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Il falso come coscienza collettiva

Nasce prima dei social l’appiattimento del pubblico in una massa bruta il cui spirito critico è incenerito da decenni di immagini spacciate per verità


IL FALSO COME COSCIENZA COLLETTIVA

Quando capita a te, non a chi conosci o a gente della quale hai letto nei giornali o nei social, ti rendi conto di quanto sia degenerato e grave il problema del falso come coscienza collettiva. Mesi fa sono stato oggetto di agguato video da parte di un ragazzo, un influencer di successo con centinaia di migliaia di follower.
Il suo schema è semplice. Il giovane si inventa un pretesto – nel mio caso l’aggressione da parte del mio maltese, ripeto: maltese – per creare una scenetta con richieste di risarcimento o con – in altri casi – denuncia di furti mai subiti.
Ho verificato qual è il suo modello operativo sui suoi account. Sono invenzioni in ogni caso, ma la sua audience, sarebbe meglio dire la sua tifoseria, lo appoggia e collude con questo suo metodo: creare dal nulla un fatto sul quale poi si chiama il pubblico a partecipare e condannare assumendo ciò che si guarda come verità.
Niente di nuovo, storia dei media. Nel 1938 Orson Welles provocò un’ondata di panico negli Stati Uniti con la trasmissione di una inesistente invasione aliena, The War of the Worlds. E in quel caso la gente era stata anche avvertita del fatto che si trattava di una finzione.

Mancata conoscenza
Nel caso del mio giustiziere nessuna avvertenza. La finzione è venduta per pura e semplice verità e può capitare di essere chiamati razzisti senza fondamento. Quello che stupisce è il successo presso i media «seri» di questo fenomeno.
Non mi indigna essere una «vittima», mi stupisce l’ignoranza di chi ne scrive. Se infatti può essere ovvio che costui sia un collaboratore di «Le Iene », sorprende che giornali «seri» non solo lo intervistino ma parlino anche con simpatia del suo lavoro.
Vien da chiedersi se per caso non siano in circolazione i Men in Black con il loro flash magico che cancella la memoria. Va bene che c’è una nuova generazione di giornalisti ma nulla giustifica la mancata conoscenza di ciò che è successo nei media in questi anni. Il punto è che i giovani colleghi sono talmente immersi in questa acqua da non vedere il problema che essi stessi rappresentano. Per chiarire la mia idea pongo qualche tesi in forma di domanda.

Fuori dalla rete
La prima è molto elementare ma è il nodo di tutta la questione: come si fa a non vedere che il successo di questo metodo di costruzione della notizia, che oggi viene attribuito ai social e agli influencer, è figlio del «giornalismo di inchiesta» televisivo, dei documentari senza contraddittorio, dei processi in piazza già a partire dai giorni nei quali Michele Santoro riduceva a spazzatura i politici della prima repubblica nelle sue dirette?
Nasce fuori dalla rete e prima dei social l’appiattimento del pubblico in una massa bruta il cui spirito critico è incenerito da decenni di accuse infamanti, giustizialismo, immagini spacciate per verità. Se non si capisce questo, cioè che siamo dentro un processo che dura da oltre trent’anni, non si capisce né la profondità né la gravità della situazione che con angoscia chiamate fake news. Chi volete che sia il giovane influencer, cacciatore di pensionati con cagnolino, se non il prodotto delle inchieste nelle quali giornalisti, poi premiati, si fingono mediatori di affari sporchi? Chi volete che sia l’utente ragazzino di quei video se non il prodotto dei vari report di inchiesta? Abbiamo mai insegnato alla gente a comprendere la notizia e i suoi metodi di costruzione? No, altrimenti non si può più ingannare e mentire.
Se possiamo costruire noi inchieste e servizi che sono teoremi d’accusa, perché il giovane immigrato non può usare il suo telefono per imitarci e fare soldi? È legittimo. Abbiamo creato una bolla di menzogna, da quella cerchiamo di vedere il mondo fuori. Ormai, come diceva Orwell, la menzogna è verità.

di Vittorio Zambardino


28 febbraio 2025 - Eugenio Caruso

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Tratto da MIND

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