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Gli effetti del DNA neanderthaliano sugli esseri umani

Gli effetti del DNA neanderthaliano sugli esseri umani moderni sono evidenti in tutto il cervello e nelle strutture associate

Le sequenze che abbiamo ereditato dai nostri parenti estinti sembrano avere effetti importanti sulle nostre capacità cognitive di Emily L. Casanova e F. Alex Feltus

Quando furono scoperti i primi Neanderthal, quasi 170 anni fa, il divario concettuale tra la loro linea evolutiva e quella degli esseri umani moderni sembrava essere notevole. Agli inizi gli scienziati, con molti pregiudizi, pensavano che i Neanderthal fossero esseri primitivi e brutali, appena più intelligenti delle scimmie antropomorfe, e che l’assenza in loro di capacità intellettive avanzate li avesse condannati all’estinzione.
Da allora, i ricercatori hanno accumulato prove del fatto che questi umani condividevano molte delle capacità cognitive un tempo considerate esclusive della specie, Homo sapiens. Costruivano strumenti complessi, producevano alimenti di base come la farina, curavano le malattie con medicine a base di piante, usavano simboli per comunicare e avevano rituali funebri. La linea di separazione tra la loro linea evolutiva e la nostra si è assottigliata ancora di più nel 2010, quando alcuni ricercatori hanno pubblicato il primo sequenziamento di un genoma di Neanderthal.
I confronti tra questo DNA antico e il DNA di esseri umani moderni hanno mostrato che le due specie si erano accoppiate e riprodotte tra loro e che le persone oggi in vita portano ancora le tracce di questo mescolamento. (N.d.R. Studi recenti hanno mostrato che il DNA dell'homo sapiens porta tracce anche dell'homo di Denisova).
Da allora, numerosi studi hanno esplorato i modi in cui il DNA derivato dai Neanderthal influisce sulla nostra fisiologia moderna, rivoluzionando ciò che sappiamo non soltanto sui nostri "cugin"i estinti ma anche su noi stessi, come specie ibrida. Quest’area di ricerca, chiamata paleogenomica clinica, è ancora agli albori e, nell’esplorare questa nuova frontiera, sono molte le complessità da risolvere. I risultati di questi studi vanno quindi presi con le pinze. Ciò nonostante, le ricerche condotte fino a oggi sollevano l’affascinante possibilità che il DNA dei Neanderthal abbia sulla nostra specie effetti ad ampio spettro, non soltanto sulla salute generale ma anche sullo sviluppo del cervello, influenzando pure la nostra propensione a condizioni come l’autismo. In altre parole, è possibile che il DNA dei nostri parenti estinti stia plasmando, in una certa misura, la cognizione delle persone odierne.

autismo

Cause dell'autismo

Apparentemente, non passano due o tre settimane senza che un nuovo studio approfondisca le nostre conoscenze su come il DNA derivato dai Neanderthal influisca sulla salute e sulla fisiologia dell’essere umano moderno. I ricercatori hanno scoperto che alcune sequenze di DNA neanderthaliano rendono i portatori più vulnerabili a vari disturbi del sistema immunitario, come il lupus eritematoso sistemico e la malattia di Crohn; inoltre, alcune varianti genetiche influiscono su una molecola immunitaria nota come interleuchina-18, che svolge un ruolo nella predisposizione alle malattie autoimmuni. Alcune varianti del DNA neanderthaliano sono implicate in un aumento del rischio di forme gravi di COVID-19, mentre altre sembrano essere un fattore protettivo. Ancora altre varianti di derivazione neanderthaliana potrebbero essere fondamentali per determinare se sviluppiamo allergie. Ci sono infine indicazioni secondo cui il DNA dei nostri antichi cugini potrebbe anche essere implicato nell’asma, ma il tema è ancora oggetto di ricerca.
Gli scienziati hanno anche documentato alcuni effetti del DNA neanderthaliano che vanno al di là del sistema immunitario. Queste sequenze potrebbero influenzare il colore della pelle e dei capelli, la rapidità con cui il sangue si coagula, la propensione ai disturbi cardiaci e il modo in cui le cellule reagiscono a vari stress ambientali, come le radiazioni. Potrebbero anche contribuire a determinare quanto siamo soggetti a certi tumori della pelle, a una carenza di tiamina (vitamina B1), all’obesità e al diabete.
L’idea che il DNA neanderthaliano possa esercitare influenze significative sul nostro cervello e sul nostro comportamento, tuttavia, è un po’ controintuitiva. Ricerche precedenti hanno mostrato che questo DNA antico tende a essere sottorappresentato nei geni legati al cervello dell’essere umano moderno, innanzitutto perché questi geni sono molto sensibili ai cambiamenti e, quindi, tutte le novità vengono eliminate abbastanza velocemente. Queste regioni del genoma prive di DNA neanderthaliano sono chiamate deserti neanderthaliani.
Studi pubblicati negli ultimi dieci anni, tuttavia, hanno mostrato che negli esseri umani moderni parte del DNA derivato dai Neanderthal è in effetti sopravvissuto dentro e intorno ad alcuni geni legati al cervello.
Gli effetti di questo DNA si notano in ogni parte del cervello e nelle strutture a esso associate. Philipp Gunz del Max-Planck-Institut für evolutionäre Anthropologie di Lipsia, in Germania, ha scoperto insieme ai colleghi che gli individui che hanno una percentuale maggiore di DNA neanderthaliano hanno una probabilità più alta di avere una forma del cranio un po’ più allungata, che ricorda il cranio dei Neanderthal, in particolare nelle regioni parietali e occipitali nella zona posteriore della scatola cranica.

