Gli effetti del DNA neanderthaliano
sugli esseri umani moderni sono evidenti in tutto
il cervello e nelle strutture associate
Le sequenze che abbiamo ereditato
dai nostri parenti estinti sembrano
avere effetti importanti
sulle nostre capacità cognitive
di Emily L. Casanova e F. Alex Feltus
Quando furono scoperti
i primi Neanderthal,
quasi 170 anni fa, il divario
concettuale tra la loro
linea evolutiva e quella
degli esseri umani moderni sembrava essere
notevole. Agli inizi gli scienziati, con molti
pregiudizi, pensavano che i Neanderthal
fossero esseri primitivi e brutali, appena più
intelligenti delle scimmie antropomorfe, e
che l’assenza in loro di capacità intellettive
avanzate li avesse condannati all’estinzione.
Da allora, i ricercatori hanno accumulato prove del fatto che
questi umani condividevano molte delle capacità cognitive un
tempo considerate esclusive della specie, Homo sapiens.
Costruivano strumenti complessi, producevano alimenti di base
come la farina, curavano le malattie con medicine a base di piante,
usavano simboli per comunicare e avevano rituali funebri.
La linea di separazione tra la loro linea evolutiva e la nostra si
è assottigliata ancora di più nel 2010, quando alcuni ricercatori
hanno pubblicato il primo sequenziamento di un genoma di
Neanderthal.
I confronti tra questo DNA antico e il DNA di esseri
umani moderni hanno mostrato che le due specie si erano accoppiate
e riprodotte tra loro e che le persone oggi in vita portano ancora
le tracce di questo mescolamento. (N.d.R. Studi recenti hanno mostrato che il DNA dell'homo sapiens porta tracce anche dell'homo di Denisova).
Da allora, numerosi studi hanno esplorato i modi in cui il DNA
derivato dai Neanderthal influisce sulla nostra fisiologia moderna,
rivoluzionando ciò che sappiamo non soltanto sui nostri "cugin"i
estinti ma anche su noi stessi, come specie ibrida.
Quest’area di ricerca, chiamata paleogenomica clinica, è ancora
agli albori e, nell’esplorare questa nuova frontiera, sono molte
le complessità da risolvere. I risultati di questi studi vanno quindi
presi con le pinze. Ciò nonostante, le ricerche condotte fino a oggi
sollevano l’affascinante possibilità che il DNA dei Neanderthal abbia sulla nostra specie effetti ad ampio spettro, non soltanto
sulla salute generale ma anche sullo sviluppo del cervello, influenzando
pure la nostra propensione a condizioni come l’autismo. In altre parole, è possibile che il DNA dei nostri parenti
estinti stia plasmando, in una certa misura, la cognizione delle
persone odierne.

Cause dell'autismo
Apparentemente, non passano due o tre settimane senza che
un nuovo studio approfondisca le nostre conoscenze su come
il DNA derivato dai Neanderthal influisca sulla salute e sulla
fisiologia dell’essere umano moderno. I ricercatori hanno scoperto
che alcune sequenze di DNA neanderthaliano rendono i portatori
più vulnerabili a vari disturbi del sistema immunitario, come
il lupus eritematoso sistemico e la malattia di Crohn; inoltre,
alcune varianti genetiche influiscono su una molecola immunitaria
nota come interleuchina-18, che svolge un ruolo nella predisposizione
alle malattie autoimmuni. Alcune varianti del DNA
neanderthaliano sono implicate in un aumento del rischio di forme
gravi di COVID-19, mentre altre sembrano essere un fattore
protettivo. Ancora altre varianti di derivazione neanderthaliana
potrebbero essere fondamentali per determinare se sviluppiamo
allergie. Ci sono infine indicazioni secondo cui il DNA dei nostri
antichi cugini potrebbe anche essere implicato nell’asma, ma il
tema è ancora oggetto di ricerca.
Gli scienziati hanno anche documentato alcuni effetti del DNA
neanderthaliano che vanno al di là del sistema immunitario. Queste
sequenze potrebbero influenzare il
colore della pelle e dei capelli, la rapidità
con cui il sangue si coagula, la propensione
ai disturbi cardiaci e il modo
in cui le cellule reagiscono a vari stress
ambientali, come le radiazioni. Potrebbero
anche contribuire a determinare
quanto siamo soggetti a certi tumori
della pelle, a una carenza di tiamina
(vitamina B1), all’obesità e al diabete.
