepanza di date, tanto da ipotizzare che tra 250.000 e 300.000 anni fa possa essere avvenuta una sostituzione completa del genoma mitocondriale e del cromosoma Y dei Neanderthal da parte di misteriose popolazioni provenienti dall’Africa. Se però teniamo conto dell’errore statistico – diciamo noi, facendo un’ipotesi meno rocambolesca – le date della paleogenomica sono in accordo con quanto ci raccontano i fossili e soprattutto, insieme a questi, ci dicono che l’origine evolutiva di Homo neanderthalensis come specie si colloca non molto oltre 250.000 anni fa circa.
Similmente ai Neanderthal, gli studi sull’origine della variabilità genetica moderna indicano un punto di coalescenza per il DNA nucleare risalente a oltre 140.000 anni fa, con un’origine interamente africana per quello che Aaron P. Ragsdale e collaboratori hanno chiamato il ramo principale (stem 1) della nostra specie – in un articolo su «Nature» del 2023 – e che include gli antenati di tutte le popolazioni attuali, sia africane che non africane. D’altra parte, la variabilità associata al DNA mitocondriale, nell’ipotesi della cosiddetta «Eva mitocondriale» formulata già nel 1987, suggerisce un’origine africana attorno a 200.000 anni fa. A questo orizzonte cronologico fanno riferimento fossili rinvenuti in Etiopia: a Omo-Kibish, a sud, e nella media valle del fiume Awash, più a nord. Sono questi, non altri – come, per esempio, i fossili di Jebel Irhoud, in Marocco, considerati da alcuni autori (impropriamente a nostro avviso) come forme arcaiche della nostra specie – i più antichi reperti paleoantropologici con caratteristiche morfologiche distintive di Homo sapiens. Che sono: un cranio voluminoso e globulare, accompagnato da un mento sporgente, oltre ad altri aspetti del cranio e della faccia maggiormente condivisi fra i diversi fossili africani dello stesso periodo.
In parallelo, ma in modo divergente dalla forma allungata e bassa del cranio dei Neanderthal, la forma globulare del cranio rappresenta una discontinuità evolutiva molto significativa. Si ritiene – sempre in accordo con l’interpretazione data originariamente da Bruner nel 2003 – che sia in rapporto a potenzialità cognitive sofisticate, in virtù di una completa riorganizzazione cerebrale, con un’espansione come a ventaglio e verso l’alto dei lobi parietali dell’encefalo. Tutto questo nel contesto, condiviso con altre popolazioni africane dell’epoca, di un cambio di orizzonte culturale che vede il passaggio da culture litiche del Paleolitico Inferiore (o Early Stone Age) a a quelle del Paleolitico Medio (Middle Stone Age).
Dunque, l’intervallo cronologico tra 250.000 e 200.000 anni fa – in Europa e in Africa, rispettivamente – segna il limite più recente per l’individuazione del nostro ultimo antenato comune, oltre che l’origine evolutiva (speciazione) di Homo neanderthalensis e di Homo sapiens.
Circa l’origine di LCA bisogna ricorrere ancora una volta a stime di coalescenza, ma andando a ritroso. Abbiamo detto che quella tra le rispettive linee evolutive nostra e dei Neanderthal punta a un intervallo compreso tra 600.000 e 750.000 anni fa, ma quanto indietro dobbiamo spingerci? Qui entra in gioco un colpo di scena degno di un thriller di Ken Follett. Dalle nebbie di una storia che ha del magico, emerge una sorta di «terzo gemello »: un’altra specie umana estinta, sconosciuta alla scienza fino a solo 15 anni fa. Si ritiene che questa specie (o varietà, visto che non ha ancora un nome in latino) sia strettamente imparentata con Neanderthal e uomini moderni, e anch’essa discenda dello stesso LCA che stiamo cercando. La conosciamo dal 2010, quando – analizzando un piccolo frammento osseo, la falange di un dito mignolo, quasi un nonnulla dal punto di vista anatomico, di un individuo giovane proveniente dalla grotta di Denisova, nei monti Altai, in Siberia, quasi al confine con la Mongolia – proprio il gruppo di Pääbo ha scoperto che il DNA mitocondriale estratto era differente sia da quello dei Neanderthal sia dal nostro.
