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Assemblea generale di Bankitalia. La relazione di Mario Draghi

L’evoluzione della crisi e la cooperazione internazionale
Un anno e mezzo fa il fallimento di Lehman Brothers apriva scenari gravi per la finanza e l’economia del mondo. L’azione di autorità monetarie e governi arginava il collasso della fiducia di operatori finanziari, risparmiatori, investitori, consumatori. Nell’insieme dei paesi del G7 il sostegno dei bilanci pubblici all’economia superava nel 2009 i 5 punti percentuali del PIL. I tassi reali d’interesse a breve termine divenivano negativi, le banche centrali fornivano liquidità in misura senza precedenti. Il prodotto si riduceva del 2,4 per cento negli Stati Uniti, del 4,1 nell’area dell’euro, del 5,0 in Italia; continuava a espandersi nelle economie emergenti, pur rallentando al 2,4 per cento. Per quest’anno le maggiori istituzioni internazionali prevedono una crescita del prodotto mondiale di oltre il 4 per cento. Si tratta però di una media fra tassi molto diversi: alti nelle economie emergenti, in primo luogo in Cina; significativi negli Stati Uniti e in Giappone; deboli in Europa, dove il livello del prodotto resta ancora ampiamente inferiore a quello pre-crisi. Disavanzi e debiti pubblici sono aumentati vistosamente. Al sollievo per la catastrofe evitata è subentrata nei mercati finanziari internazionali l’ansia improvvisa per la sostenibilità di debiti sovrani crescenti. Le vendite colpiscono titoli di Stati che hanno ampi deficit di bilancio o alti livelli di debito pubblico; soprattutto, quelli di paesi dove queste due caratteristiche si combinano con una bassa crescita economica. Quanto più questa è debole, tanto più esigente, pressante, è la richiesta degli investitori internazionali di un rapido rientro dagli squilibri nei conti pubblici. Per questi paesi non c’è alternativa al fissare rapidamente un itinerario di riequilibrio del bilancio, con una ricomposizione della spesa corrente e con riforme strutturali che favoriscano l’innalzamento del potenziale produttivo e la competitività. Si tratta di percorsi difficili che, se non coordinati a livello internazionale, rischiano di spegnere la pur timida ripresa. La crisi ha attenuato, non risolto, i preoccupanti squilibri geografici nella domanda globale. Il contenimento dei debiti e l’aumento del risparmio negli Stati Uniti e in alcune economie europee comprimono consumi e investimenti; dovrebbero essere compensati da una forte espansione della domanda interna nei paesi che hanno accumulato ampi avanzi esterni, più di quanto non stia già accadendo. Il G20 ha varato lo scorso anno a Pittsburgh un ambizioso programma di sorveglianza multilaterale delle politiche macroeconomiche e strutturali. È importante che venga tradotto in concrete strategie di riequilibrio e di sostegno alla crescita. Ma è probabile che il processo non avvenga in tempi rapidi; i disavanzi dovranno essere finanziati, richiederanno mercati solidi e trasparenti.

Le lezioni della crisi
La radice della crisi che investe il mondo da quasi tre anni sta in carenze regolamentari e di vigilanza nelle piazze finanziarie più importanti. La politica monetaria espansiva condotta negli Stati Uniti dalla fine degli anni novanta ha contribuito a creare un ambiente finanziario favorevole all’aumento esplosivo dell’indebitamento privato e all’aggravarsi degli squilibri globali; questi fattori hanno acuito gli effetti della crisi e ne hanno favorita la trasmissione. Ne discendono chiare indicazioni per il futuro, riguardo sia al sistema di regolamentazione finanziaria, sia alle politiche monetarie. Dall’inizio della crisi il Financial Stability Board (FSB) è stato investito dalle massime istanze politiche mondiali della responsabilità di disegnare il quadro regolamentare in cui opererà l’industria finanziaria negli anni a venire. Ho più volte descritto le linee che hanno guidato, che guidano questo disegno; come esse traggano dalla diagnosi delle debolezze del passato la traccia per l’azione presente e futura; come l’obiettivo finale del lavoro sia quello di rendere il sistema più solido di fronte alle crisi. Alcune potranno essere