L’idea che il DNA neanderthaliano possa esercitare influenze
significative sul nostro cervello e sul nostro comportamento,
tuttavia, è un po’ controintuitiva. Ricerche precedenti hanno mostrato
che questo DNA antico tende a essere sottorappresentato
nei geni legati al cervello dell’essere umano moderno, innanzitutto
perché questi geni sono molto sensibili ai cambiamenti e,
quindi, tutte le novità vengono eliminate abbastanza velocemente.
Queste regioni del genoma prive di DNA neanderthaliano sono
chiamate deserti neanderthaliani.
Studi pubblicati negli ultimi dieci anni, tuttavia, hanno mostrato
che negli esseri umani moderni parte del DNA derivato dai
Neanderthal è in effetti sopravvissuto dentro e intorno ad alcuni
geni legati al cervello.
Gli effetti di questo DNA si notano in ogni parte del cervello e
nelle strutture a esso associate. Philipp Gunz del Max-Planck-Institut
für evolutionäre Anthropologie di Lipsia, in Germania, ha
scoperto insieme ai colleghi che gli individui che hanno una percentuale
maggiore di DNA neanderthaliano hanno una probabilità
più alta di avere una forma del cranio un po’ più allungata,
che ricorda il cranio dei Neanderthal, in particolare nelle regioni
parietali e occipitali nella zona posteriore della scatola cranica.

Cranio neanderthaliano
Questo allungamento del cranio è talvolta associato a varianti neanderthaliane
localizzate vicino ai geni UBR4 e PHLPP1, coinvolti
nella produzione di neuroni e nella formazione della mielina,
la guaina lipidica che isola gli assoni dei neuroni più grandi, consentendo
loro di comunicare in modo più affidabile su distanze
maggiori. L’allungamento del cranio è anche associato a varianti
neanderthaliane localizzate nei dintorni del gene GPR26. Questo
gene è ancora poco compreso, ma sembra che abbia effetti antitumorali
e che, di conseguenza, sia probabilmente coinvolto anche
nella regolazione della produzione dei neuroni e di altre cellule
del sistema nervoso chiamate cellule gliali.
In un altro studio il gruppo di Michael D. Gregory, dei National
Institutes of Health statunitensi, ha osservato differenze nella
struttura cerebrale in regioni collegate all’elaborazione visiva e
alla socialità. Nello specifico, gli individui che hanno più DNA derivato
dai Neanderthal tendono ad avere una maggior connettività
nelle vie di comunicazione legate all’elaborazione visiva ma
una connettività ridotta in quelle, vicine, legate alla cognizione
sociale. Questa scoperta suggerisce che, nella linea evolutiva di
Homo, potrebbero esserci stati compromessi tra l’elaborazione visiva
e le abilità sociali.
Cosa molto importante, sembra che il DNA derivato dai Neanderthal
influenzi anche la struttura e la funzione del cervelletto.
Sebbene un tempo gran parte dei neuroscienziati tendesse a ritenere
questa regione cerebrale dedicata a funzioni di apprendimento
e coordinamento motori, in realtà il cervelletto è coinvolto
anche nell’attenzione, nella regolazione delle emozioni, nell’elaborazione
sensoriale e nella cognizione sociale. Sembra che sia di
importanza cruciale per sistemi coinvolti nella mentalizzazione,
una capacità alla base di molti aspetti della nostra abilità di inferire
gli stati mentali delle altre persone.
Nel 2018 Takanori Kochiyama, dell’Advanced Telecommunications
Research Institute International di Kyoto, in Giappone,
ha pubblicato insieme ai colleghi uno studio in cui i ricercatori
hanno ricostruito i crani di alcuni Neanderthal e di alcuni dei primi
esseri umani moderni e li hanno confrontati tra loro. La ricerca
mostra che nei nostri cugini estinti il cervelletto era significativamente
più piccolo rispetto a quello dei membri della nostra
linea evolutiva. Questi dati fanno pensare che potrebbe esserci
una variabilità significativa nella struttura e nella funzione del
cervelletto (e, di conseguenza, nella cognizione sociale) di noi esseri umani moderni a causa del DNA che abbiamo ereditato dai
Neanderthal.