Questo dato suggeriva che, nonostante il reperto avesse circa 50.000 anni, la sua origine evolutiva risalisse a circa un milione di anni fa. Da allora, l’umanità del tardo Pleistocene che quel frammento d’osso rappresenta con tanta dovizia di informazioni genetiche prende il nome dalla grotta in Siberia dove è stato trovato: sono «i Denisova». Le successive analisi ricavate dal DNA (nucleare, questa volta) hanno mostrato una considerevole affinità con i Neanderthal e una separazione dalla linea evolutiva dei moderni tra 600.000 e 700.000 anni fa circa.
I Denisova ci forniscono, con le loro caratteristiche genetiche, un elemento in più per circoscrivere la ricerca del nostro LCA. Il limite inferiore della sua origine evolutiva, posto attorno a un milione di anni fa o non molto dopo, sembra più che plausibile per indicare l’epoca di origine di LCA. Le analisi genetiche sui reperti della grotta di Denisova – tutti frammenti ossei e denti isolati dalla morfologia piuttosto arcaica, compatibile con un’origine antica – e quelle comparative ci dicono anche molto altro. Per esempio ci dicono che i Denisova, come i Neanderthal, si sono incrociati con le bande di cacciatori-raccoglitori della nostra specie in espansione fuori dall’Africa. Non tutte le popolazioni extra-africane attuali ne recano le tracce, per lo meno non nella stessa misura, e l’introgressione (cioè l’acquisizione nel nostro genoma) di geni di provenienza denisoviana riguarda perlopiù popolazioni di origine asiatica, con percentuali che arrivano quasi al 6 per cento in alcune popolazioni delle Filippine e della Melanesia. Sappiamo inoltre che vi furono incroci anche tra Denisova e Neanderthal, ed è stato addirittura rinvenuto un resto osseo che si è rilevato appartenente a un ibrido di prima generazione: era di sesso femminile ed era la figlia di una madre Neanderthal e di un padre Denisova, che a sua volta mostrava tracce di precedenti ibridazioni che potremmo definire «transiberiane». Formidabile!
Resti fossili riconosciuti su base genetica come Denisova sono a oggi estremamente scarsi e riguardano, oltre ai frammenti ossei e ai denti della grotta omonima, anche una mandibola scoperta a Xiahe, sull’altopiano del Tibet, e alcuni denti isolati in Laos. In base a queste evidenze fossili – ma anche i dati genetici dicono molto al riguardo – possiamo supporre che il territorio occupato un tempo dai Denisova fosse estremamente vasto, andando a occupare buona parte dell’Asia continentale. Non abbiamo però reperti fossili che possano chiarire la morfologia dei Denisova. Ci sono alcune ipotesi plausibili, tra le quali spicca un cranio eccezionalmente ben conservato e scoperto a Harbin, nel nord-est della Cina, datato a oltre 150.000 anni fa, che presenta una morfologia dentale arcaica, compatibile con quella dei denti della grotta di Denisova e della mandibola di Xiahe.
Questo e altri fossili con caratteristiche simili (fra cui i crani di Dali e di Jinniushan, sempre in Cina) mostrano un mosaico di caratteristiche tali da suggerire un’evoluzione nel continente asiatico che ha portato all’emergere dei Denisova da popolazioni più arcaiche, in modo simile a quanto avvenuto in Europa per i Neanderthal e per noi in Africa.
Va detto, come tra parentesi, che questi fossili sono contemporanei alla fase terminale di esistenza di un’altra specie umana, ampiamente diffusa in Asia continentale e peninsulare, cioè in Indonesia, dove sappiamo essere sopravvissuta fino a quasi 100.000 anni fa e che conosciamo bene come Homo erectus. Non potrebbe essere proprio questo il LCA che stiamo cercando? Diciamo subito che la risposta è negativa. L’origine evolutiva di questa specie è estremamente antica, arrivando a circa 1,8 milioni di anni fa, il doppio di quanto suggerito dai dati della paleogenomica, e le sue caratteristiche mal si armonizzano con quelle del possibile LCA.