cranio di N

Cranio neanderthaliano

Questo allungamento del cranio è talvolta associato a varianti neanderthaliane localizzate vicino ai geni UBR4 e PHLPP1, coinvolti nella produzione di neuroni e nella formazione della mielina, la guaina lipidica che isola gli assoni dei neuroni più grandi, consentendo loro di comunicare in modo più affidabile su distanze maggiori. L’allungamento del cranio è anche associato a varianti neanderthaliane localizzate nei dintorni del gene GPR26. Questo gene è ancora poco compreso, ma sembra che abbia effetti antitumorali e che, di conseguenza, sia probabilmente coinvolto anche nella regolazione della produzione dei neuroni e di altre cellule del sistema nervoso chiamate cellule gliali.

In un altro studio il gruppo di Michael D. Gregory, dei National Institutes of Health statunitensi, ha osservato differenze nella struttura cerebrale in regioni collegate all’elaborazione visiva e alla socialità. Nello specifico, gli individui che hanno più DNA derivato dai Neanderthal tendono ad avere una maggior connettività nelle vie di comunicazione legate all’elaborazione visiva ma una connettività ridotta in quelle, vicine, legate alla cognizione sociale. Questa scoperta suggerisce che, nella linea evolutiva di Homo, potrebbero esserci stati compromessi tra l’elaborazione visiva e le abilità sociali.
Cosa molto importante, sembra che il DNA derivato dai Neanderthal influenzi anche la struttura e la funzione del cervelletto. Sebbene un tempo gran parte dei neuroscienziati tendesse a ritenere questa regione cerebrale dedicata a funzioni di apprendimento e coordinamento motori, in realtà il cervelletto è coinvolto anche nell’attenzione, nella regolazione delle emozioni, nell’elaborazione sensoriale e nella cognizione sociale. Sembra che sia di importanza cruciale per sistemi coinvolti nella mentalizzazione, una capacità alla base di molti aspetti della nostra abilità di inferire gli stati mentali delle altre persone.
Nel 2018 Takanori Kochiyama, dell’Advanced Telecommunications Research Institute International di Kyoto, in Giappone, ha pubblicato insieme ai colleghi uno studio in cui i ricercatori hanno ricostruito i crani di alcuni Neanderthal e di alcuni dei primi esseri umani moderni e li hanno confrontati tra loro. La ricerca mostra che nei nostri cugini estinti il cervelletto era significativamente più piccolo rispetto a quello dei membri della nostra linea evolutiva. Questi dati fanno pensare che potrebbe esserci una variabilità significativa nella struttura e nella funzione del cervelletto (e, di conseguenza, nella cognizione sociale) di noi esseri umani moderni a causa del DNA che abbiamo ereditato dai Neanderthal.