Quando si parla di eredità delle variazioni genetiche, la dimensione
complessiva di una popolazione ha un effetto
enorme sulla probabilità che una particolare mutazione del DNA
sia trasmessa alla generazione successiva, specialmente se è in
qualche misura dannosa. In una popolazione di grandi dimensioni,
è probabile che una mutazione poco deleteria sia estirpata relativamente
in fretta per una semplice questione di probabilità. In
una popolazione piccola e isolata, per contro, la stessa mutazione
ha molte più probabilità di diffondersi come se fosse neutra,
e può persino diventare parte permanente del corredo genetico
della popolazione.
I gruppi piccoli, nel tempo, tendono ad accumulare
più mutazioni di quelli grandi; ciò può ridurre il numero
di figli che gli individui di queste popolazioni possono avere, mettendole
a rischio di scomparire. È per questo che la maggior parte
delle culture umane moderne considera un tabù il matrimonio
con un parente stretto, come un cugino di primo grado. Spesso le
culture che ancora consentono questa pratica hanno un tasso insolitamente
alto di malattie genetiche recessive, ossia quelle che
si verificano quando un individuo eredita lo stesso fattore genetico
di suscettibilità da entrambi i genitori.
Le ricerche sul genoma dei Neanderthal hanno indicato che
i nostri parenti estinti subirono un calo significativo e abbastanza
prolungato delle dimensioni della loro popolazione, un evento
noto come collo di bottiglia genetico. Tra 50.000 e 40.000
anni fa, la loro popolazione si contrasse fino a contare forse solo
5.000 individui. A causa di questo collo di bottiglia, il genoma
dei Neanderthal contiene una sovrabbondanza di mutazioni potenzialmente
dannose che, molto probabilmente, hanno portato
a una riduzione della loro fitness riproduttiva e ad alti tassi di malattie
recessive. Ci sono testimonianze di questo collo di bottiglia
e delle sue conseguenze nei fossili di Neanderthal del sito spagnolo
di El Sidrón, dove 13 individui strettamente imparentati presentano
17 diversi difetti scheletrici congeniti.
La nostra specie, probabilmente, ha ereditato alcune di queste
varianti genetiche sfavorevoli quando i nostri antenati si sono accoppiati
con i Neanderthal, decine di migliaia di anni fa. È possibile
che alcune delle varianti dannose derivate dai nostri cugini
estinti, rimaste nel nostro genoma, influenzino oggi non soltanto
la dimensione e la forma di alcune delle nostre strutture cerebrali,
ma anche la nostra propensione a disturbi psichiatrici e del
neurosviluppo?
Le prove finora accumulate fanno pensare che stia succedendo
proprio qualcosa del genere. Alcune varianti derivate dai
Neanderthal, per esempio, sono state collegate alla presenza di
depressione maggiore. Forse non è una coincidenza che queste
varianti siano anche state implicate nella determinazione del cronotipo,
ossia del fatto che una persona sia mattiniera o nottambula.
Secondo alcuni scienziati gli effetti del DNA neanderthaliano
sul nostro cronotipo, che è determinato dai nostri ritmi circadiani,
potrebbero predisporci alla depressione, perché molti disturbi
dell’umore hanno una componente stagionale significativa (un
esempio per tutti: il disturbo affettivo stagionale, un tipo di disturbo
dell’umore in cui i sintomi vanno e vengono con l’alternarsi
delle stagioni).
Il DNA derivato dai Neanderthal è stato associato anche all’uso
di sostanze come l’alcool e il fumo. Sembra che altre varianti
genetiche facciano aumentare la sensibilità al dolore e inducano
quindi a consumare più antidolorifici. Un sottoinsieme di varianti
del DNA neanderthaliano, inoltre, può accrescere la probabilità
di sviluppare il disturbo da deficit di attenzione e iperattività
(ADHD), anche se queste varianti stanno lentamente scomparendo
dal genoma degli esseri umani moderni.
Nel nostro lavoro di ricerca abbiamo studiato un collegamento
particolarmente interessante, ossia il possibile legame tra l’eredità
dei Neanderthal e l’autismo. Abbiamo iniziato a interessarci
a questo legame quando abbiamo scoperto i parallelismi nella
configurazione di alcuni circuiti cerebrali coinvolti nell’elaborazione
dei segnali visivi e sociali tra le persone non autistiche che
hanno più DNA neanderthaliano e le persone nello spettro autistico.
