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I Denisoviani

Per circa un decennio la grotta di Denisova in Siberia è stata l’unica dimora conosciuta di un’enigmatica popolazione contemporanea dei Neanderthal. I Denisoviani, appunto. Più recentemente è venuta alla ribalta una seconda casa, potenzialmente più generosa di resti fossili e forse ancora più suggestiva. La grotta di Baishiya è incastonata nell’altopiano tibetano, una vasta distesa che dall’Himalaya arriva fin dentro al cuore della Cina

Per ammirare il paesaggio mozzafiato che si spalanca davanti a questa cavità occorre salire di quota fino a 3281 metri. La spiritualità si respira insieme all’aria sottile, in questo luogo sacro per i buddhisti e ormai anche per antropologi e archeologi, animato da scavi e campionamenti, riti e meditazioni.
«Le bandierine colorate davanti all’ingresso sono quelle tipiche del buddhismo. Ci sono sei parole scritte sopra. Il vento le muove ed è come se le sussurrasse di continuo, è una forma di preghiera», ci dice Dongju Zhang, dell’Università di Lanzhou, che con il suo gruppo di studenti laureati e postdoc da cinque anni sale fin lassù per studiare le tracce lasciate dagli antichi abitanti della grotta. «Non sappiamo che cosa pensino i monaci del nostro lavoro, alcuni hanno espresso sorpresa».

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Alcuni manufatti trovati nella grotta di Denisova e analizzati, si distinguono ossa appuntite e denti perforati

I ricercatori preferiscono scavare d’inverno, quando il freddo scoraggia i visitatori, anche se portare su e giù attrezzatura e materiali ogni giorno è faticoso, e a quell’altitudine bisogna fermarsi a prendere fiato. Entrando di mattina nella bocca della grotta, larga otto metri e alta cinque, i primi passi sono illuminati dal sole, poi senza le luci artificiali sarebbe buio fitto per centinaia di metri. Il gruppo ha da poco iniziato a scavare una nuova unità e continuerà a lavorarci nei prossimi due anni, le aspettative sono elevate.
«Non c’è dubbio che questo sito ci regalerà molte altre scoperte»,
confida Frido Welker, che nel 2019, quando era dottorando al Max-Planck-Institut di Lipsia, ha contribuito a interpretare il primo reperto proveniente da Baishiya e ora insegna all’Università di Copenaghen, continuando a collaborare con Zhang.

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Ingresso della grotta di Denisova

Mentre lo studio dell’evoluzione umana fiorisce in Cina, in Siberia le attività di ricerca scientifica soffrono le conseguenze della guerra. La rivista «Nature» recentemente ha descritto gli effetti delle sanzioni: le collaborazioni scientifiche internazionali sono scoraggiate, se non del tutto impedite, mandare i campioni all’estero è diventata un’impresa e probabilmente scarseggiano anche i reagenti per le analisi più avanzate. Nonostante le difficoltà attuali, comunque, la grotta situata sul massiccio dell’Altaj resterà per sempre centrale nella mappa degli studi denisoviani, e non solo per il nome.
Questo sito rappresenta lo scrigno molecolare da cui nel 2010 è emerso il primo genoma completo di questo gruppo umano di cui non si sospettava nemmeno l’esistenza (una scoperta enorme, fatta a partire dal frammento del mignolo fossile di una ragazzina sui 12-13 anni di età). Inoltre è l’unico luogo al mondo che sappiamo essere stato abitato nel corso dei millenni anche da neanderthaliani e Sapiens, dunque ci appare come un crocevia di popoli e culture paleolitiche.