prevenute; altre saranno inevitabili, ma possiamo agire per limitarne danni e contagio. L’agenda si sviluppa su quattro filoni: i) definire regole generali per le banche: un patrimonio più robusto, una leva finanziaria più contenuta, il controllo dei rischi di liquidità ne sono i pilastri; ii) introdurre disposizioni specifiche per gli intermediari sistemici, dirette a ridurre la probabilità di un loro eventuale fallimento; a permetterne, ove questo si produca, una gestione ordinata e arginarne il contagio; iii) ridurre la rilevanza dei rating nella supervisione, al tempo stesso accrescendo la concorrenza tra le agenzie di rating e controllando efficacemente l’integrità dei loro processi decisionali, la trasparenza dei loro giudizi; iv) aumentare la trasparenza delle contrattazioni sui mercati finanziari già regolamentati; ricondurre i mercati over the counter entro un quadro di regole globalmente condivise che impongano contratti standard e il regolamento delle transazioni presso controparti centrali assoggettate a vigilanza. Per il primo blocco di riforme la convergenza internazionale deve essere massima, altrimenti l’arbitraggio regolamentare e l’integrazione tra i mercati ne vanificheranno l’applicazione. Per il secondo blocco è più opportuno parlare di armonizzazione minima: tutti dovranno prendere delle misure nei confronti degli intermediari sistemici, ma è illusorio pensare che modi e tempi di attuazione siano gli stessi per tutti i paesi, perché troppo grande è la diversità di istituzioni, mercati, modelli di business, storie economiche. Solo quando governi e regolatori potranno lasciar fallire le istituzioni che lo meritano, senza provocare catastrofi come quella seguita al fallimento di Lehman, essi avranno riacquistato vera indipendenza rispetto all’industria dei servizi finanziari. Negli Stati Uniti è in corso di definizione un ambizioso progetto di riforma della regolamentazione del sistema finanziario; negli aspetti di cooperazione internazionale esso è coerente con l’agenda del FSB. I lavori del Board si stanno svolgendo secondo il calendario previsto. Ma gli appuntamenti di quest’anno sono decisivi. La scadenza più importante è la presentazione al Summit del G20 di Seoul, il prossimo novembre, delle nuove regole che riformeranno l’accordo di Basilea 2. L’industria finanziaria sostiene che la riforma regolamentare potrebbe ostacolare la ripresa. Ma l’applicazione delle nuove regole sarà graduale; non comincerà prima che la ripresa si sia consolidata. Il passaggio verso la nuova definizione del capitale delle banche sarà lungo abbastanza da renderne trascurabili, durante la transizione, gli effetti sul valore di mercato delle banche e sul credito. È importante che le difficoltà del presente non portino a una diluizione degli obiettivi di lungo periodo, che devono rimanere fermi. L’esperienza della crisi influenza anche il disegno delle politiche monetarie. Queste restano volte all’obiettivo della stabilità dei prezzi, ma dovranno essere più pronte a contrastare andamenti del credito e della moneta che possano alimentare squilibri finanziari, anche in assenza di pericoli inflazionistici immediati. Come mostrano anche nostre analisi, per attenuare la volatilità del credito, dei prezzi delle attività finanziarie, dell’attività economica, vanno pure messi a punto strumenti quali variazioni anticicliche nei requisiti di capitalizzazione delle banche o nei rapporti loan to value: è la cosiddetta politica macroprudenziale. Le banche centrali devono avere un ruolo nel disegno e nell’attuazione di tale politica. Nei momenti di grave crisi i bilanci degli intermediari finanziari si modificano e, con essi, i canali di trasmissione della politica monetaria; i vincoli alla disponibilità di credito, poco influenti nei periodi normali, divengono stringenti quando i mercati non funzionano in modo ordinato; il sostegno al credito ha un effetto sull’economia ben maggiore dell’espansione degli aggregati monetari. Modifiche nella dimensione e composizione del bilancio delle banche centrali si sono dimostrate utili nell’opera di stabilizzazione dei mercati. È quello che ha fatto, e sta facendo, la Banca centrale europea (BCE).

