Ratti che liberano i loro simili o scimmie
che si consolano a vicenda: gli animali sembrano
avere capacità di immedesimazione, ma dobbiamo
stare attenti a non basarci troppo sugli esseri umani
nel definire il concetto di «empatia»
Poco prima delle vacanze estive, uno degli
autori di questo articolo (Lamm) stava
accompagnando la figlia Mila a scuola
a piedi. Era il giorno del colloquio tra insegnanti
e genitori e la bambina era nervosa. Lungo la
strada hanno incontrato la gatta del vicino che, a
differenza di quanto faceva di solito, non è scappata,
bensì ha strofinato affettuosamente la testa
sulle mani della bimba. Per Mila la spiegazione
di quel comportamento era chiara: la gatta aveva
percepito il suo nervosismo e voleva incoraggiarla
con una dimostrazione d’affetto. La cosa
evidentemente le è riuscita bene, perché da quel
momento ha parlato solo della gatta e non più del
colloquio.

Chiunque abbia un animale domestico
può raccontare episodi simili, ma spesso si attribuisce
la capacità di provare empatia anche ad
animali selvatici, come il delfino che ha salvato
un uomo che stava annegando o gli elefanti che,
si dice, piangono la morte dei loro simili.
Si può davvero dire che altri animali oltre all’uomo
siano capaci di empatia?
Per rispondere a
questa domanda dobbiamo per prima cosa chiarire
che cosa intende la scienza per empatia e come
questa si differenzia dalla compassione e dall’altruismo.
Per dirla in modo sommario, si tratta di
un fenomeno complesso che ci permette di condividere
i sentimenti degli altri e che si realizza attraverso
l’interazione di diverse componenti, alcune
delle quali basate l’una sull’altra. Una di queste componenti è la capacità
di riconoscere le emozioni, un’altra è il contagio
emotivo, che ci permette non solo di riconoscere
il nervosismo dell’interlocutore, ma di
provarlo anche a nostra volta, almeno in parte.
Perché questo non provochi confusione emotiva,
il cervello deve essere in grado di fare una distinzione:
quella che provo è un’emozione mia o
sto rispecchiando quello che avviene nell’altra
persona? Si parla di empatia solo quando riesco a
immedesimarmi in quello che prova l’altro senza
confonderlo con la mia vita emotiva interiore.
La
cosa si fa più entusiasmante quando questa immedesimazione
sfocia nella compassione: non mi
limito a provare quello che sente l’altra persona
(questa sarebbe empatia), bensì mi lascio afferrare
dalla preoccupazione per lei e voglio fare qualcosa
per alleviare la sua sofferenza. La compassione
comprende quindi una forte componente
motivazionale, da cui nascono spesso comportamenti
prosociali e altruismo.
In generale, quando
si parla di empatia e del fatto che nella nostra società
sembri mancare, spesso si intende una mancanza
di compassione e di prosocialità.
Possiamo sapere che cosa provano gli altri?
A questo punto molti penseranno che gli animali
non sarebbero mai in grado di esibire schemi
di pensiero e di comportamento così complessi
e che comunque si tratta di qualcosa che non è
possibile verificare scientificamente. Per esempio,
se un gatto si comporta in un modo che sembra
inteso a darmi conforto, come faccio a sapere
se lo fa perché riconosce in sé parte della mia tristezza,
e per di più che è consapevole del fatto che
quell’emozione non gli appartiene?
Si tratta di
obiezioni giustificate, perché non dovremmo mai
prendere gli esseri umani come metro per studiare
il comportamento degli altri animali.
Anche se evitiamo le trappole antropocentriche,
rimane comunque la domanda che il filosofo
Thomas Nagel aveva posto già negli anni settanta
nel saggio Cosa si prova ad essere un pipistrello?:
come possiamo sapere o condividere quello che
un altro individuo percepisce o prova e che effetto
gli fa questa percezione o quel sentimento?
