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I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte X


Gestire significa prevedere e pianificare, organizzare, dare ordini, coordinare e controllare..
Henri Fayol


L’articolo è  il seguito di
Come si è arrivati alla grande crisi del 2008 Parte I,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte II,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte III,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte IV,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte V,
I passi della crisi 2008 -2010 - Parte VI
I passi della crisi 2008 - 2010 - Parte VII
I passi della crisi 2008 - 2010 - Parte VIII
I passi della crisi 2008 - 2010 - ParteIX

 

Con riferimento ai succitati articoli, questo prosegue, per il primo trimestre del 2011,  l’analisi delle performance economiche delle più importanti imprese del pianeta. Con particolare attenzione è analizzata la situazione italiana. Sono, inoltre, presi in considerazione tutte le più importanti iniziative degli stati e delle organizzazioni internazionali e nazionali, nonché gli andamenti delle economie di vari paesi. L’articolo viene aggiornato quasi quotidianamente.


CENSIS: la situazione sociale del paese nel 2010 (1 gennaio 2011).
Un inconscio collettivo senza più legge, né desiderio La società slitta sotto un’onda di pulsioni sregolate. Viene meno la fiducia nelle lunghe derive e nell’efficacia delle classi dirigenti. Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare le dinamiche sociali. Abbiamo resistito. Abbiamo resistito ai mesi più drammatici della crisi, seppure con una «evidente fatica del vivere e dolorose emarginazioni occupazionali». Al di là dei fenomeni congiunturali economici e politico-istituzionali dell’anno, adesso occorre una verifica di cosa è diventata la società italiana nelle sue fibre più intime. Perché sorge il dubbio che, anche se ripartisse la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe lo spessore e il vigore adeguati alle sfide che dovremo affrontare. Sono evidenti manifestazioni di fragilità sia personali che di massa: comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro. Si sono appiattiti i nostri riferimenti alti e nobili (l’eredità risorgimentale, il laico primato dello Stato, la cultura del riformismo, la fede in uno sviluppo continuato e progressivo), soppiantati dalla delusione per gli esiti del primato del mercato, della verticalizzazione e personalizzazione del potere, del decisionismo di chi governa. E una società appiattita fa franare verso il basso anche il vigore dei soggetti presenti in essa. «Una società ad alta soggettività, che aveva costruito una sua cinquantennale storia sulla vitalità, sulla grinta, sul vigore dei soggetti, si ritrova a dover fare i conti proprio con il declino della soggettività, che non basta più quando bisogna giocare su processi che hanno radici e motori fuori della realtà italiana». Non riusciamo più a individuare un dispositivo di fondo (centrale o periferico, morale o giuridico) che disciplini comportamenti, atteggiamenti, valori. Si afferma così una «diffusa e inquietante sregolazione pulsionale», con comportamenti individuali all’impronta di un «egoismo autoreferenziale e narcisistico»: negli episodi di violenza familiare, nel bullismo gratuito, nel gusto apatico di compiere delitti comuni, nella tendenza a facili godimenti sessuali, nella ricerca di un eccesso di stimolazione esterna che supplisca al vuoto interiore del soggetto, nel ricambio febbrile degli oggetti da acquisire e godere, nella ricerca demenziale di esperienze che sfidano la morte (come il balconing). «Siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno di interessi e di conflitti sociali, si va sostituendo un ciclo segnato dall’annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti». Bisogna scendere più a fondo nella personalità dei singoli e nella soggettività collettiva per verificare come funziona l’inconscio. Qui si confrontano la legge (l’autorità esterna o interiorizzata) e il desiderio (che esprime il bisogno e la volontà di superare il vuoto acquisendo oggetti e relazioni). Ogni giorno di più il desiderio diventa esangue, indebolito dall’appagamento derivante dalla soddisfazione di desideri covati per decenni (dalla casa di proprietà alle vacanze) o indebolito dal primato dell’offerta di oggetti in realtà mai desiderati (con bambini obbligati a godere giocattoli mai chiesti e adulti al sesto tipo di telefono cellulare). «La strategia del rinforzo continuato dell’offerta è uno strumento invincibile nel non dare spazio ai desideri». Così, all’inconscio manca oggi la materia prima su cui lavorare, cioè il desiderio. Al tempo stesso, la desublimazione di archetipi, ideali, figure di riferimento rende labili i riferimenti alla legge (del padre, del dettato religioso, della stessa coscienza). «Si vive senza norma, quasi senza individuabili confini della normalità, per cui tutto nella mente dei singoli è aleatorio vagabondaggio, non capace di riferirsi ad un solido basamento». Di fronte ai duri problemi attuali e all’urgenza di adeguate politiche per rilanciare lo sviluppo, viene meno la fiducia nelle lunghe derive su cui evolve spontaneamente la nostra società. Ancora più improbabile è che si possa contare sulle responsabilità della classe dirigente, sulle leadership partitiche o su un rinnovato impegno degli apparati pubblici. La tematica rigore-ripresa è ferma alle parole, la riflessione sullo sviluppo europeo è flebile, i tanti richiami ai temi all’ordine del giorno (la scuola, l’occupazione, le infrastrutture, la legalità, il Mezzogiorno) sono solo enunciati seriali. La complessità italiana è essenzialmente complessità culturale. Nella crisi che stiamo attraversando c’è quindi bisogno di messaggi che facciano autocoscienza di massa. Non esistono attualmente in Italia sedi di auctoritas che potrebbero ridare forza alla «legge». Più utile è il richiamo a un rilancio del desiderio, individuale e collettivo, per andare oltre la soggettività autoreferenziale, per vincere il nichilismo dell’indifferenza generalizzata. «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita». Attualmente tre sono i processi in cui sono ravvisabili germi di desiderio: la crescita di comportamenti «apolidi» legati al primato della competitività internazionale (gli imprenditori e i giovani che lavorano e studiano all’estero), i nuovi reticoli di rappresentanza nel mondo delle imprese e il lento formarsi di un tessuto federalista, la propensione a fare comunità in luoghi a misura d’uomo (borghi, paesi o piccole città).
L’Italia appiattita stenta a ripartire Crisi e globalizzazione portano disinvestimento dal lavoro, despecializzazione produttiva, risparmi stagnanti. Ma il Paese tiene grazie a intrecci virtuosi: welfare mix e reti di imprese. Mentre in tutto il mondo la ricetta per uscire dalla crisi prevede l’attivazione di tutte le energie professionali con l’auto-imprenditorialità, l’Italia - patria del lavoro autonomo e imprenditoriale - vede ridursi in questi anni proprio la componente del lavoro non dipendente: 437.000 imprenditori e lavoratori in proprio (artigiani e commercianti) in meno dal 2004 al 2009 (-7,6%). L’Italia è anche il Paese europeo con il più basso ricorso a orari flessibili nell’ambito dell’organizzazione produttiva: solo l’11% delle aziende con più di 10 addetti utilizza turni di notte, solo il 14% fa ricorso al lavoro di domenica e il 38% al lavoro di sabato. E siamo il Paese dove è più bassa la percentuale di imprese che adottano modelli di partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa (lo fa solo il 3% contro una media europea del 14%). Nei primi due trimestri del 2010 si è registrato poi un calo degli occupati tra 15 e 34 anni del 5,9%, a fronte di una riduzione media dello 0,9%. Poco fiduciosi nella possibilità di trovare un’occupazione, ma anche poco disponibili a trovarne una a qualsiasi condizione, i giovani hanno avvertito più degli altri gli effetti della crisi. Sono 2.242.000 le persone tra 15 e 34 anni che non studiano, non lavorano, né cercano un impiego. Più della metà degli italiani (il 55,5%) pensa che i giovani non trovano lavoro perché non vogliono accettare occupazioni faticose e di scarso prestigio: una valutazione che potrebbe apparire ingenerosa e stereotipata, se non fosse che ad esserne più convinti sono proprio i più giovani, tra i quali la percentuale sale al 57,8%. Tra il 2000 e il 2009, il tasso di crescita dell’economia italiana è stato più basso che in Germania, Francia e Regno Unito. Ma il declino demografico o l’immobilismo del mercato del lavoro non c’entrano. A partire dal 2000, in Italia la popolazione residente è cresciuta del 5,8%, gli occupati dell’8,3% e il Pil dell’1,4% in termini reali. In Germania le variazioni sono: popolazione -0,4%, occupati +2,9%, Pil +5,2%. In Francia: residenti +6,2%, occupati +5,0%, Pil +10,9%. Nel Regno Unito: residenti +4,9%, occupati +5,4%, Pil +13,4%. Esiste un rischio di despecializzazione imprenditoriale. La quota dell’export italiano sul mercato mondiale è passata negli ultimi nove anni dal 3,8% al 3,5%. È migliorato il nostro posizionamento per prodotti come gli articoli di abbigliamento, i macchinari per uso industriale, i prodotti alimentari, ma abbiamo perso terreno nei comparti a maggiore tasso di specializzazione, come le calzature (-3,8%), la gioielleria (-4,3%), i mobili (-4,7%), gli elettrodomestici (-5,8%) e i materiali da costruzione (-13,7%). Il pericolo è che strategie di nicchia, design e qualità non bastino più senza maggiori iniezioni di innovazione nei prodotti. Mattone, liquidità, polizze: sono questi i pilastri ai quali le famiglie si sono ancorate per resistere alla crisi. Nel primo trimestre del 2010 i mutui erogati sono aumentati in termini reali del 10,1% rispetto alla stesso periodo del 2008, superando i 252 miliardi di euro. Nel biennio è aumentata la liquidità detenuta dalle famiglie (+4,6% in termini reali i biglietti e depositi a vista, +10,3% gli altri depositi). Nei primi nove mesi del 2010 i premi per nuove polizze vita sono aumentati del 22% rispetto allo stesso periodo del 2009. Tra le famiglie che fronteggiano pagamenti rateali, mutui o prestiti di vario tipo, il 7,8% dichiara di non essere riuscito a rispettare le scadenze previste, il 13,4% lo ha fatto con molte difficoltà, il 38,5% con un po’ di difficoltà: a soffrire di più sono state le famiglie monogenitoriali e le coppie con figli. Nonostante la generale propensione a evitare impieghi rischiosi, negli ultimi mesi si registra però il ritorno a un profilo meno prudente nella collocazione del risparmio familiare, con un aumento tra il primo trimestre 2009 e il primo trimestre 2010 delle quote di fondi comuni d’investimento (+29,3%) e delle azioni e partecipazioni (+12,5%). Si moltiplicano gli strumenti pubblici e privati di incentivazione della domanda, con la progressiva spalmatura delle offerte promozionali lungo tutto l’anno. Con la crisi, si registra una crescita del credito al consumo (+5,6% nel 2008 e +4,7% nel 2009), mentre il valore delle operazioni con carte di pagamento ha raggiunto complessivamente i 252 miliardi di euro nel 2009. Hanno contribuito soprattutto le carte di credito (+9% di operazioni rispetto al 2008), le carte prepagate (+23,6%), i bonifici bancari automatizzati (+1,3%). I consumi «obbligati» delle famiglie si sono attestati su un livello mai raggiunto in precedenza. Erano il 18,9% della spesa familiare complessiva nel 1970, il 24,9% nel 1990, il 27,7% nel 2000 e oggi superano il 30%. Crescono le forme di pagamento cui non ci si può sottrarre. Gli aumenti tariffari per il prossimo anno vengono calcolati in poco meno di 1.000 euro a famiglia. Poi ci sono i contributi aggiuntivi per le scuole dell’obbligo, le fasce blu per i parcheggi, le multe che sostengono le esangui casse dei Comuni, le revisioni di auto e caldaie, le parcelle per la dichiarazione dei redditi. Complessivamente, la stima della «tassazione occulta» elaborata dal Censis porta a 2.289 euro all’anno per una famiglia di tre persone. Il boom immobiliare degli anni passati ha alimentato una nuova ondata di costruzioni, che cambiano la morfologia del paesaggio metropolitano. La quota di superficie territoriale impermeabilizzata è aumentata al 6,3%. Tra il 2005 e il 2009 le superfici degli ipermercati sono cresciute del 28%, quelle dei grandi centri di vendita specializzati (elettronica, arredamento, sport, bricolage) del 34,5%, il numero dei multiplex (i cinema con almeno 8 schermi) è salito del 21,5%. Nel 2010 sono state varate molte misure che incentivano la costituzione di forme di collaborazione fra imprese. Secondo una rilevazione del Censis, nelle aree distrettuali il dialogo tra tessuto produttivo, enti di formazione, strutture di ricerca, Confidi, centri servizi è cresciuto. Il 57% degli imprenditori intervistati si rivolge a laboratori di prova all’interno dell’area distrettuale, il 53% a strutture di formazione, quasi il 50% a un centro servizi per il distretto, il 43% a una struttura di coordinamento per le attività di esportazione presente nel suo territorio. Le famiglie sono un pilastro strategico del welfare, caricandosi di compiti assistenziali, particolarmente gravosi per le situazioni più problematiche di non autosufficienza e disabilità, di fatto sopperendo ai vuoti del sistema pubblico. Il numero delle persone disabili è stimato in 4,1 milioni. La presa in carico di queste situazioni riguarda le famiglie (i caregiver sono madri, coniugi e figli) e il ricorso alle badanti come soggetti principali dell’assistenza riguarda il 10,7% dei casi. Anche il volontariato continua a garantire una funzione strategica di provider di servizi in tempo di crisi. Secondo una recente indagine del Censis, un italiano su 4 (il 26,2%) svolge una qualche forma di volontariato. I settori nei quali si opera di più sono la sanità (il 33% dei casi) e nel Sud l’assistenza sociale (il 32,7%). Il disincanto delle famiglie non è l’unica reazione sociale in campo educativo. Ad esso si sovrappongono i crescenti oneri diretti e indiretti. Il 56,5% delle scuole italiane (dalla materna alle superiori) ha chiesto in quest’anno scolastico un contributo volontario alle famiglie, aggiuntivo alle tasse scolastiche e al costo della mensa. Il valore medio versato è stato pari a 80 euro, con punte fino a 100 euro nella scuola primaria e 260 euro nei licei. Un quarto delle scuole ha aumentato il contributo richiesto rispetto all’anno precedente. Il 36,4% delle scuole dispone anche di altre forme private di finanziamento: donazioni, proventi da distributori automatici di cibi e bevande, sponsorizzazioni, pubblicità o affitto di locali. Le famiglie tengono alle scuole dei figli, tanto che hanno collaborato ai lavori di piccola manutenzione (come ridipingere le pareti) del 13,6% degli edifici. Tra il 2001 e il 2009 aumenta al 15,7% la quota di minori in età scolare che hanno frequentato almeno un corso o lezioni private (+4,7%). Gli incrementi riguardano le lezioni private per il recupero scolastico (+2,3%), i corsi di tipo artistico o culturale (+2%), o di lingue straniere (+1,3%). Se il Paese non imbocca con decisione il sentiero della ripresa dipende anche dal fatto che sul sistema pesano come macigni un debito pubblico enorme, che ogni anno drena risorse per il 4,7% del Pil, e un’evasione fiscale che le stime più rosee valutano intorno a 100 miliardi di euro l’anno. L’economia irregolare, dopo un lungo periodo di frenata, ha ripreso a crescere, registrando tra il 2007 e il 2008 un aumento del valore del 3,3%, portando l’incidenza sul Pil dal 17,2% al 17,6%. A trainarla è stata la componente più invisibile, legata ai fenomeni di sottofatturazione e di evasione fiscale (+5,2%), la cui incidenza sul valore complessivo del sommerso raggiunge ormai il 62,8%. Di contro, il valore imputabile al fenomeno del lavoro irregolare resta sostanzialmente stabile (+0,1%) e la sua incidenza scende dal 38,4% al 37,2%. Ma gli italiani iniziano a guardare con preoccupazione al dilagare di questi fenomeni, su cui da sempre si è chiuso un occhio, anche per convenienza personale. Secondo un’indagine del Censis, il 44,4% degli italiani individua nell’evasione fiscale il male principale del nostro sistema pubblico, il 60% ritiene che negli ultimi tre anni l’evasione fiscale sia aumentata, il 51,7% chiede di aumentare i controlli per contrastare l’evasione. Tuttavia, di fronte a un esercente che non rilascia lo scontrino o la fattura, ancora più di un terzo degli italiani (il 34,1%) ammette candidamente di non richiederlo, tanto più se questo consente di risparmiare qualche euro. In Sicilia, Campania, Calabria e Puglia sono 448 i Comuni in cui sono presenti sodalizi criminali, 441 quelli in cui si trovano beni immobili confiscati alle organizzazioni criminali, 36 quelli sciolti negli ultimi tre anni per infiltrazioni mafiose. Complessivamente si tratta di 672 territori comunali, che occupano il 54,8% della superficie delle quattro regioni, dove vive il 79,2% della popolazione (più di 13,4 milioni di persone, che rappresentano il 22,3% dell’intera popolazione italiana). Rispetto a tre anni fa, il numero dei Comuni è aumentato (nel 2007 erano 610). La regione dove la presenza della criminalità organizzata e il controllo del territorio sono più pressanti è la Sicilia (dove il 52,3% dei Comuni presenta almeno un indicatore di criminalità organizzata, coinvolgendo l’83,1% della popolazione), segue la Puglia (con il 43% dei Comuni), la Calabria (38,4%) e la Campania (36,3%). L’indicatore segnala la presenza di attività criminali a diverso livello d’insediamento, con l’ambiguità che dove più si perseguono le mafie ce n’è maggiore evidenza. Tuttavia, la pervasività nel territorio meridionale della criminalità organizzata viene confermata in crescita. Dopo il lungo ciclo iniziato negli anni ’80, con la voglia di maggiore decisionismo e governabilità, oggi quasi il 71% degli italiani ritiene che la scelta di dare più poteri al governo e/o al capo del governo non sia adeguata per risolvere i problemi del Paese. Il distacco è più marcato tra i giovani (75%), le donne (77%), le persone con titolo di studio elevato (quasi il 74% dei diplomati e oltre il 73% dei laureati). L’accelerazione dei processi decisionali della politica non si è verificata, se è vero che, ad esempio, secondo l’Eurobarometro il 74% degli italiani giudica negativamente il modo in cui opera la Pubblica Amministrazione nel nostro Paese: un dato nettamente superiore al valore medio europeo (52%) e a quanto rilevato in Spagna (53%), Francia (52%), Regno Unito (49%) e Germania (32%). Secondo un’indagine del Censis, la maggioranza relativa degli italiani (il 34,4%) ritiene che la classe politica litigiosa sia il principale problema che grava sulla ripresa economica del Paese, prima ancora della elevata disoccupazione (29,6%), e soprattutto sulla possibilità di realizzare gli interventi. Molti dei provvedimenti varati negli ultimi anni hanno avuto un modesto impatto reale. I beneficiari della social card sono 450.000, a fronte di 830.000 richieste e una platea di riferimento annunciata di circa 1,3 milioni di persone. Per il Piano casa si parlava di investimenti per 70 miliardi di euro, ma a più di un anno di distanza in oltre 60 Comuni capoluogo di provincia sono state presentate poco meno di 2.700 istanze (in media 42 per Comune). Per realizzare un’opera pubblica nel settore dei trasporti di valore superiore a 50 milioni di euro ci vogliono ancora mediamente 3.942 giorni, quasi 11 anni. I lavori dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria sono stati avviati nel 1997 e il loro completamento, fissato al 2003, è stato posticipato prima al 2008 e poi al 2013. Le amministrazioni locali (Regioni ed enti locali) raccolgono 250 miliardi di euro di entrate, ma di questi meno della metà proviene dall’azione tributaria, mentre il grosso (112 miliardi) è costituito da trasferimenti delle amministrazioni centrali. L’87,3% delle entrate dello Stato ha carattere tributario, ma solo il 37,1% nelle amministrazioni locali. È da questi dati e dalla valutazione sulla componente dei trasferimenti che potrebbe essere oggetto di riscossione diretta che il federalismo fiscale deve partire.
Il sistema di welfare. Il volontariato come pilastro della comunità. Più del 26% degli italiani dichiara di svolgere un’attività di volontariato. La scelta di fare volontariato è molto più radicata tra i giovani (più del 34%), rimane elevata tra i 30-44enni (più del 29%), per poi calare al 23% tra i 45-64enni e al 20,3% tra gli anziani. È all’interno di realtà organizzate che circa tre quarti dei volontari svolgono il proprio impegno, e di questi la maggioranza (54,5%) lo fa all’interno di una specifica organizzazione, mentre poco meno del 10% lo fa in più di una struttura. Riguardo alle motivazioni, oltre il 38% dei volontari dichiara di svolgere attività di volontariato perché vuole fare qualcosa per gli altri, mentre il 27,3% richiama ragioni etiche, ideali. Un plebiscitario 97% valuta positivamente l’attività di volontariato in cui è impegnato: il 59% perché fa una cosa alla quale crede nel profondo ed è gratificante, il 38% perché è convinto di incidere positivamente sulla vita delle persone, in particolare quelle che hanno più bisogno. Ospedali, case di cura, strutture sanitarie (69%), case di riposo, comunità alloggio, presidi socio-assistenziali di vario tipo (54,3%), poi le varie forme di assistenza a domicilio per anziani e non autosufficienti (39,9%): sono questi i tre settori in cui i cittadini constatano una maggiore presenza di volontari nelle comunità in cui vivono. Tutele sociali e crisi, oltre le buone risposte di breve periodo. L’efficacia degli ammortizzatori disponibili di fronte all’emergenza reddituale legata alla crisi occupazionale non attenua il fatto che la crisi sta ampliando, al di là del breve periodo, la platea dei soggetti vulnerabili a forme di disagio sociale. Il 62% degli italiani esprime un giudizio negativo sugli strumenti di tutela e supporto per i disoccupati, quota che risulta nettamente superiore al dato medio europeo (pari al 45%) e lontana dalle valutazioni espresse dai cittadini di altri grandi Paesi come la Francia, dove il giudizio negativo è espresso dal 29% dei cittadini, il Regno Unito (28%), la Germania (39%) e i Paesi Bassi (13%). Anche sul terreno della lotta alla povertà le valutazioni degli italiani non sono positive. Il 59% dichiara che gli interventi finalizzati a migliorare la condizione dei poveri non stanno avendo un particolare impatto, il 21% sostiene che addirittura stanno peggiorando le cose e solo il 10% parla di un impatto positivo. Nella media europea il 64% dei cittadini ritiene neutro l’impatto delle politiche contro la povertà, il 10% negativo e il 18% positivo. Molto più alte le quote di cittadini che valutano positivamente gli impatti delle politiche contro la povertà in Svezia (45%), Paesi Bassi (26%), Regno Unito (18%) e Germania (15%). Né pensionati, né occupati: la trappola dei lavoratori anziani. L’età media di effettivo pensionamento nel nostro Paese è di 60,8 anni per gli uomini e 60,7 anni per le donne. Sono dati che (fatta salva la Francia, dove l’età media di uscita dal mercato del lavoro è di 59,4 anni per gli uomini e 59,1 anni per le donne) rendono il nostro Paese quello con la più bassa età di pensionamento effettivo rispetto alla gran parte dei Paesi europei. Attualmente ben il 52% degli italiani è convinto che ci sono molte persone che vanno in pensione troppo presto. Questo dato è superiore a quello medio europeo (pari al 43%) e a quello di Paesi come Regno Unito (32%), Olanda (34%) e Germania (42%). Nel nostro Paese lavorare più a lungo sta diventando sempre più importante anche per sostenere il proprio tenore di vita. Il 28% degli italiani è molto preoccupato e il 40% abbastanza preoccupato per il fatto che il proprio reddito in vecchiaia sarà insufficiente a garantire un livello dignitoso di vita. I due dati sono superiori ai valori medi europei, pari rispettivamente al 20% per le persone molto preoccupate e al 34% per quelle abbastanza preoccupate. Il 21% degli italiani di età superiore a 18 anni è convinto che sarà costretto ad andare in pensione più tardi rispetto all’età di pensionamento pianificata, il 20% pensa che dovrà provare a risparmiare di più per quando sarà in pensione, il 19% ritiene che la propria pensione sarà d’importo inferiore a quanto si aspetta. Le nuove frontiere del consumo farmaceutico. La dinamica di lungo periodo dei consumi farmaceutici mostra un costante aumento dei consumi complessivi in termini di dosi e confezioni, a fronte di un aumento molto contenuto della spesa totale. Quella a carico del Ssn (convenzionata) e quella privata (a carico dei cittadini) hanno andamenti di segno opposto: dal 2001 la prima è rimasta sostanzialmente stabile (quasi 11,2 miliardi di euro nel 2009), mentre la spesa privata fa osservare un aumento continuo (fino a superare i 7,9 miliardi di euro). Nell’anno in cui la crisi ha fatto sentire i suoi effetti sulle famiglie italiane, circa la metà ha dichiarato che la spesa per la salute è molto (11,4%), abbastanza (28,2%) o un po’ (8,3%) aumentata, mentre il 53,3% ha indicato di aver intensificato nel 2009 il ricorso ai farmaci generici con l’obiettivo di risparmiare. L’onda lunga della comunicazione sulla salute. Il boom dell’informazione sanitaria avvenuto dagli anni ’90 in poi mostra oggi gli effetti positivi della diffusione nel corpo sociale di comportamenti preventivi e stili di vita più corretti. Allo stesso tempo si osservano alcuni effetti perversi che la spettacolarizzazione dell’informazione sanitaria produce sulle conoscenze individuali. Secondo un’indagine del Censis, il 50,2% degli italiani è convinto che non sia vero che le persone con sindrome di Down abbiano pressoché sempre un ritardo mentale, e addirittura il 73% pensa che le persone autistiche siano quasi sempre geniali nella matematica, nella musica o nell’arte. Le narrazioni mediatiche in cui prevale la spettacolarizzazione di singole vicende, statisticamente rarissime, finiscono per sedimentarsi sotto forma di pseudo-nozioni per ampi settori della popolazione. Dell’ictus, ad esempio, pur essendo la terza causa di morte in Italia, solo meno della metà degli italiani sa che colpisce il cervello. La disabilità invisibile. La dimensione sociale prevalente della disabilità è l’invisibilità, o quanto meno una visibilità distorta, che si allinea con il crescente arretramento delle politiche per le persone disabili. Secondo la recente stima del Censis, si tratta complessivamente di 4,1 milioni di persone, pari al 6,7% della popolazione, con cui gli italiani mostrano di relazionarsi con difficoltà. La maggioranza degli italiani (il 66%) ritiene che le persone con disabilità intellettiva siano accettate solo a parole, ma che nei fatti vengano spesso emarginate, mentre il 23,3% condivide un’opinione più negativa: la disabilità mentale fa paura e queste persone si ritrovano quasi sempre discriminate e sole. Si tende poi a sovrastimare il peso della disabilità motoria (il 62,9% pensa anzitutto a questo tipo di limitazione) e a non includere in questo concetto, o a farlo solo in parte, la non autosufficienza degli anziani, che pure rappresenta un tema che pesa nella vita quotidiana di moltissime famiglie nel nostro Paese: il 29,4% pensa che la disabilità sia equamente distribuita tra i bambini e i giovani, gli adulti e la popolazione anziana.