L’area dell’euro
La politica monetaria dell’area è da tempo fortemente espansiva. Ha assicurato condizioni ordinate nel sistema del credito, ha fornito sostegno alla ripresa dell’economia in presenza di aspettative di inflazione moderate e saldamente ancorate alla stabilità dei prezzi. Le misure eccezionali di espansione della liquidità hanno evitato una crisi sistemica; hanno compresso i tassi di interesse sul mercato monetario e contribuito alla riduzione di quelli sui prestiti alle imprese e alle famiglie. Per estendere l’accesso ai fondi da parte degli intermediari, le operazioni di rifinanziamento sono state effettuate a tasso fisso e con pieno soddisfacimento della domanda; è stata ampliata la gamma di attività finanziarie utilizzabili come garanzia; la durata delle operazioni è stata allungata a 12 mesi. Alla fine dell’anno scorso, il Consiglio direttivo, pur non rinnovando alcune operazioni eccezionali ritenute non più indispensabili, ha continuato a garantire tutta la liquidità necessaria al sostegno dell’economia e del sistema finanziario. Ma negli ultimi mesi le conseguenze della crisi hanno messo alla prova la coesione dell’area. L’imponente creazione di debito pubblico, in una fase in cui arrivano a scadenza sui mercati quantità straordinarie di obbligazioni bancarie, ha improvvisamente accresciuto il premio di rischio su alcuni debitori sovrani. Per la Grecia la questione si poneva da tempo: la perdita di credibilità dei conti pubblici, l’entità del deficit, del debito, del disavanzo corrente della bilancia dei pagamenti, la debole struttura industriale con dinamiche salariali insostenibili precipitavano quel paese in una crisi fiscale che le autorità greche tardavano a percepire. Così come, nel caso del debito privato americano, le incertezze nella gestione politica e l’assenza di meccanismi di risoluzione delle crisi aggravavano la situazione, nel caso greco la difficoltà in Europa di trovare un accordo su un piano di salvataggio, ma anche l’indisponibilità di un processo che permetta una gestione ordinata delle crisi debitorie degli Stati sovrani, hanno amplificato il danno e il contagio, e insieme accresciuto l’azzardo morale. A paralizzare i mercati era la prospettiva che la crisi fiscale dello Stato greco si traducesse, attraverso il peggioramento nella qualità delle garanzie, in un collasso del suo sistema bancario, che non avrebbe più avuto accesso al rifinanziamento della BCE. Si aggiungevano timori sul conto delle banche di altri paesi più esposte nei confronti di controparti greche. Il rischio diveniva sistemico: la liquidità interbancaria si inaridiva, le borse cadevano. La BCE e le banche centrali nazionali intervenivano prontamente, conservando la possibilità di accettare collaterale con rating più basso; riattivando l’offerta illimitata di liquidità nelle operazioni di rifinanziamento a lungo termine; avviando, con il Securities Markets Programme, acquisti di titoli per ripristinare il funzionamento di mercati divenuti illiquidi. I governi dei paesi dell’area e l’Unione europea, d’intesa con il Fondo monetario internazionale (FMI), stanziavano 110 miliardi di euro per finanziamenti a favore della Grecia; predisponevano uno schema di assistenza finanziaria ai debitori sovrani dell’area che dovessero incorrere in una crisi di liquidità, in grado di mobilitare risorse fino a 750 miliardi, con un contributo del FMI. I paesi beneficiari dovranno predisporre programmi di risanamento che, se approvati dal Consiglio europeo, verranno sottoposti a verifiche periodiche. Il Consiglio direttivo della BCE, nel valutare le circostanze eccezionali che hanno giustificato l’intervento sul mercato dei titoli pubblici, ha ritenuto che fosse a repentaglio il funzionamento dei canali di trasmissione della politica monetaria, che la stabilità del sistema finanziario dell’euro fosse a rischio. La BCE sterilizza questi interventi, che non finanziano i disavanzi pubblici. La sua indipendenza non è in discussione. Queste misure dovranno rientrare al più presto, non appena i mercati torneranno a scambiare in maniera autonoma i titoli dei paesi interessati. Ciò richiederà progressi rapidi, significativi e visibili nel riequilibrio dei bilanci pubblici; la piena operatività dello schema di finanziamento predisposto dalla Unione europea e dal FMI. Ma una stabilità duratura dei mercati si ha solo con la ripresa della crescita, perché non va dimenticato che questa crisi è soprattutto una crisi di competitività. Gli eventi recenti ripropongono con maggior forza l’antico problema di un governo economico dell’Europa. È urgente un rafforzamento del Patto di stabilità e crescita: l’impegno a raggiungere un saldo di bilancio strutturale in pareggio o in avanzo va reso cogente, introducendo sanzioni, anche politiche, in caso di inadempienze; va assicurata l’integrità delle informazioni statistiche, in particolare quelle di finanza pubblica. Vanno introdotti anche per le politiche strutturali vincoli e impegni cogenti. Le divergenze che osserviamo da tempo nei tassi di crescita, effettivi e potenziali, la gravità degli squilibri negli scambi di merci e servizi intra-area, segnalano inadeguatezze e incoerenze nelle politiche nazionali. Alcuni obiettivi dell’azione pubblica volta a rafforzare lo sviluppo economico di lungo periodo, attinenti ad esempio alla partecipazione al mercato del lavoro di giovani e anziani e alla concorrenza nei mercati dei servizi, dovrebbero essere corredati da controlli e, in alcuni casi, da sanzioni.