Quando si parla di eredità delle variazioni genetiche, la dimensione complessiva di una popolazione ha un effetto enorme sulla probabilità che una particolare mutazione del DNA sia trasmessa alla generazione successiva, specialmente se è in qualche misura dannosa. In una popolazione di grandi dimensioni, è probabile che una mutazione poco deleteria sia estirpata relativamente in fretta per una semplice questione di probabilità. In una popolazione piccola e isolata, per contro, la stessa mutazione ha molte più probabilità di diffondersi come se fosse neutra, e può persino diventare parte permanente del corredo genetico della popolazione.
I gruppi piccoli, nel tempo, tendono ad accumulare più mutazioni di quelli grandi; ciò può ridurre il numero di figli che gli individui di queste popolazioni possono avere, mettendole a rischio di scomparire. È per questo che la maggior parte delle culture umane moderne considera un tabù il matrimonio con un parente stretto, come un cugino di primo grado. Spesso le culture che ancora consentono questa pratica hanno un tasso insolitamente alto di malattie genetiche recessive, ossia quelle che si verificano quando un individuo eredita lo stesso fattore genetico di suscettibilità da entrambi i genitori.
Le ricerche sul genoma dei Neanderthal hanno indicato che i nostri parenti estinti subirono un calo significativo e abbastanza prolungato delle dimensioni della loro popolazione, un evento noto come collo di bottiglia genetico. Tra 50.000 e 40.000 anni fa, la loro popolazione si contrasse fino a contare forse solo 5.000 individui. A causa di questo collo di bottiglia, il genoma dei Neanderthal contiene una sovrabbondanza di mutazioni potenzialmente dannose che, molto probabilmente, hanno portato a una riduzione della loro fitness riproduttiva e ad alti tassi di malattie recessive. Ci sono testimonianze di questo collo di bottiglia e delle sue conseguenze nei fossili di Neanderthal del sito spagnolo di El Sidrón, dove 13 individui strettamente imparentati presentano 17 diversi difetti scheletrici congeniti.
La nostra specie, probabilmente, ha ereditato alcune di queste varianti genetiche sfavorevoli quando i nostri antenati si sono accoppiati con i Neanderthal, decine di migliaia di anni fa. È possibile che alcune delle varianti dannose derivate dai nostri cugini estinti, rimaste nel nostro genoma, influenzino oggi non soltanto la dimensione e la forma di alcune delle nostre strutture cerebrali, ma anche la nostra propensione a disturbi psichiatrici e del neurosviluppo?
Le prove finora accumulate fanno pensare che stia succedendo proprio qualcosa del genere. Alcune varianti derivate dai Neanderthal, per esempio, sono state collegate alla presenza di depressione maggiore. Forse non è una coincidenza che queste varianti siano anche state implicate nella determinazione del cronotipo, ossia del fatto che una persona sia mattiniera o nottambula. Secondo alcuni scienziati gli effetti del DNA neanderthaliano sul nostro cronotipo, che è determinato dai nostri ritmi circadiani, potrebbero predisporci alla depressione, perché molti disturbi dell’umore hanno una componente stagionale significativa (un esempio per tutti: il disturbo affettivo stagionale, un tipo di disturbo dell’umore in cui i sintomi vanno e vengono con l’alternarsi delle stagioni).
Il DNA derivato dai Neanderthal è stato associato anche all’uso di sostanze come l’alcool e il fumo. Sembra che altre varianti genetiche facciano aumentare la sensibilità al dolore e inducano quindi a consumare più antidolorifici. Un sottoinsieme di varianti del DNA neanderthaliano, inoltre, può accrescere la probabilità di sviluppare il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), anche se queste varianti stanno lentamente scomparendo dal genoma degli esseri umani moderni.
Nel nostro lavoro di ricerca abbiamo studiato un collegamento particolarmente interessante, ossia il possibile legame tra l’eredità dei Neanderthal e l’autismo. Abbiamo iniziato a interessarci a questo legame quando abbiamo scoperto i parallelismi nella configurazione di alcuni circuiti cerebrali coinvolti nell’elaborazione dei segnali visivi e sociali tra le persone non autistiche che hanno più DNA neanderthaliano e le persone nello spettro autistico. Queste ultime, spesso, hanno marcate abilità visivo-spaziali: per esempio, nei test cognitivi, tendono a eccellere nell’individuare una certa forma in un mare di altre forme inserite apposta per distrarre. Allo stesso tempo, un aspetto tipico dell’esperienza autistica sono le difficoltà nella cognizione sociale; e questo richiama alla mente la ridotta connettività, in quelle stesse vie cerebrali, nelle persone non autistiche che hanno più DNA neanderthaliano. Sapevamo già anche che, proprio come i Neanderthal avevano un cervelletto più piccolo dei primi esseri umani moderni (cosa che potrebbe aver influenzato le loro abilità di cognizione sociale), le persone nello spettro autistico hanno un volume ridotto di certe regioni del cervelletto.