Fra i ritrovamenti più eccezionali che ci ha regalato c’è il genoma recuperato da una scheggia d’osso lungo, che è risultato appartenere a una ragazzina meticcia, figlia di padre neanderthaliano e madre denisoviana, a riprova del fatto che gli antichi incontri non sono stati platonici. Il sito di Denisova detiene anche il record del DNA nucleare umano più antico mai sequenziato, estratto da un molare denisoviano vecchio 200.000 anni. Finora però, purtroppo, questo posto così magico per la conservazione delle molecole ci ha restituito solo fossili decisamente frammentari, cosicché abbiamo imparato a conoscere «gli umani del terzo tipo» prima dal punto di vista genetico che da quello morfologico. Tutto il contrario di quello che è accaduto con Neanderthal, il cui primo fossile è venuto alla luce nel lontano 1856, un secolo e mezzo prima del primo genoma neanderthaliano completo.
È in Cina, dunque, che la misteriosa popolazione emersa inaspettatamente in Siberia sta finalmente trovando un volto, un corpo e anche un posto di rilievo nella grande avventura dell’evoluzione umana. Se il labirinto a tre camere dell’antro di Denisova ha creato il rebus, possiamo dire che è nelle viscere di Baishiya che sta prendendo forma la soluzione.
«Il primo indizio è la mezza mandibola di Xiahe, chiamata così dal nome della città omonima dove sorge il monastero di Labrang, il più importante centro del buddhismo tibetano fuori dalla regione autonoma del Tibet»,
dice Silvana Condemi, coautrice insieme a François Savatier del libro L’enigma Denisova. Dopo Neandertal e Sapiens, la scoperta di una nuova umanità, appena uscito con Bollati Boringhieri. A trovare questo fossile nella vicina grotta di Baishiya, nel 1980, è stato proprio un monaco, che ha voluto portarlo in dono al «Sesto Buddha vivente di Gung- Thang». Molti antichi resti in passato sono finiti triturati in qualche medicamento tradizionale. Per fortuna il maestro spirituale ha deciso di conservare lo strano fossile e poi consegnarlo a un geologo dell’Università di Lanzhou. Lì è rimasto, quasi dimenticato, finché nell’estate del 2016 Dongju Zhang non ha preso contatto con Lipsia, la capitale mondiale degli studi sul paleo-DNA, dove il padre della disciplina Svante Pääbo si è guadagnato il Nobel per
il sequenziamento dei primi genomi arcaici.

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Immagine ipotetica di denisoviano

L’archeologa cinese ha mostrato alcune foto del reperto a Welker e a Jean-Jacques Hublin del Max-Planck-Institut, che ricorda così le sue prime impressioni:
«Il fossile era chiaramente non Sapiens. Era molto robusto, privo di mento e con denti enormi ».
La matrice calcarea incrostata intorno alla mandibola ha consentito di impiegare la tecnica della radiometria uranio-torio, datandola intorno a 160.000 anni fa. Un’epoca in cui in Europa dominava Neanderthal mentre, a causa di una strana asimmetria concettuale, si pensava che l’Asia fosse ancora popolata da una specie uscita dall’Africa molto tempo prima: l'Homo erectus.
«Col senno di poi non aveva molto senso pensare che in un continente gli ominidi più antichi si fossero evoluti in una nuova specie, mentre nell’altro l’evoluzione si fosse fermata allo stadio precedente»,
ragiona Condemi, che è direttrice di ricerca al CNRS presso l’Università di Aix-Marseille, in Francia. Oggi si tende a pensare che mentre in Europa procedeva la neanderthalizzazione, in Asia andasse in scena un fenomeno analogo, la denisovizzazione. E allora, la mandibola di Xiahe era forse denisoviana? Possibile che ci fossero resti etichettabili così a 2000 chilometri di distanza dall’unico sito conosciuto, quello siberiano? La risposta arriverà dai dati di genomica, paleogenomica e paleoproteomica.

Il secondo indizio, in effetti, è custodito nel patrimonio genetico degli uomini e delle donne che oggi abitano alcune regioni dell’Asia e alcune isole del Pacifico. Quando la prima sequenza completa di DNA denisoviano è stata pubblicata, 15 anni fa, le analisi di bioinformatica hanno trovato cospicue tracce genetiche simil-denisoviane in Papua Nuova Guinea, dove in media il 3-6 per cento del genoma degli abitanti somiglia a quello estratto dal microfossile che ha rivelato l’esistenza del gruppo arcaico di Denisova.
Gli appassionati di paleogenomica ricorderanno che quella del 2010 era stata una scoperta clamorosa. Pochi millimetri di osso, corrispondenti alla punta di un dito, erano bastati a Pääbo e a David Reich, della Harvard University, per scoprire l’esistenza genetica di una popolazione mai documentata attraverso fossili o resti archeologici. Appartenevano a una ragazzina vissuta tra 60.000 e 80.000 anni fa, di cui non era rimasta che quella falange miracolosamente provvista di DNA ben conservato con l’aiuto del gelo siberiano.
«Per antropologi e archeologi fu uno shock: i genetisti avevano appena trovato le prove che Neanderthal e Sapiens si sono incrociati, e adesso pretendevano di aver scoperto dal nulla una nuova popolazione, forse addirittura una nuova specie umana? »,
ci dice Condemi. La presenza di geni di tipo denisoviano in persone che oggi vivono lontanissimo dai Monti Altaj suggeriva che un tempo i Denisoviani avessero occupato una regione assai estesa. Dovevano aver svolto un ruolo da protagonisti, non da semplici comparse del Paleolitico, rappresentando l’equivalente asiatico dei Neanderthal europei. E come loro dovevano essersi incrociati in più occasioni con i Sapiens che avevano incontrato lungo il cammino, lasciando loro in eredità alcune peculiarità genetiche.