Il problema si pone anche quando parliamo
di empatia tra esseri umani. In questo caso
però abbiamo un vantaggio: i nostri simili,
almeno in linea di massima, possono darci informazioni
sulla loro vita emotiva. Con gli animali
non abbiamo questa opzione. È quindi impossibile
dare una risposta definitiva alla questione
dell’esistenza dell’empatia negli animali? Niente
affatto. Le scienze cognitive e comportamentali
comparate hanno sviluppato sia buoni approcci
teorici sia metodi pratici per renderci accessibile
la vita interiore degli animali.
In primo luogo, c’è l’argomentazione teorica
secondo cui le nostre capacità cognitive ed
emotive non possono essere apparse dal nulla,
ma piuttosto si sono sviluppate un po’ alla volta
nel corso dell’evoluzione. È quindi plausibile
che i nostri parenti più prossimi, e forse anche
quelli più lontani, abbiano capacità di empatia
simili alle nostre, o almeno le presentino a stadi
primordiali. In secondo luogo, le neuroscienze
ci offrono informazioni sempre più precise
sui meccanismi neurali alla base di queste capacità.
Grazie alla risonanza magnetica funzionale
(fMRI) siamo in grado di identificare i processi
cerebrali alla base delle emozioni, per lo meno
negli esseri umani, e di determinare se e come
questi processi intervengano nell’empatia.
Rappresentazione condivisa
Per esempio, uno studio di imaging condotto
dal nostro gruppo di ricerca viennese nel 2015 ha
determinato che l’empatia per il dolore di un’altra
persona si basa sull’immedesimazione: abbiamo
rilevato che somministrando scosse elettriche
dolorose a 102 volontari, maschi e femmine,
le aree cerebrali che si attivavano erano le stesse
che si attivavano quando si limitavano a osservare
il processo in altre persone. In particolare si attivavano
la corteccia cingolata e il lobo dell’insula,
che fanno entrambi parte della rete del dolore.
Quando abbiamo somministrato loro un farmaco
spacciato per antidolorifico, ma che in realtà era
un placebo, i volontari provavano meno empatia
per il dolore degli altri e le regioni in questione si
attivavano di meno. Dopo la somministrazione
di un antagonista degli oppioidi, che neutralizza
l’effetto antidolorifico del placebo, la capacità di
provare empatia si normalizzava.
Questi risultati hanno portato al concetto di
rappresentazione condivisa. Per dirla in parole
semplici, l’empatia per una determinata emozione
nasce dall’attivazione degli stessi processi cerebrali
che insorgono anche quando siamo noi
stessi a provare quell’emozione. Se proviamo empatia
per il dolore di qualcuno, in noi si attivano le
reti del dolore; altrettanto vale per le situazioni in
cui proviamo gioia per la felicità di qualcun altro.
Ecco perché è così importante la divisione netta
tra le nostre emozioni e quelle altrui: se il cervello
si confonde, non sappiamo più se siamo noi a soffrire
o se la gioia che proviamo è la nostra.
Se il sistema funziona così bene negli esseri
umani, è sensato seguire un approccio simile
anche in altri esseri viventi, cioè studiare come
il cervello degli animali elabora le emozioni
dei propri simili. In questo senso sono particolarmente
interessanti i ratti, perché pur avendo
una cattiva reputazione sono animali molto intelligenti
e sociali: per esempio, si impegnano a
liberare un compagno intrappolato anche se in
questo modo perdono del buon cibo, dovendolo
condividere con l’animale che hanno salvato.
La reazione al dolore altrui
Per questo Valeria Gazzola e Christian Keysers,
del Netherlands Institute for Neuroscience
di Amsterdam, hanno scelto proprio i ratti come
modello animale per capire se il loro cervello
reagisca al dolore dei loro simili attraverso rappresentazioni
condivise. Nella loro ricerca hanno
usato metodi invasivi che, al contrario delle
scansioni cerebrali non invasive usate negli esseri
umani, permettono di ottenere informazioni
più precise sull’attività cerebrale.
Misurazioni
eseguite su singoli neuroni della corteccia cingolata
hanno rivelato che gli stessi neuroni che si
attivano quando un ratto prova dolore si accendono
anche quando l’animale vede solo il dolore
di un altro. La somministrazione di un medicinale
che smorza i segnali di questa regione cerebrale
ha modificato anche il comportamento empatico:
in questo caso i roditori reagivano con meno
stress alla visione di un compagno sofferente.
