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Le fondazioni bancarie

Chi vuole operare un cambiamento deve viverlo.
Gandhi


Sono 88 le fondazioni ex bancarie e nel portafoglio di una decina di loro è concentrato il potere finanziario che governa il sistema bancario italiano. Da Unicredit a IntesaSanPaolo, da Mps a Carige esce la mappa dei “signori” del credito italiano, che in borsa valgono 16 miliardi di euro. Le fondazioni sono gli enti che con un artificio giuridico hanno ereditato il patrimonio secolare delle Casse di risparmio, che ai valori attuali è, appunto, di circa 16 miliardi. Una mutazione genetica ha trasformato, per legge, quelli che erano sportelli bancari in azionisti stabili delle tre più grandi banche italiane: Unicredit, IntesaSanPaolo e Monte dei Paschi di Siena.
Un processo iniziato vent’anni fa, nel luglio 1990, con la legge 218 (in Gazz. Uff., 6 agosto, n. 182). Per alcuni “signori delle fondazioni” il tempo non è passato Cariplo è sempre Giuseppe Guzzetti, Cariverona è Paolo Biasi, Cassamarca è Dino De Poli, Finotti e Rossi sono la Padova e Rovigo, Andrea Comba è la Cassa di risparmio di Torino e Fabio Alberto Roversi-Monaco è a quella di Bologna. Gli ultimi vent’anni sono stati un periodo di transizioni e forti cambiamenti e la creatura giuridica, immaginata da Giuliano Amato e appoggiata dall’esperienza di Carlo Azeglio Ciampi, ha consentito di trasformare quella che era la foresta pietrificata del credito italiano in un sistema caratterizzato da gruppi bancari di livello europeo, con la certezza di un azionariato stabile, ma è finita essa stessa ad essere pietrificata dal rapporto simbiotico con la banca conferitaria e con il territorio.
Le fondazioni hanno, in genere, un consiglio molto ampio dove trovano posto i rappresentanti degli enti locali, dell’università, della chiesa cattolica, di imprenditori, amministrano grandi quantità di denaro, incassano dividendi che distribuiscono sul territorio, dal finanziamento dell’oratorio, alla costruzione di un ospedale, dalla ricerca ai ricoveri per anziani; in poche hanno differenziato gli investimenti. Gli interessi presenti nei consigli di amministrazione tirano la giacchetta ai presidenti perché investano in qualche piccola o grande opera sul territorio, sicuri del flusso di denaro proveniente dalla banca controllata. A esempio la Fondazione Cr Trieste con lo 0,34% di Unicredit ha convinto la Banca a finanziare il nuovo porto di Trieste. Il legame con il territorio è fortissimo per tutte le fondazioni che rischiano di perdere la loro identità senza un chiaro e acclarato richiamo alle origini; la loro battaglia resta quindi quella di non finire annacquate nel capitale di banche sempre più nazionali e, a volte, sovranazionali.
Unicredit e Intesa, d’altra parte, hanno un azionariato molto diffuso e, pertanto, esse sono sufficientemente libere dalle forti richieste provenienti dalle fondazioni, ma non è così negli altri casi: a esempio, Mps è  al 55% in portafoglio della fondazione omonima e la Carige è al 43% in portafoglio della fondazione presieduta da Flavio Repetto, produttore del cioccolato Novi..
Quando, nel 2008, le banche sono entrate in crisi le fondazioni hanno visto inaridirsi il fiume di dividendi che la banca conferitaria aveva garantito per anni, in molti casi l’unica fonte di reddito, mettendo in crisi il sistema di redistribuzione sul territorio e, quindi, la loro funzione primaria. Inoltre le banche conferitarie hanno avuto bisogno di forti ricapitalizzazioni e pertanto le fondazioni hanno dovuto provvedere per proteggere il loro principale investimento; nel 2008 il peso delle partecipazioni bancarie nei portafogli delle fondazioni  è salito dal  25,9% al 32,4%.
Senza le fondazioni IntesaSanPaolo e Unicredit  non sarebbero riuscite a raddrizzare lo stato patrimoniale  bersagliato dalla crisi ed è possibile che per applicare Basilea III serva ancora altro denaro da parte dei soci.

Eugenio Caruso
11 marzo 2010

Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda al successo editoriale
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.

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