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Il bracciale è stato trovato nella regione degli Altai, in Siberia, nel 2008. Gli archeologi e i ricercatori russi lo hanno accuratamente esaminato prima di affermare la sua straordinaria antichità. Lo splendido bracciale venne forgiato dai Denisoviani con tecniche avanzatissime per l'epoca. Alla luce del sole, l'oggetto ne riflette i raggi.

Oggi, in effetti, si ipotizzano almeno tre ondate di ibridazione. Il fatto che il peso del contributo denisoviano vari tanto tra le popolazioni moderne può destare stupore. Per esempio, è molto ridotto nella principale etnia cinese (Han), quasi nullo nelle Filippine (con l’eccezione di un gruppo di cacciatori-raccoglitori), ma alto in Nuova Guinea e a Vanuatu. Probabilmente la spiegazione va ricercata nella mutevole geografia delle terre emerse, che ha risentito fortemente dell’effetto delle glaciazioni, mettendo in contatto le comunità umane in un supercontinente detto della Sonda, e poi separandole nuovamente nei periodi caldi. Un ruolo può averlo avuto anche la selezione naturale, che ha premiato certi tratti denisoviani soltanto in alcuni ambienti. Per esempio si ipotizza che alcuni adattamenti immunitari arcaici siano risultati utili a Homo sapiens per difendersi dagli agenti patogeni diffusi nelle umide foreste equatoriali.
Un elemento in particolare salta agli occhi: pur abitando a soli 700 metri di quota, la celebre ragazzina della grotta di Denisova, quella del mignolo, aveva la versione di un gene (allele EPAS1) importante per vivere bene in alta montagna, perché aiuta i globuli rossi a usare in modo efficiente l’ossigeno. Quell’adattamento doveva essere stato selezionato altrove, tra genti abituate a muoversi a quote elevate, come l’altopiano del Tibet, che misura mediamente 4500 metri di altitudine. È forte la tentazione di concludere che siano stati proprio gli antenati dei Denisoviani a sviluppare questo tratto da super-atleti e che poi sia stato trasmesso per incrocio ai Sapiens arrivati in questa regione della Cina.
Torniamo dunque alla mandibola di Xiahe e alle ricerche eseguite per assegnarle un’identità. Se questa parte dell’Asia era stata al centro del mondo denisoviano perduto, il fossile in teoria poteva appartenere a questo gruppo, ma come era possibile dimostrarlo? L’Istituto di paleontologia dei vertebrati e di paleoantropologia dell’Accademia delle scienze cinese (IVPP) non era riuscito a estrarne il DNA, ma il Max-Planck-Institut aveva anche un’altra carta da giocare. Le proteine rappresentano il prodotto finale dell’espressione dei geni e possono conservarsi più a lungo di questi, basta pensare al collagene contenuto nelle ossa. Frido Weilker, quindi, ha preso l’impronta chimica del collagene della mandibola fossile con una tecnica chiamata ZooMS, scoprendo forti somiglianze con la falange siberiana. Dunque sì, il fossile donato al Sesto Buddha era davvero un Denisoviano vissuto molto lontano dalla grotta di Denisova.