L’economia italiana
Nel biennio 2008-09 il PIL è sceso in Italia di 6 punti e mezzo, quasi metà di tutta la crescita che si era avuta nei dieci anni precedenti. Il reddito reale delle famiglie si è ridotto del 3,4 per cento, i loro consumi del 2,5. Le esportazioni sono cadute del 22 per cento. L’incertezza dilagante e il deteriorarsi delle prospettive della domanda hanno indotto le imprese a ridurre gli investimenti, scesi del 16 per cento. L’incidenza della Cassa integrazione guadagni sulle ore lavorate nell’industria è salita al 12 per cento alla fine del 2009. L’occupazione è diminuita dell’1,4 per cento; il numero di ore lavorate del 3,7. I fallimenti d’impresa sono stati 9.400 nel 2009, un quarto in più rispetto all’anno precedente. Stanno soffrendo soprattutto le imprese più piccole, spesso dipendenti da rapporti di subfornitura. Le aziende che avevano avviato processi di ristrutturazione prima della crisi hanno retto meglio l’urto; oggi presentano le prospettive migliori; secondo l’indagine periodica della Banca d’Italia, esse prevedono per il 2010 un aumento del fatturato superiore di 3 punti a quello di imprese simili non ristrutturate. Tra le imprese industriali con 50 e più addetti che hanno investito in ricerca e sviluppo nel triennio precedente la crisi, l’aumento previsto del fatturato è di oltre il 6 per cento. La politica economica ha limitato il danno, in una misura stimabile in due punti di PIL, attribuibili per circa un punto alla politica monetaria, per mezzo punto agli stabilizzatori automatici inclusi nel bilancio pubblico, per il resto alle misure di ricomposizione di entrate e spese decise dal Governo. L’estensione degli ammortizzatori sociali ha attenuato i costi immediati della crisi. La crescita del disavanzo pubblico è risultata inferiore a quella delle altre principali economie avanzate. La solidità del nostro sistema bancario, che non ha richiesto interventi pubblici significativi, ha aiutato. Le misure a sostegno degli intermediari finanziari hanno pesato per 3,8 punti di PIL nella media delle altre economie del G7. All’inizio di quest’anno si stimava che l’economia italiana sarebbe tornata a crescere ai pur modesti ritmi registrati nel decennio precedente la crisi. Nel primo trimestre il PIL aumentava dello 0,5 per cento sul trimestre precedente; miglioravano i giudizi delle imprese, soprattutto di quelle esportatrici, sull’andamento degli ordini e le loro attese di produzione; la fase di decumulo delle scorte sembrava essersi esaurita. L’esplodere della crisi greca potrebbe cambiare il quadro di riferimento. Alcuni governi europei hanno preso misure dirette al rientro del disavanzo. Il Governo italiano ha ribadito l’obiettivo di ridurre il deficit al di sotto della soglia del 3 per cento del PIL nel 2012; ha confermato l’impegno al raggiungimento del pareggio di bilancio su un orizzonte temporale più esteso; ha anticipato la definizione delle misure correttive per il biennio 2011-12. Secondo le valutazioni ufficiali, gli interventi recentemente approvati dal Consiglio dei Ministri determinano una riduzione del disavanzo tendenziale pari a 24,9 miliardi nel 2012; riguardano le principali voci di spesa, si concentrano sui costi di funzionamento delle amministrazioni. La manovra mira a portare la crescita della spesa primaria corrente al di sotto dell’1 per cento annuo nel biennio 2011-12, determinando una riduzione della sua incidenza sul PIL di oltre due punti. Negli ultimi dieci anni la spesa è cresciuta in media del 4,6 per cento l’anno, aumentando di quasi 6 punti in rapporto al PIL. Quindi è necessario un attento scrutinio degli effetti della manovra per garantire il conseguimento degli obiettivi. La struttura finanziaria dell’Italia presenta molti punti di forza. La ricchezza accumulata dalle famiglie è pari, al netto dei debiti, a quasi 2 volte il PIL nella sola componente finanziaria, a circa 5 volte e mezzo includendo le proprietà immobiliari, livelli fra i più alti nell’area dell’euro. Sempre in rapporto al PIL, i debiti delle famiglie sono fra i più bassi dell’area, quelli delle imprese sono inferiori alla media. Il debito netto verso l’estero dell’intera economia può essere stimato al 15 per cento del PIL, fra i valori più bassi nell’area, escludendo la Germania che ha una forte posizione creditoria. Il rapporto tra debito pubblico e PIL era diminuito di 18 punti percentuali tra il 1994 e il 2007. In questo biennio di recessione è aumentato di 12 punti, al 115,8 per cento. Nelle nuove condizioni di mercato era inevitabile agire, anche se le restrizioni di bilancio incidono sulle prospettive di ripresa a breve dell’economia italiana.