ISAE: cresce la fiducia nel settore del commercio (3 gennaio 2011).
• L’indicatore sintetico, considerato al netto della componente stagionale, si conferma in crescita per il quarto mese consecutivo, portandosi da 103,4 a 107,7, sui valori massimi degli ultimi anni
• Migliorano sia i giudizi sia, in misura ancor più evidente, le aspettative sulle vendite; in ridimensionamento è giudicato, inoltre, il volume delle scorte
• Si consolidano le attese ottimistiche circa il volume futuro degli ordini, mentre lieve preoccupazione emerge dal lato dell’occupazione
• La dinamica inflazionistica è data in nuova accelerazione e ciò con riferimento sia a quella corrente che a quella futura
• Il miglioramento, tuttavia, non è diffuso ad entrambe le tipologie di vendita. Considerato al netto delle componente stagionale, l’indicatore balza da 98 a 108,7, sui massimi dal dicembre 2007, nella grande distribuzione, peggiorando, al contrario, da 112,1 a 110,8 in quella tradizionale.
Secondo l’inchiesta condotta dall’ISAE dal primo al venti dicembre 2010 su un panel di 1.000 imprese della piccola e grande distribuzione, a dicembre la fiducia dei commercianti italiani si evidenzia in crescita per il quarto mese consecutivo. Mostrando particolare dinamicità, l’indicatore destagionalizzato sale infatti da 103,4 (in novembre) a 107,7, sui livelli massimi dal dicembre 2007. Rispetto alla scorsa rilevazione, l’inchiesta evidenzia un diffuso miglioramento nei giudizi e, in misura ancor più evidente, nelle aspettative sulle vendite; in nuovo ridimensionamento sono giudicate, inoltre, le giacenze di magazzino. Guardando alle variabili che non entrano nella definizione di fiducia, si rafforza l’ottimismo riguardo al livello futuro degli ordini, ma indicazioni meno favorevoli emergono, al contrario, dal lato delle attese sul livello dell’occupazione. In nuova accelerazione sono date, infine, le dinamiche inflazionistiche e ciò con riferimento sia a quelle correnti che a quelle future. Guardando, infine, alle due tipologie distributive, l’evoluzione della fiducia presenta anche questo mese caratteristiche non omogenee. Segnali meno positivi emergono, infatti, dalle imprese della distribuzione tradizionale con riferimento alle quali l’indicatore destagionalizzato scende da 112,1 (in novembre) a 110,8. Decisamente ottimisti appaiono, al contrario, i colleghi della distribuzione “moderna” la cui fiducia, al netto della componente stagionale, balza da 98 a 108,7. A dicembre, il saldo destagionalizzato relativo all’andamento corrente delle vendite mostra un ulteriore recupero, portandosi infatti da -11 a -8. Coerentemente, il livello delle scorte di magazzino si evidenzia in diminuzione con il saldo destagionalizzato della variabile che scende da 5 a 3. Nuove tensioni emergono invece dal lato dei prezzi correnti. Il saldo destagionalizzato della variabile torna nuovamente a salire, portandosi da 25 a 30. Disaggregando i risultati per tipologia distributiva, l’andamento delle vendite mostra un forte recupero guardando alla grande distribuzione; più scettici, al contrario, si mostrano nel complesso i colleghi del circuito tradizionale. Nel dettaglio, il saldo destagionalizzato della variabile, recupera infatti da -8 a 9 nella prima, peggiorando, al contrario, da -17 a -19, nella seconda. Con riferimento alla distribuzione “moderna”, tale risultato riflette un significativo ridimensionamento del saldo destagionalizzato del volume delle scorte (0, era 4 in novembre). Guardando alla distribuzione tradizionale, lo stesso saldo flette invece da 6 a 5, rimbalzando al valore dello scorso ottobre. Relativamente, infine, ai prezzi correnti, le tensioni si configurano in ripresa, con particolare intensità nella grande distibuzione. Il saldo destagionalizzato della variabile si sposta infatti da 31 a 32, nella distribuzione tradizionale, ma da 20 a 27, in quella “moderna”. Previsioni per i mesi successivi A dicembre, si rafforza notevolmente l’ottimismo degli intervistati circa l’andamento futuro delle vendite e degli ordini. Velata preoccupazione emerge, tuttavia, dalle attese sull’occupazione. Guardando ai saldi destagionalizzati delle variabili, quello relativo alla prima balza da 12 (in novembre) a 21; quello relativo alla seconda recupera da -7 a 0; quello relativo alla terza, infine, scivola da 2 a 1. Riguardo alle tendenze dei prezzi di vendita, prevalgono nettamente le aspettative di un rafforzamento delle tensioni inflazionistiche future con il saldo dstagionalizzato della variabile che si arresta, infatti, da 6 a 14. Disaggregando i risultati per tipologia distributiva, decisamente più ottimisti circa l’andamento futuro delle vendite e degli ordini risultano essere gli operatori afferenti alla distribuzione “moderna”. Più nel dettaglio, guardando ai saldi destagionalizzati delle variabili, quello relativo alle vendite balza da 11 a 23, nella grande distribuzione, mostrandosi invece in leggero calo, da 17 a 16, nella distribuzione tradizionale; quello relativo agli ordini aumenta da 2 a 12 nella prima, recuperando da -15 a -11 nella seconda. Dal lato dell’occupazione, gli operatori di entrambe i circuiti si dichiarano preoccupati, spingendo il saldo destagionalizzato della variabile da 2 a -1, con riferimento alla grande distribuzione e da 0 a -1, guardando, invece, al circuito tradizionale. Omogenee, per concludere, emergono anche le aspettative formulate dagli intervistati relativamente ai prezzi di vendita. Depurato dai fattori stagionali, il saldo della variabile torna a salire da 10 a 12, nel circuito tradizionale, ma da 0 a 15, in quello “moderno”.

Fiat: nuove quotazioni e rapporto con Fiom (3 gennaio 2011).
Nel giorno del debutto a Piazza Affari dei due nuovi titoli Fiat (Fiat spa e Fiat Industrial), Sergio Marchionne era presente a Piazza Affari. Il ceo del Lingotto non ha perso l'occasione per sottolineare alcuni punti essenziali rispetto al futuro prossimo della società automobilistica e della sua presenza in Italia. «Se al referendum vince il no con il 51% - ha detto Marchionne- , la Fiat non fa l'investimento a Mirafiori». «Se il referendum di Mirafiori raggiungerà il 51% di sì andremo avanti con il nostro progetto. La gente si deve impegnare a fare le cose. A Mirafiori la Fiat non ha lasciato fuori nessuno. Se qualcuno ha deciso di non firmare non significa che io abbia lasciato fuori qualcuno». Abbiamo bisogno di libertà gestionale e «la Fiat non può essere condizionata da accordi che non hanno più senso». «La Fiat è capace di produrre vetture con o senza la Fiom». A proposito della possibiliotà di conoscere i punti specifici del progetto Fabbrica Italia ha detto. «È veramente offensivo il fatto che bisogna vedere i punti specifici del piano» «Non ho chiesto allo Stato, ai sindacati di finanziare niente - ha proseguito il manager - è la Fiat che sta andando in giro per il mondo a raccogliere i finanziamenti necessari per portare avanti il piano. Andate in giro, voi e i sindacati, a raccogliere i soldi». «Non so se é probabile, ma é possibile che saliamo al 51% se Chrysler deciderà di andare in Borsa nel 2011». «Non abbiamo oggi - ha comunque aggiunto Marchionne- nessun piano di fusione tra Fiat e Chrysler» L'uscita da Confindustria di Fiat? «La vedo come possibile, ma non probabile», ha detto Marchionne. «Fiat non può continuare - ha aggiunto - ad essere condizionata». «Abbiamo il dovere di stare al passo coi tempi e di valorizzare tutte le nostre attività», ha detto il ceo del gruppo automobilistico rispetto alla doppia quotazione di oggi. «Di fronte alle grandi trasformazioni in atto nel mercato non potevamo più continuare a tenere insieme settori che non hanno nessuna caratteristica economica e industriale in comune. Questo è un momento molto importante per la Fiat, perchè rappresenta allo stesso tempo un punto di arrivo e un punto di partenza».

Gli imprenditori del Nord-Est (3 gennaio 2011).
Si consolida l’opinione degli imprenditori nordestini circa un progressivo miglioramento della situazione economica delle diverse aree territoriali considerate: anche a dicembre 2010 tutti i saldi di opinione, ovvero la differenza tra indicazioni di crescita e indicazioni di flessione, mostrano una progressione positiva, ad eccezione di quello dell’economia statunitense e quello dell’economia italiana. La risalita, dopo il punto di minimo toccato a marzo del 2009, quindi, non si arresta, sebbene le dinamiche siano differenti nelle diverse economie considerate. Il saldo registrato dall’economia internazionale raggiunge a dicembre 2010 un valore di +76,7 punti percentuali in crescita di oltre dieci punti dalla precedente rilevazione. A crescere sono certamente sia l’economia europea (+48,1), sia quella dei paesi emergenti, mentre cala il dato per gli Stati Uniti che passa da +60,6 a +43,4, registrando alcune incertezze nella ripresa di quest’area. Sul fronte nazionale, l’economia italiana segna ancora il passo presentando un dato negativo (-7,6) e in calo, mentre il Nord Est evidenzia segnali di miglioramento, raggiungendo un saldo sintetico di +26,5. Nelle regioni nordestine si conferma maggioritaria la quota di indicazioni positive (45,2%), mentre si ferma al 36,1% il giudizio di stabilità. Tuttavia, il contesto nazionale mostra con forza le difficoltà di un paese che ancora non è uscito dal periodo critico: il 46% del panel, infatti, giudica questa fase ancora di stabilità, mentre solo il 23,2% registra una crescita a fronte di un 30,8% di valutazioni di flessione. Salendo ancora di scala, si osserva un’economia europea avviata verso un cammino di progressivo recupero, certamente trainato dell’area tedesca, così come confermato dal 58,6% di intervistati che segnalano una crescita. Come anticipato, il giudizio sugli Stati Uniti evidenzia una percezione di qualche maggiore difficoltà rispetto a quando registrato a giugno: le indicazioni positive, infatti, scendono da 67,7 a 53,4%. Cresce, invece, ancora la quota di indicazioni positive per l’economia internazionale: da 72,2 a 80,3%, con solo il 3,6% di opinioni di flessione. Le prospettive confermano gli andamenti registrati nel corso degli ultimi mesi con un generale recupero del clima di fiducia che coinvolge tutte le economie considerate. I saldi di opinione vanno dal valore minore registrato per l’economia italiana (+18,8) a quello massimo ottenuto dal contesto internazionale (+81,7). A mostrare il recupero più rilevante è il dato riferito all’Europa in cui il saldo sintetico passa da +35,6 a +60,6. Questo valore è il risultato di un incremento importante nella quota di indicazioni positive (da 50,4 a 69,6%) che va ad erodere il dato sulle indicazioni di stabilità, mentre rimangono pressoché costanti quelle di flessione (9,0%). Il generale miglioramento della congiuntura si trasferisce positivamente sui risultati aziendali delle imprese nordestine che per la prima volta da marzo 2008 tornano a mostrare saldi di opinione positivi per produzione (+9,4), ordini (+11,7), occupazione (+0,7) e scorte (+7,6). Il dato sulle vendite all’estero si consolida (+30,5), mentre rimane in negativo quello sull’utilizzo degli impianti (-1,0). Due gli elementi positivi da sottolineare: l’elevata quota di indicazioni positive sul fronte degli ordini 41,4% e la quota di indicazioni di crescita delle vendite all’estero (50,8%) che conferma ancora una volta la capacità delle aziende nordestine di cogliere le opportunità nei mercati più dinamici. Altro dato ancora incerto da osservare con attenzione è quello sull’andamento dell’occupazione che oggi rappresenta sicuramente uno degli ambiti più preoccupanti e verso i quali gli imprenditori richiedono una particolare impegno da parte delle istituzioni1. Infine, le prospettive per il prossimo trimestre indicano un leggero raffreddamento del clima di fiducia registrato a giugno 2010. Tutti i saldi di opinione, pur rimanendo in maggioranza positivi, perdono qualche punto percentuale a causa di una lieve ripresa delle attese di flessione. Unico dato che, pur negativo, migliora è quello relativo all’occupazione che si attesta a -5,6 da -8,0. Per tutti i parametri aziendali prevale il dato di stazionarietà. Il 31,6% prevede una crescita della produzione, il 38,5% degli ordini e il 41,6% delle vendite all’estero. L’Opinion Panel è una rilevazione della Fondazione Nord Est che si propone di rilevare, con cadenza periodica, le opinioni degli imprenditori del veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, interpellati quali testimoni privilegiati. La ricerca non si basa su un campione rappresentativo, ma coinvolge soggetti ritenuti particolarmente significativi per l’economia di quest’area. Essa sfrutta una tecnica di rilevazione interamente basata su internet. La rilevazione si è svolta tra il 3 e il 17 dicembre 2010 e ha coinvolto 251 titolari di impresa. Daniele Marini ha diretto la ricerca, Fabio Marzella ha curato gli aspetti metodologici e l’elaborazione dei dati. Silvia Oliva ha coordinato la ricerca e realizzato il report finale. Questlab S.r.l. ha curato la parte informatica e gestito la rilevazione via web. La ricerca è stata promossa da Veneto Banca Holding.