Al momento, anche in altre specie animali
quello dell’empatia è un tema molto caldo. Quattro
diversi studi recenti su topi e primati sono riusciti
a identificare processi neurali indicatori di
empatia. Per esempio, nel 2021 Monique Smith
e due colleghi della Stanford University hanno
usato un approccio simile a quello di Gazzola e
Keysers per studiare come reagiscano i topi di laboratorio
al dolore inflitto ai loro simili. Tra l’altro,
i topi sono interessanti perché sono considerati
meno prosociali dei ratti.
Ciò nonostante, proprio nei topi gli esperti
hanno osservato una «trasmissione sociale del
dolore»: dopo essere stati in contatto con un topo
sofferente per un’ora, gli altri topi erano più
sensibili al dolore per quattro ore, e non in modo
specifico per una determinata parte del corpo,
bensì sotto forma di reazione generale.
Nel 2021
abbiamo documentato lo stesso fenomeno in volontari
umani. Secondo la nostra interpretazione,
i roditori non percepiscono quale sia il punto
in cui i loro simili provano dolore, ma solo che
c’è qualcosa che non va. La trasmissione sociale
del dolore è mediata dalla corteccia cingolata.
Uno studio dell’Università della California a Los
Angeles pubblicato all’inizio del 2024 suggerisce che quest’ultima sia legata anche al comportamento
prosociale dei topi.
E come stanno le cose nei primati? In fondo
gli esseri umani appartengono allo stesso ordine
di scimpanzé, bonobo e gorilla. Qui bisogna
menzionare in primo luogo le scoperte del famoso
primatologo Frans de Waal, che ebbe un ruolo
fondamentale nel far sì che la ricerca si concentrasse
sul tema dell’empatia e della prosocialità
negli animali non umani. Fu de Waal a presentare
uno dei primi modelli dell’empatia basati sulle
scienze cognitive, e i suoi libri di divulgazione
hanno avuto un impatto che va ben oltre la cerchia
degli specialisti. Come biologo comportamentale,
de Waal osservò e descrisse soprattutto
i comportamenti di bonobo e scimpanzé e su
quella base avanzò ipotesi sulle cause e le funzioni
di quei comportamenti.
Oggi possiamo completare il quadro con dati
sperimentali, per esempio con elettroencefa-logrammi
invasivi.
Attraverso misurazioni wireless,
il gruppo di Camille Testard, dell’Università
della Pennsylvania, ha misurato l’attività neurale
a livello di singole cellule in macachi Rhesus in libertà.
Come per esseri umani, topi e ratti, il cervello
di queste scimmie reagiva ai fattori di stress
che colpivano i loro simili. Più nel concreto, i neuroni
della corteccia temporale e prefrontale si accendevano
sempre nelle scimmie che erano minacciate
da un intruso umano, ma anche in quelle
che erano semplici testimoni della minaccia.

Particolarmente interessanti sono i risultati riferiti
a ordini e specie animali che hanno seguito
altri percorsi evolutivi. In questi casi, se si evidenziano
fenomeni simili all’empatia si tratta di
evoluzione convergente: caratteristiche o tratti
simili in specie molto lontane tra loro non possono
risalire a un antenato comune (contrariamente
a quanto avviene nell’evoluzione parallela). Un
esempio sono le ali degli uccelli e dei pipistrelli,
che si sono sviluppate con l’evoluzione in modo
indipendente nei due gruppi di animali.
Spesso l’evoluzione convergente è il risultato
di un adattamento a una pressione evolutiva simile.
Tanto gli uccelli quanto i pipistrelli volano
per spostarsi e procurarsi il cibo, perciò hanno
sviluppato corpi e ali di forma simile. Con l’empatia
potrebbe essere successo qualcosa di simile:
la capacità di provare empatia è forse una sorta di
«collante» che tiene insieme le società complesse
di diversi animali sociali.

In questo contesto sono
istruttivi gli studi sui corvi condotti dal nostro
gruppo assieme al biologo cognitivo viennese
Thomas Bugnyar. Anche i corvi sono infatti animali
con una complessa vita sociale e presentano
capacità sociali altamente sviluppate.
