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Marchionne: tiro al bersaglio sulla Fiat.

 All’assemblea degli azionisti Fiat, Sergio Marchionne decide di lanciare il suo j’accuse contro politici, sindacalisti e persino industriali. Tutta gente che, a suo dire, ha organizzato contro la Fiat «un tiro al bersaglio». Tono pacato, ma sassate contro la consunta liturgia italiana, quella melassa che tutto avvolge e invischia per far sì che alla fine nulla cambi veramente.

Non rinnega niente, Marchionne, dei suoi sei anni passati alla Fiat. Anzi. Le diciassette cartelle (su 39 della sua relazione all’assemblea degli azionisti) dedicate «al modo in cui la Fiat viene vista in Italia in questo periodo e il modo in cui se ne parla», sono ricche di autocitazioni. A iniziare dalla premessa: «Nel 2004 non c’era una sola voce autorevole a scommettere sulla rinascita di questa azienda. La gara era indovinare la fine più cruenta. Era una gara fatta sulla pelle dei nostri lavoratori e su centinaia di migliaia di altri italiani che lavorano nella filiera dell'auto. La storia ha dimostrato che i profeti si sbagliavano».
 Ricorda, Marchionne, il 14 febbraio del 2005, quando fu sciolta l’alleanza con General Motors incassando 2 miliardi di dollari, quello fu il giorno dell’orgoglio ritrovato, la pubblicità sui giornali recitava «l’Italia si è ripresa la Fiat... Noi ci crediamo. Continuate a tifare per noi». Poi la svolta, la Fiat rivoltata come un calzino, i risultati che arrivano, le quote di mercato riconquistate, il ritorno della fiducia.  Trattiene per un attimo il fiato il manager italo-americano. Poi afferma, cadenzando bene le parole «Oggi stiamo vedendo un altro gioco pericoloso, un nuovo tiro al bersaglio contro la nostra azienda». Non se la prende con i giornali. «Penso piuttosto - chiarisce subito a scanso di equivoci - ad alcune dichiarazioni di esponenti del mondo politico, sindacale e, qualche volta, purtroppo, anche imprenditoriale». Insomma, spiega l’ad della Fiat, non pretendiamo «di essere salutati ogni giorno con le fanfare», ma neppure di beccarci continuamente «fischi gratuiti». Non accetta, Marchionne, che si metta in dubbio il comportamento e l’onestà della Fiat. A chi accusa il Lingotto di andare avanti grazie agli aiuti pubblici ricorda che l’azienda negli ultimi 17 anni è stata ricapitalizzata per più del 70%. «Nessuno può dire che viviamo alle spalle dello Stato o che vogliamo abbandonare il Paese».  La presunta disattenzione per l’Italia manda su tutte le furie Marchionne, il quale non si nasconde che la polemica nasca dalla questione Termini Imerese.  Ripercorre, pertanto, la storia e le vicissitudini dello stabilimento siciliano per arrivare comunque al finale scontato: lì per le auto non c’è futuro, anche se Fiat farà la sua parte per trovare un lavoro agli attuali dipendenti.  E poi c’è Pomigliano d’Arco. «Per salvare lo stabilimento - dice Marchionne - era necessario un atto di coraggio, oltre che un enorme sforzo finanziario. Abbiamo messo sul piatto entrambi». Lì dovrà essere costruita la nuova Panda. Lo stabilimento dovrebbe diventare il secondo più grande impianto Fiat in Italia.  Ma l’ad del Lingotto chiede ai sindacati un maggiore utilizzo degli impianti e varie forme di flessibilità per poter rispondere in tempo reale alla domanda. Marchionne sottolinea che non sta investendo su Pomigliano per convenienza, quella si troverebbe semmai in altri lidi. Chiede, però, di non avere lacci e lacciuoli. «A volte - commenta - ho l’impressione che il mondo politico e i sindacati non si rendano conto delle dimensioni della crisi che ha investito il nostro Paese. Pur di evitare i licenziamenti nel 2009 abbiamo fatto ricorso a 30 milioni di ore di cassa integrazione». E ancora: «Continuare a chiedere soluzioni incompatibili con il quadro della crisi globale significa vivere in un altro mondo. Non c’è poi da stupirsi nel vedere che il flusso degli investimenti esteri in Italia arriva a livelli minimi».  Fiat, racconta Marchionne, continua a guardare all’Italia con gli stessi occhi della pubblicità del lancio della «500», quella dello slogan «La Fiat appartiene a tutti noi». Ma il mondo intorno è cambiato. La Grande Crisi ha stravolto i mercati: si poteva rimanere fermi ad aspettare che tutto finisse, oppure reagire. «Era il momento di ripensare il nostro modello di business - insiste Marchionne - L’imperativo era trovare nuove strade. La Fiat non è andata all’estero per capriccio e di sicuro non c’è andata dimenticando l’Italia, ci siamo andati per renderla più forte. La Fiat non ha spostato il proprio baricentro che è sempre stato e resta l’Italia. Abbiamo allargato la nostra base operativa per rendere quel baricentro più stabile. Abbiamo deciso di prendere il mondo come orizzonte».  Quando parla del rapporto con l’Italia Marchionne usa parole come stima, rispetto e libertà. Soprattutto rivendica la piena libertà delle proprie scelte. Certo, come già detto in altre occasioni, «per troppo tempo si è attribuito alla nostra azienda l’arroganza di pensare che quel che è bene per la Fiat è bene per l’Italia». Anzi, al contrario, «quello che è bene per l’Italia, andrà bene anche alla Fiat». Ma, come spiegherà a fine assemblea, «non sono disposto a soluzioni disegnate altrove e imposte alla Fiat». Il supermanager chiede perciò stima, rispetto e libertà anche per la Fiat. Stima: «per una gestione trasparente che si fonda sull’onestà e sulla correttezza». Rispetto: «che va dimostrato «abbandonando i vecchi pregiudizi». Libertà: «di agire in un contesto globale».  Marchionne ricorda come di rado nella vita ti venga data una seconda chance. Soprattutto quando, come nel settore dell’auto, è arrivata la resa dei conti. «Noi invece, anche grazie all’accordo con Chrysler, abbiamo una seconda possibilità. Possiamo ricostruire una base industriale forte nel nostro Paese». La sfida della Fiat secondo Marchionne, in fondo, è in queste parole finali: «Non sprechiamo questa opportunità».

27 marzo 2010

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