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Altra immagine ipotetica di Denisoviano

Una conferma della presenza denisoviana a Baishiya è arrivata anche dal DNA mitocondriale trovato nei sedimenti della grotta. Questo tipo di DNA presente negli organelli deputati alla produzione di energia contiene meno informazioni del DNA nucleare perché è molto più piccolo, ma ha più probabilità di essere conservato nel corso dei millenni perché è presente in molteplici copie dentro a ogni cellula. Sembra incredibile, ma un milligrammo di sedimento può contenerne quasi quanto un milligrammo di osso antico. Le sequenze rilasciate dagli antichi esseri umani si trovano mescolate alle molecole originarie di animali, piante e microrganismi presenti nello stesso posto, ma una volta create «biblioteche di geni» è possibile separarle. In questo modo, Zhang e colleghi hanno dimostrato la presenza di DNA denisoviano nella grotta e sperano di trovare presto altri elementi per ricostruire la storia evolutiva e lo stile di vita degli abitanti arcaici dell’altopiano.
«Usiamo le tecniche di analisi delle paleoproteine su tutti i frammenti ossei più grandi di 20 millimetri che vengono alla luce e cerchiamo il paleoDNA sia nei fossili umani e animali sia nei sedimenti»,
ci racconta l’archeologa, che spera di riuscire prima o poi a estrarre anche del DNA nucleare.
«Sono convinto che altri fossili potranno essere assegnati ai Denisoviani grazie alle analisi molecolari. Il numero crescente di fossili frammentari ma riconoscibili ci consentirà di capire la distribuzione geografica e temporale di questo gruppo»,
aggiunge Welker. Nel luglio 2024 Baishiya ha fornito molte informazioni sulle prede cacciate da questi antichi uomini. Fra tutte spiccano per numero le pecore blu dell’Himalaya, ma compaiono anche yak, cervi, iene, lupi, leopardi delle nevi, aquile reali e fagiani. I segni sui resti suggeriscono che le carcasse venissero manipolate per ricavarne tutto il possibile: pelle, carne, midollo e strumenti in osso. In mezzo a tanti fossili animali è spuntato anche un altro indizio importante: una costola provvista di proteine denisoviane con una datazione piuttosto recente. Questo ritrovamento sembra indicare che la presenza denisoviana nel sito è durata grosso modo quanto nella grotta di Denisova, all’incirca da 200.000 fino a 40.000 anni fa. Suggerisce anche che questi umani siano vissuti abbastanza a lungo da avere la possibilità di incontrare i Sapiens che già abitavano l’altopiano.
Con l’aumentare delle informazioni genetiche si potrà chiarire quanto è stretta la parentela tra coloro che vivevano in Siberia (che ora ci appare non più il centro ma l’estrema periferia occidentale del mondo perduto dei Denisoviani) e quelli che popolavano la vasta area tra Asia e Oceania, gli stessi che hanno lasciato tracce nel DNA umano moderno. Inoltre, i fossili identificati via via come appartenenti al gruppo aiuteranno a comporre un identikit morfologico con cui confrontare altri potenziali candidati privi di DNA in buono stato.
«A oggi la mandibola di Xiahe e la costola trovata a Baishiya sono gli unici fossili ufficialmente accettati come denisoviani oltre ai micro-frammenti e ai macro-denti scoperti nella grotta di Denisova. Ma in Cina ci sono altri fossili ufficiosamente considerati come probabili denisoviani e possono aiutarci a ricostruire l’aspetto di questo gruppo umano»,
sostiene Condemi, che nel suo ultimo libro propone il seguente identikit: Denisova = cranio di Harbin + mandibola di Xiahe + corpo di Jinniushan.
Quella del fossile di Harbin è un’altra vicenda appassionante. Come raccontano Condemi e Savatier, questo cranio conservato quasi alla perfezione è passato fortunosamente indenne attraverso alcune delle stagioni più drammatiche della storia cinese. Oggi la città della Manciuria da cui prende il nome è conosciuta per il meraviglioso festival delle sculture di ghiaccio, ma quando il fossile venne alla luce negli anni trenta del secolo scorso quest’area faceva parte dello Stato fantoccio creato dal Giappone sul continente e ospitava un centro di ricerca batteriologica tristemente noto per gli esperimenti su migliaia di cavie umane. Quando i muratori che stavano lavorando alla costruzione di un ponte trovarono il cranio, il caposquadra lo nascose in un pozzo abbandonato per metterlo al sicuro. Vi restò a lungo, anche una volta finita l’occupazione giapponese, probabilmente perché non conveniva a nessuno ammettere di aver collaborato con l’invasore.
Quel nascondiglio lo ha protetto durante e dopo la sanguinosa Rivoluzione Culturale, fino al 2018, quando il caposquadra in punto di morte si è deciso a svelare a un nipote l’esistenza del tesoro segreto. Venuto a conoscenza del ritrovamento, il paleontologo Qiang Ji è riuscito a portarlo al museo dell’Università di Hubei, e nel 2022 il fossile di Harbin è diventato famoso con il soprannome di Uomo Drago. Gli studiosi cinesi gli hanno attribuito 150.000 anni e hanno proposto per lui una nuova specie (Homo longi), senza però riuscire a convincere la comunità scientifica internazionale. Il sospetto (ma forse potremmo dire l’auspicio) avanzato da diversi specialisti, al di fuori della Cina, è che si tratti di un cranio denisoviano.