Queste ultime, spesso, hanno marcate abilità visivo-spaziali:
per esempio, nei test cognitivi, tendono a eccellere nell’individuare
una certa forma in un mare di altre forme inserite apposta
per distrarre. Allo stesso tempo, un aspetto tipico dell’esperienza
autistica sono le difficoltà nella cognizione
sociale; e questo richiama
alla mente la ridotta connettività, in
quelle stesse vie cerebrali, nelle persone
non autistiche che hanno più DNA
neanderthaliano. Sapevamo già anche
che, proprio come i Neanderthal avevano
un cervelletto più piccolo dei primi
esseri umani moderni (cosa che potrebbe
aver influenzato le loro abilità di cognizione sociale), le
persone nello spettro autistico hanno un volume ridotto di certe
regioni del cervelletto.
Tutti questi dati provenienti dalla genetica, dal neuroimaging
e dalle ricostruzioni cerebrali ci hanno spinto a chiederci se
il DNA derivato dai Neanderthal possa influenzare la suscettibilità
all’autismo nelle popolazioni umane moderne.
I nostri laboratori hanno deciso di affrontare insieme questa
importante domanda, accedendo a dati genetici su persone autistiche
e non autistiche raccolti in numerosi e consolidati database
di grandi dimensioni.
Ci interessava anche studiare il DNA derivato dai Neanderthal
tenendo conto del profilo etnico, perché tra le popolazioni moderne
c’è molta variabilità; le persone di ascendenza africana, per
esempio, tendono ad avere meno DNA neanderthaliano di quelle
asiatiche ed europee. Era importante, quindi, confrontare i nostri
gruppi di individui autistici e non autistici tenendo conto del
loro gruppo etnico.
Quando studiano il DNA neanderthaliano nel genoma umano
moderno, tipicamente gli scienziati indagano singoli punti del
DNA che variano tra le diverse popolazioni. Questi punti variabili
sono chiamati polimorfismi a singolo nucleotide o SNP (single nucleotide
polymorphism). Eravamo molto interessati a studiare separatamente i polimorfismi di origine neanderthaliana frequenti
e quelli rari perché, quanto più una variante del DNA è rara, tanto
maggiore è la probabilità che sia dannosa e minore quella che sia
trasmessa alla prole. Quello che abbiamo scoperto è che gli individui
autistici tendono ad avere SNP derivati dai Neanderthal più
rari di quelli presenti negli individui non autistici del medesimo
gruppo etnico.

Ricostruzione facciale dell’uomo di Neanderthal ritrovato a La-Chapelle aux Saints.
Va notato che le persone autistiche non hanno necessariamente
una maggiore quantità di DNA derivato dai Neanderthal: non
sono «più Neanderthal» delle altre. Solo, il loro DNA neanderthaliano
comprende tendenzialmente più varianti rare rispetto
al DNA neanderthaliano delle persone che non sono nello spettro
autistico.
Abbiamo studiato anche SNP che influenzano nello specifico
l’attività genica nel cervello. Siamo riusciti a identificare 25 di
questi cosiddetti loci quantitativi di espressione (eQTL, dall’inglese
expression quantitative trait loci) di derivazione neanderthaliana
che erano sovrarappresentati nei nostri gruppi di persone
autistiche. Per esempio, circa l’80 per cento dei maschi bianchi
ispanici autistici colpiti da epilessia aveva uno specifico SNP derivato
dai Neanderthal nel gene USP47, contro il 15 per cento di
quelli, non autistici, del gruppo di controllo. Anche se non sappiamo
molto delle sue funzioni, il gene USP47 potrebbe essere legato
all’epilessia, che spesso compare in concomitanza con l’autismo.
Abbiamo inoltre trovato una mutazione
nel gene COX10 che si ritrova
più spesso nelle persone nere con disturbo
autistico che nelle persone nere
che non ne soffrono. Animali geneticamente
modificati in modo che il gene
COX10 sia inattivo tendono ad avere
uno squilibro funzionale tra l’attività
dei neuroni eccitatori e di quelli inibitori
nel cervello, un tratto molto caratteristico di condizioni come
l’autismo.
Non abbiamo ancora un’idea chiara di che cosa facciano tutti
questi SNP derivati dai Neanderthal negli individui nello
spettro autistico. Sembra però che possano influenzare lo sviluppo
del disturbo in modi misurabili in tutti i gruppi etnici che
abbiamo studiato. Le nostre ricerche suggeriscono che molti degli
SNP neanderthaliani rari associati all’autismo contribuiscono
a orchestrare la connettività neurale, cosa che a sua volta può
influenzare la comunicazione tra i neuroni. I modi precisi in cui
queste varianti influenzano lo sviluppo cerebrale, però, restano
ancora da determinare. La cosa più probabile è che non ci sia
un’unica risposta.