Il contagio emotivo nei corvi
Con l’aiuto di un test comportamentale innovativo,
il nostro gruppo ha individuato anche nei
corvi segnali di contagio emotivo. La prima autrice,
Jessie Adriaense, invitava alcuni corvi a guardare
da uno spioncino, dal quale vedevano del
cibo che poteva essere buono o cattivo. A seconda
di quello che vedeva, l’uccello esibiva segnali
di entusiasmo oppure si girava dall’altra parte in
preda alla frustrazione. Un secondo corvo osservava
il comportamento del suo simile, ma senza
vedere il cibo, e a seguire era sottoposto a un test
in cui gli mostravamo diversi contenitori, senza
che potesse vederne il contenuto.
L’idea di base è che quando sono stimolati dalla
prospettiva di qualcosa di buono da mangiare
gli uccelli sono ottimisti e si sbrigano ad avvicinarsi
ai contenitori. Se invece si aspettano che
la ricompensa non ci sia o sia poco interessante,
in generale si comportano in modo più cauto.

Effettivamente
nell’esperimento, in media, i corvi che avevano osservato un compagno frustrato si
avvicinavano al contenitore in modo più lento e
circospetto ed erano più pessimisti. Ciò significa
che i corvi possono farsi contagiare dalle emozioni
negative dei loro simili, il che dimostra che
questa componente dell’empatia non emerge solo
nei mammiferi, ma anche negli uccelli.
Al momento non sono stati condotti lavori di
neuroscienze sulle capacità empatiche dei corvi,
ma siamo sulla buona strada per farlo su un altro
modello animale per lo studio dell’evoluzione
convergente: il cane.
Grazie a un addestramento
specifico, si possono indurre i cani a entrare di
loro spontanea volontà in un macchinario per risonanza
magnetica. In questo modo, in uno studio
svolto con Ludwig Huber, esperto di scienze
cognitive del Messerli Forschungsinstitut, su 40
volontari umani e 15 amici a quattro zampe, abbiamo dimostrato che il cervello umano e quello
canino reagiscono in modo simile agli stimoli sociali
(per esempio a fotografie di volti o di gesti).
Oltre a darci una visione delle basi neurali dell’evoluzione
convergente, questo studio ci mostra
come potrebbe funzionare la percezione empatica
interspecie. È possibile che nel corso della loro
domesticazione i cani si siano specializzati proprio
in questo senso. Se la cosa valga anche per i
gatti è una questione ancora poco studiata.
La sfida della ricerca
Nonostante i tanti indizi delle capacità empatiche
degli animali, consigliamo prudenza nell’interpretarli.
È vero che molti elementi suggeriscono
che ratti, topi, altri primati, corvi e cani siano
simili a noi umani in termini di capacità empatiche,
però non bisogna sottovalutare le argomentazioni contrarie. Ci possono essere molte ragioni
per cui due cose sembrano simili ma non sono affatto
identiche e questa è una sfida per la ricerca.
Ne è un esempio il comportamento prosociale
dei ratti. Come ha dimostrato il team di Peggy
Mason, dell’Università di Chicago, la somministrazione
di un ansiolitico riduce la disponibilità
dei roditori ad aiutare un loro simile. Ciò lascia
pensare che l’aiuto presupponga uno stato emotivo
eccitato. Quindi se la visione di un ratto in
difficoltà scatena lo stress nel compagno che lo
osserva, magari quest’ultimo aiuta il primo solo
per alleviare la propria tensione. Per lo meno,
non è ancora dimostrato che ad agire in questo
caso sia davvero l’empatia.
Ma le obiezioni di questo tipo valgono anche
per la ricerca sul cervello, dove un’ambiguità
del genere dovrebbe essere meno probabile? Secondo
noi è effettivamente così per praticamente
tutti i risultati descritti in questo articolo. Il
comportamento di topi, ratti e macachi potrebbe
dipendere, per esempio, dal fatto che il loro cervello
interpreti il dolore o lo stress dei loro simili
come un avvertimento di pericolo imminente.