Se questa ipotesi è vera, possiamo finalmente guardare in faccia un esemplare dell’elusivo gruppo umano. Per quanto riguarda le fattezze del corpo, invece, il fossile potenzialmente denisoviano più completo è la donna di Jinniushan, rinvenuta nel 1984 in una grotta non lontano dalla città di Dashiqiao, nella Provincia del Liaoning. Di lei abbiamo un avambraccio, alcune vertebre e costole, una rotula, ossa di mani e piedi e mezzo bacino. Il cranio ridotto in mille pezzi da un colpo di zappa è stato pazientemente ricomposto, per quanto possibile, dai ricercatori cinesi. Nell’insieme, questa donna presenta somiglianze con altri «sospetti Denisoviani», di cui sembra una versione più gracile, forse per via del dimorfismo sessuale, forse perché potrebbe essere più evoluta (alcune analisi le assegnano un’età di 260.000 anni, ma la sua datazione è incerta come quella di molti fossili trovati in Cina e altrove).
Secondo Condemi le sue proporzioni mostrano un adattamento al freddo e ricordano la corporatura delle neanderthaliane e anche delle donne inuit. Nel complesso, secondo la studiosa, i dati biogeografici, archeologici e paleontologici sarebbero ormai abbastanza ricchi da lasciarci alle spalle l’idea che i Denisoviani siano una popolazione «fantasma», disincarnata perché arrivata fino a noi soltanto attraverso i suoi geni.
«Oltre al loro DNA, ormai conosciamo anche la morfologia, attraverso i caratteri ossei e dentali osservati nei fossili di Denisova, Xiahe, Harbin, Jinniushan e non solo».
La lista si allunga con i fossili di Xujiayao, Dali, Lingjing, Maba, Penghu e altri ancora, ma è bene ricordare che a oggi questa definizione paleontologica non ha ancora i crismi dell’ufficialità. Un ultimo aiuto arriva dagli studi molecolari che hanno provato a prevedere l’aspetto fisico degli abitanti di Denisova, a partire dalla ragazzina vissuta circa 70.000 anni fa nella grotta siberiana, quella di cui abbiamo trovato la punta del mignolo contenente un genoma in ottimo stato. Il sequenziamento ha svelato che doveva avere occhi, capelli e pelle scura, ma altre informazioni utili possono essere ricavate dall’analisi delle modifiche chimiche apposte sopra alle lettere del suo DNA. In questo caso si parla di epi-genetica, anziché di genetica.
«Il ritratto che emerge è compatibile con le caratteristiche mostrate dai fossili denisoviani o presunti tali. Dobbiamo immaginare esseri umani dall’aspetto arcaico, con ossa spesse, fianchi larghi, arti possenti, cranio a forma di pallone da rugby e faccia lunga»,
riassume Condemi. Il volto della ragazzina-ambasciatrice del popolo di Denisova è stato presentato nel 2019 da Liran Carmel, pioniere della paleoepigenetica della Hebrew University di Gerusalemme. Per capire l’approccio è utile partire dall’esempio del girino e della rana, che hanno gli stessi geni ma un aspetto decisamente diverso. Il primo ha branchie e coda, la seconda ha quattro zampe e respira fuori dall’acqua, perché in corrispondenza di lettere chiave del genoma presentano una diversa distribuzione dei gruppi chimici che rendono i geni più o meno accessibili alla trascrizione.
Carmel e colleghi hanno studiato come questi interruttori molecolari influenzano l’espressione dei geni umani che determinano la morfologia scheletrica, mettendo a confronto Denisoviani, Neanderthaliani e Sapiens. Ne è nato un modello predittivo – ancora sperimentale – che permette di indovinare le caratteristiche fisiche sulla base delle mappe di distribuzione dei gruppi metile, con un livello di accuratezza buono ma ancora non ottimale. I fossili non assegnati che presentano le caratteristiche denisoviane così dedotte dovrebbero essere considerati presunti Denisoviani?
«Abbiamo cercato di quantificare la corrispondenza tra antichi crani ben noti con una tassonomia umana non determinata e il nostro modello, ma l’articolo deve ancora superare la peer-review, è presto per parlarne»,
ci risponde Carmel. La frontiera si sposta sempre più in là, arrivando quasi a sfiorare la fantascienza. Nell’ultimo lavoro pubblicato, per esempio, il gruppo prova a prevedere l’espressione del DNA antico in cellule che non fossilizzano, come i neuroni. Purtroppo non avremo mai un cervello arcaico da studiare, ma almeno in parte i marcatori epigenetici vengono apposti così precocemente durante lo sviluppo da essere comuni ai diversi tipi cellulari. La sfida consiste nel provare a identificarli nei geni più interessanti dal punto di vista delle neuroscienze, a partire dal DNA recuperato dalle ossa. La speranza è che algoritmi come questi, allenati sui dati di metilazione di uomini arcaici e moderni e di altri primati, riusciranno ad aprire nuovi scorci sulla crescita cerebrale e altri processi cruciali per l’evoluzione umana.