Tutti questi dati provenienti dalla genetica, dal neuroimaging e dalle ricostruzioni cerebrali ci hanno spinto a chiederci se il DNA derivato dai Neanderthal possa influenzare la suscettibilità all’autismo nelle popolazioni umane moderne.
I nostri laboratori hanno deciso di affrontare insieme questa importante domanda, accedendo a dati genetici su persone autistiche e non autistiche raccolti in numerosi e consolidati database di grandi dimensioni. Ci interessava anche studiare il DNA derivato dai Neanderthal tenendo conto del profilo etnico, perché tra le popolazioni moderne c’è molta variabilità; le persone di ascendenza africana, per esempio, tendono ad avere meno DNA neanderthaliano di quelle asiatiche ed europee. Era importante, quindi, confrontare i nostri gruppi di individui autistici e non autistici tenendo conto del loro gruppo etnico.
Quando studiano il DNA neanderthaliano nel genoma umano moderno, tipicamente gli scienziati indagano singoli punti del DNA che variano tra le diverse popolazioni. Questi punti variabili sono chiamati polimorfismi a singolo nucleotide o SNP (single nucleotide polymorphism). Eravamo molto interessati a studiare separatamente i polimorfismi di origine neanderthaliana frequenti e quelli rari perché, quanto più una variante del DNA è rara, tanto maggiore è la probabilità che sia dannosa e minore quella che sia trasmessa alla prole. Quello che abbiamo scoperto è che gli individui autistici tendono ad avere SNP derivati dai Neanderthal più rari di quelli presenti negli individui non autistici del medesimo gruppo etnico.

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Ricostruzione facciale dell’uomo di Neanderthal ritrovato a La-Chapelle aux Saints.

Va notato che le persone autistiche non hanno necessariamente una maggiore quantità di DNA derivato dai Neanderthal: non sono «più Neanderthal» delle altre. Solo, il loro DNA neanderthaliano comprende tendenzialmente più varianti rare rispetto al DNA neanderthaliano delle persone che non sono nello spettro autistico.
Abbiamo studiato anche SNP che influenzano nello specifico l’attività genica nel cervello. Siamo riusciti a identificare 25 di questi cosiddetti loci quantitativi di espressione (eQTL, dall’inglese expression quantitative trait loci) di derivazione neanderthaliana che erano sovrarappresentati nei nostri gruppi di persone autistiche. Per esempio, circa l’80 per cento dei maschi bianchi ispanici autistici colpiti da epilessia aveva uno specifico SNP derivato dai Neanderthal nel gene USP47, contro il 15 per cento di quelli, non autistici, del gruppo di controllo. Anche se non sappiamo molto delle sue funzioni, il gene USP47 potrebbe essere legato all’epilessia, che spesso compare in concomitanza con l’autismo.
Abbiamo inoltre trovato una mutazione nel gene COX10 che si ritrova più spesso nelle persone nere con disturbo autistico che nelle persone nere che non ne soffrono. Animali geneticamente modificati in modo che il gene COX10 sia inattivo tendono ad avere uno squilibro funzionale tra l’attività dei neuroni eccitatori e di quelli inibitori nel cervello, un tratto molto caratteristico di condizioni come l’autismo.