Cassa integrazione in calo (4 gennaio 2011).
Nel 2010 le imprese italiane hanno chiesto 1,2 miliardi di ore di cassa integrazione (cig), con un aumento rispetto al 2009 del 31,7% (erano state 914 milioni). Lo rileva l'Inps precisando che il consumo effettivo delle ore nel corso dell'anno è stato però sostanzialmente identico a quello del 2009 poiché il «tiraggio» è stato di circa il 50% a fronte di un 70% nel 2009. Nel 2010, inoltre, seimila aziende italiane hanno fatto ricorso alla cassa integrazione straordinaria. Crolla la cassa integrazione a dicembre Allo stesso tempo, l'Istituto nazionale di previdenza sociale rileva che un forte della cig a dicembre (-16,4% su base annua). Nel dettaglio, la flessione a dicembre (86,5 milioni di ore autorizzate di cig contro i 103,4 del dicembre 2009) - sottolinea l'Inps - è stata particolarmente accentuata per la cassa integrazione ordinaria (cigo). Nel mese appena passato infatti sono stati autorizzati 21,4 milioni di ore di ordinaria a fronte dei 51,7 milioni di ore del dicembre 2009 (-58,5%). Rispetto a novembre l'ordinaria ha segnato un lieve aumento (+3%). I dati della cig di dicembre - afferma il presidente dell'Inps Antonio Mastrapasqua - confermano quella diminuzione delle richieste di autorizzazione manifestatasi già in novembre. Si tratta del quarto mese in cui si registra una flessione congiunturale delle autorizzazioni e per il secondo mese consecutivo si mostra invece addirittura un calo tendenziale delle autorizzazioni. Mi pare che la fine del 2010 fornisca dati interessanti per chi cerca segnali di reazione positiva da parte del mercato e del mercato del lavoro in particolare». A novembre 120mila domande di disoccupazione Nel novembre 2010 le domande di disoccupazione arrivate all'Inps sono state 120.000, sostanzialmente stabili rispetto a novembre 2009. Lo fa sapere lo stesso istituto di previdenza sottolineando che le domande di mobilità nel mese sono state seimila, in calo del 17,3% rispetto alle 6.800 del novembre 2009.

EUROZONA: sale l'inflazione (4 gennaio 2011).
In dicembre il tasso di inflazione annuale nell'Eurozona ha raggiunto il livello del 2,2%, registrando un balzo in avanti rispetto a novembre (+1,9%). Si tratta di una crescita non da poco: il saggio di inflazione, infatti, non superava il 2% (livello di riferimento Bce) dal novembre 2008 quando era attestata al 2,1 per cento. Anche in Italia cè stato un robusto incremento congiunturale: sulla base delle stime preliminari rese note dall'Istat, i prezzi al consumo sono saliti dello 0,4% portando all'1,9% il dato tendenziale (indice Nic con tabacchi a 140,9), massimo da dicembre 2008. L'indice armonizzato registra un aumento dello 0,3% congiunturale e del 2% tendenziale. In base ai dati attuali, il tasso di inflazione medio annuo è pari all'1,5% per il 2010 (era stato 0,8% nel 2009). «L'Inflazione resta sotto controllo, anche se secondo i dati Istat raddoppia - dice la Confesercenti -. Ma l'1,5% annuo segnala comunque il fatto che nel 2010 è rimasta molto contenuta e quindi non può destare alcuna preoccupazione». «Del resto lo 0,8% del 2009, era il frutto della bufera della crisi internazionale aggravata da una caduta dei conti pubblici e dei consumi. Semmai si può dire, guardando ai dati di dicembre - dice ancora la Confesercenti -, che i consumi avanzano con un passo molto lento mentre i carburanti vanno al galoppo». «La ripresa dell'inflazione - commenta Pierpaolo Baretta, capogruppo Pd in commissione Bilancio della Camera - in un periodo di ristagno dei consumi e di depressione del reddito, rende ancora più scivoloso il terreno economico e sociale. Le scelte di Tremonti in questi ultimi anni hanno alimentato la spirale negativa fatta di tagli e aumenti delle tariffe che si autoalimenta e che danneggia le famiglie». Secondo gli economisti il dato sull'inflazione europea non farà suonare un campanello di allarme alla Bce, in quanto in buona parte riconducibile all'aumento di prezzo di materie prime, petrolio e prodotti alimentari. Viene confermata, quindi, la stima di una prima stretta monetaria al più presto alla fine di quest'anno. Per l'Eurotower la stabilità dei prezzi di medio termine viene garantita da un'inflazione "vicina ma inferiore" al 2% e il dato diffuso oggi supera, per la prima volta da tempo, questo target. «Qualcuno aggrotterà le sopracciglia alla Bce» di fronte al dato, commenta Martin van Vliet, economista della olandese Ing, ma «non ci saranno allarmi». Il "core rate" dell'Eurozona, il tasso depurato da energia e prodotti alimentari, dovrebbe situarsi, secondo le stime, all'1,2% in dicembre dall'1,1% di novembre e, aggiungono gli economisti, senza i recenti aumenti delle tasse decisi da diversi Paesi, il dato sarebbe più di qualche decimale, con un dato finale di inflazione sottostante poco lontano dall'1%. La Bce dispone, quindi, ancora di ampi spazi per mantenere il tasso di riferimento nell'Eurozona al minimo storico dell'1% (in vigore dal maggio 2009) e per continuare le misure straordinarie anticrisi che finora non hanno avuto alcun effetto inflattivo grazie al pessimo andamento dei consumi in diversi Paesi e all'elevata disoccupazione in tutta l'area. Il campanello di allarme alla Bce scatterà soltanto, sottolineano gli esperti, se con l'aumento dell'inflazione dovessero salire anche le attese di inflazione, i cosiddetti 'effetti secondarì', e questo non é previsto: secondo le stime, il dato per l'Eurozona dovrebbe superare il 2% nei primi mesi del 2011, ma per tutto l'anno la stima dello staff della Bce é dell'1,8% e dell'1,5% nel 2012: malgrado la ripresa le capacità produttive dell'Eurozona sono ancora ampiamente sottoutilizzate e anche il potere negoziale dei sindacati, con una disoccupazione stabilmente sopra il 10%, é limitato tanto da non far temere una spirale prezzi-salari, vero spauracchio della Bce.

Emesso il primo eurobond (5 gennaio 2011).
Successo - con una domanda stimata in tre volte l'offerta - per il primo eurobond lanciato oggi dal Meccanismo europeo di stabilità (garantito dal bilancio dell'Ue) per sostenere l'Irlanda. I 5 miliardi di controvalore dei titoli, dalla durata di cinque anni con scadenza il 4 dicembre 2015, sono stati offerti a un rendimento attorno al 2,30-2,40 per cento. Lo apprende l'agenzia del Sole 24 Ore Radiocor da fonti di mercato. Il regolamento dell'emissione è in agenda il prossimo 12 gennaio. Ciò dimostra, secondo la Commissione europea, «il successo della prima emissione obbligazionaria grazie alla buona valutazione della Ue (AAA- ndr)».Lo ha affermato una portavoce dell'Esecutivo Ue. L'esecutivo europeo aveva già indicato che nella prima metà dell'anno il mercato deve aspettarsi tre emissioni. Complessivamente nel 2011 la Ue raccoglierà fino a 17,6 miliardi di euro e nel 2012 fino a 4,9 miliardi. Inoltre, l'Unone europea ha predisposto un piano di nuove emissioni - la prima dovrebbe essere lanciata a fine mese - tramite l'European financial stability facility (Efsf), il Fondo di stabilità finanziaria europea, che è garanito dai singoli governi. Va ricordato che l'eurobond del Meccanismo europeo di stabilità va distinto dal tanto auspicato Eurobond di Tremonti, che implica la creazione di un'Agenzia europea del debito a cui si è duramente opposta la Germania. L'operazione a sostegno dell'Irlanda é stata curata da un pool di banche che comprende Barclays Capital, Bnp Paribas, Deutsche Bank e Hsbc. La cedola riconosciuta dalla nuova obbligazione é decisamente superiore a quella che offrono in questo momento i governativi dei paesi considerati più virtuosi dell'Irlanda. Dalle sale operative giunge infatti l'esempio di quanto in questo momento "paga" il mercato di riferimento tedesco: il rendimento del bond corrispondente (cinque anni), emesso lo scoro ottobre, sul secondario gira infatti attorno all'1,77 per cento.

Cina: rivaluta lo yuan (5 gennaio 2011).
Il 2011 si apre con le indiscrezioni - riportate stamani su un editoriale del China Securities Journal, organo non ufficiale ma sempre molto vicino alla politica economia di Pechino - secondo cui la Cina permetterà che quest'anno lo yuan si apprezzi fino al 5% circa nei confronti del dollaro, dopo l'apprezzamento del 3,5% messo a segno da giugno (da quando la Cina abbandonato il sistema di cambi fisso nei confronti del dollaro aprendo a una potenziale variazione giornaliera massima nell'ordine dello 0,5%). La previsione è superiore ai contratti forward offshore che attualmente riflettono attese di apprezzamento dello yuan del 3% circa quest'anno. Molti osservatori mettono in relazione il contenuto dell'editoriale con la prossima visita negli Stati Uniti del presidente cinese Hu Jintao dove, immancabilmente, la questione dello yuan e del deficit commerciale degli Usa con la Cina, che in ottobre ha raggiunto i 25,5 miliardi di dollari saranno elementi di discussione. Ma non sarebbe questa l'unica ragione alla base dell'intenzione di rivalutare lo yuan. Uno yuan più forte dovrebbe essere uno degli strumenti utilizzati dalle autorità cinesi nel primo trimestre del 2011 per frenare eventuali bolle dei prezzi delle attività e l'inflazione, secondo un economista vicino al governo. Inflazione sempre più minacciosa perché accompagnata a una forte crescita (ieri il governatore della banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, ha detto che l'economia cinese è cresciuta del 10% nel 2010). Tra le altre misure di lotta contro l'aumento dei prezzi, le autorità cinesi potrebbero aumentare nuovamente i tassi di interesse e accrescere il tasso sulla riserva obbligatoria delle banche, da quanto scrive Shusong Ba, direttore generale dell'Istituto di ricerca finanziaria all'interno del Centro di ricerca per lo sviluppo, dalle colonne dell'Economic Information Daily. «Che si tratti di limitare l'inflazione o ridurre gli squilibri commerciali, vi é più spazio per la regolazione del tasso di cambio dello yuan nel 2011 che nel 2010», spiega Ba. «Fino ad oggi Pechino regola rigidamente il tasso di cambio dello yuan, nonostante il suo impegno nel mese di giugno per lasciare fluttuare liberamente la sua moneta rispetto al dollaro». Uno yuan più forte potrebbe ridurre il costo delle importazioni cinesi e rendere le esportazioni più costose, limitando così la domanda di prodotti "Made in China" e ridurre in questo modo l'afflusso di valuta straniera in Cina, il denaro contante che alimenta l'inflazione. Ba ha poi detto che l'indice dei prezzi al consumo potrebbe aumentare dal 5% al 6% nel primo semestre del 2011. Tutto questo, peraltro, non cambia la poszione cinese espressa oggi anche una dichiarazione del viceministro del commercio cinese, Jiang Yaoping, secondo cui non é con la rivalutazione dello yuan che si può raggiungere il (parziale) riequilibrio dell'interscambio USA-Cina richiesto dal Governo di Washington. Secondo Jiang, nel 2010 il surplus commerciale della Cina nei confronti del resto del mondo dovrebbe ammontare a circa 190 miliardi di dollari rispetto ai 196 miliardi del 2009. Oltre al surplus commerciale, la Cina è in grado di esercitare forti pressioni aile principali economie del pianeta. Oltre all'imponente quota di titoli di Stato americani (che determinano quello che gli economisti chiamano "equilibrio del terrore" tra Cina e Stati Uniti, sta aumentando anche la quota di titoli dell'eurozona in pancia al governo di Pechino. Secondo le stime del quotidiano economico francese La Tribune, la Banca centrale cinese (Bcc) controlla il 7,3% circa del debito pubblico dei paesi della zona euro, per una cifra vicina a 630 miliardi di euro. Sull'argomento non esistono cifre ufficiali della Bce, che si limita a comunicare che il 25% circa del debito dell'area, oltre 2.210 milioni di euro, è in mano a non residenti. Se la cifra calcolata da La Tribune è corretta, ciò significherebbe che in mano ai cinesi c'è oltre il 28% della parte di debito in mano a creditori esterni alla zona euro. La stima del quotidiano francese è analoga a quella pubblicata ad aprile dell'anno scorso del Financial Times che, senza citare le fonti dell'informazione, sosteneva che nelle mani di Pechino c'erano oltre 630 miliardi di titoli di debito pubblico dell'eurozona. Non a caso, proprio oggi, nel corso di una visita ufficiale a Madrid, il vice premier cinese Li Keqiang ha promesso che la Cina comprerà "più" titoli di Stato spagnoli. L'Agenzia Xinhua ha anticipato, che come vuole la tradizione in occasione di visite ad alto livello, Cina e Spagna firmeranno diversi accordi a livello governativo e contratti commerciali. L'ammontare annunciato é di 7,5 miliardi di dollari. Inoltre la Banca mondiale ha annunciato l'emissione dei suoi primi bond denominati in yuan. Nel dettaglio, l'Istituto sovranazionale si accinge a emettere sul mercato di Hong Kong titoli biennali per 500 milioni di yuan (circa 57 milioni di euro). Una novità che favorisce indirettamente le intenzioni della Cina di aumentare il peso internazionale della propria valuta.

Tremonti: la crisi non è finita (6 gennaio 2011).
«La crisi non è finita». È questa a convinzione del ministro dell'Economia Giulio Tremonti che a Parigi, in un intervento alla conferenza su «Nuovo mondo, nuovo capitalismo» organizzata dal ministero delle Finanze francese, ha messo in guardia dai facili ottimisti sulla fase attuale. L'idea di Tremonti è rimettere al centro dell'azione post-crisi la politica. D'altra parte è politica la sfida globale: «È facile vedere che oggi l'interazione, la competizione è tra blocchi continentali», l'Europa deve agire sul piano internazionale come area e non come sommatoria di nazioni. Di qui una citazione del discorso di Winston Churchill del 1946 che guardava alle macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale. Disse: «Che l'Europa risorga». Tremonti ha ammonito che la guardia dei governi e delle istituzioni internazionali deve restare alta perché «stiamo vivendo come in un videogame: appare un mostro, lo combatti, lo vinci e allora ti rilassi, ma subito dopo appare un altro mostro, ancora più forte del primo». Ecco quindi l'interrogativo al quale va data una risposta: «Siamo sicuri che tutto sta andando bene?». In realtà, ha continuato Tremonti, si sta verificando una situazione per cui viene attaccato (dai mercati finanziari - ndr) un paese dopo l'altro, «come accadde fra Orazi e Curiazi. Se si guarda al futuro geopolitico è evidente che la competizione - ha sottolineato il ministro - è tra continenti» e per questo è necessario che l'Europa abbia un ruolo nel suo insieme. «La crisi - ha detto Tremonti parlando ancora dei suoi effetti sull'Europa - ha mantenuto i confini politici ma non ha mantenuto i confini economici e il rischio è senza confini». Sottolineando poi che negli anni passati si è posto troppo l'accento sui budget e i debiti pubblici «quando poi invece la crisi è arrivata dal settore privato», Tremonti ha sottolineato che non è più possibile pensare che «se un business va bene è ok e ci sono i dividendi mentre se non va bene la responsabilità è limitata». Per Tremonti è in atto un processo di cambiamento istituzionale e politico importante in Europa. «È in atto un processo che si fonda su quattro pilastri: ruolo più attivo della Bce, il Fondo di stabilizzazione finanziaria che dovrebbe essere completato con la proposta di Eurobond, disciplina di bilancio in tutti i paesi, il semestre europeo. L'Europa, secondo Tremonti, riparte da qui. Il semestre europeo è importante perché si tratta, ha detto il ministro, di «una architettura istituzionale e politica che prevede un sessione europea di analisi comune dei bilanci e delle riforme» che precede le decisioni dei parlamenti nazionali. L'occasione per l'Europa, secondo il ministro, è che si affermi una «logica federale» dato che nel mondo «esiste il blocco continentale americano, dell'Asia, del Sudamerica: il grande blocco dell'Europa, cioè la zona più ricca del mondo, più istruita, più forte, che però non è unita». Per il ministro dell'Economia sono quattro le lezioni della crisi per l'Europa. La prima riguarda la regolazione della finanza dal momento che non é possibile mantenere frontiere politiche quando sono state levate le barriere alla finanza. Ciò richiama l'importanza del rischio delle controparti: «Il rischio è senza frontiere e ciò significa che non ci sono pericoli da contagio ma pericoli di controparte relativamente alle banche». La seconda lezione riguarda la relazione tra debito pubblico e debito privato: «È svanita la separazione netta tra bilancio pubblico e bilanci privati tanto è vero che l'origine della crisi non si trova nei deficit pubblici ma nelle bolle immobiliari». La terza lezione riguarda la necessità di inventare nuove soluzioni europee che escano dai confini nazionali. La quarta riguarda la prospettiva europea: «È la fine dell'era degli stati nazionali» e questo per la Ue é una sfida da raccogliere. Tremonti è poi ritornato sulla proposta degli Eurobond come strumento anticrisi, lanciata un mese fa dalle colonne del Financial Times dal ministro e dal premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, che implica la creazione di un'Agenzia europea del debito. Proposta a cui si è duramente opposta la Germania. Per Tremonti quella degli Eurobond «non è solo una questione tecnica», ma «è una proposta politica, poi ci sono i parlamenti nazionali e il Parlamento europeo perché l'Europa non è fatta solo dai governi ma anche dai parlamenti». Per quanto riguarda in particolare l'Italia, Tremonti ha detto che «il Parlamento è molto interessato». Nella crisi globale «il denaro dei contribuenti è stato usato per finanziare le banche con un piccolo dettaglio: dato che le banche erano sistemiche anche la speculazione è sistemica nelle banche, quindi è stato usato denaro pubblico per finanziare e salvare con le banche anche la speculazione cosicché siamo tornati quasi al punto di partenza». Il G20 è «il nuovo mondo», il G7 rappresenta il vecchio. Quest'ultimo, secondo Tremonti, può essere considerato «come un vecchio computer rigido, verticale e molto facile da manovrare, il secondo invece é molto simile a Internet, é orizzontale, federale, interattivo». Oggi però «è necessario disegnarne il software e per questo è molto importante condividere idee, proporle e riceverle».