Competitività e crescita
Nell’Unione monetaria stagnazione, disoccupazione e, alla lunga, tensioni nel bilancio pubblico sono l’inevitabile conseguenza della perdita di competitività. La correzione dei conti pubblici va accompagnata con il rilancio della crescita. Nei dieci anni precedenti la crisi, la produttività di un’ora lavorata è salita del 3 per cento in Italia, del 14 nell’area dell’euro. Negli stessi anni l’economia italiana è cresciuta del 15 per cento, contro il 25 dei paesi dell’area. Il tasso di occupazione degli italiani resta basso, 57 per cento nel 2009, 7 punti meno che nell’area; il divario è più ampio per i giovani e raggiunge 12 punti per le donne. In molte altre occasioni abbiamo affrontato il tema delle riforme strutturali. La crisi le rende più urgenti: la caduta del prodotto accresce l’onere per il finanziamento dell’amministrazione pubblica; i costi dell’evasione fiscale e della corruzione divengono ancora più insopportabili; la stagnazione distrugge capitale umano, soprattutto tra i giovani. La gestione del turnover nel pubblico impiego e i tagli alle spese discrezionali dei ministeri recentemente decisi dal Governo devono fornire l’occasione per ripensare il perimetro e l’articolazione delle amministrazioni, per razionalizzare l’allocazione delle risorse, riducendo sprechi e duplicazioni tra enti e livelli di governo. Occorre un disegno esteso all’intero comparto pubblico, che accompagni le iniziative già avviate per aumentare la produttività della pubblica amministrazione attraverso la valutazione dell’operato dei dirigenti e dei risultati delle strutture. Il federalismo fiscale deve aumentare l’efficienza nell’uso delle risorse. Solo un vincolo di bilancio forte, accompagnato dalla necessaria autonomia impositiva, può rendere trasparente il costo fiscale di ogni decisione e responsabilizzare i centri di spesa. La definizione dei costi e dei fabbisogni standard a cui saranno commisurati, con la necessaria componente di solidarietà, i trasferimenti statali dovrà fare riferimento alle migliori pratiche; ciascun ente dovrà mantenere il proprio bilancio in pareggio, al netto degli investimenti, come previsto dall’articolo 119 della Costituzione; l’ammontare complessivo della spesa locale per investimenti andrà fissato per un periodo pluriennale, in coerenza con gli obiettivi di indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche. Proseguendo lungo le linee tracciate per le regioni con disavanzi sanitari, è opportuno rafforzare il sistema di vincoli e disincentivi per gli enti che non rispettano le regole. Ma le regole di bilancio non bastano a garantire l’uso efficiente delle risorse. Occorrono informazioni chiare e confrontabili sulla qualità dei servizi erogati dai diversi enti, che consentano alle singole amministrazioni di individuare i punti di debolezza del proprio sistema, ai cittadini di valutare l’azione degli amministratori, allo Stato di applicare meccanismi sanzionatori, incluso il potere di sostituirsi nella gestione agli enti che non garantiscano i livelli essenziali delle prestazioni. Costi e risultati variano ampiamente tra enti che prestano gli stessi servizi; indicano cospicui margini di miglioramento. Ma oggi iniziamo ad avere i dati per valutare e intervenire concretamente. Numerose iniziative vanno in questa direzione. Il Ministero della Salute ha elaborato un gruppo sperimentale di indicatori di qualità, efficienza e appropriatezza del servizio definiti a livello regionale e di singolo ospedale o azienda sanitaria. Il Ministero dell’Istruzione ha inserito nelle valutazioni degli studenti prove standardizzate che accrescono la comparabilità degli scrutini e il loro valore per la verifica dell’efficacia dell’insegnamento. Il Consiglio superiore della magistratura ha individuato una metodologia per la definizione di classi omogenee di carico di lavoro dei magistrati, volta a valutarne la produttività. L’evasione fiscale è un freno alla crescita perché richiede tasse più elevate per chi le paga; riduce le risorse per le politiche sociali, ostacola gli interventi a favore dei cittadini con redditi modesti. Il cuneo fiscale sul lavoro è di circa 5 punti superiore alla media degli altri paesi