Proviamo a riassumere i dati che abbiamo finora raccolto per circoscrivere, intanto nel tempo e nello spazio, l’identità del nostro LCA: un’origine evolutiva che si colloca al passaggio tra il Pleistocene Inferiore e Medio, cioè successivamente a un milione di anni fa, e che ha lasciato rappresentanti fossili fino a circa 250.000- 200.000 anni fa, quando compaiono tre distinte specie (se anche i Denisova lo sono); una diffusione in un vasto areale geografico comprendente Africa ed Eurasia al cui interno si riconoscono popolazioni semi-isolate in via differenziamento (paleodepromi), dalle cui dinamiche evolutive ed ecologiche emergono infine le suddette tre specie, rispettivamente in Asia, Europa e Africa: Denisova, Neanderthal e uomini moderni.
Se le cose stanno così, già prima di 600.000 anni fa ci aspettiamo di trovare morfologie ancora arcaiche, ma in una certa misura caratterizzate verso i paleodemi successivi, distinguibili comunque da forme umane a loro contemporanee (come Homo erectus) e con volumi cerebrali importanti (a partire da 1200 cm3). D’altra parte, i dati archeologici a disposizione indicano che qualcosa cambia in Eurasia a partire da circa 700.000 anni fa, quando si osserva una marcata diffusione di industrie dell’Acheuleano (evidenze più antiche restano controverse), con gli iconici strumenti bifacciali, la cui tempistica di diffusione si accorda bene con l’arrivo di nuove popolazioni.
Com’erano dunque fatti e chi erano (in termini tassonomici) gli esseri umani di queste nuove popolazioni? Esiste nel record fossile del Pleistocene Medio qualcosa che corrisponda a un possibile identikit? A nostro avviso sì, ma è proprio qui che il dibattito tra gli specialisti si fa intenso, rendendo il caso-studio particolarmente controverso. Infatti la natura «a mosaico» e la grande eterogeneità di morfologie dei reperti africani ed eurasiatici concorre a confondere l’interpretazione tassonomica. Alcuni paleoantropologi esprimono questa frustrazione con l’espressione muddle in the middle, letteralmente la «confusione nel mezzo»: riferendosi sia al Pleistocene Medio sia a questa umanità «di mezzo » che evolutivamente si interpone tra le forme più arcaiche del genere Homo (come Homo erectus) e quelle derivate, come noi, i Neanderthal e i Denisova.
Nel contesto di questa controversia, alcuni studiosi hanno puntato la loro attenzione su una specie denominata Homo antecessor, i cui resti, di poco oltre 780.000 anni fa, sono stati rinvenuti unicamente nel sito della Gran Dolina nella Sierra di Atapuerca, in Spagna. Alcuni frammenti scheletrici (una porzione di mandibola e parte di una faccia) provenienti da un altro sito di Atapuerca, la Sima del Elefante, hanno restituito un’età di oltre 1,2 milioni di anni fa: sono quindi i più antichi mai trovati in Europa occidentale, ma al momento non è affatto detto che possano riferirsi alla stessa specie.
Rappresentativo di Homo antecessor è il cranio parziale di un giovane rinvenuto nello strato TD6 della Dolina, che presenta una morfologia facciale gracile e scavata, con un’ampia fossa sul mascellare, di aspetto «moderno» e differente dalla morfologia dei Neanderthal. Tuttavia, questa somiglianza potrebbe essere superficiale, condivisa con altre forme umane arcaiche, o influenzata dalla giovane età dell’individuo. Un tentativo di caratterizzare i reperti della Gran Dolina tramite l’analisi delle proteine – un approccio innovativo noto come paleoproteomica – ha prodotto risultati contrastanti. I resti della Gran Dolina sono inoltre associati a industrie su ciottolo del Paleolitico Inferiore di Modo 1 (il cosiddetto Olduvaiano), cioè prive di bifacciali, e anche questo gioca contro l’idea che Homo antecessor possa essere l’atteso LCA, oltre al fatto che la sua distribuzione geografica confinata in un unico sito spagnolo rende difficile considerarlo come l’unico rappresentante di un progenitore comune che doveva essere ampiamente distribuito. È possibile, invece, che Homo antecessor sia una sorta di «ramo morto dell’evoluzione umana in Europa, poiché non sarebbe sopravvissuto a una rigida fase glaciale in corrispondenza del MIS 16 (circa 680.000 anni fa), senza avere relazioni dirette con l’umanità successiva.