Bernanke: normalità in cinque anni (7 gennaio 2011)
Come spesso accade, in queste situazioni, è meglio dare un'occhiata ai mercati per capire come interpretare il dato. Si parla, ovviamente, dei tanto attesi numeri sulla disoccupazione negli Stati Uniti. Ebbene il tasso di unemployment, in dicembre, è sceso a 9,4%, rispetto al 9,7% del mese precedente: il valore più basso dal maggio 2009. Tutti felici, dunque? Non proprio. Il numero dei nuovi posti creati, al netto del settore agricolo, si è fermato a quota 103mila, ben al di sotto delle attese degli economisti. Questi ultimi parlavano di nuovo lavoro per 175mila persone. Così, la domanda è sorta spontanea: rallegrarsi del calo del saggio di disoccupazione o preoccuparsi per una crescita tropo bassa dei nuovi impieghi? La risposta, dei mercati, è stata abbastanza scontata: i listini, subito dopo la pubblicazioen dei numeri, hanno o virato o accelerato verso il basso. Si dirà una reazione emotiva, legata anche alla visione "cortissima" di chi opera intraday. Sarà pure vero. Ciò non toglie che, come ha scritto il Wall Street Journal, «una crescita dell'occupazione sufficiente a sostenere adeguatamente la domanda aggregata deve porsi a "nord" delle 150mila unità». Un livello che, purtroppo, è stato mancato dai dati forniti dal Dipartimento del lavoro statunitense. Dello stesso parere, peraltro, è il presidente della Fed, Ben Bernanke: «La ripresa è troppo debole -ha detto - per permettere un incisivo calo della disoccupazione». Il mercato del lavoro continua a stentare, e «ci vorranno 5 anni prima che il mercato del lavoro si normalizzi». Più in generale, Bernanke ha sottolineato che «la rimonta economica americana sarà moderatamente più forte nel 2011. Ci sono prove che mostrano» un sussulto nelle spese «di consumatori e aziende». Anche se, poi, ha affermato che il mercato immobiliare, da cui è partita la crisi, «resta depresso» e che « gli Stati Uniti devono adottare in tempi rapidi un piano per la riduzione del deficit e del debito». Tornando al tema del lavoro, va rilevato che non era andata tanto bene nemmeno in Italia e nell'Unione europea. Nel nostro Paese, il tasso di disoccupazione in novembre è rimasto sostanzialmente stabile all'8,7% (da 8,729 di ottobre), con un calo di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente. Secondo i numeri Istat si tratta, però, del dato più alto da gennaio 2004. A soffrire di più, e non è una novià, sono i giovani: la disoccupazione giovanile è salita infatti al 28,9% (+0,9 punti percentuali su ottobre e +2,4 punti percentuali su novembre 2009). In leggero miglioramento, invece, la situazione delle donne. In particolare, le regolarizzazioni di collaboratrici domestiche e assistenti familiari, oltre al presumibile effetto del part-time, hanno fatto scendere la percentuale dei senza lavoro di sesso femminile. In Eurolandia, infine, il tasso di disoccupazione destagionalizzato è rimasto invariato al 10,1%. Nel novembre 2009 era al 9,9%. Anche nell'insieme della Ue il saggio è rimasto fermo ma ad un valore più basso: 9,6 per cento. In valori assoluti, secondo le stime di Eurostat, i disoccupati nella Ue sono un totale di 23,248 milioni di uomini e donne, di cui 15,924 milioni nell'Eurozona.

ISTAT: Indebitamento e consumi (10 gennaio 2011).
Nel terzo trimestre 2010 l'indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche in rapporto al Pil è stato pari al 3,2 per cento (era stato pari al 3,9 per cento nel corrispondente trimestre del 2009). Lo comunica l'Istat diffondendo i dati grezzi sull'indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche, mentre Confcommercio sottolinea un calo dei consumi, «che sono tornati ai livelli del 1999». Complessivamente, nei primi nove mesi del 2010 si è registrato un indebitamento netto pari al 5,1 per cento del Pil, in riduzione rispetto al 5,5 per cento registrato nel corrispondente periodo del 2009. Le entrate totali nel terzo trimestre del 2010 sono aumentate dell'1,7% su base annua, il rapporto tra le entrate e il Pil è stato pari al 44%, a fronte del 44,4% del terzo trimestre del 2009. Nei primi nove mesi del 2010 le entrate sono cresciute dello 0,3%, con un'incidenza rispetto al Pil del 43 per cento. Nel corrispondente periodo del 2009 si era registrata una riduzione del 2,3%, con un'incidenza rispetto al Pil del 43,7 per cento. Nel biennio 2008-2009, in piena crisi economica, i consumi delle famiglie italiane hanno registrato una contrazione media annua del 2,1%, compiendo un «pauroso salto all'indietro» e tornando ai livelli precedenti il 1999. È l'analisi di Confcommercio secondo la quale «la vera ripresa» dei consumi arriverà solo nel 2012. L'organizzazione sottolinea comunque che, nonostante il minor reddito disponibile, le famiglie si sono dimostrate «vitali e reattive», adeguando le loro abitudini di spesa «per contenere al massimo la perdita di benessere patita durante la crisi». Tra le voci di consumo, nel biennio in esame, è risultata quindi inevitabilmente in calo innanzitutto la spesa per le vacanze (-3,2%). Ma è diminuita anche quella per i pasti in casa e fuori casa (-3,2%), la mobilità e le comunicazioni (-3,1%) e l'abbigliamento (-3,1%). Al contrario hanno tenuto le spese per la salute (+2,5%), per elettrodomestici e IT domestico (+2,4%) e quelle per beni e servizi per la telefonia (+0,4 per cento). Secondo Confcommercio, i tempi di recupero del terreno perso si prospettano ora «lunghissimi». Infatti, guardando alla spesa delle famiglie e agli occupati, «non soltanto appare evidente la posizione attuale del livello dei consumi (poco sopra i minimi storici) ma si capisce che la modesta ripresa non si è trasmessa ancora al mercato del lavoro. Senza una maggiore occupazione difficilmente si osserverà una curva crescente nella spesa reale per consumi. E senza consumi difficilmente ci sarà una ripresa solida», sottolinea l'associazione. Per il 2010 Confcommercio stima infatti un «modesto» +0,4%, seguito da un +0,9% quest'anno e da una «vera ripresa» dei consumi nel 2012, con un +1,6 per cento. Sangalli: combattere la disoccupazione e ridurre le tasse «Dopo un 2010 difficile per l'economia e le imprese, l'anno si é, tra l'altro, chiuso con circa 25mila esercizi al dettaglio in meno, si rischia che il 2011 sia ancora un anno di convalescenza», è il commento del presidente di Confcommercio Carlo Sangalli. Per queste ragioni «occorre accelerare e intensificare tutte le azioni, le politiche, le riforme utili al rafforzamento della crescita, della produttività, della competitività e al riassorbimento della disoccupazione. In questo contesto, resta aperta la questione di una progressiva e compatibile riduzione della pressione fiscale complessiva. È questa, insomma, la via maestra per ridare fiato ai consumi delle famiglie e agli investimenti delle imprese».

Lisbona: no agli aiuti (11 gennaio 2011).
Resta alta la tensione sui titoli di stato dell'area euro. Il differenziale di rendimento con il bund tedesco sale a 277 punti base per la Spagna (vicina al record di 283 punti del 30 novembre). Spread elevati anche per l'Irlanda (a 629), mentre la Grecia viaggia a 943 punti sopra il decennale tedesco. Anche l'Italia sui massimi a 204 punti base sopra il bund decennale tedesco. Rendimenti ai massimi dal 2008 per i BoT. Il Tesoro italiano ha collocato tutti i sette miliardi del Bot a 12 mesi in programma oggi, con un rendimento salito al 2,067%, massimo dal dicembre 2008. Rispetto alla precedente collocamento il rendimento è salito di 0,053 punti. Boom di richieste da parte degli investitori, con domande superiori agli 11,3 miliardi rispetto ai sette offerti. L'asta competitiva dei BoT con scadenza 16 gennaio 2012, prima tranche, informa la Banca d'Italia, ha registrato la partecipazione di 26 operatori. Nel'asta del mese scorso la domanda del mercato per gli annuali fu più massiccia: a fronte di 4 miliardi offerti si registrò una richiesta pressoché doppia (circa 8miliardi). Nel dettaglio dell'asta odierna, la percentuale di riparto è stata del 93,69%. Asta anche per Atene. Il governo greco ha raccolto 1,95 miliardi di euro sul mercato dei capitali emettendo titoli di stato a sei mesi con un rendimento riconosciuto agli investitori del 4,9%. Buona la domanda che è stata pari a 5,1 miliardi di euro, ben oltre l'ammontare di 1,5 miliardi messo in preventivo alla vigilia dal governo. Nell'asta precedente il tasso si era assestato al 4,82% ma per un ammontare molto più limitato di 390 milioni di euro. La missione di oggi era di raccogliere una somma molto più consistente ma rimanendo al di sotto del 5%, cioé del tasso al quale la Grecia può ricevere fondi dall'Unione Europea in base al piano di salvataggio concordato la scorsa primavera. Osservato speciale è il Portogallo. Il ministro delle Finanze ha gettato acqua sul fuoco dopo la fibrillazione sui titoli che si è registrata ieri, sostenendo «di non dover più ricorrere agli aiuti esterni per finanziarsi» e che «farà di tutto per evitare questa possibilità». Le voci su una eventuale richiesta di aiuti, ha aggiunto il primo ministro Socrates, vanno esclusivamente a beneficio degli speculatori. Il primo ministro portoghese, José Socrates, ha poi annunciato che il deficit pubblico portoghese del 2010 sarà «chiaramente al di sotto delle previsioni» del 7,3% del Pil e i dati preliminari permettono di stimare una riduzione ulteriore dell'ordine dello 0,5%. In giornata è stata diffusa anche la stima della Banca centrale sul Pil 2011, prevedisto in calo dell'1,3%. Le stime precedenti puntavano su una stagnazione dell'economia. Socrates si è detto fiducioso del successo del bond che verrà emesso domani: sarà superiore a 1,25 miliardi di euro. Le tensioni sui debiti sovrani si fanno sentire anche sul mercato dei cambi con l'euro in calo sul dollaro. La divisa comune nelle prime battute risulta su livelli inferiori a quelli di ieri: quota 1,2929 dollari contro 1,2945 della chiusura precedente. Non è bastato quindi l'annuncio del ministro delle Finanze nipponico Noda che ha detto che il Giappone contribuirà all'acquisto di bond del fondo salva stati. L'euro ha tentato un rimbalzo, fino quasi a quota 1,30, ma è stato di breve durata. Contro lo yen l'euro è indicato a 107,53, in ripresa da 107,09 di ieri.

CGIL: i soliti lamenti fuori dal tempo (11 gennaio2011).
Stando fuori dalle fabbriche non si può ripartire, ricostruendo i rapporti di forza. Così il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, si rivolge alla Fiom parlando della vertenza Mirafiori, nel corso dell'intervento con cui ha aperto l'assemblea delle Camere del lavoro. Secondo Camusso, se al referendum di Mirafiori dovesse vincere il sì, «un esito che non ci auguriamo, ma che non possiamo escludere», ci sarebbero conseguenze «sulla condizione del lavoro, sulla libertà dei lavoratori», con l'esclusione della Fiom e, di conseguenza, della Cgil. «Su questo - ha sottolineato Camusso - dobbiamo continuare a riflettere, domandandoci se è l'unica conclusione possibile. Lo dobbiamo a chi voterà no. Il cuore della contraddizione sta nei processi produttivi. Se non si riparte da lì», dall'esterno degli stabilimenti «non si possono ricostruire le condizioni per ripartire e ricostruire i rapporti di forza. Se non siamo dentro le fabbriche, diventiamo dipendenti non aiutati da altri». «Se Fiat può affermare di avere un piano e lo tiene nascosto è anche perché c'è un governo che non fa il suo lavoro. Un Governo tifoso, promotore della riduzione dei diritti, così tifoso che non ha il coraggio di vedere che quando l'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne insulta ogni giorno il nostro Paese e le sue possibilità, non offende solo i cittadini e i lavoratori di questo Paese ...». Così il segretario generale della Cgil, in un passaggio della relazione introduttiva, ha parlato di Sergio Marchionne. «Il nostro giudizio sulla Fiat - ha aggiunto - non può che partire dalla debolezza industriale di quell'impresa e che continua a dimostrare. A differenza di qualche tempo fa - ha osservato il leader della Cgil - in molti cominciano a interrogarsi sulle ragioni economiche di quel gruppo e sulla distonia tra annunci, quote di mercato perse e l'assenza di modelli presentati nel mercato». Camusso ha stigmatizzato quindi «il mistero che continua a circondare il piano Fabbrica Italia. Spiace dover dire che probabilmente il piano della Fiat è più conosciuto in Germania che in Italia. Perché lì ci sarebbe stata indignazione generale se un amministratore delegato avesse detto che non si possono fare domande su un piano industriale». Secondo Camusso, « ... il nostro Paese non ha un settore dell'auto ma un'impresa monopolista ed é una delle prime debolezze del sistema». Per evidenziare il ritardo della Fiat sul fronte della ricerca, Camusso ha fatto riferimento al caso di spionaggio industriale che ha visto vittima la Renault. «Avremmo sperato anche noi - ha affermato - che la Fiat fosse al centro di elementi di spionaggio industriale sulle nuove tecnologie. Ma abbiamo il sospetto che questa occasione non ci verrà data». Come si vede nulla di nuovo. Alla domanda che fanno alla Fiom i sindacati firmatari dell'accordo "In caso di vittoria dei no che cosa facciamo se la Fiat disinveste in Italia?". Batti un colpo, nessuno risponde. La replica di Marchionne. «Non si può confondere il cambiamento con un insulto all'Italia. Se introdurre un nuovo modello di lavorare in Italia - ha detto Marchionne al Salone dell'Auto di Detroit - significa insulto mi assumo le mie responsabilità, ma non lo è. L'ho già detto e lo continuo a ripetere: è un messaggio totalmente coerente con la strategia industriale di questo gruppo. Siamo assolutamente convinti che il modo di operare industrialmente in Italia, anche sulla base della nostra esperienza a livello internazionale, debba essere rinnovato. Stiamo cercando di cambiare una serie di relazioni che storicamente hanno guidato il sistema italiano. In questo sono assolutamente colpevole, stiamo cercando di cambiarlo, di aggiornarlo e di renderlo competitivo. Non si può confondere con un insulto all'Italia. Anzi vogliamo più bene noi all'Italia in questo senso cercando di cambiarla. Il vero affetto è cercare di fare crescere le persone e farle crescere bene, stiamo cercando di farlo a livello industriale. Il fatto che sia un modo nuovo non lo metto in dubbio e nemmeno che sia dirompente perchè cambia il sistema delle relazioni storiche, ma che in questo si veda una mancanza di affetto verso l'Italia è ingiustificato. È uno sforzo sovraumano, non lo farebbe nessun altro».

New York Times: Chrysler risorge (11 gennaio 2011).
Contro ogni pronostico delle case automobilistiche rivali, «la più travagliata e la più piccola» delle Big Three si sta tirando su. «I necrologi erano prematuri», scrive il New York Times, ricordando che un anno fa si scommetteva su quanto sarebbe ancora durata. Invece, Chrysler sta guadagnando terreno grazie a un’offensiva di modelli nuovi, «in gran parte prodotti in collaborazione con Fiat». E il gruppo torinese aumenta automaticamente la sua quota in Chrysler dal 20% al 25%, avendo raggiunto il primo traguardo previsto dall’accordo di partnership benedetto dal governo Usa. L’exploit di Sergio Marchionne, Ceo di Chrysler e Fiat, è sotto i riflettori dell’Auto Show di Detroit e della stampa americana. Dopo avere stabilizzato le vendite l’anno scorso, nota il Nyt, Chrysler è nel mezzo di «un blitz di prodotti” che secondo i dirigenti dell’impresa e gli analisti industriali dovrebbe aiutarla a rimborsare i prestiti governativi e a riemergere quest’anno come società quotata. Il Nyt sottolinea che finora la strada è stata difficile per Chrysler, che ha tardato a riprendersi rispetto a General Motors e Ford (La Chrysler era, peraltro. la più dissestata per obsolescenza e vetustà dei modelli). Ma l’aggiunta di modelli nuovi e rinnovati ha contribuito a fare aumentare le vendite di Chrysler negli Stati Uniti del 16% nel 2010. “Ora, per la prima volta da parecchi anni, l’impresa appare in posizione per guadagnare quote di mercato”. A Detroit, Chrysler ha svelato la nuova versione della sua berlina “ammiraglia”, la Chrysler 300. I nuovi sviluppi della partnership con Fiat hanno un titolo a parte sul Nyt: «La quota di Fiat in Chrysler sale al 25%», dopo che la casa italiana ha raggiunto uno dei tre traguardi fissati nell’accordo. Fiat ha ottenuto “automaticamente “ il 5% in più dopo che Chrysler ha avuto dal governo Usa il via libera per cominciare a produrre un motore a quattro cilindri per la nuova Fiat 500, a bassi consumi. Fiat potrà salire al 35% fabbricando un veicolo Chrysler basato sulla tecnologia Fiat capace di fare almeno 40 miglia per gallone e vendendo modelli Chrysler attraverso la rete internazionale Fiat. Il produttore italiano potrà ottenere la maggioranza acquistando ulteriori partecipazioni dopo avere rimborsato i prestiti governativi. «Marchionne - ricorda il Nyt - ha detto la scorsa settimana che spera di ripagare i prestiti e arrivare al 51% nel corso del 2011, prima di un’Ipo nella seconda metà dell’anno». Il manager lunedì ha rassicurato i contribuenti che riavranno i soldi investiti in Chrysler. E ha precisato che Chrysler sarebbe stata in utile nel 2010 se non fosse stato per il pagamento degli interessi. Intanto «Ford progetta di assumere più di 7mila lavoratori», titola ancora il New York Times da Detroit. Nei prossimi due anni, la casa automobilistica conta di reclutare 4.000 lavoratori a ore e 750 salariati quest’anno e altri 2.500 lavoratori a ore nel 2012. Le assunzioni riflettono l’ottimismo delle previsioni per i prossimi anni per il settore automobilistico, dopo un triste 2009 e un 2010 di “modesto miglioramento”. I nuovi posti aumenterebbero del 15% la forza lavoro di Ford, “una piccola frazione dei posti eliminati negli ultimi anni”. Ford occupa circa 42mila lavoratori negli impianti Usa, contro i 103mila di una decina d’anni fa. Le vendite di Ford sono salite del 15% nel 2010 e la sua quota di mercato è aumentata per il secondo anno consecutivo. Con le nuove assunzioni, Ford avrebbe lo stesso numero di lavoratori a ore negli Usa che General Motors, che pure ha fatto drastici tagli e ora ha 53mila lavoratori. Ford e General Motors hanno detto la scorsa settimana che si aspettano quest’anno un aumento complessivo delle vendite nel settore. Anche il Wall Street Journal mette in risalto il ritorno in forze di Chrysler. «Solo un anno fa, Marchionne passava innumerevoli ore a difendere il suo piano, che alcuni osservatori consideravano improbabilmente ambizioso …». Ora a Detroit è in mostra una Chrysler «molto più sicura di sé». «Il rimbalzo di Chrysler – anche se ancora esitante – è una svolta significativa», osserva il Wsj, che ricorda come due anni fa, Chrysler e General Motors siano rimaste in piedi solo grazie ai salvataggi del governo.«Oggi i produttori Usa stanno inscenando un rilancio sensazionale». La ripresa di Detroit, tuttavia, «non sarà completa finché Chrysler non svolterà» e, secondo il Wsj, Chrysler ha ancora parecchia strada da fare. L’impresa fa soldi in termini operativi, ma per il 2010 registrerà una perdita netta. Un problema, nota il Wsj, è rappresentato dal ribasso delle vendite ai consumatori. L’aumento delle vendite di Chrysler l’anno scorso, infatti, è stato in gran parte trainato dalle vendite a clienti come le agenzie di autonoleggio, in genere meno redditizie rispetto alle vendite a singoli consumatori. «Quest’anno sarà cruciale».