di Anna Meldolesi

I Denisoviani sono una specie? Noi umani moderni ci definiamo Homo sapiens. Se la Commissione internazionale per la nomenclatura zoologica decidesse che gli abitanti dei siti di Denisova e Baishiya meritano di essere considerati come i rappresentanti di una specie a parte, potrebbero chiamarsi Homo denisovensis o Homo altajensis, dal nome della prima grotta in cui sono stati scoperti o del massiccio montuoso dove è situata. Ma visto che ci siamo ripetutamente incrociati con loro, è opportuno dichiarare che siamo specie diverse? Non sarà il caso di unire tutti sotto l’ombrello H. sapiens e distinguerci a livello di sottospecie? Secondo la definizione classica proposta da Ernst Mayr, una specie biologica è «una popolazione o un gruppo di popolazioni i cui individui possono effettivamente o potenzialmente riprodursi tra loro e generare una discendenza vitale e feconda, in condizioni naturali». I paleontologi, però, hanno a che fare con creature estinte e sono soliti usare il concetto di morfospecie, o specie morfologica, per cui dividono o raggruppano i fossili in base alle somiglianze fisiche strutturali, trovandosi spesso in disaccordo tra loro. C’è poi il concetto di «specie genetica», che tiene in considerazione le variazioni genetiche dentro al gruppo e fra i gruppi per tracciare gli spartiacque. La materia, insomma, è complicata e scivolosa. Quando il DNA estratto dal mignolo fossile della ragazza di Denisova ha rivelato l’esistenza di un gruppo diverso sia da H. sapiens che dai Neanderthal, Svante Pääbo e i responsabili degli scavi nella grotta siberiana hanno proposto la dicitura Homo altaiensis nell’articolo che hanno inviato insieme a «Nature». Ma sono passati al nome più informale di Denisoviani dopo che un revisore li ha invitati alla cautela: prima di dichiarare l’esistenza di una nuova specie sulla base di un singolo genoma, meglio aspettare nuovi dati. La scuola russa, comunque, ritiene che le informazioni raccolte siano sufficienti per riconsiderare la questione e propendono per una distinzione in sottospecie. In un articolo del 2020 intitolato Who Were the Denisovans?, gli scienziati russi Anatoli Derevianko, Michael Shunkov e Maxim Kozlikin propongono per noi la dicitura Homo sapiens africaniensis. I due principali gruppi umani con cui i nostri antenati di provenienza africana si sono incrociati, invece, diventerebbero Homo sapiens neanderthalensis e Homo sapiens altaiensis. Nel dubbio, per ora, la maggior parte degli studiosi continua a parlare genericamente di Neanderthaliani e Denisoviani per indicare gli uomini arcaici che abbiamo assimilato e soppiantato, tanto da poterli definire estinti anche se i loro geni continuano a vivere dentro di noi.