È proprio dopo il MIS 16 che compaiono in Europa i più antichi strumenti litici sicuramente attribuibili all’Acheuleano, tra cui i bifacciali, insieme a resti umani con caratteristiche diverse da quelle di Homo antecessor, come nel sito di Venosa-Notarchirico, in Basilicata, risalente a circa 650.000 anni fa, il più antico nel continente dove si rinviene questa associazione. Proprio questi uomini, in base all’identikit che abbiamo tracciato, sono i primi rappresentanti, sul versante europeo, del tanto ricercato LCA.
Tra i resti fossili distribuiti in Europa dopo il MIS 16 troviamo una mandibola rinvenuta nel 1907 in depositi sabbiosi a Mauer, in Germania, vicino a Heidelberg, da cui lo sfuggente LCA che cerchiamo prende il suo appellativo scientifico: Homo heidelbergensis. Il nome fu coniato già nel 1908, ma solo verso la fine del XX secolo è stato rivalutato come possibile buona specie del Pleistocene Medio, a sua volta candidata al ruolo di LCA. Il fatto che il rappresentante di questa specie – il primo storicamente noto alla scienza, tanto da fornire il nome tassonomicamente valido Homo heidelbergensis – sia una mandibola isolata, non ha reso e tuttora non rende facile il confronto con altri reperti.
Tuttavia, questo fossile mostra una morfologia generalizzata e arcaica, ma già simile per alcuni tratti importanti a quella dei Neanderthal in accordo con il cosiddetto accretion model. Secondo l’ipotesi oggi più accreditata, l’evoluzione dei Neanderthal sarebbe avvenuta mediante un processo di graduale accumulazione di tratti distintivi in condizioni di parziale isolamento genetico. Questo modello interpretativo prevede diverse fasi in successione cronologica nel corso delle quali i reperti di Homo heidelbergensis in Europa hanno sviluppato caratteristiche cranio-facciali sempre più derivate, oltre a corporature adatte ai climi freddi, fino ai Neanderthal tipici e cosiddetti «classici» del Pleistocene superiore (a partire da circa 125.000 anni fa). Ci sono tuttavia reperti europei della stessa età cronologica che non rientrano nello schema dell’accretion model, poiché sono caratterizzati da morfologie arcaiche e vicine ai reperti coevi africani e asiatici. Fra essi c’è da ricordare il cranio purtroppo frammentario rinvenuto esattamente trent’anni fa (nel 1994) vicino Ceprano, nel Lazio meridionale, mentre tipicamente ante-Neanderthal sono i fossili dello straordinario campione rinvenuto in un altro sito della Sierra de Atapuerca, vicino Burgos, in Spagna: la Sima de los Huesos. Il modello che comunque ne emerge (l’accretion model, appunto) suggerisce che i cambiamenti evolutivi siano stati influenzati dai cicli di espansione e ritiro dei ghiacciai durante la seconda metà del Pleistocene Medio. Durante le glaciazioni, le popolazioni di Homo heidelbergensis trovavano condizioni favorevoli nelle regioni meridionali dell’Europa, che servivano da rifugio (la penisola italiana, per esempio, bordata dalla possente barriera geografica delle Alpi) e/o da fonte di innovazioni evolutive (la penisola iberica, verosimilmente). Queste novità – che sono poi le caratteristiche tipiche dei Naenderthal – potevano diffondersi successivamente, nelle fasi temperate, in tutto il continente e sembrano averlo fatto lungo un gradiente latitudinale di diffusione da ovest verso sud-est.
Diversi autori però hanno contestato il fatto che Homo heidelbergensis possa essere davvero LCA, perché i fossili generalmente riferiti a questa specie sono successivi a 600.000 anni e nei diversi continenti di Europa, Africa e Asia mostrano già (anche se non sempre) morfologie derivate, come abbiamo ora visto nel caso particolare dell’Europa.
Ciò è vero se non si tiene conto dell’origine evolutiva antica di questa specie, precedente alla separazione delle linee filetiche evidenziata dai dati genetici. Una recente scoperta – che ci porta alla conclusione della nostra indagine – permette di fare luce anche su questo aspetto decisivo. Uno studio condotto per alcuni anni – pubblicato da «Science» nel settembre del 2023 e al quale noi stessi abbiamo partecipato, insieme a una squadra di genetisti e bioinformatici cinesi, guidati dal Haipeng Li, dell’Accademia cinese delle scienze – ha portato a ricucire sempre più indietro nel tempo, in base al principio di coalescenza, le relazioni genealogiche insite nel genotipo di migliaia di individui