Non abbiamo ancora un’idea chiara di che cosa facciano tutti questi SNP derivati dai Neanderthal negli individui nello spettro autistico. Sembra però che possano influenzare lo sviluppo del disturbo in modi misurabili in tutti i gruppi etnici che abbiamo studiato. Le nostre ricerche suggeriscono che molti degli SNP neanderthaliani rari associati all’autismo contribuiscono a orchestrare la connettività neurale, cosa che a sua volta può influenzare la comunicazione tra i neuroni. I modi precisi in cui queste varianti influenzano lo sviluppo cerebrale, però, restano ancora da determinare. La cosa più probabile è che non ci sia un’unica risposta.
La genetica è un campo estremamente complicato. Nonostante il genoma umano sia stato sequenziato oltre vent’anni fa, la nostra comprensione delle reti di interazioni molecolari e di come queste influenzano lo sviluppo e la funzione degli organi è ancora abbastanza rudimentale. Man mano che andiamo più in profondità nello studio del modo in cui il DNA derivato dai Neanderthal influenza i nostri geni, è importante accettare la complessità del problema. Ci sono più di 78.000 geni umani moderni che si sono mescolati con circa lo stesso numero di geni neanderthaliani. Gli esseri umani riescono a venire a capo di un problema tridimensionale, ma un problema a 78.000 dimensioni è decisamente più difficile! Per fortuna, i computer moderni che eseguono software di intelligenza artificiale possono sostenere un impegno analitico che per il nostro cervello è troppo oneroso.
Il nostro primo studio si è concentrato sul DNA derivato dai Neanderthal in sequenze genomiche parziali che costituiscono solo circa l’uno per cento dell’intero genoma umano. Nella fase successiva, scansioneremo sequenze complete del genoma, rese disponibili di recente, di famiglie di esseri umani moderni con una propensione per l’autismo. Espandendo la nostra area di ricerca di DNA antico dai geni alle regioni comprese tra i geni, saremo in grado di investigare milioni di ulteriori eQTL, che regolano l’intensità dell’espressione genica un po’ come un interruttore varialuce controlla la quantità di luce emessa da una lampadina. Una volta che avremo individuato quali di questi eQTL sono ascrivibili a varianti di DNA derivate dai Neanderthal nel genoma umano moderno, saremo in grado di dedurre se una parte di questo DNA neanderthaliano sta alterando l’espressione genica in modo misurabile.

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In una cellula (esclusi alcuni tipi particolari mancanti del nucleo, ed i gameti che hanno la metà del DNA nucleare) vi sono normalmente 23 coppie di cromosomi (46 in totale), ognuno dei quali contiene centinaia di geni separati da regioni intergeniche. Le regioni intergeniche possono contenere sequenze regolatrici e DNA non codificante.

Una ricerca sull’intero genoma ci consentirà di identificare gli eQTL di origine neanderthaliana coinvolti nella funzione e nello sviluppo non solo del cervello nel suo insieme, ma anche di specifici tessuti e regioni cerebrali, come il cervelletto. Magari potremmo scoprire che Homo sapiens ha ereditato dai Neanderthal tratti del tutto nuovi del suo neurosviluppo, che non esistevano nella nostra linea ereditaria prima che i due gruppi si incrociassero. Uno scenario più probabile, tuttavia, è che l’introduzione del DNA neanderthaliano in Homo sapiens abbia modificato, ma non scavalcato o sostituito, meccanismi di controllo genetici per condizioni straordinariamente complesse come l’autismo, l’ADHD e la depressione.
Se riuscissimo a identificare gli esatti meccanismi del neurosviluppo controllati dalle reti di regolazione genica in cui si mescolano geni di Neanderthal e di Homo sapiens, potremmo comprendere come il DNA antico ha riconfigurato l’espressione dei geni nel cervello nel momento dell’ibridazione. Questo tipo di conoscenza potrebbe trovare molte applicazioni terapeutiche nel campo emergente della medicina personalizzata.
Non ci interessa soltanto il DNA derivato dai Neanderthal. È possibile che sia l’ibridazione in generale, e non solo il DNA ereditato specificamente dai Neanderthal, a contribuire alla suscettibilità all’autismo, che in tal caso si potrebbe considerare l’effetto di una forma di incompatibilità genetica. Se così fosse, potremmo aspettarci di vedere che anche il DNA dei Denisova (un’altra specie di nostri cugini, anche loro incrociatisi con Homo sapiens) svolge un ruolo nell’autismo e in altre condizioni neurologiche nei gruppi etnici di persone moderne che hanno DNA denisoviano (soprattutto individui con origini asiatiche o nativi americani). Ci occuperemo di cercare segnali dell’influenza dei denisoviani nel seguito della nostra ricerca.
Come le varianti neanderthaliane legate all’ADHD, che stanno venendo gradualmente scartate dal genoma degli umani moderno, anche le rare varianti neanderthaliane degli individui autistici potrebbero venire rimosse dal pool genetico. Alcune sequenze rare di DNA derivate dai Neanderthal, con ogni probabilità, stanno scomparendo semplicemente a causa di quella che i genetisti di popolazione chiamano la legge dei grandi numeri, che prevede che il DNA raro e poco comune, a prescindere dai suoi effetti sull’organismo, col tempo tenda pian piano a scomparire da una grande popolazione riproduttiva. Altro DNA derivato dai Neanderthal, invece, potrebbe essere raro perché è un po’ dannoso e quindi influenza la capacità degli individui di avere figli e, di conseguenza, di trasmettere il proprio DNA.