Ron Bloom: Marchionne ha salvato la Chrysler (12 gennaio 2011).
«Se Chrysler vuole restituirci i prestiti prima della scadenza, saremo felicissimi. E siamo pronti a metterci attorno a un tavolo con Sergio Marchionne per discutere i termini dell'operazione e del collocamento in Borsa». Così Ron Bloom, capo della task force auto di Obama, commenta la prospettiva di un'Ipo di Chrysler già nel 2011, dopo quella portata a termine con successo da General Motors nel novembre scorso. Intervenendo al convegno di Automotive News a Detroit, quello che veniva soprannominato "lo zar dell'auto" ha rievocato i due anni trascorsi da quando i manager del settore andarono a Washington, chiedendo un intervento di emergenza all'allora amministrazione Bush. Detroit era allora «sull'orlo del collasso», e un tracollo delle Big three minacciava di travolgere l'intero settore manifatturiero americano. Nella sua posizione di capo della task force presidenziale sul settore auto, oltre che di consulente del ministero del Tesoro, Bloom è stato forse il principale attore del salvataggio; ora che la crisi sembra alle spalle, ne rivendica i meriti. Gli 85 miliardi di dollari investiti (25 da Bush, 60 da Obama), dice, sono stati ben spesi; e snocciola le cifre della ripresa: «Le case automobilistiche di Detroit sono tutte e tre in utile operativo per la prima volta in sei anni»; «il settore ha creato quasi 75mila posti di lavoro da quando Gm e Chrysler sono uscite dal Chapter 11, dopo averne distrutti 155mila nei soli sei mesi successivi all'arrivo di Obama alla Casa Bianca e 400mila in totale». Dal punto di vista finanziario, Gm ha già restituito in toto i prestiti ai governi di Usa e Canada e due mesi fa è tornata in Borsa con successo. Bloom è prodigo di elogi al management della Chrysler guidato da Sergio Marchionne: delle tre aziende di Detroit, ricorda, «Chrysler è quella che ha avuto la strada più difficile»; ma anch'essa «ha segnato tre trimestri consecutivi di utile operativo ed è riuscita ad aumentare la sua quota di mercato». Il fatto che Chrysler abbia avviato la produzione del motore ecologico in Michigan, permettendo a Fiat di portare la sua quota azionaria al 25%, «è positivo per l'impresa e per l'industria Usa». Che probabilità ha Chrysler di essere ancora qui fra due anni? «I segnali sono positivi. Quando nel novembre 2009 hanno presentato un piano con obiettivi ambiziosi, quasi nessuno ci credeva; e due mesi fa li hanno rivisti al rialzo. Hanno superato di gran lunga le attese e fanno progressi costanti. Certo, non sono ancora fuori dal guado e a lungo termine e difficile fare previsioni. Ma del resto, questo vale anche per Gm e Ford e per le concorrenti». «Senza Marchionne, la Chrysler crollerebbe?» chiede uno spettatore. Bloom prima se la cava con una battuta: «L'importante è che ci lasci il maglioncino». Poi, più seriamente, dice che «i leader svolgono un ruolo importante. Quello di Sergio è fondamentale per Chrysler come quello di Alan Mulally per Ford. Sarà compito del board di Chrysler preparare il piano di successione. Lui sta facendo un ottimo lavoro, ma a questo mondo nessuno è insostituibile». La ritrovata normalità per Chrysler potrebbe essere sancita dal ritorno in Borsa, come già è avvenuto per General Motors; un'operazione, quella di Chrysler, che potrebbe avvenire già quest'anno. Che ruolo avrete voi dell'Amministrazione? «La nostra quota - risponde Bloom - è molto inferiore a quella in General Motors e il nostro investimento principale sono i prestiti che abbiamo concesso all'impresa. Se Chrysler sarà in condizioni di ripagare questi debiti già quest'anno o il prossimo, saremo felicissimi di ricevere i soldi. Se il board della società ritiene che essa sia pronta per tornare in Borsa quest'anno o il prossimo, li sosterremo in questo loro progetto». Un'Ipo entro fine 2011 è una priorità per il Governo americano? «Non lo è per noi; se lo è per l'impresa, saremo felici di parlarne». Avete già avviato negoziati con l'impresa per le eventuali modifiche all'Operating agreement di Chrysler? «Se ci sono altri cambiamenti necessari a far funzionare la cosa, ci siederemo al tavolo e ne parleremo al momento opportuno». Dal piano finanziario a quello della politica industriale: cambierà qualcosa se e quando la Chrysler verrà gestita da italiani? Bloom la prende alla larga: «Il business dell'auto è ormai globale. Quando Fiat ci ha fatto la sua proposta per Chrysler, ha offerto di investire parecchio in termini di tecnologia e di risorse manageriali in cambio del 20% di Chrysler e della possibilità di acquistare altre quote. L'unica alternativa, allora, era la liquidazione. Crediamo quindi di aver preso la decisione giusta. Fiat potrà prendere il controllo della Chrysler solo dopo aver restituito tutti i prestiti. Se si arriverà a quel punto, sarà una giornata positiva: vorrà dire che l'impresa funziona, i posti di lavoro sono stati salvati e i debiti ripagati. L'importante è che ci sia gente disposta a produrre auto sul suolo americano. Ho un legame sentimentale con le aziende di Detroit, ma un legame ancora più forte con i lavoratori di Detroit. Se Fiat vuol dare lavoro agli americani è una cosa magnifica, se Toyota vuol farlo lo è altrettanto». Cosa ne pensa Bloom degli sforzi di Bob King, il numero uno del sindacato Uaw, per estendere la presenza dei sindacati nel settore auto? «Ha tutti i diritti di farlo, e gli auguro buona fortuna. Ma noi non prendiamo nessuna posizione». E la clausola di arbitrato nel contratto tra Uaw e Chrysler? «stabilità del lavoro è ovviamente parte di un pacchetto complessivo. Quando Fiat ha valutato la possibilità di effettuare un investimento consistente in Chrysler, ha cercato la massima stabilità del lavoro; e la Uaw ha ritenuto conveniente accettare quella condizione: è stata parte di un accordo».

ISTAT: produzione industriale in crescita (12 gennaio 2011).
Nei primi undici mesi del 2010 la produzione industriale ha registrato un aumento del 5,4% (dato corretto per gli effetti di calendario) su base annua (+5,2% dato grezzo). Lo comunica l'Istat. Nel confronto tra i primi undici mesi del 2010 e il corrispondente periodo del 2009, gli aumenti maggiori hanno interessato i settori dei macchinari e attrezzature (+12,2%), delle apparecchiature elettriche e non elettriche (+10%), della metallurgia e prodotti in metallo (+8,3%) e dei prodotti chimici (+6,8%). L'unica variazione negativa si è registrata per l'attività estrattiva (-0,7%). La variazione della media del trimestre febbraio-aprile rispetto a quella dei tre mesi precedenti è pari all'1,4, mentre nei primi quattro mesi del 2010 la variazione rispetto allo stesso periodo dello scorso anno è stata del 4,3 per cento. Si conferma quindi un trend positivo dell'industria italiana, come ribadito anche da uno studio della Confindustria. Il Centro studi della stessa organizzazione sostiene che la ripresa resterà «solida» e che a maggio la produzione industriale segnerà un aumento dell'1,8% su base congiunturale e del 10,2% a livello tendenziale. Secondo il Csc, la distanza dal «picco precrisi» (aprile 2008) si ridurrà al 18,1per cento. Sempre oggi, sono arrivate dall'Istat ulteriori buone notizie sullo stato della congiuntura italiana: nel primo trimestre di quest'anno il Pil è cresciuto dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e dello 0,5% rispetto al primo trimestre 2009. Inversione di rotta, invece, per la produzione industriale francese che ad aprile è diminuita dello 0,3% su base mensile, dopo il +1,2% fatto segnare a marzo. Nel paese transalpino va meglio, però, il mercato del lavoro: per la prima volta dal primo trimestre 2008 ha infatti registrato ad aprile un aumento degli occupati dello 0,2% (27.900 unità). Le previsioni del governo sulla disoccupazione nel 2010 restano per il momento ferme al 9,8 per cento.

Luis Alberto Moreno: l'America Latina batte la crisi (12 gennaio 2011).
«Il decennio dell'America Latina». Lo slogan coniato da Luis Alberto Moreno, presidente della Banca interamericana di sviluppo (Idb), il più grande finanziatore della regione, per i prossimi dieci anni è in netto contrasto con "il decennio perduto", come lo furono gli ultimi due del secolo passato. Dalla più grave crisi dell'economia mondiale dalla Grande depressione, l'America latina è uscita a passo di carica. Il Brasile vedrà quest'anno una crescita attorno al 7,5%, il Cile all'8, il Perù al 10%. Con il successo spuntano problemi di tipo nuovo: invece della scarsità di capitali dei decenni passati, si hanno afflussi massicci che rischiano di riattizzare l'inflazione, far perdere competitività e gonfiare bolle speculative. Moreno, di recente riconfermato per un secondo quinquennio alla guida della Banca, spiega il momento felice dell'America Latina e le prospettive per le imprese italiane, dopo una serie di affollati incontri a Roma, che denotano un interesse rapidamente crescente per l'area. «Siamo a un punto di svolta nelle relazioni economiche con l'Italia», dice il banchiere. L'America Latina, spesso vittima delle crisi passate, sembra esser uscita da questa relativamente indenne. Bisogna ricordare cosa è avvenuto prima della crisi. Quasi tutti i paesi hanno posto le basi per la stabilità macroeconomica: conti in ordine, inflazione sotto controllo, basso debito pubblico. E i governi che hanno ottenuto questi risultati, a differenza del passato, sono molto popolari. Le politiche sociali hanno ancora tanta strada da fare, ma stanno cominciando a dare frutto. Dopo oltre 30 crisi finanziarie nella regione negli ultimi decenni, non c'è stato impatto della crisi globale attraverso il canale finanziario, solo attraverso quello commerciale per il calo degli scambi internazionali. Ma la grande domanda di materie prime dall'Asia ha dato un contributo importante alla crescita. I capitali vanno verso le aree dove c'è crescita e oggi l'America Latina è una di queste. C'è il timore della creazione di bolle e di un apprezzamento troppo rapido del cambio. Credo che sia anche uno stimolo alle imprese della regione a migliorare la produttività. E questo va aiutato attraverso investimenti in ricerca e innovazione, infrastrutture e riforme del mercato del lavoro, riducendo il sommerso. Tutte aree nelle quali l'Idb è fortemente impegnata. Su queste devono esser indirizzati i capitali in entrata. L'esperienza del passato insegna che l'efficacia dei controlli sui capitali è limitata. Il fronte delle infrastrutture. Cerchiamo di promuovere quelle che favoriscono l'integrazione regionale, per esempio nei trasporti. L'America Latina avrà bisogno nei prossimi vent'anni di 1.300 miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture, di cui 750 in energia. Il settore privato, fra cui le imprese italiane, può giocare un ruolo primario. Abbiamo firmato a Roma un accordo con Intesa Sanpaolo per cofinanziare progetti infrastrutturali pubblici e privati, oltre che per sostenere le Pmi italiane che vogliono investire nella regione e per finanziare l'export. Il ruolo dell'Italia. I grandi gruppi italiani hanno una lunga storia di successi in America Latina, non l'hanno mai abbandonata neanche durante le crisi. Oggi, vorremmo le medie imprese, le multinazionali tascabili con alto contenuto d'innovazione, come quelle meccaniche. E anche le imprese del lusso possono usare la regione come piattaforma per il mercato nordamericano, grazie ai molti accordi di libero scambio con gli Usa, che azzerano i dazi che altrimenti i vostri prodotti del made in Italy dovrebbero pagare.

Camusso contro tutti (13 gennaio 2011).
«Il presidente del Consiglio sta facendo una gara con l'amministratore delegato della Fiat tra chi fa più danno al nostro paese». Il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, reduce dal botta e risposta di martedì 11 gennaio con l'ad della Fiat, Sergio Marchionne, commenta così le parole del premier Berlusconi che, sulla vicenda Fiat, aveva detto che in mancanza di accordi nella direzione della flessibilità le imprese e gli imprenditori avrebbero «buone motivazioni per spostarsi in altri paesi». «Noi siamo dalla parte della Fiat speriamo e pensiamo che il referendum su Mirafiori possa passare. E' un momento importante in cui fare un passo in avanti». E' il commento della presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, al termine del vertice bilaterale Italia-Germania in cui anche il presidente del Consiglio, Berlusconi, si è schierato sulle posizioni di Sergio Marchionne. Dopo il referendum, ha spiegato Marcegaglia, «riparleremo della rappresentanza. Siamo disponibili a trattare su questo, ma prima serve un accordo tra Cgil, Cisl e Uil». Marcegaglia ha inoltre sottolineato che «Fiat vuole fare un investimento e chiede di governare le fabbriche, non c'è nessuna lesione dei diritti. Il problema è reale: l'Italia non attrae investimenti esteri, c'è scarsa produttività. Nessuno vuole distruggere nulla, né ledere diritti ma ottenere cose che ci sono già in molti altri paesi, a cominciare dalla Germania». «Noi riteniamo assolutamente positivo lo sviluppo che sta avendo la vicenda con possibilità di accordo tra sindacati e impresa in direzione di una maggiore flessibilità dei rapporti, del lavoro», ha detto Berlusconi, sull'accordo per Mirafiori tra Fiat e sindacati, nel corso della conferenza stampa con il cancelliere tedesco, Angela Merkel. E nel caso in cui il referendum dovesse bocciare l'intesa, Berlusconi osserva: «Dobbiamo dire - ha aggiunto Berlusconi - che ove questo dovesse accadere, le imprese e gli imprenditori avrebbero buone motivazioni per spostarsi in altri paesi. Ci auguriamo che la vicenda possa avere esito positivo». Immediata la reazione del segretario del Partito democratico, Pierluigi Bersani: «Berlusconi non se ne accorge perché è un miliardario ma noi paghiamo a lui uno stipendio che gli sembrerà misero per occuparsi dell'Italia e fare gli interessi del paese e non per fare andare via le imprese». Bersani ha giudicato «vergognose» le parole del premier. Tensione, urla, liti e slogan hanno accolto il leader di Sinistra Ecologia e Libertà, Nichi Vendola ai cancelli di Mirafiori a causa di una contestazione organizzata dai sindacalisti della Fismic. Dapprima alcuni aderenti a questo sindacato hanno urlato davanti a fotografi e telecamere, intimando a Vendola di andarsene, «perchè il comunismo è finito». Questa decina di attivisti è stata fronteggiata da altrettanti sostenitori di Vendola e tra i due schieramenti sono volati insulti, minacce e qualche sputo. «Ho percepito l'incredibile paura della Fiat che ha sentito il bisogno di ordinare al proprio sindacato giallo una contestazione ad uso dei mass media, di cui non mi sono nemmeno accorto», ha commentato il governatore della Puglia secondo cui «la Fiat ha paura che i lavoratori leggano il contratto». «Fiat = sfruttatori e assassini. Rottamiamo Marchionne e i suoi scagnozzi»: questa la scritta su uno striscione firmato Collettivo Comunista Piemontese, con il simbolo di una stella e della falce e martello appeso alla Porta 2 di Mirafiori accanto a molti altri striscioni, manifesti e bandiere che oggi sono comparsi nel principale ingresso utilizzato dagli operai delle Carrozzerie. La commissione elettorale che dovrà gestire le operazioni di voto e scrutinio del referendum alla Fiat Mirafiori (composta da rappresentanti di tutte le sigle sindacali, Fim, Fiom, Uilm, Fismic, Ugl e Cobas) ha confermato che le votazioni sull'accordo siglato lo scorso 23 dicembre si terranno domani e dopodomani. Dopo il botta e risposta tra Marchionne e il segretario della Cgil Susanna Camusso, resta teso il clima in fabbrica tra l'azienza e la Fiom. La Fiat sta svolgendo delle assemblee aziendali con i lavoratori delle Carrozzerie di Mirafiori per spiegare i termini dell'accordo raggiunto con i sindacati eccetto la Fiom. E sono proprio i metalmeccanici della Fiom a criticare duramente questa scelta. «Le assemblee aziendali - commenta Giorgio Airaudo, responsabile Auto della Fiom - la dicono lunga su quanto sia libero il referendum della Fiat. È evidente che la rappresentanza dei lavoratori è stata subappaltata all'impresa, che sta dicendo ai lavoratori che l'accordo distribuito dalla Fiom, unico sindacato a farlo, non è l'ultima versione: ci chiediamo - sottolinea Airaudo - in quale luogo segreto è stata scritta l'ultima versione e se i firmatari sanno su cosa voteranno i lavoratori». L'impresa ha confermato le assemblee precisando tuttavia che si tratta di un'attività «che rientra nelle proprie prerogative». Il referendum di Mirafiori «con l'auspicata vittoria dei sì, segnerà una fase di svolta e di rilancio produttivo e occupazionale non solo per Torino ma anche per l'intero paese perché darà il via all'intero Progetto Fabbrica Italia della Fiat con investimenti annunciati di 20 miliardi di euro nei prossimi 5 anni, il raddoppio della produzione di auto (1,4 milioni di vetture), l'attivazione di nuovi modelli, la certezza dell'occupazione ai lavoratori diretti e dell'indotto». Lo sottolinea in una nota Luigi Sbarra, segretario confederale della Cisl. «L'accordo per Mirafiori sottoscritto da tutti i sindacati tranne la Fiom non era affatto scontato e non si poteva ottenere con il ricorso al conflitto a oltranza e alle polemiche ideologiche».