La genetica è un campo estremamente complicato. Nonostante
il genoma umano sia stato sequenziato oltre vent’anni fa, la nostra
comprensione delle reti di interazioni molecolari e di come
queste influenzano lo sviluppo e la funzione degli organi è ancora
abbastanza rudimentale. Man mano che andiamo più in profondità
nello studio del modo in cui il DNA derivato dai Neanderthal
influenza i nostri geni, è importante accettare la complessità del
problema. Ci sono più di 78.000 geni umani moderni che si sono
mescolati con circa lo stesso numero di geni neanderthaliani. Gli
esseri umani riescono a venire a capo di un problema tridimensionale,
ma un problema a 78.000 dimensioni è decisamente più
difficile! Per fortuna, i computer moderni che eseguono software
di intelligenza artificiale possono sostenere un impegno analitico
che per il nostro cervello è troppo oneroso.
Il nostro primo studio si è concentrato sul DNA derivato dai
Neanderthal in sequenze genomiche parziali che costituiscono
solo circa l’uno per cento dell’intero genoma umano. Nella fase
successiva, scansioneremo sequenze complete del genoma, rese
disponibili di recente, di famiglie di esseri umani moderni con
una propensione per l’autismo. Espandendo la nostra area di ricerca
di DNA antico dai geni alle regioni comprese tra i geni, saremo
in grado di investigare milioni di ulteriori eQTL, che regolano
l’intensità dell’espressione genica un po’ come un interruttore
varialuce controlla la quantità di luce emessa da una lampadina.
Una volta che avremo individuato quali di questi eQTL sono
ascrivibili a varianti di DNA derivate dai Neanderthal nel genoma
umano moderno, saremo in grado di dedurre se una parte di questo
DNA neanderthaliano sta alterando l’espressione genica in
modo misurabile.

In una cellula (esclusi alcuni tipi particolari mancanti del nucleo, ed i gameti che hanno la metà del DNA nucleare) vi sono normalmente 23 coppie di cromosomi (46 in totale), ognuno dei quali contiene centinaia di geni separati da regioni intergeniche. Le regioni intergeniche possono contenere sequenze regolatrici e DNA non codificante.
Una ricerca sull’intero genoma ci consentirà di identificare gli
eQTL di origine neanderthaliana coinvolti nella funzione e nello
sviluppo non solo del cervello nel suo insieme, ma anche di specifici
tessuti e regioni cerebrali, come il cervelletto. Magari potremmo
scoprire che Homo sapiens ha ereditato dai Neanderthal
tratti del tutto nuovi del suo neurosviluppo, che non esistevano
nella nostra linea ereditaria prima che i due gruppi si incrociassero.
Uno scenario più probabile, tuttavia, è che l’introduzione del
DNA neanderthaliano in Homo sapiens abbia modificato, ma non
scavalcato o sostituito, meccanismi di controllo genetici per condizioni
straordinariamente complesse come l’autismo, l’ADHD e
la depressione.
Se riuscissimo a identificare gli esatti meccanismi del neurosviluppo
controllati dalle reti di regolazione genica in cui si mescolano
geni di Neanderthal e di Homo sapiens, potremmo comprendere
come il DNA antico ha riconfigurato l’espressione dei
geni nel cervello nel momento dell’ibridazione. Questo tipo di conoscenza
potrebbe trovare molte applicazioni terapeutiche nel
campo emergente della medicina personalizzata.
Non ci interessa soltanto il DNA derivato dai Neanderthal. È
possibile che sia l’ibridazione in generale, e non solo il DNA ereditato
specificamente dai Neanderthal, a contribuire alla suscettibilità
all’autismo, che in tal caso si potrebbe considerare l’effetto
di una forma di incompatibilità genetica. Se così fosse, potremmo
aspettarci di vedere che anche il DNA dei Denisova (un’altra
specie di nostri cugini, anche loro incrociatisi con Homo
sapiens) svolge un ruolo nell’autismo e in altre condizioni neurologiche
nei gruppi etnici di persone moderne che hanno DNA
denisoviano (soprattutto individui con origini asiatiche o nativi
americani). Ci occuperemo di cercare segnali dell’influenza dei
denisoviani nel seguito della nostra ricerca.