dell’area dell’euro, il prelievo sui redditi da lavoro più bassi e quello sulle imprese, includendo l’Irap, sono più elevati di 6 punti. Secondo stime dell’Istat, il valore aggiunto sommerso ammonta al 16 per cento del PIL. Confrontando i dati della contabilità nazionale con le dichiarazioni dei contribuenti, si può valutare che tra il 2005 e il 2008 il 30 per cento della base imponibile dell’IVA sia stato evaso: in termini di gettito, sono oltre 30 miliardi l’anno, 2 punti di PIL. Il Governo ha introdotto misure di contrasto all’evasione fiscale. L’obiettivo immediato è il contenimento del disavanzo, ma in una prospettiva di medio termine la riduzione dell’evasione deve essere una leva di sviluppo, deve consentire quella delle aliquote; il nesso fra le due azioni va reso visibile ai contribuenti. Relazioni corruttive tra soggetti privati e amministrazioni pubbliche, in alcuni casi favorite dalla criminalità organizzata, sono diffuse. Le periodiche graduatorie internazionali collocano l’Italia in una posizione sempre più arretrata. Studi empirici mostrano che la corruzione frena lo sviluppo economico. Stretta è la connessione tra la densità della criminalità organizzata e il livello di sviluppo: nelle tre regioni del Mezzogiorno in cui si concentra il 75 per cento del crimine organizzato il valore aggiunto pro capite del settore privato è pari al 45 per cento di quello del Centro Nord. L’azione di prevenzione e contrasto al riciclaggio prosegue. L’Unità di informazione finanziaria e la Vigilanza hanno intensificato la cooperazione con l’Autorità giudiziaria e le forze dell’ordine, soprattutto nei casi in cui più forte è la connessione con indagini penali. La crisi ha acuito il disagio dei giovani nel mercato del lavoro. Nella fascia di età tra 20 e 34 anni la disoccupazione ha raggiunto il 13 per cento nella media del 2009. La riduzione rispetto al 2008 della quota di occupati fra i giovani è stata quasi sette volte quella osservata fra i più anziani. Hanno pesato sia la maggiore diffusione fra i giovani dei contratti di lavoro a termine sia la contrazione delle nuove assunzioni, del 20 per cento. Da tempo vanno ampliandosi in Italia le differenze di condizione lavorativa tra le nuove generazioni e quelle che le hanno precedute, a sfavore delle prime. I salari di ingresso in termini reali ristagnano da quindici anni. Una ripresa lenta accresce la probabilità di una disoccupazione persistente. Questa condizione, specie se vissuta nelle fasi iniziali della carriera lavorativa, tende ad associarsi a retribuzioni successive permanentemente più basse. La riforma del mercato del lavoro va completata, superando le segmentazioni e stimolando la partecipazione. I giovani non possono da soli far fronte agli oneri crescenti di una popolazione che invecchia. Né sarà sufficiente l’apporto dei lavoratori stranieri. Solo 36 italiani su 100 di età compresa tra 55 e 64 anni sono occupati, contro 46 nella media europea, 56 in Germania. Nell’ultimo trentennio, a fronte di un aumento della speranza di vita dei sessantenni italiani di oltre cinque anni, si stima che l’età media effettiva di pensionamento nel settore privato sia salita di circa due anni, attorno a 61. Occorre prolungare la vita lavorativa, anche per garantire un tenore di vita adeguato agli anziani di domani. I paesi europei ad alto tasso di occupazione nella fascia 55-64 anni sono anche quelli con la maggiore occupazione giovanile. Nel 2009 il Governo ha compiuto un passo importante collegando in via automatica, dal 2015, l’età minima di pensionamento alla variazione della speranza di vita; il regolamento in via di definizione dà concreta attuazione al provvedimento. Nella stessa direzione muovono gli interventi sulle cosiddette finestre e sulla normativa per le donne nel pubblico impiego. L’INPS ha avviato iniziative per meglio informare i lavoratori circa la propria ricchezza previdenziale. Il processo di riforma del sistema pensionistico potrà essere completato con misure volte a uniformare gradualmente le età di pensionamento dei diversi gruppi di lavoratori, rendere più tempestivi gli aggiustamenti dei coefficienti del regime contributivo, offrire maggiore flessibilità nel pensionamento.