Beige book: migliora l'economia statunitense (13 gennaio 2011).
L'economia degli Stati Uniti ha segnato un leggero miglioramento nelle ultime settimane del 2010. È quanto emerge dal Beige Book della Federal Reserve, il rapporto congiunturale pubblicato ogni sei settimane dalla Banca centrale Usa. «L'attività economica ha continuato a crescere moderatamente dalla metà di novembre alla fine dell'anno», scrive la Fed, utilizzando un'espressione leggermente più positiva rispetto al precedente rapporto in cui si limitava ad indicare che l'economia Usa «continuava a segnare un miglioramento nel suo insieme». Alla fine dell'anno, inoltre, l'economia era in crescita in tutte le regioni del Paese. Il settore manifatturiero - annota ancora la Fed - ha continuato la ripresa su tutto il territorio e le vendite al dettaglio della stagione delle festività appaiono quest'anno superiori a quelle del 2009 e «in alcuni casi superiori alle previsioni». Quanto al mercato del lavoro, il Beige Book rileva segnali di «consolidamento in gran parte dei distretti» con una modesta ripresa delle assunzioni in diversi settori, anche se menziona, per tre dei 12 distretti (New York, St. Louis e Minneapolis), ancora tagli ai posti di lavoro. Al tempo stesso, la dinamica salariale appare sostanzialmente stabile con «pressioni al rialzo» delle retribuzioni «molto limitate», a causa del persistente alto livello di disoccupazione (vicino al 10%). La Fed avverte, invece, che il mercato immobiliare resta debole e frena la ripresa. «ll mercato immobiliare residenziale rimane debole in tutti i distretti. L'edilizia commerciale viene descritta debole o in rallentamento». Il quadro dello stato di salute dell'economia americana tracciato nel Beige Book sarà la base di discussione della prossima riunione della Banca centrale americana del 25-26 gennaio. Lo scenario appare in miglioramento rispetto allo scorso 3 novembre, quando il presidente della Fed, Ben Bernanke, decise di ampliare il programma di acquisti di titoli di Stato per sostenere ripresa e occupazione. Un piano da 600 miliardi di dollari che ha attirato critiche sul fronte politico interno e anche in seno alla stessa Fed e che ora potrebbe non essere ulteriormente rafforzato alla luce dei tiepidi segnali di miglioramento economico.

Settore auto: 2010 negativo (14 gennaio 2011).
Vendite di auto in calo del 5,5% nell'Unione europea a 27 nel 2010. Secondo i dati diffusi da Acea, in totale sono state immatricolate 13.360.599 nuove autovetture. Per molti paesi, spiega l'istituto, l'anno appena concluso è stato quello dello stop agli incentivi statali al settore. A dicembre le vendite di nuove auto sono calate del 3,2% a 1.009.638 veicoli, rispetto a novembre dello scorso anno. Diverso l'andamento da paese a paese per il mese scorso caratterizzato dal pesante calo di Spagna (-23,9%), Italia (-21,7%) e Gran Bretagna (-18%). Fanno meglio i mercati francese, che resta stabile (-0,7%), e quello tedesco dove si è avuto un incremento delle vendite pari al 6,9%. Differente l'andamento per l'anno: la Spagna chiude il 2010 con un +3,1%, la Gran Bretagna con un +1,8%. Calo record per la Germania con il -23,4%. Italia e Francia hanno invece segnato rispettivamente -9,2% e -2,2%. Per il gruppo Fiat la flessione annuale, sempre per il mercato europeo, è stata del 17%. A dicembre il calo, secondo i dati Acea, è stato del 19,1%. La Fiat, che oggi ha l'importante appuntamento del referendum su Mirafiori, vede, nel 2010, scendere la propria quota di mercato dall'8,7% al 7,6% rispetto al 2009. In totale le auto vendute sono state 1.041.287 contro 1.255.310 vendute del 2009. A dicembre scorso invece rispetto a novembre sono state vendute in Europa 69.791 auto contro le 86.228 del mese precedente e la quota di mercato è scesa dall'8% al 6,7%. Volkswagen, nonostante la forte flessione del mercato tedesco e un calo del 4,2% delle auto vendute, resta sul primo gradino del podio nell'Unione europea. La quota di mercato sale dal 21,1% del 2009 al 21,3% del 2010. Per Psa il calo è del 2,3%: il 13,4% delle auto vendute nel 2010 ha marchio Peugeot Citroen (nel 2009 era il 13%). Tra i grossi gruppi risale nelle vendite Renault (+4,6%) reduce da un 2009 decisamente negativo. Non è andata bene invece a Ford le cui vendite sono calate del 13,3% nel 2010 facendo scendere la quota di mercato dall'8,8% del 2009 all'8% del 2010. Male anche Gm che passa dall'8,9% all'8,6% con un calo del 7,3% delle nuove auto vendute.

Referendum Mirafiore: 54% vota sì (15 gennaio 2011).
La vittoria del sì al referendum Fiat di Mirafiori raccoglie il plauso del ministro del Welfare Maurizio Sacconi che è il primo a commentare il risultato della consultazione diffuso in mattinata dallo stabilimento. «L'esito del referendum apre un'evoluzione nelle relazioni industriali - spiega il ministro - soprattutto nelle grandi fabbriche che dovrebbe consentire un miglior uso degli impianti e una effettiva crescita dei salari». Ora, aggiunge poi il ministro davanti alle telecamere di Skytg24, «si apre una fase che deve concretamente condurre all'investimento promesso dall'azienda». Si mostra invece molto più cauto l'ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano (Pd) secondo il quale la vittoria del sì «è avvenuta a denti stretti e questo ci deve far riflettere. Ad ogni modo bisogna rispettare il voto dei lavoratori. Ora Marchionne deve dire dove mette i soldi promessi, stabilimento per stabilimento». Mentre l'ex sindacalista della Cisl, Pier Paolo Baretta, ora capogruppo del Pd in commissione Bilancio alla Camera, invita la Fiom «ad accettare il risultato per voltare pagina e ricostruire un miglior rapporto tra i sindacati». Positivo il commento che arriva dalla maggioranza con il Pdl che, per bocca del vicepresidente dei deputati, Osvaldo Napoli, parla «di svolta nel sistema delle relazioni industriali che consente alla Fiat di affrontare le sfide della globalizzazione con le carte giuste». Secondo Nichi Vendola, poi, «per Marchionne è la vittoria più amara e per la Fiom la sconfitta più gratificante». Nel mondo sindacale il 54% di sì (togliendo il voto degli impiegati i sì degli operai superano i no per soli 9 voti) all'accordo separato sottoscritto il 23 dicembre scorso provoca reazioni differenti. Per il segretario della Uil, Luigi Angeletti, «la decisione è stata sofferta. Alla fine hanno vinto le ragioni del lavoro. Il sì all'accordo ci fa vedere con più ottimismo il futuro di Mirafiori e dell'industria automobilistica nel nostro paese». Da stasera,ragiona il numero uno della Uilm, Rocco Palombella, «non più tensioni e contrapposizioni nel medesimo spazio di lavoro perché ora la scommessa è sulla prospettiva che ha Mirafiori. Si realizzeranno nuova produzione, salvaguardia dei livelli occupazionali e il possibile aumento degli stessi». Mentre per il numero uno della Fismic, Roberto Di Maulo, «adesso che ha vinto il sì bisogna lavorare con pazienza e ricostruire le ragioni di largo consenso che necessita un investimento così importante». La Fiom, che non ha sottoscritto l'intesa, punta i riflettori sulla percentuale di no all'intesa. «È un 46% dignitoso e orgoglioso - dice Giorgio Airaudo, responsabile del settore auto - su cui Fiat dovrebbe riflettere. Se fossi Marchionne rifletterei molto su questo voto», sottolinea ancora Airaudo che ricorda come per la vittoria dei sì sia stato «determinante» il voto degli impiegati che tra l'altro «a Mirafiori ricoprono prevalentemente ruoli di capo». Molto battagliero si mostra poi il presidente del comitato centrale della Fiom, Giorgio Cremaschi. «La maggioranza degli operai di Mirafiori- dice - ha fatto un atto di coraggio. È stata una sconfitta politica per Marchionne, il voto dà forza a tutti noi e andremo avanti per rovesciare l'accordo-vergogna». E' oramai chiaro che la Fiom si colloca al di fuori del dibattito democratico, è un partito che si rifà a un pietrificato comunismo senz'anima e senza orizzonti. Un comunismo autolesionista che interpreta la globalizzazione solo in chiave anticapitalista. Sorge peraltro un atroce sospetto: molti di quei no sono forse da attribuirsi a operai che dal tran tran della "vecchia" Fiat, buonista e permissivista traevano benefici come quelli di darsi ammalati per andare a fare in giro l'idrulico o l'imbianchino?

Henry Kissinger: Usa e Cina. Scontro di culture. Incontro di interessi. (16 gennaio 2011).
Il summit del 19 gennaio tra i presidenti di Cina e Stati Uniti si tiene in una fase in cui si stanno facendo notevoli passi avanti nella risoluzione delle questioni bilaterali in sospeso, ed è prevededibile al termine un comunicato congiunto incoraggiante. Entrambi i leader, però, nei rispettivi paesi devono far fronte anche a una parte dell'opinione pubblica che esagera le divergenze, più che la cooperazione. Una guerra fredda tra loro potrebbe costringere la comunità globale a dover scegliere da quale parte schierarsi, allargare le divergenze alle politiche interne nel momento in cui alcune questioni cruciali - quali proliferazione nucleare, ambiente, energia, clima - richiedono invece una soluzione globale condivisa da tutti. Il conflitto non fa necessariamente parte del processo di crescita di una nazione. L'esperienza vissuta dagli Usa nel XX secolo è un esempio di come è possibile raggiungere una posizione dominante senza combattere con i paesi più forti a quei tempi. Neppure il conflitto tra tedeschi e britannici, spesso citato a questo proposito, era inevitabile. Ad avere un ruolo in questa trasformazione della diplomazia europea in un gioco a somma zero sono state politiche provocatorie e avventate. Le relazioni tra Cina e Usa non prenderanno questa piega. I due paesi sono in contatto costante, collaborano come è opportuno che sia in tutte le più importanti questioni dei nostri tempi. A mancare loro è il concetto notevolmente superiore d'interazione. Durante la Guerra fredda, un avversario comune funse da anello mancante. Dalla molteplicità dei nuovi doveri che è necessario che questi paesi si accollino – indispensabili per far fronte a un mondo globalizzato che vive un cambiamento epocale politico, economico e tecnologico – non sono ancora emersi concetti condivisi. Il problema non è semplice, giacché implica di subordinare le aspirazioni nazionali a una visione dell'ordine globale. Né Washington né Pechino hanno esperienza alcuna, da questo punto di vista. Entrambi hanno dato per scontato che i rispettivi valori nazionali fossero a uno stesso tempo unici e quelli ai quali qualsiasi altro popolo debba necessariamente aspirare. La più grande sfida delle relazioni sino-americane, pertanto, sarà proprio riconciliare queste due versioni di eccezionalità assoluta. L'eccezionalità americana trova naturale condizionare il proprio comportamento nei confronti delle altre società in funzione dell'accettazione da parte di queste ultime dei valori americani. La maggior parte dei cinesi non considera l'ascesa del proprio paese come una sfida all'America, bensì come l'annuncio di un ritorno allo status di cui la Cina godeva quando era importante. Dall'ottica cinese, quindi, l'anormalità è costituita dai due secoli passati nei quali la Cina si è rivelata debole, e non in forte crescita come adesso. Da un punto di vista storico, l'America ha agito come se potesse scendere nell'arena degli affari internazionali - o ritrarsi da essa - a suo piacere. Nella percezione cinese di sé come Regno di Mezzo era del tutto sconosciuto il concetto di eguaglianza sovrana. Fino alla fine del XIX secolo, la Cina ha trattato i paesi stranieri alla stregua di varie categorie di vassalli e non ha mai incontrato un paese di grandezza equiparabile alla propria finché gli eserciti europei non posero fine al suo isolamento. Fu solo nel 1861 che si creò in Cina un ministero degli Esteri, e anche in quel caso incaricato soltanto di occuparsi degli invasori coloniali. Gli Stati Uniti hanno scoperto che la maggior parte dei problemi che li riguardavano era risolvibile. La Cina, nella sua storia millenaria, ha sviluppato la convinzione che pochi problemi possono avere una soluzione definitiva. L'America ha dunque un approccio che si basa sulla risoluzione dei problemi; la Cina è a suo agio nella gestione di situazioni contraddittorie senza dare per scontato che siano risolvibili. La diplomazia americana persegue risultati specifici, con mentalità risoluta e determinazione. I negoziatori cinesi è più probabile che prendano in considerazione questo processo come un insieme di elementi politici, economici e strategici e cerchino risultati ingrandendolo maggiormente. I negoziatori americani si stancano e sono impazienti nei confronti delle scadenze; i negoziatori cinesi non incontrano difficoltà emotiva alcuna rispetto a queste, e le considerano parte dell'inevitabile meccanismo della negoziazione. I negoziatori americani rappresentano una società che non ha mai subito una catastrofe nazionale - a eccezione della Guerra Civile, che non è considerata un'esperienza internazionale. I negoziatori cinesi, invece, non riescono a dimenticare il secolo di umiliazione inflitta loro quando gli eserciti stranieri pretesero un tributo da una Cina fiaccata e prostrata. I leader cinesi sono estremamente sensibili ai più vaghi accenni alla condiscendenza e sono in grado di tradurre l'insistenza americana in una mancanza di rispetto. La Corea costituisce un buon esempio in tema di prospettive divergenti. In questo caso, l'America è concentrata sulla non proliferazione delle armi nucleari. La Cina - che sul lungo periodo avrebbe maggiormente da temere rispetto a noi dalla presenza in Corea di armi nucleari - è attenta inoltre alla vicinanza. È maggiormente preoccupata per le agitazioni che potrebbero verificarsi qualora le pressioni per la non proliferazione portassero al crollo del regime nordcoreano. L'America cerca in ogni modo una soluzione concreta a un problema preciso. La Cina considera questo risultato come una meta intermedia in una serie di sfide collegate tra loro riguardanti il futuro dell'Asia nord-orientale, senza una meta finale precisa. Perché si verifichi un vero progresso, pertanto, la diplomazia coreana necessita di una base più ampia. Gli americani di frequente chiedono alla Cina di dimostrare il proprio senso di "responsabilità internazionale" contribuendo alla soluzione di un problema specifico. L'affermazione che la Cina debba dimostrare la sua buona fede stride alle orecchie di un paese che si considera vincolato ad adeguarsi in qualità di membro a un sistema internazionale creato in sua assenza, sulla base di programmi che non ha contribuito a sviluppare. Un altro esempio è la questione del tasso di cambio. L'affermazione - spesso espressa in termini di necessità interne americane - secondo cui la politica monetaria cinese è straordinariamente egoista costringe il dibattito a tornare al diritto sovrano cinese di fissare il proprio tasso di cambio. Evocare i reciproci vantaggi ha molte più probabilità di portare a risultati positivi delle esortazioni a fare concessioni sulla base di condotte che si presumono sbagliate. Mentre l'America persegue politiche pragmatiche, la Cina tende a considerarle parte di un disegno generale. In realtà, tende a trovare una spiegazione logica a iniziative essenzialmente dovute a problemi interni, in termini di strategia generale finalizzata a frenare la Cina. L'ordine mondiale sarà messo alla prova nella misura in cui i contendenti riusciranno a rassicurarsi reciprocamente. Nelle relazioni sino-americane, la realtà di primaria importanza è che nessun paese sarà mai in grado di dominare l'altro e che un conflitto fra loro distruggerebbe le rispettive società. Riusciranno dunque a trovare un contesto concettuale che esprima questa realtà di fatto? Il concetto di Comunità pacifica potrebbe diventare un principio organizzativo del XXI secolo per evitare che si creino dei blocchi. Per questo motivo, occorre loro un meccanismo di consultazione che consenta di elaborare gli obiettivi comuni a lungo termine e di coordinare le posizioni dei due paesi nelle conferenze internazionali. Lo scopo ultimo dovrebbe essere quello di creare una tradizione di rispetto e cooperazione, così che colore che sostituiranno i leader oggi presenti a questo meeting continuino a vedere come sia nel loro interesse costruire un ordine del mondo emergente frutto di un'impresa comune.

Confcommercio: italiani più ottimisti (17 gennaio 2011).
Per il 18,9% degli italiani la situazione economica del Paese nel 2011 sarà migliore rispetto a quella del 2010, per il 48% sarà simile mentre per il 33,1% peggiorerà. Emerge un quadro di cauto ottimismo sulle aspettative del Paese per l'anno appena iniziato nella fotografia scattata da un'indagine Confcommercio-Format. Confcommercio sottolinea che «aumenta la quota di ottimisti (per lo più uomini, giovani, residenti al Nord) e si riducono i pessimisti (prevalentemente donne, giovanissimi e anziani, residenti al Sud)». Tra i timori degli italiani per il 2011 - evidenzia l'indagine - «si confermano le "paure" di sempre, in particolare l'incertezza verso il futuro (per il 53,3% delle famiglie), la salute (41,9%), le difficoltà a fronteggiare economicamente le proprie esigenze (32,6%), quelle che oggi, a causa della crisi, hanno spesso a che fare con la serenità economica di molte famiglie, in particolare nelle regioni del Sud Italia. Paure e timori - osserva ancora Confcommercio - dei quali gli italiani tengono conto, tuttavia, senza cedere né a uno sterile senso di rassegnazione né a un ottimismo ingenuo, ma guardando al futuro con senso della realtà e con il desiderio di allungare il passo». I più critici sull'anno appena concluso e che meno degli altri prevedono che il 2011 potrà rivelarsi un anno migliore sono le donne, i giovanissimi (meno di 24 anni) e gli over-54 anni, coloro che risiedono nelle regioni del Meridione, i pensionati, le casalinghe, gli studenti. I più ottimisti sono invece le persone di età tra i 25 e i 44 anni, coloro che risiedono nelle regioni del Nord, che hanno un titolo di studio medio/alto o alto, e che sono occupati. Aspettative di cauto ottimismo si ritrovano anche in relazione alla situazione economica personale o della propria famiglia: quasi otto italiani su dieci, infatti, si aspettano nel 2011 una stabilità (63,1%) o un miglioramento (13,8%), mentre solo due italiani su dieci prevedono un peggioramento (23%). I più pessimisti sono gli over-54 anni, residenti per lo più nel Sud, con un basso titolo di studio.