Come le varianti neanderthaliane legate all’ADHD, che stanno
venendo gradualmente scartate dal genoma degli umani moderno, anche le rare varianti neanderthaliane degli individui
autistici potrebbero venire rimosse dal pool genetico. Alcune sequenze
rare di DNA derivate dai Neanderthal, con ogni probabilità,
stanno scomparendo semplicemente a causa di quella che i genetisti
di popolazione chiamano la legge dei grandi numeri, che
prevede che il DNA raro e poco comune, a prescindere dai suoi
effetti sull’organismo, col tempo tenda pian piano a scomparire
da una grande popolazione riproduttiva. Altro DNA derivato dai
Neanderthal, invece, potrebbe essere raro perché è un po’ dannoso
e quindi influenza la capacità degli individui di avere figli e, di
conseguenza, di trasmettere il proprio DNA.
Sappiamo dalle ricerche che, in media, le persone nello spettro
autistico hanno una probabilità di avere figli significativamente
minore rispetto alla popolazione generale, per quanto,
come è ovvio, alcuni ne abbiano. Non sappiamo, tuttavia, se i
tassi riproduttivi di questi individui siano più bassi perché si trovano
in difficoltà nelle relazioni romantiche o perché hanno più
probabilità di soffrire di disturbi che influenzano la fertilità, come
la sindrome dell’ovaio policistico. La risposta, probabilmente,
dipende da molti fattori. A prescindere dalle ragioni, comunque,
meno prole significa che meno varianti genetiche associate
all’autismo vengono trasmesse nel tempo. Ma se queste varianti
sono trasmesse meno spesso, come mai continuano a restare nel
genoma umano, seppure in piccole quantità?
Quando si parla di autismo, tradizionalmente la comunità medica
si è concentrata sui deficit e sulle difficoltà che le persone
con questa condizione possono incontrare. Questo approccio
è radicato nel modello medico della disabilità, che nel caso delle
differenze del neurosviluppo sostiene che gli individui dovrebbero
ricevere cure mediche concentrate sul «sistemare» o gestire
la condizione e volte a normalizzarne il comportamento. Lo spettro
autistico, però, è anche associato a caratteristiche che potrebbero
essere state adattative durante la più recente evoluzione del
cervello umano: per esempio una migliore elaborazione visuospaziale,
un’intelligenza elevata, memoria e creatività eccezionali.
Numerosi studi genetici hanno scoperto che molte varianti genetiche
comunemente associate all’autismo sono anche associate
a un’intelligenza elevata, a migliori capacità cognitive e a ottimi
risultati scolastici.
I familiari di persone nello spettro autistico, inoltre, hanno
maggiori probabilità di lavorare in campi legati alla scienza e alla
tecnologia e, come indica un nostro studio recente, hanno anche
buone probabilità di avere alcune di queste stesse varianti rare
derivate dai Neanderthal. Di conseguenza, per quanto in media
gli individui autistici abbiano tassi riproduttivi più bassi, può darsi
che i loro familiari non autistici (per quanto comunque potenzialmente
neurodivergenti) stiano contribuendo a mantenere
questo DNA nel corredo genetico umano. In altre parole, anche
se alcuni fattori evolutivi sono al lavoro per espellere dal genoma
umano queste varianti genetiche di origine neanderthaliana associate
all’autismo, altri fattori sembrano operare per trattenerle
al suo interno.
Anche se non sappiamo ancora se il DNA derivato dai Neanderthal
associato all’autismo sia anche legato all’intelligenza, alla
sindrome del savant [per cui una persona con deficit cognitivi
mostra un’eccezionale abilità in un ambito specifico, N.d.R.] o alla
creatività in generale, stiamo lentamente ricomponendo il mosaico.
L’esistenza di una simile relazione suggerirebbe che gli incroci
con i Neanderthal hanno influenzato, nella nostra specie, molti
aspetti dell’evoluzione cerebrale. Di conseguenza, il DNA derivato
dai Neanderthal non riguarda soltanto la storia dell’autismo e
di altri disturbi psicologici e del neurosviluppo: è fondamentale
per la storia di tutte e tutti noi.
Eugenio Caruso - 10 marzo 2025

Tratto da le scienze