Gli
stessi Valeria Gazzola e Christian Keysers inquadrano
i propri risultati in modo critico: gli esperimenti
condotti finora dimostrano solo che, nel
corso dell’evoluzione, i meccanismi come il contagio
emotivo si sono sviluppati perché gli animali
di una stessa specie possano usarli per avvisarsi
a vicenda di pericoli comuni e immediati.
L’attivazione delle corrispondenti reti neurali
non sarebbe quindi un’indicazione di empatia,
bensì di contagio emotivo.
Solo quando a questo
si aggiunge la differenziazione tra sé e l’altro
si può parlare di «vera» empatia. Abbiamo quindi
bisogno di esperimenti elaborati che dimostrino
che gli animali sono capaci di riconoscere questa
differenza e di usarla in modo mirato. Fino a
quando non avremo una prova del genere, sarà
possibile interpretare la presunta empatia come
una strategia primaria di sopravvivenza.
Con questo non vogliamo dire che gli esseri
umani siano gli unici capaci di provare empatia.
Però forse non dovremmo chiederci se gli animali
siano capaci di empatia come la conosciamo negli
esseri umani, quanto se reagiscano a livello
emotivo alle emozioni dei propri simili o a quelle
di altre specie, cosa che potrebbe portare a un
comportamento prosociale. Per esempio, i versi
con cui un animale chiede aiuto potrebbero scatenare
in un suo simile emozioni che non rispecchiano
quello che sente il primo, però causano
un’attivazione nell’animale che li percepisce e lo
spingono a comportamenti da cui trae vantaggio
anche l’individuo in difficoltà. Però questa sarebbe
una domanda diversa, a cui risponderemmo
dicendo che è «abbastanza sicuro».
Claus Lamm
è neuropsicologo
e professore di
psicobiologia
all’Università di Vienna.
Magdalena Boch,
dottoressa in
psicologia, è affiliata
alla stessa istituzione,
dove studia le basi
neurali e l’evoluzione
dell’empatia.
Il modello dell’empatia
Per illustrare l’evoluzione dell’empatia, Frans de Waal usò
l’immagine di una matrioska. Il nucleo centrale è il modello
«percezione-azione», secondo il quale la percezione di un altro
porta a reazioni neurali corrispondenti che a loro volta permettono
di comprendere o di sperimentare lo stato emotivo altrui. Da qui
nascono i due concetti di imitazione motoria e contagio emotivo.
Su questo nucleo si costruiscono poi le componenti successive:
la compassione e il conforto, come pure l’assunzione del punto di
vista altrui e l’aiuto mirato.
Ci sono però ricercatrici e ricercatori (tra cui Claus Lamm) che
ipotizzano un modello più flessibile, in cui le singole componenti
possono esistere anche indipendentemente le une dalle altre. Il
modello combinatorio di Shinya Yamamoto, per esempio, suggerisce
che i fenomeni che rientrano nel concetto di «prosocialità» non
richiedano necessariamente il contagio emotivo.
N.d.R. Nella mia vita ho avuto a che fare con poco meno di 30 gatti e con la mia lunga esperienza di ricercatore ho osservato spesso il loro comportamento "umano". Essi mostrano una forte empatia tra di loro; quando uno soffre soffrono anche gli altri, Lino resta ferito e Milla gli sta ccanto per condividere il dolore, ma l'empatia maggiore la provano verso gli umani. Chicca finge di dormire ai piedi del letto, ma appena mi addormento corre sotto le lenzuola in braccio alla "mamma" (non offende me e fa felice mia moglie), muore Musetto e quando al mattino apro le persiane trovo i gatti del vicinato che con i loro miagolii cercano di confortarmi, muore Gigetto e Milla e Lino restano in casa senza fare l'abituale "scampagnata" per stare vicini a noi, i randagini che passano da noi cercano prima le coccole, poi il cibo, i domestici sentono le emozioni di mia moglie, o con la fuga, o con l'eccessivo attaccamento, quando manca la "mamma" per una giornata si rifiutano di mangiare.

9 marzo 2025 - Eugenio Caruso
Tratto da MIND