Marchionne: estendere l'accordo di Pomigliano e Mirafiori a Melfi e Cassino (18 gennaio 2011).
Dopo Pomigliano e Mirafiori il nuovo contratto investirà anche Melfi e Cassino. È quanto afferma Sergio Marchionne nell'intervista a Repubblica che, rispondendo ad una specifica domanda, sostiene che «non c'è alternativa. Non possiamo vivere in due mondi. Io spero che, visto l'accordo alla prova, non vorranno vivere nel secondo mondo nemmeno gli operai». Marchionne ha poi promesso di alzare i salari se riuscirà a ridurre i costi di utilizzo degli impianti oltre a quelli del lavoro: «Possiamo arrivare al livello della Germania e della Francia. Io sono pronto». L'ad di Fiat si è anche detto disposto a far partecipare gli operai agli utili. «Ci arriveremo - ha affermato -. Voglio arrivarci. Ma prima di parteciparli gli utili dobbiamo farli». Alla domanda relativa alla possibilità di vendere l'Alfa Romeo Marchionne è lapidario: «Fossi matto, è roba nostra. Grazie a Chrysler l'Alfa arriverà in America, con una rete di 2 mila concessionari, e farà il botto». Marchionne, inoltre, afferma di non voler vendere anche la parte relativa ai veicoli industriali. «Manco di notte - risponde alla specifica domanda -. E l'arroganza tedesca, gliela raccomando. Quando volevo comprare Opel non me l'hanno data perché ero italiano...». L'amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne risponde poi ad una domanda sulla localizzazione della «testa» decisionale del gruppo automobilistico: «Bisognerà abituarsi al fatto che avremo più teste, a Torino, a Detroit, in Brasile, in Turchia, spero in Cina. Ma un cuore solo. Così rimarranno vive quelle quattro lettere del marchio Fiat. Vediamole. Fabbrica: produciamo ancora, vogliamo produrre di più. Italiana: siamo qui e non vendiamo nulla. Automobili: resta il cuore del business. Torino: se ha dei dubbi, apra la mia finestra e guardi fuori». Sulle nuove auto prodotte a Mirafiori, poi, aggiunge: «il Centro Stile rimane qui, il design, ma anche i progetti, le piattaforme di origine: la piattaforma della Giulietta è nata qui, è stata riadattata negli Usa, adesso torna qui per fare da base ai Suv Jeep e Alfa». «La Fiom ha costruito un capolavoro mediatico, mistificando la realtà, ma ci è riuscita» ha aggiunto Marchionne. «Noi, che siamo presenti in tutto il mondo, dal punto di vista culturale siamo stati una ciofeca, e la colpa è soltanto mia. Ho sottovalutato l'impatto mediatico di questa partita, ho sottovalutato un sindacato che aveva obiettivi politici e non di rappresentanza di un interesse specifico, come invece accade negli Usa». Marchionne nega poi di aver cercato la rottura con la Fiom: «Quel che volevo rompere era questo sistema ingessato, dove tutti sanno che noi imprese italiane siamo fuori dalla competitività, non possiamo farcela, eppure tutti fanno finta di niente. Io parlavo una lingua, loro un'altra. Tutti facevamo riferimento alla realtà: ma io alla realtà di oggi, così com'è nel mondo globale, la Fiom alla realtà del passato, quella che si è trascinata fin qui impantanandoci fino al collo, come Italia».

CINA: infrastrutture e banche. Ancora su Usa e Cina. (18 gennaio 2011).
Il metodo con il quale la Cina si prende il mondo è identico a quello sperimentato, con successo, in Africa: investimenti in infrastrutture utili a facilitare la penetrazione di merci, aziende, risorse umane, istituzioni finanziarie. Il copione si ripete nei paesi dell'Est Europa, ma anche del Nord Africa e in America latina: si comprano porti, si partecipa agli appalti per autostrade, si aprono filiali di banche cinesi a sostegno delle stesse aziende cinesi presenti all'estero. Icbc, la più grande banca al mondo per capitalizzazione di borsa, in questi giorni sbarca in Europa con un tour tra Amsterdam, Bruxelles, Parigi, Madrid, Milano. «L'Asia rimane destinazione primaria della Cina, con un'inversione di tendenza rispetto al passato: è un continente più dinamico, l'area che la Cina considera di sua influenza. In particolare, la scelta di Icbc conferma Milano come piazza finanziaria in un momento di cautela del sistema bancario italiano», dice Thomas Rosenthal responsabile dell'area studi della Fondazione Italia Cina. «L'Italia è la 44° destinazione cinese, con lo 0,008% dei flussi, e un probabile raddoppio della presenza di aziende cinesi». Secondo i dati del ministero del commercio estero cinese nel 2009 sul 2008 le aree del Nord America e dell'Europa sono cresciute, rispettivamente, del 318% e del 283% a scapito dell'Africa (-74%) e dell'Asia (-7%). Due mesi fa Zhang Xiaoqiang, vice presidente della Commissione nazionale per le Riforme e lo Sviluppo, all'inaugurazione della seconda edizione della Fiera per gli investimenti cinesi all'estero ha confermato che il Go Global continuerà almeno per un quinquennio ancora. Le economie sviluppate sono diminuite del 48%, favorendo l'ascesa dei paesi emergenti, che toccano un quarto del valore dei flussi globali. La Cina è seconda tra le economie emergenti e sesta a livello mondiale, ma basta sommare nel 2009 i suoi investimenti a quelli di Hong Kong, perché si passi alla terza posizione, dopo Usa e Francia. Prima c'erano i paradisi fiscali, ora gli investimenti cinesi dovrebbero premiare il settore primario (+24% nel 2009) visto che la Cina nel 2010 è diventata il maggiore consumatore di energia. Ma tra i settori più promettenti ci sono le energie alternative, molto ambite dai cinesi, l'agroalimentare e le biotecnologie, l'information technology,la microelettronica, i servizi finanziari assicurativi, bancari e di leasing, a sostegno dell'arrivo delle imprese cinesi. In Canada, i flussi di investimento da 7,03 ml di dollari nel 2008, sono diventati 613,13 nel 2009. Bolivia e Cile in America Latina; la Gran Bretagna, Svizzera, Spagna, Norvegia, Lussemburgo per l'Europa; Ghana, Etiopia, Egitto, Congo, Chad, Algeria per l'Africa: Turchia, Nepal, Kirghistan e Iran per l'Asia.
La visita del presidente cinese Hu Jintao a Washington prevista per il 20 gennaio non poteva avvenire con una premessa più chiara, visto che in un’intervista scritta al Wall Street Journal di ieri ha annunciato con tagliente durezza che l’era di un sistema monetario mondiale dominato dal dollaro “appartiene al passato”. E’ un giudizio che ha seguito solo di pochi giorni il monito di Moody’s e StandardandPoor’s sul fatto che il debito federale Usa possa non solo perdere molto presto la sua “tripla A ”, ma avvitarsi in una vera e propria prospettiva di default. E il default non è un timore tanto per dire, visto che ancora pochissimi giorni prima il presidente del Council of Economic Advisors del presidente Obama, Austan Golsbee, ha rivolto alla Camera dei rappresentanti ora a maggioranza repubblicana un’accorata implorazione ad alzare il più pesto possibile il tetto del debito pubblico federale Usa oltre la soglia attuale, che è a 14.300 miliardi di dollari, visto che il debito corrente è già oltre quota 13.900 e in pochi mesi la situazione potrebbe evolvere non verso il default sostanziale, ma il default tecnico secondo le leggi contabili degli USA. Occorre tener conto che il portavoce della Camera, il repubblicano John Boehner, ha risposto che non è affatto sicuro di riuscire a convincere i suoi colleghi di partito. E che il 70% dei cittadini americani, negli ultimi sondaggi, si dichiara favorevole al default tecnico. Questo giudizio la dice lunga su che tipo di contribuenti siano gli americani: di fronte a politici che non riescono a fermare la spirale del debito e del deficit pubblico, a differenza degli italiani che continuano a credere che il problema sia l’evasione fiscale gli americani preferiscono il crac. Almeno esso ferma l’orologio del debito, e addossa ai politici la chiara responsabilità del disastro. Del resto quando si tratta di debito e deficit anche i politici americani non sono poi troppo diversi dai nostri. Tendono a mentire. Golsbee ha detto infatti che il default va evitato perché sarebbe “senza precedenti nell’intera storia americana”. E ha mentito sapendo di mentire, poiché non è uno sprovveduto. Basta leggere This Time Is Different scrittodagli economisti Carmen Rheinart e Kenneth Rogoff, che confutano il più delle balle raccontate in questi anni sul fatto che la grande crisi aperta nel 2007 è appunto “senza precedenti”, per ricordare che di default del debito americano ne sono avvenuti nel 1790, e in quel caso fu particolarmente grave perché il debito era detenuto all’estero sulle maggiori piazze di allora; nel 1933, e in quel caso erano obbligazioni denominate in oro detenute da cittadini e istituzioni finanziarie private americane; nonché nella crisi del 1841-42 fallirono ben 9 Stati dell’Unione; e in quella del 1873-74 altri 10 (motivo per il quale molti Stati hanno meccanismi automatici frena-debito che tuttavia non evitano esplosioni come quelli della California, per cui il Tesoro federale nella legislazione americana non ha obbligo di ripianare i debiti locali: cosa anch’essa che sembra molto positiva, e che dovrebbe valere per le nostre Autonomie, così i signori politici starebbero ben più attenti). Né le previsioni così fosche sono esclusive delle agenzie di rating e della Casa Bianca. Il debito pubblico americano era di 425 miliardi di dollari nel 1970, meno del 40% del Pil di allora. Ai 14 mila miliardi di dollari federali attuali vanno per correttezza e completezza aggiunti i circa 7mila miliardi di debiti pubblici statali, delle Contee e delle municipalità americane attualmente in essere, e di conseguenza il debito pubblico statunitense è in realtà nell’ordine del 130% del PIL. Stiamo parlando di un aggregato sul Pil ben maggiore di quello della Grecia, e anche se naturalmente la forza e gli asset dell’economia americana sono incommensurabilmente superiori, sta di fatto che la Grecia ha dovuto avviare un piano severissimo di rientro, l’America non ci pensa nemmeno e Paul Krugman e mezzo partito democratico tutti i giorni ripetono che anzi bisogna indebitarsi di più. Hu Jintao ha una certa massiccia dose di ragione, a pensare che in tale situazione è consigliabile che il dollaro tenga basse le penne, visto che il maggior creditore degli Usa è la Cina. Immaginando che la Cina continui a crescere non del 10% annuo ma “solo” del 7,5%,e che gli Usa crescano continuativamente almeno del 2,5% il sorpasso del Pil cinese su quello americano intorno a quota 20 trilioni di dollari avverrà nel 2019. E se anche gli Usa crescessero di qui ad allora del 5%, avverrebbe comunque nel 2022. Il 2 gennaio scorso Niall Ferguson, ha tenuto per la tv australiana una conferenza sul declino inevitabile della potenza americana: “la cosa più grave non è il debito galoppante americano, ma il fatto che nessuna credibile strrategia di sua riduzione sia attualmente in agenda”.

ITALIA: liberalizzata al 49% (19 gennaio 2011).
L'Italia è liberalizzata al 49 per cento. Lo mostra l'edizione 2010 dell'Indice delle liberalizzazioni dell'Istituto Bruno Leoni. L'Indice delle liberalizzazioni studia il grado di apertura di 15 diversi settori dell'economia italiana, rispetto al paese più liberalizzato d'Europa. Nel 2010, l'economia italiana è risultata globalmente liberalizzata al 49 per cento, un punto percentuale in meno rispetto al 2009: una variazione che, per il modo in cui è costruito l'indice, non è considerata significativa. Di fatto, nel 2010 sono proseguite le tendenze in atto negli anni precedenti, e in particolare si è osservato un trend verso il miglioramento nei settori che (a) hanno gradi di liberalizzazione relativamente alti e (b) possono contare sulla presenza di un regolatore indipendente. Il settore più liberalizzato è l'energia elettrica (71 per cento), in costante crescita da quando l'indice viene rilevato, nel 2007. Il settore meno liberalizzato sono i servizi idrici (17 per cento), nonostante l'effetto positivo del decreto Ronchi. Tra i settori che evidenziano un miglioramento più significativo, si osservano il mercato del lavoro (dal 55 al 60 per cento). Oltre ai servizi idrici, che peggiorano solo in termini relativi in virtù dei grandi passi avanti compiuti in Gran Bretagna, i settori con l'arretramento più significativo sono il trasporto ferroviario (dal 49 al 41 per cento) e il trasporto aereo (dal 68 al 60 per cento). Un dato molto rilevante è l'assenza di liberalizzazione nei servizi postali (43 per cento), che teoricamente a partire dal 1 gennaio 2011 dovrebbero adeguarsi alla piena apertura del mercato imposta dalle direttive comunitarie. "Nel complesso - dice Carlo Stagnaro , direttore ricerche e studi dell'IBL e curatore dell'Indice - l'Italia si trova in un equilibrio instabile, reso precario dalla crisi. L'assenza di un contesto concorrenziale inibisce le nostre speranze di ripresa. Solo con decisi interventi riformatori sarà possibile portare il paese sul sentiero della crescita economica. In caso contrario, usciremo dalla crisi ancora più deboli di prima e più deboli degli altri". I settori indagati nell'Indice delle liberalizzazioni sono: energia elettrica (liberalizzata al 71 per cento); televisione (65 per cento); mercati finanziari (63 per cento); trasporto aereo (60 per cento); mercato del lavoro (60 per cento); gas naturale (55 per cento); fisco (54 per cento); ordini professionali (47 per cento); pubblica amministrazione (46 per cento); trasporto pubblico locale (43 per cento); servizi postali (43 per cento); telecomunicazioni (41 per cento); trasporto ferroviario (41 per cento); infrastrutture autostradali (29 per cento); servizi idrici (17 per cento).

Spagna: salvataggio delle banche (20 gennaio 2011).
La Spagna si prepara a iniettare miliardi di euro nelle proprie banche, in un'iniziativa che dimostra come i precedenti tentativi di salvare il sistema bancario siano falliti. Lo riporta il Wall Street Journal, secondo le quali la Spagna si prepara a emettere 3 miliardi di euro di titoli di Stato. Il governo spagnolo punterebbe a raccogliere fino a 30 miliardi di euro. Secondo il ministro delle Finanze in Spagna, Elena Salgado, la cifra sarebbe però lontana da quella ipotizzata dal quotidiano finanziario americano. «La speranza - afferma il quotidiano - è che una serie di iniezioni di capitali calmeranno i timori degli investitori sulle casse di risparmio spagnole, il cui destino è inestricabilmente legato a quello della Spagna». Fra le altre iniziative allo studio da parte delle autorità per far riguadagnare agli investitori la fiducia nelle casse di risparmio c'è quella di semplificare le loro complesse strutture, per farle diventare banche più tradizionali. La raccolta di capitale per le casse di risparmio comporta dei rischi per la Spagna che - secondo le stime degli economisti - quest'anno avrà bisogno di raccogliere 125 miliardi di euro per il proprio deficit e per il debito che arriverà a maturazione. Il ministro delle Finanze spagnolo, Elena Salgado, ha però smentito le indiscrezioni riportate dal Wall Street Journal. Salgado - riferisce Bloomberg - ha detto che la cifra non si «avvicina neanche lontanamente» ai 30 miliardi, mentre una fonte del governo ha precisato che non sarà presa nessuna decisione sulla liquidità da iniettare nelle banche, prima della fine del mese, quando gli istituti pubblicheranno i rispettivi dati sui prestiti al settore immobiliare. In settimana, intanto, si è conclusa con successo l'asta di titoli spagnoli a 12 e 18 mesi per un totale di 5,54 miliardi di euro, riuscendo a strappare rendimenti più bassi. È la prima volta da ottobre, ossia dai tempi del salvataggio dell'Irlanda, che per i titoli di Madrid si registra un calo dei tassi. Il successo di queste aste, tuttavia, potrebbe essere in parte legato all'intervento della Banca centrale europea che ha dichiarato di essere tornata a fare incetta di titoli di Stato dell'area euro. Allo stesso tempo, a Madrid - secondo il quotidiano El Mundo - è arrivata una delegazione del Fondo monetario internazionale che potrebbe offrire alla Spagna l'accesso alla Linea di credito flessibile, cioè a un deposito che viene messo preventivamente a disposizione di paesi con difficoltà finanziarie congiunturali (la Linea di credito flessibile è stata già offerta a Messico e Polonia). Si è chiusa con successo anche l'emissione di titoli di Stato greci a tre mesi per un controvalore di 650 milioni. I titoli sono stati collocati a un tasso del 4,1%, stabile rispetto all'ultima emissione di titoli analoghi, effettuata lo scorso 16 novembre. La domanda, sottolinea l'Agenzia greca del debito pubblico, è stata cinque volte superiore all'offerta e si è attestata a 2,49 miliardi.

CENSIS: indagine sul sistema fiscale (21 gennaio 2011).
È l'evasione il principale problema del sistema fiscale italiano. Ancor più del peso oggi raggiunto da imposte e tasse dovute. Non solo, oltre il 55% degli italiani preferirebbe pagare più tasse ma avere più servizi. È quanto emerge da una ricerca Censis commissionata dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e svolta con il metodo Cati nelle ultime due settimane di settembre su un campione rappresentativo di mille persone di età compresa tra i 25 e i 70 anni. Come dimostrano i dati dello studio presentati il 20 gennaio 2011 dal presidente del Censis, Giuseppe De Rita, e dal direttore dell'istituito di ricerche, Giuseppe Roma, la percezione che gli italiani hanno del fisco continua a essere negativa: ingiusto per il 36,2%, inefficiente per il 25,5% ed esoso per il 23,7 per cento. Solo il 9,9% lo giudica efficiente e il 4,7% lo ritiene solidale. A sorpresa, come sottolineano gli stessi ricercatori, l'indicazione dell'evasione fiscale è indicato come il principale problema del fisco: è così per il 44,4% degli intervistati, esattamente il doppio di quanti (il 22%) individuano in un eccessivo livello di tassazione il male maggiore. Un conto è individuare nell'evasione fiscale il primo problema e un altro è poi nella pratica modificare i propri comportamenti. Il 34,1% degli italiani, sempre secondo lo studio Censis, ammette di non chiedere a esercenti o professionisti scontrini o fatture. La sensazione diffusa è che sono sempre più numerosi quelli che, nonostante l'incremento degli accertamenti, riescono a farla franca, sottraendosi ai propri doveri di contribuenti. Eppure, secondo il presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti ed esperti contabili, Claudio Siciliotti, il 2011 sarà l'anno della «riscossione a tutti i costi». Nel fare gli onori di casa e presentare la ricerca Censis, Siciliotti ha puntato il dito sul pacchetto antievasione con cui ci si dovrà confrontare quest'anno. Fatto salvo il nuovo redditometro - fortemente voluto al posto degli studi di settore e su cui comunque si rinvia ogni considerazione alla sua presentazione - forti dubbi in tema di violazione della privacy sono stati espressi sullo scontrino parlante per gli acquisti superiori ai 3.600 euro che entrerà in vigore dal prossimo mese di maggio. Così come sugli accertamenti esecutivi che, da luglio in poi, ridurranno all'osso i tempi di difesa dei contribuenti. Il presidente dei commercialisti, inoltre, ha evidenziato come «vi siano davvero tutti i presupposti per poter combattere l'evasione fiscale» ma, ha avvertito, «non sulla pelle dei cittadini ma con la loro collaborazione». Un esempio concreto è il blocco delle compensazioni per debiti sopra i 1.500 euro, cui però non è corrisposto l'arrivo dell'attesa possibilità di compensare i debiti con l'erario con i crediti vantati nei confronti della Pa. Dallo studio sembra dunque maturare il concetto che il furbo danneggi la società e soprattutto i cittadini virtuosi e onesti in termini di prestazioni e servizi. Più del 50% dei cittadini oltre i 35 anni di età sarebbe favorevole all'opzione «più servizi, più tasse». In fondo se il livello di tassazione è giudicato elevato, lo è non tanto in assoluto (il 23%) quanto in relazione al livello e alla qualità dei servizi erogati (58,1%). Inoltre, il 64,3% degli italiani dichiara che la spesa fiscale è comunque aumentata, ma individua la causa nella quota «di cofinanziamento del contribuente per l'accesso ai servizi pubblici (79,3%)». A testimoniare ulteriormente la richiesta di maggiori servizi a fronte delle tasse pagate è anche la classifica sui tributi più odiati. Al primo posto, infatti, c'è il canone Rai, detestato dal 47,3% e ritenuto ingiusto. Pagare le tasse, sì ma in semplicità. Dallo studio, infatti, emerge anche un senso di impotenza del cittadino quando si trova davanti al fisco. A tal punto che per sentirsi più tutelato nell'80% dei casi il cittadino chiede assistenza agli intermediari. Il 52,7% del campione, infine, ritiene che la macchina sia migliorata nelle sole modalità di pagamento. Il 55,7% dichiara di non utilizzare il fisco telematico.