appartenenti a 50 popolazioni attuali, arrivando a tempi che precedono la comparsa della nostra specie. Si è così scoperto che tra 800.000 e 900.000 anni fa circa i nostri antenati cacciatori-raccoglitori che vivevano in Africa sperimentarono un drastico calo demografico – quello che viene definito un bottleneck (o collo di bottiglia, un particolare tipo di deriva genetica) – che li condusse sull’orlo dell’estinzione. Avvenne esattamente in corrispondenza con il picco, posto a circa 900.000 anni fa, di quella che i paleoecologi chiamano «transizione medio-pleistocenica», che causò l’estinzione e il rinnovamento di intere comunità faunistiche in Africa e in Eurasia a seguito dell’ampliarsi degli effetti dei cicli glaciali fino a quel momento molto meno intensi e ancora prima del tutto assenti.
A risentire fortemente di quel collasso ecologico furono anche le popolazioni di uomini arcaici della variante africana di Homo erectus (detta anche Homo ergaster), le cui testimonianze fossili non si rinvengono più proprio a partire da quella data, mentre sono ben evidenti fino a circa 900.000 anni fa. A seguire, non si rinvengono praticamente più resti fossili umani in Africa, ma questi tornano a essere relativamente abbondanti solo dopo 650.000 anni fa, con reperti dai volumi cerebrali maggiori, sopra i 1200 cm3 in media, e una morfologia che può essere attribuita proprio a Homo heidelbergensis.
Riteniamo dunque che il bottleneck successivo a 900.000 anni fa sia stato un evento tanto catastrofico quanto generativo, nel quale alcune popolazioni umane (in certi momenti poco più di 1000 individui fertili) riuscirono a sopravvivere in qualche area rifugio, come per esempio potrebbe essere stato, in quel lungo periodo di estrema aridità climatica, l’altopiano etiope. Ce lo suggerisce il fatto che gli unici resti umani che ricadono nel gap che si riscontra nel record fossile africano sono frammenti cranici di circa 850.000 anni fa – rinvenuti su quell’altopiano, nel sito di Gombore, e da noi presi in esame qualche anno fa – che mostrano una morfologia intermedia tra gli umani più arcaici (Homo ergaster/erectus) e i successivi Homo heidelbergensis. C’è da sottolineare che in questi contesti di forte rarefazione demografica e di isolamento geografico – in base a un modello evoluzionistico identificato negli anni settanta da Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, noto come «equilibri intermittenti» – è probabile che possano avvenire fenomeni di speciazione, dal momento che i normali equilibri ecologici e genetici vengono sconvolti e un ruolo importante è svolto dalle pressioni selettive, combinate sia con l’isolamento della popolazione sia con l’endogamia al suo interno. Così, in conclusione, potrebbe essere comparso sulla scena l’ultimo antenato comune che abbiamo cercato di identificare in questa indagine «poliziesca»: Homo heidelbergensis. Il possibile, anzi probabile, evento di speciazione, inoltre, sembra aver coinciso (sorprendentemente) con un cambiamento genetico significativo sul quale ci si era a lungo interrogati. Ci riferiamo alla riduzione del numero di cromosomi – dai 48, che è proprio delle grandi scimmie antropomorfe: scimpanzé, gorilla e orangutan, ai 46 di Homo sapiens – dovuta alla fusione di due cromosomi ancestrali in uno solo (il nostro cromosoma 2). Questa drammatica mutazione cromosomica con il conseguente cambiamento macroevolutivo – che in passato si sarebbe potuto pensare avesse determinato fenomeni cruciali della nostra evoluzione, come l’origine dei primi ominidi bipedi, intorno a 6 milioni di anni fa, o la comparsa del genere Homo, circa 2,5 milioni di anni fa – sembra invece essere avvenuta (secondo analisi di coalescenza di uno studio pubblicato nel 2022) proprio intorno a 900.000 anni dal presente.
La pistola fumante? È presto per dirlo, fu comunque un evento di grande significato evolutivo, che coincide con la data del bottleneck africano e che conferisce ulteriore importanza a questo passaggio, potendo segnalare l’origine evolutiva del LCA condiviso tra noi, i Neanderthal e i Denisova: alias Homo heidelbergensis.