Sappiamo dalle ricerche che, in media, le persone nello spettro autistico hanno una probabilità di avere figli significativamente minore rispetto alla popolazione generale, per quanto, come è ovvio, alcuni ne abbiano. Non sappiamo, tuttavia, se i tassi riproduttivi di questi individui siano più bassi perché si trovano in difficoltà nelle relazioni romantiche o perché hanno più probabilità di soffrire di disturbi che influenzano la fertilità, come la sindrome dell’ovaio policistico. La risposta, probabilmente, dipende da molti fattori. A prescindere dalle ragioni, comunque, meno prole significa che meno varianti genetiche associate all’autismo vengono trasmesse nel tempo. Ma se queste varianti sono trasmesse meno spesso, come mai continuano a restare nel genoma umano, seppure in piccole quantità?
Quando si parla di autismo, tradizionalmente la comunità medica si è concentrata sui deficit e sulle difficoltà che le persone con questa condizione possono incontrare. Questo approccio è radicato nel modello medico della disabilità, che nel caso delle differenze del neurosviluppo sostiene che gli individui dovrebbero ricevere cure mediche concentrate sul «sistemare» o gestire la condizione e volte a normalizzarne il comportamento. Lo spettro autistico, però, è anche associato a caratteristiche che potrebbero essere state adattative durante la più recente evoluzione del cervello umano: per esempio una migliore elaborazione visuospaziale, un’intelligenza elevata, memoria e creatività eccezionali. Numerosi studi genetici hanno scoperto che molte varianti genetiche comunemente associate all’autismo sono anche associate a un’intelligenza elevata, a migliori capacità cognitive e a ottimi risultati scolastici.
I familiari di persone nello spettro autistico, inoltre, hanno maggiori probabilità di lavorare in campi legati alla scienza e alla tecnologia e, come indica un nostro studio recente, hanno anche buone probabilità di avere alcune di queste stesse varianti rare derivate dai Neanderthal. Di conseguenza, per quanto in media gli individui autistici abbiano tassi riproduttivi più bassi, può darsi che i loro familiari non autistici (per quanto comunque potenzialmente neurodivergenti) stiano contribuendo a mantenere questo DNA nel corredo genetico umano. In altre parole, anche se alcuni fattori evolutivi sono al lavoro per espellere dal genoma umano queste varianti genetiche di origine neanderthaliana associate all’autismo, altri fattori sembrano operare per trattenerle al suo interno.
Anche se non sappiamo ancora se il DNA derivato dai Neanderthal associato all’autismo sia anche legato all’intelligenza, alla sindrome del savant [per cui una persona con deficit cognitivi mostra un’eccezionale abilità in un ambito specifico, N.d.R.] o alla creatività in generale, stiamo lentamente ricomponendo il mosaico. L’esistenza di una simile relazione suggerirebbe che gli incroci con i Neanderthal hanno influenzato, nella nostra specie, molti aspetti dell’evoluzione cerebrale. Di conseguenza, il DNA derivato dai Neanderthal non riguarda soltanto la storia dell’autismo e di altri disturbi psicologici e del neurosviluppo: è fondamentale per la storia di tutte e tutti noi.

Eugenio Caruso - 10 marzo 2025

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Tratto da le scienze

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