Banche, vigilanza
Il credito alle imprese era sceso del 3,7 per cento a dicembre 2009 rispetto a settembre, in ragione d’anno. La contrazione si è fatta meno intensa dall’inizio di quest’anno: nei tre mesi terminanti in aprile è stata pari all’1,0 per cento. La flessione è più forte nelle regioni del Nord, in cui più intensa è l’attività industriale; i prestiti alle imprese del Mezzogiorno sono tornati a crescere. Il credito alle famiglie continua a espandersi, sebbene a ritmi moderati. Nello scorso anno la dinamica del credito ha riflesso prevalentemente la debolezza della domanda di finanziamenti, ma vi hanno contribuito tensioni dal lato dell’offerta. Secondo la Bank Lending Survey dell’Eurosistema, esse si sono via via attenuate dalla metà del 2009. Abbiamo recentemente articolato l’indagine a livello regionale, ampliandone il campione; ne risultano condizioni di offerta in miglioramento nella prima parte di quest’anno nel Nord Ovest e nel Mezzogiorno. In Italia, come negli altri paesi, la recessione peggiora la qualità dei prestiti bancari. Nel 2009 le perdite su crediti dei nostri cinque maggiori gruppi bancari hanno assorbito quasi il 70 per cento del risultato di gestione; gli utili si sono ridotti di oltre un quinto. La tendenza, pur attenuata nei primi mesi di quest’anno, prosegue e coinvolge anche gli intermediari più piccoli, meno colpiti nelle fasi iniziali della crisi. Con l’insorgere della crisi greca le forti tensioni di liquidità sul mercato interbancario, rientrate lo scorso anno, sono tornate. L’operatività è concentrata sul brevissimo termine; alta è la quota di scambi garantiti; si preferisce negoziare con controparti nazionali; frequente è il ricorso a contrattazioni bilaterali. Le banche devono essere preparate ad affrontare periodi anche prolungati e ricorrenti di anomalia sui mercati. In un contesto di accresciuto ricorso ai mercati da parte di una pluralità di emittenti, pubblici e privati, il 2011 vede addensarsi scadenze di obbligazioni bancarie per importi significativi: le banche devono continuare a consolidare le fonti di provvista, anche intensificando il ricorso a strumenti garantiti (covered bonds). I progressi compiuti nel 2009 dalle banche italiane nel rafforzare il patrimonio, pur in un anno di profitti ridotti, sono stati incoraggianti; vi hanno contribuito emissioni sul mercato, dismissioni di attività, dividendi moderati, ricapitalizzazioni pubbliche. A marzo di quest’anno il core tier 1 ratio dei primi cinque gruppi bancari aveva raggiunto il 7,6 per cento, dal 5,8 di fine 2008. Le nostre analisi di stress mostrano che, anche con ipotesi sfavorevoli in linea con quelle adottate negli esercizi condotti a livello internazionale, quali una crescita del PIL nel 2010-11 di 3 punti inferiore alle stime correnti, in Italia il rispetto dei requisiti minimi regolamentari, la stabilità finanziaria non sarebbero in discussione. Ma, a causa della perdurante volatilità sui mercati e dell’incertezza sulle prospettive macroeconomiche, il rafforzamento patrimoniale deve continuare. Occorre anche prepararsi ai nuovi standard internazionali. È ancora in corso l’analisi per valutare gli effetti complessivi che le nuove regole sul capitale e sulla liquidità avranno sulle banche italiane. I parametri sono da definire; l’applicazione delle specifiche previsioni regolamentari avverrà con flessibilità e nei tempi necessari a consentire un adeguamento graduale, senza strappi. Gli strumenti di capitale già emessi secondo le regole vigenti resteranno computabili per un lungo periodo (grandfathering). La Vigilanza italiana si distingue per alcune importanti caratteristiche. Non si limita a stabilire principi prudenziali generali lasciandone l’interpretazione al mercato. Non si limita a verificare il rispetto delle regole; valuta strategie e gestione degli intermediari; senza sostituirsi alle scelte imprenditoriali, verifica che governance, organizzazione, processi operativi e sistemi di controllo siano coerenti con i rischi. Ai controlli a distanza si affianca una intensa attività ispettiva. Nel 2009 sono state fatte più di 200 ispezioni su banche e altri intermediari. Sono aumentate in misura consistente le verifiche mirate. Presso i principali gruppi bancari la presenza degli ispettori è continua; si estende alle componenti estere, in collaborazione con le altre autorità europee. Questo sistema di controlli, insieme a un ordinamento particolarmente prudente, è stato essenziale nel preservare la stabilità delle banche nella crisi. Il ruolo delle Fondazioni come azionisti delle banche non può che essere quello stabilito dalla legge: investitori il cui unico obiettivo sta nel valore economico dell’investimento. Saranno le Fondazioni, nella loro autonomia, le prime a tutelare l’indipendenza del management. Le grandi banche si giudicano anche da come organizzano l’attività sul territorio: mantenere, valorizzare il rapporto con l’economia locale significa utilizzare nella valutazione del cliente conoscenze accumulate nel corso di anni, ben più accurate di quelle desumibili da modelli quantitativi; significa saper discernere l’impresa meritevole anche quando i dati non sono a suo favore; significa