Terremoto all'Arpac, l'agenzia dell'ambiente campano: un'ordinanza di custodia cautelare (ai domiciliari), 63 indagati, 18 divieti di dimora e 6 misure interdittive. Un vero e proprio ciclone contro uno dei settori pubblici, considerato da anni «feudo» di Clemente Mastella. L'operazione condotta dalla Guardia di finanza di Napoli e dai carabinieri di Caserta coinvolge, infatti, politici, dirigenti della pubblica amministrazione, professionisti e imprenditori campani. Nell’inchiesta risulta indagata anche la presidente del Consiglio regionale della Campania, Sandra Lonardo, destinataria di un provvedimento di divieto di dimora in Campania, dove svolge la sua attività istituzionale. Le accuse contestate vanno dall'associazione a delinquere finalizzata alla truffa, al falso, all'abuso di ufficio, alla turbativa d’asta e alla concussione. Nel mirino degli inquirenti vi sono, sia la gestione di appalti pubblici, sia i concorsi finalizzati all’assunzione di personale e l'affidamento di incarichi professionali nella pubblica amministrazione. E chi non si piegava a quest'andazzo veniva vessato e intimidito. In un file rinvenuto nel computer sequestrato dalla Guardia di Finanza nella segreteria dell’ex direttore generale dell’Arpac compaiono 655 nominativi di assunti e la maggior parte sono accompagnati dalla segnalazione di un esponente politico che li avrebbe raccomandati. Con una buona dose di furbizia i soggetti implicati nella vicenda hanno accentrato l’attenzione dei media sulla questione dei raccomandati, come se tutto il resto non contasse. Infatti sono due giorni che non si sente parlare d’altro che dei raccomandati. Tutto il popolo sudista e/o meridionalista sostiene a gran voce che la raccomandazione esiste dappertutto, dal Sud al Nord e che quindi l’indagine sull’Arpac è tutta una montatura dei giudici. Non è nostro compito entrare nel merito della questione, né ci interessa, visto che se ne occupa, la stampa, la radio e la televisione.
Ritengo invece interessante raccontare quello che è successo a me.
Dopo circa dieci anni di vita universitaria, presso la Città Studi di Milano, durante la quale la parola raccomandazione non esisteva proprio nel lessico di noi professori (parlo degli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70, ora non so come sia la situazione), entrai come dirigente in una grande impresa per dirigervi la Divisione di ricerca e sviluppo. Controllavo una cinquantina di ricercatori, suddivisi in laboratori; durante la mia permanenza in quell’impresa assunsi un’altra cinquantina tra laureati e diplomati senza avere mai pressioni di nessun tipo, eccetto che in un caso. Dovevo assumere un laureato in chimica; mi chiamò Aldo, l’amministratore delegato il quale con grande garbo e affabilità mi consegnò un curriculum vitae. La mia risposta fu evasiva ma comunque tendente all’affermazione “assumerò il migliore”. Furono intervistati sei candidati (che avevano superato la selezione preliminare effettuata dalla Direzione del personale) e ai colloqui era sempre presente Lucio, responsabile del laboratorio ove avrebbe dovuto lavorare il neoassunto, al quale avevo raccontato della sottile pressione dell’ad e della mia ferma intenzione di non accettarla. Il candidato raccomandato, Stefania, era una splendida ragazza bionda e formosa, che, quando mi si presentò, rafforzò la mia intenzione di non tenere in alcun conto la raccomandazione avuta. Il colloquio tecnico andò bene e la ragazza parlava inglese e francese. Al termine della giornata mi trattenni con il responsabile di laboratorio con il quale convenni che potevamo assumere un ragazzo che aveva mostrato lo stesso valore. Alla sera mi chiama a casa Lucio tenendomi un’ora al telefono per mostrarmi che la mia intenzione di non assumere la ragazza era forse dovuta ad una mia prevenzione, che la ragazza era brava e che, tutto sommato, a parità di capacità tra due candidati fare un piacere all’ad non era proprio un’ipotesi da scartare. Io pilatescamente sostenni che lui era il responsabile del laboratorio ma che se avesse avuto problemi con Stefania sarebbero stati problemi suoi; tra me e me pensai a quanto fossi stato furbo a scaricare la “responsabilità” sul mio collaboratore. Stefania dimostrò di essere molto in gamba, ma dopo un anno circa, Sonia, la responsabile della mia segreteria mi informò, in gran segreto pregandomi di non dirlo a nessuno, che Lucio aveva lasciato moglie e figlio per andare a vivere con Stefania. La cosa mi turbò un po’ avendo partecipato al matrimonio di Lucio, essendo stato diverse volte a cena a casa sua e avendo conosciuto la moglie e il figlio. Dopo due anni circa ricevo, contestualmente, le lettere di dimissioni di Lucio e Stefania. I due approfittando della mia competenza nello start up di nuove imprese avevano raccolto sufficiente materiale informativo, per entrare in un incubatore di nuove imprese e crearne una loro. Al danno le beffe, il mio laboratorio rimase privo dei due pilastri che lo sostenevano e i due pilastri si portarono via un buon numero dei nostri clienti.
Morale di questa storia: la raccomandazione fa sempre male.
Eugenio Caruso
24 ottobre 2009