Il ciondolo e il problema delle datazioni incerte La grotta di Denisova sui Monti Altaj, in Siberia, è eccezionale per la conservazione del DNA antico, purtroppo però questo sito ha sofferto disturbi significativi nel corso del tempo, a causa dell’attività delle iene e di processi periglaciali, che hanno compromesso parzialmente l’integrità degli strati archeologici. Di conseguenza, secondo una revisione pubblicata nel 2024 da Francesco d’Errico, del CNRS francese, insieme ad altri studiosi, molte attribuzioni cronologiche basate sulle associazioni tra campioni datati e manufatti o resti umani sono meno affidabili di quanto ci piacerebbe pensare. Secondo questa analisi critica è probabile che i Denisoviani abbiano frequentato il sito fino a 50.000 anni fa, e che i Sapiens non siano presenti a Denisova prima di 42.000 anni fa. In passato alcuni ornamenti sono stati attributi ai Denisoviani, ma la revisione suggerisce che buona parte di questi oggetti sia databile tra 35.000 e 25.000 anni fa, un periodo in cui la misteriosa popolazione non c’era più. In particolare ha destato scalpore l’estrazione di DNA umano da un canino di cerva usato come pendaglio. Exploit tecnici come questo evidenziano le difficoltà che si possono incontrare quando i dati genetici devono essere inquadrati in contesti problematici, che dovrebbero sollevare dubbi sull’età, sul quadro culturale e sull’interpretazione degli oggetti. «I genetisti sono mal consigliati se credono che la loro disciplina un giorno permetterà di ricostruire la storia umana senza il supporto di dati archeologici di qualità; allo stesso modo gli archeologi devono evitare la tentazione di pensare che il loro lavoro finisce con lo scavo di un sito e il trasferimento dei campioni ai colleghi genetisti», hanno scritto d’Errico e coautori, auspicando una collaborazione più stretta tra competenze diverse, che porti a una narrazione davvero multidisciplinare del passato dell’umanità.

La «plant economy» di Denisova Laura Longo, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, lavora sulle industrie litiche della grotta di Denisova dal 2018, prima che la pandemia e la guerra iniziassero a ostacolare le collaborazioni internazionali. Molti archeologi si concentrano sugli strumenti usati per cacciare le prede, lei invece si interessa soprattutto ai ciottoli impiegati per lavorare le piante. In particolare dallo strato 11, datato fra 50.000 e 35.000 anni fa, sono emersi resti di Denisoviani e dal DNA sedimentario sappiamo che era presente anche H. sapiens. Insieme ai colleghi russi, Longo ha campionato pietre caratterizzate da una forma compatibile con l’attività di macinazione di vegetali selvatici, cercando di discriminare tra i diversi usi. Le piante non si conservano facilmente e per questo tipo di studi è necessario ricorrere a tecniche sofisticate (approcci avanzati di microscopia e determinazione chimica, anche con la luce di sincrotrone). Rizomi, tuberi, frutti e semi sono ricchi di amido, ma le piante possono fornire anche fibre e legno per fabbricare corde, reti e contenitori, utili per trasportare gli oggetti durante gli spostamenti, che erano frequenti. «I ciottoli di Denisova presentano tracce di amido per scopi alimentari ma anche di altre lavorazioni». Chi li usava? «Per rispondere in modo definitivo bisognerebbe esaminare un maggior numero di campioni e servirebbero altri dati di analisi stratigrafica», ci dice Longo. I Denisoviani facevano abbondante uso di risorse vegetali ma è probabile che non fossero mangiatori abituali di amido, diversamente da noi che lo digeriamo in modo più efficiente. I geni necessari per metabolizzaepire questo composto sono aumentati di numero in Homo sapiens, presumibilmente perché l’invenzione dell’agricoltura ha favorito gli individui meglio equipaggiati da questo punto di vista. Recentemente uno studio statunitense, in collaborazione con lo Human Technopole di Milano, è arrivato a questa conclusione confrontando il DNA di umani viventi e antichi. Denisoviani e neanderthaliani non hanno più di due copie di questi geni, secondo le analisi del progetto Starch4Sapiens, che vede Longo collaborare con Alessandra Carbone e Silvana Condemi, rispettivamente del CNRS di Parigi e Marsiglia (nella foto a fianco reperti rinvenuti a Denisova).

Eugenio Caruso - 10 febbraio 2025

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