saper fare il banchiere. La risposta delle grandi banche alle esigenze locali, coerente con la sana e prudente gestione, deve conciliarsi con strategie e visioni globali. Il vaglio accurato da parte della Vigilanza dei requisiti degli esponenti di banche o altri intermediari vigilati è un fondamentale strumento di controllo, garanzia di stabilità. Lo è anche la possibilità di rimuovere i responsabili di gestioni scorrette o altamente rischiose prima che la situazione sia gravemente deteriorata e si debbano perciò attivare provvedimenti di rigore. Un’estensione dei poteri della Vigilanza in questa direzione è opportuna. Le autorità di controllo di importanti paesi dispongono già di questi poteri. Il Comitato europeo dei supervisori bancari la suggerisce; la Commissione ne sta valutando l’adozione a livello comunitario. La tutela dei clienti degli intermediari è ormai diventata a pieno titolo una finalità della Vigilanza. Seguiamo attentamente l’attuazione delle nostre disposizioni sulla trasparenza dei servizi bancari e finanziari e sulla correttezza nei rapporti fra intermediari e clienti. L’Arbitro Bancario Finanziario, operativo dallo scorso ottobre, è un organismo indipendente che offre al cliente una rapida risposta nelle controversie con la sua banca. Le 560 decisioni finora prese, sui costi dei conti correnti e del credito al consumo, sulla portabilità dei mutui, su irregolarità nelle carte di pagamento, hanno visto il prevalere del cliente nella maggioranza dei casi. La crisi ci ha ricordato in forma brutale l’importanza dell’azione comune, della condivisione di obiettivi, politiche, sacrifici. È una lezione che vale per il mondo, per l’Europa, per l’Italia. La riforma delle regole per la finanza trascende i confini nazionali, richiede un consenso fra numerose giurisdizioni. Ma non c’è alternativa: una industria dei servizi finanziari integrata globalmente richiede una regolamentazione che, almeno nei suoi principi fondamentali, sia universale. La dura esperienza di questi anni non va dimenticata: rischi eccessivi impongono alla collettività prezzi altissimi. Rafforzare le difese del sistema è indispensabile, nei singoli paesi e a livello internazionale. Fare banca sarà meno redditizio ma anche meno rischioso. Tutti ne avranno beneficio. Sono certo che il progetto politico avviato dal G20 avrà successo. L’area dell’euro è nel suo complesso più solida di altre aree valutarie: il suo bilancio pubblico, i suoi conti con l’estero sono più equilibrati. Ma l’attacco che la colpisce oggi non guarda al suo insieme; sfruttando l’opportunità offerta dall’incompiutezza del progetto, si dirige verso i suoi membri più deboli. Non c’è che una risposta: l’euro vive con tutti i suoi membri, grandi e piccoli, forti e deboli. Se è stato illusorio pensare che la moneta da sola potesse “fare” l’Europa, oggi l’unica via è quella di rafforzare la costruzione europea nella politica, con un governo dell’Unione più attivo, nella disciplina dei bilanci pubblici e nel progresso delle riforme strutturali, con un nuovo patto di stabilità e crescita al tempo stesso più vincolante e più esteso. Due anni fa dedicai parte sostanziale di queste mie considerazioni a una riflessione sul divario persistente fra Nord e Sud del Paese. È con quella ricerca che, di fatto, la Banca ha iniziato le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia. È nostra convinzione che l’Unità si celebri progettandone il rafforzamento, garantendone la vitalità e l’adesione ai tempi nuovi. Non è la prima volta che l’Italia si trova di fronte a un’ardua sfida collettiva. Nei quasi 150 anni della sua vita unitaria ne sono state affrontate, e vinte, diverse. Mi si permettano due esempi. La più grande sfida sul piano delle riforme strutturali fu affrontata quando l’Italia appena unita entrò nel consesso europeo con il 75 per cento di analfabeti, contro il 30 del Regno Unito e il 10 della Svezia. Governanti, amministratori, maestri, Nord e Sud, combatterono insieme la battaglia dell’alfabetizzazione. Alla fine ci portammo ai livelli europei. Fu questo uno dei fattori alla base del miracolo economico dell’ultimo dopoguerra. Nel 1992 affrontammo una crisi di bilancio ben più seria di quella che hanno oggi davanti alcuni paesi europei. Il Governo dell’epoca presentò un piano di rientro che, condiviso dal Paese, fu creduto dai mercati, senza alcun aiuto da istituzioni internazionali o da altri paesi. Fu una lotta lunga: in regime di cambi flessibili, dopo tre anni gli spread superavano ancora i 650 punti base; ma fu vinta, perché i governi che seguirono mantennero la disciplina di bilancio: la stabilità era entrata nella cultura del Paese. Anche la sfida di oggi, coniugare la disciplina di bilancio con il ritorno alla crescita, si combatte facendo appello agli stessi valori che ci hanno permesso insieme di vincere le sfide del passato: capacità di fare, equità; desiderio di sapere, solidarietà. Consapevoli delle debolezze da superare, delle forze, ragguardevoli, che abbiamo, affrontiamola.

31 maggio 2010

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Tratto da Relazione 2009 di Bankitalia

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