di Fabio Di Vincenzo e Giorgio Manzi

Il fenomeno detto collo di bottiglia identifica un particolare tipo di deriva genetica. Si verifica quando il numero di individui facenti parte di una popolazione viene ridotto drasticamente da forze atipiche nella selezione naturale (caccia, persecuzioni) o ne viene isolata definitivamente una parte (spostamenti migratori anomali, barriere geografiche). Se solo una parte esigua della popolazione generale sopravvive, o comunque sopravvive isolata dal resto della popolazione generale, tali sopravviventi possono, per il passaggio attraverso un "collo di bottiglia" metaforico, recare solo il proprio corredo genetico, che non risulta quindi significativo di tutta la popolazione generale della propria specie di origine. La conseguente riduzione della variabilità genetica può giungere alla criticità e tendere a eliminare del tutto alcuni alleli, ma anche a far sì che altri vengano rappresentati in eccesso nel pool genico. Come esempio si può studiare il restringimento della popolazione maschile discesa dall'Aplogruppo I (Y-DNA)

neander

Ricostruzione facciale dell’uomo di Neanderthal ritrovato a La Chapelle aux Saints

I Neanderthal sono tra noi. Meglio, dentro di noi: con varianti di geni che hanno a che fare con alcune caratteristiche di capelli, unghie e pelle, e che potrebbero averci avvantaggiato in un ambiente freddo. Ma anche con varianti correlate al diabete di tipo 2, alla malattia di Crohn, alla cirrosi biliare, al lupus. Sarebbe questa l'eredità dei Neanderthal che noi sapiens ci portiamo dietro da almeno 40 mila anni. Non tutti allo stesso modo, ma chi più e chi meno: tra i più ci sono le popolazioni europee e dell'Asia dell'Est; tra i “meno” quelle africane, i cui antenati non hanno avuto occasione di entrare in contatto con gli antichi cugini (che vivevano, per l'appunto, in Europa e in Asia). Si stima che, in media, tra l'1 e il 3% del genoma di ogni essere umano moderno arrivi dai Neanderthal, ma si parla di un 20%, forse di un 30%, se invece si considera complessivamente tutto il materiale genetico che potrebbero averci tramandato.
I Neanderthal vivevano in Europa e Asia , i Sapiens in Africa. Qunado iniziò la grande migrazione dei Sapiens verso Nord, i Neanderthal iniziarono a scomparire, forse sopraffatti dal gene dell'aggressività dei Sapiens.

IL GENE DELL'AGGRESSIVITA' NELL'HOMO SAPIENS
L’aggressività può avere radici genetiche. È quanto suggerisce uno studio pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences che ha analizzato i meccanismi neurali del comportamento violento legato alla presenza di particolare gene: MAO-A. Una versione di questo tratto di Dna, contenente le istruzioni per un enzima che regola messaggeri chimici dell’umore (tra cui la serotonina) sembra infatti indebolire i circuiti neurali del cervello, e predisporre ad azioni impulsive. Secondo i ricercatori del National Institute of Mental Health degli Nih statunitensi che hanno realizzato la ricerca, la variante genetica, presente sul cromosoma X, ha effetti più di frequente sugli uomini, rispetto alle donne. Infatti, i maschi hanno un solo cromosoma sessuale X, contro le due copie delle femmine, che hanno quindi una probabilità più alta di essere in possesso della variante più “pacifica” del gene. Attraverso la risonanza magnetica cerebrale i ricercatori hanno scoperto che gli uomini sono più colpiti da immagini aggressive, che stimolano l’amigdala, una piccola struttura neurale che presiede alle emozioni, e possono innescare comportamenti violenti. Allo stesso modo è stata riscontrata una minore attività nelle zone che regolano le sensazioni di timore e paura, come la corteccia orbito-frontale. Il campione maschile dello studio, inoltre, aveva un’attivazione più debole della zona del cervello che inibisce gli impulsi violenti.

Eugenio Caruso - 24 gennaio 2025

 



LOGO

Tratto da le scienze

1

www.impresaoggi.com