Hong Kong: da qui parte la sfida del renminbi al dollaro (21 gennaio 2011).
Il proprietario della rosticceria serve noodles dentro grandi tazze di brodo bollente e al momento del conto non fa una piega: prende i renminbi della Cina popolare lasciati sul tavolo e riporta il resto in renminbi. Non è un gran novità. Già dal 2004 le autorità di Hong Kong consentono ai turisti della Cina continentale di usare liberamente la loro valuta senza doverla cambiare in dollari della regione autonoma. Avevano annusato l'affare per tempo: l'anno scorso i visitatori sono stati 36 milioni (20% più del 2009) e due terzi venivano dalla Cina. Se il turismo è il 3% del Pil di Hong Kong, la Cina ne garantisce il 2%. Non sono più gli esploratori delle prime aperture, con pochi soldi in tasca come i pellegrini in visita a Roma. «Preferiscono spendere facendo shopping che dormendo nei grandi alberghi. Ma ormai portano denaro pesante», spiega Andrew Au, capo economista dell'amministrazione di Hong Kong. Pesante perché rispecchia la forza inarrestabile dell'economia cinese, che dopo il dato sulla crescita (10,3% nel 2010) ha superato il Giappone come seconda potenza mondiale. La grande novità ora è che il ristoratore di Tsim Sha Tsui, dall'altra parte della baia di Hong Kong, ha aperto un conto in renminbi, emette assegni in renminbi, compra bond e investe in renminbi. Poco più di un anno fa non era consentito; un anno fa i depositi in valuta cinese nelle banche di Hong Kong erano di 60 miliardi; lo scorso novembre, erano arrivati a 279. È solo il 4,7% dei depositi nelle banche di Hong Kong, valutati attorno ai 7mila miliardi di dollari locali. Ma non è che un inizio. «È una crescita fenomenale, fatichiamo a tenere aggiornate le nostre statistiche», garantisce Adrian Li, viceamministratore delegato della Bank of West Asia. Tutte le 140 banche di Hong Kong, comprese le 40 straniere, hanno conti in valuta cinese. Un qualsiasi correntista non può cambiare più di 20mila renminbi: circa 2.352 dollari di Hong Kong o 301 americani. «Ma è l'unica vera restrizione rimasta che presto sarà eliminata, ne sono certo», dice ancora Adrian Li. Il ristoratore di Tsim Sha Tsui è comunque un commerciante: può raccogliere dalla cassa tutti i renminbi guadagnati e la mattina dopo depositarli sul suo conto. E gli costa meno che a un risparmiatore della Cina continentale dove il tasso d'interesse bancario sui depositi è il doppio che a Hong Kong. La Cina ha scelto il territorio autonomo come laboratorio della piena convertibilità della sua valuta. E immediatamente, secondo la tradizione del luogo, renminbi è diventato il nome della nuova sfida, di un altro capitolo storico-economico di Hong Kong. Dall'inizio delle riforme denghiste negli anni 70, la Cina in tutte le sue espressioni è sempre stata la miniera della crescita dell'ex colonia. Ora il business è il renminbi e Hong Kong ci si butta con un finto entusiasmo da neofita, come se non avesse già sfruttato il suo ruolo di trading post e poi di avamposto occidentale nella Cina allora veramente rossa; come se non avesse cavalcato le riforme denghiste e sfruttato il costo della manodopera, trasferendo la sua industria manifatturiera oltre frontiera; diventando infine il pusher di Information Technology per una Cina bisognosa d'innovazione. C'è qualcosa di molto hongkonghese, di spirito del luogo, se a Washington Obama e Hu alzano la voce sulle valute e qui c'è il dollaro americano al quale quello locale è allineato, e c'è il libero renminbi. «La nostra politica monetaria la stabilisce il dottor Bernanke», ricorda Lawrence Fok, amministratore del marketing della Borsa. Ma al tempo stesso Hong Kong è diventato il mercato più grande e regolato di renminbi fuori dalla Cina. «Siamo il più grande centro offshore di valuta cinese quanto Londra lo è per l'euro e il dollaro», constata il sottosegretario al Tesoro Jukia Leung. Come tutti gli altri, questo nuovo business al quale Hong Kong si è attrezzato è a tempo determinato. Durerà fino a quando i cinesi non decideranno di rendere pienamente convertibile la loro valuta: non più di un decennio. «Quando accadrà, a Hong Kong sarà già accaduto e ci occuperemo di altro», è convinto Lawrence Fok. Nella sua Borsa arrivata a una capitalizzazione di 2mila e 700 miliardi di dollari Usa, quelli con la Cina sono il 60% degli scambi. E ora si pensa di contendere a Londra il ruolo di hub del mercato minerario mondiale. In un luogo nato come trading post, poche cose come le cifre ne spiegano l'anima. I grafici che salgono verso l'alto, precipitano in un orrido e risalgono come un razzo vettore, sono la foto autentica di Hong Kong quanto le cartoline dal Peak. Il capo economista del governo Andrew Au li mostra e li commenta senza mostrare alcuna emozione. Nel 2008 il Pil saliva del 7%, nel 2009 anno della crisi precipitava a meno 7,7% e nel 2010 rimbalzava immediatamente a più 6,8%. Esportazione di beni: +7, -23%, +20,8% (un rimbalzo di quasi 44 punti). Esportazione di servizi: +15%, -4%, +14,5%. Così molte altre voci. La grande crisi del 2009 quaggiù è stata come uno starnuto.

EURO: sfonda 1,36 dollari (24 gennaio 2011).
Inflazione in rialzo. Fondo salva-stati da potenziare. Euro in risalita, ai massimi dagli ultimi due mesi. Mentre rispuntano incertezze in Irlanda, dove si potrebbe ricorrere al voto anticipato. È questo il quadro macroeconomico che fotografa oggi l'Unione europea, a poche ore dall'apertura del Forum economico di Davos. I principali esponenti dell'Unione hanno chiari quali sono gli obiettivi da perseguire. Per il governatore della della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, è necessario tenere a bada l'inflazione che, dopo un paio di anni di pausa, è salita nel 2010 perlopiù a causa dei prezzi delle materie prime. Per il commissario Ue agli Affari economici Olli Rehn è necessario aumentare il budget del fondo salva-stati. Le pressioni inflazionistiche nell'area euro devono essere osservate con attenzione. È il monito che Trichet ha anciato in un'intervista al Wall Street Journal nella quale sollecita i banchieri centrali di tutto il mondo ad assicurarsi che gli attuali incrementi dei prezzi energetici e dei prodotti alimentari non attecchiscano nell'economia globale. In tale contesto, assicura, l'austerità dei bilanci pubblici e la vigilanza sui prezzi costituiscono il miglior viatico per la ripresa economica. «Tutte le banche centrali in periodi come questo nel quale ci sono minacce inflazionistiche provenienti dalle materie prime - ha detto Trichet - devono porre particolare attenzione che non ci siano effetti di trascinamento sui prezzi interni». Il banchiere, il cui mandato di otto anni alla guida della banca centrale europea scade in ottobre, ha sostenuto che la disciplina di bilancio aiuterebbe la crescita in Europa più di rinnovate misure di stimolo e ha ribadito l'invito ai 17 membri di Eurolandia ad aumentare la «sorveglianza» sulle reciproche politiche fiscali. Prima si aumentano dimensione e portata del Fondo anti-crisi per l'Eurozona «meglio sarà». Lo ha ribadito il commissario Ue Olli Rehn in una intervista a Die Welt. «Ci dobbiamo mettere d'accordo il più rapidamente possibile sulle misure comuni». La distensione sui mercati nelle ultime settimane «ci dà un po' d'aria ma non ci sono ragioni di lasciare andare le cose, dobbiamo agire ora con determinazione». Senza citarla direttamente, Rehn punta il dito verso la Germania. Principale contributore finanziario dell'Ue, Berlino da settimane ripete di non voler aumentare le risorse del fondo di cui ha già beneficiato l'Irlanda. Intanto l'euro è in salute. Oggi, si è portato a quota 1,365 euro per poi ripiegare leggermente sotto quota 1,36. In ogni caso, per la divisa unica si tratta dei livelli più alti delle ultime nove settimane. Il rialzo è in parte motivato dal balzo a sorpresa (comunicato venerdì 21 gennaio) dell'indice sulla fiducia delle imprese tedesche (Ifo). Sul versante macro però i dati non sono del tutto congruenti dato che oggi l'indice industriale Pmi (Purchasing Managers' Index - La fiducia dei direttori degli acquisti) della Germania (la prima locomotiva dell'Unione europea) è sceso sotto le attese. Sul versante obbligazionario, inoltre, si registra una giornata in calo per i Bund tedeschi. Sul dato impattano sia le incertezze politiche in Irlanda (dove secondo quanto riporta il Financial Times si potrebbe ricorrere a elezioni anticipate dopo che il partito verde ha annunciato nelle scorse ore l'uscita dal governo) ma anche l'abbondante iniezione di liquidità degli Stati Uniti che in settimana colloca Treasuries bond per un ammontare di 99 miliardi di dollari.

I distretti high-tech tengono meglio (25 gennaio 2011).
La selezione darwiniana della crisi ha colpito duro anche nei 101 distretti industriali italiani, dalla meccanica strumentale della Val Seriana alle conserve di Nocera Inferiore. Ma questo straordinario strumento dell'industria manifatturiera italiana, dato per spacciato negli anni in cui la finanza globale oscurava l'economia reale, ha trovato nella crisi la molla che ha scatenato processi di trasformazione e di crescita si spera duraturi. Il terzo rapporto annuale del servizio studi di Intesa Sanpaolo ha messo in luce la "nuova stagione" dei distretti industriali italiani. «Le crisi sono dolorose – ha detto il presidente del consiglio di gestione, Andrea Beltratti – ma sono l'occasione per dimostrare chi è il migliore». E questo è avvenuto. Non solo nel 2009, l'anno peggiore della crisi, in cui il sistema dei distretti ha perso quasi il 20% del fatturato ma ha messo in luce un numero elevato di "imprese eccellenti" che hanno continuato a crescere. Ma anche nel 2010 quando il ritmo di crescita complessivo delle 10.600 imprese distrettuali secondo le prime stime è stato superiore di mezzo punto percentuale rispetto al resto dell'industria manifatturiera. Tra tutti spiccano i 18 poli tecnologici censiti per la prima volta. Hanno tenuto meglio e possono trasmettere energia a tutta l'industria. Il prezzo da pagare è stato quello della selezione che ha ampliato le distanze tra imprese solide, che hanno avuto il coraggio e la forza di giocare "all'attacco", e quelle arroccate in difesa, attente più che altro a tagliare i costi, cominciando da quello del lavoro. In un contesto basato sulle Pmi e con una struttura finanziaria sbilanciata sul debito, il paese ha una bassa capacità complessiva di assumersi il rischio d'impresa. Alle banche, ha sottolineato Beltratti, il difficile compito di trovare il giusto mix tra analisi di bilancio e conoscenza personale di chi chiede un prestito. E alla politica, ha detto il ceo Corrado Passera, il compito di guardare più in là, riaccendendo i motori della crescita nel medio periodo.

I bond salvastati (25 gennaio 2011).
Il fondo salva-Stati europeo Efsf (European financial stability facility) ha emesso oggi il suo primo bond. Titoli a 5 anni (con scadenza luglio 2016) con rating tripla A ma con un rendimento superiore al corrispettivo Bund tedesco (che pure ha il massimo di giudizio sulla solvibilità ed è considerato il titolo più sicuro fra i governativi dell'Unione europea). Nel dettaglio, il rendimento lordo è stato fissato a 6 punti base sopra il tasso midswap a 5 anni (oggi 2,715%), nella parte bassa della forchetta inizialmente prevista tra 6-8 punti base. Il Bund tedesco a 5 anni viene trattato invece oggi sul mercato secondario intorno al 2 per cento, circa 70 punti base in meno. Differenziale che spiega, a parità di rating, l'elevato interesse da parte degli investitori verso il nuovo eurobond. Secondo le prime indiscrezioni, infatti, non tutti i fondi istituzionali internazionali (oltre 500) che avrebbero prenotato l'acquisto - coordinato da Hsbc, Citigroup, Société Générale - sarebbero stati accontentati. O, perlomeno, per l'intero importo richiesto. La domanda, infatti, sarebbe stata di 43 miliardi di euro, nettamente superiore all'offerta di 5 miliardi di euro. I soldi raccolti con questa prima emissione serviranno ad erogare la prima tranche di aiuti all'Irlanda, l'unico paese che finora ha fatto ricorso al fondo (il piano di aiuti alla Grecia è precedente alla nascita dell'Efsf). In questo modo l'Irlanda, anziché pagare tassi al 7,5% (quanto quotano oggi i titoli a 5 anni di Dublino) è soggetta a interessi del 2,7% (beneficiando del rating più elevato che hanno i paesi che hanno creato il fondo Efsf). Il piano di aiuti all'Irlanda - a cui contribuiscono anche l'Fmi e alcuni paesi fuori dell'Eurozona come il Regno Unito - ammonta complessivamente a 85 miliardi di euro, col fondo salva-Stati che ne dovrà tirare fuori 16,5 nel 2011 (attraverso tre emissioni di titoli, di cui due nei primi sei mesi dell'anno) e 10 miliardi nel 2012. Il bond emesso oggi dal fondo salva-Stati non va confuso con l'Eurobond emesso a inizio mese dal Meccanismo europeo di stabilità (5 miliardi di controvalore dei titoli con scadenza il 4 dicembre 2015, offerti a un rendimento pari al midswap maggiorato di 12 punti base). Questo bond, infatti, è garantito dal bilancio dell'Unione europea (rating AAA) mentre il bond emesso oggi dall'European financial stability facility è garantito dai bilanci dei singoli paesi europei che vi hanno aderito. Il fondo - che ammonta attualmente a 440 miliardi di euro anche se in più, fra cui il commissario Ue Olli Rehn o gli stessi studiosi dell'Fmi, auspicano debba essere rimpolpato - non può però emettere un controvalore di bond superiori ai 255 miliardi di euro. Tale è l'importo garantito dai paesi, fra quelli che vi hanno aderito, con il rating più alto. Sia il fondo-salva Stati che quello del Meccanismo europeo di stabilità vanno distinti dal tanto auspicato Eurobond di Tremonti, che implica la creazione di un'Agenzia europea del debito a cui si è duramente opposta la Germania. L'Eurobond emesso il 5 gennaio dal Meccanismo europeo di stabilità è quotato sul mercato Euromts. Viene scambiato al prezzo di 99,34 che corrisponde a un rendimento del 2,65% lordo a scadenza (aumentato rispetto al 2,5% dell'emissione). Il lotto minimo di investimento è pari a 1.000 euro ed è quindi disponibile anche per un investitore privato che si rechi in banca che abbia accesso al mercato Euromts. Lo stesso lotto minimo previsto per l'Eurobond emesso oggi dall'European financial stability facility che dovrebbe essere quotato sul mercato secondario (e quindi teoricamente disponibile anche ai piccoli risparmiatori) a partire dal 1 febbraio. Si tratta di titoli interessanti anche per un piccolo investitore? «Per i risparmiatori che nel dna hanno un basso profilo di rischio e quindi sono tecnicamente orientati verso soluzioni prossime al Bund tedesco questi titoli sono certamente da preferire perché pagano di più, a parità di rischio», spiega Angelo Drusiani, esperto del mercato obbligazionario di banca Albertini Syz. Anche la Spagna ha fatto nuovamente ricorso al mercato obbligazionario. Il Tesoro di Madrid ha lanciato un'emissione obbligazionaria a 3 e 6 mesi per 2,245 miliardi di euro con tassi in ribasso rispetto alle precedenti emissioni similari. La domanda totale é stata di quasi 12 miliardi di euro, che ha permesso alla Spagna di raggiungere l'obiettivo di raccogliere da 2 a 3 miliardi. Per i buoni a 3 mesi, il Tesoro ha emesso 945 milioni di euro con un tasso medio dello 0,980%, in calo significativo dal tasso dell'ultima emissione di questo tipo, il 28 gennaio (1,804%) e da quella di lunedì (1,050%). Sui buoni a 6 mesi, ha emesso 1,3 miliardi di euro a un tasso medio dell'1,817%, ben inferiore a quella della volta scorsa (2,597%) e a quella di lunedì (1,425%).

Confindustria: l'Italia fa fatica (26 gennaio 2011).
La ripresa globale é tornata vigorosa ma l'Italia non tiene il passo. È quanto si legge nella congiuntura flash del Centro Studi Confindustria (CsC), secondo cui «l'economia mondiale parte di slancio quest'anno, grazie all'accelerazione di fine 2010 superiore alle stime di consenso, ma in linea con le previsioni del CsC». Inoltre, spiega il CsC,«il 2011 si presenta come l'anno della stabilizzazione delle aspettative e della riduzione dell'incertezza». Ciò sta facendo ripartire il ciclo degli investimenti nelle economie avanzate più dinamiche (USA, Germania), favoriti dal costo del capitale in riduzione con i rialzi delle Borse e dal maggior utilizzo degli impianti. «Ne beneficeranno occupazione (per ora ancora debole, tranne la tedesca) e consumi (vivaci già gli americani)». La crescita, dunque, «si consolida», anche se il percorso rimane «accidentato dalla crisi dei debiti pubblici, dalle oscillazioni valutarie e dai rincari delle materie prime, che si traducono in tensioni inflazionistiche (ma al netto di energia e alimentari i prezzi al consumo sono quasi fermi». In tutto ciò, spiega Confindustria, «l'Italia fatica ad andare oltre l'1% nella velocità del Pil» e «non tiene il passo» della ripresa globale: «la produzione industriale é invariata in dicembre (-0,3% nel 4* trimestre, stime CsC; +1,1% in novembre), attestandosi al 17,8% sotto i livelli pre-crisi». Resta alto anche l'allarme occupazione: «Se l'andamento di fine anno é stato positivo con un aumento degli occupati nel bimestre ottobre-novembre (+0,3%, dati provvisori) e un calo della Cig nel quarto trimestre (-4,8% le ore complessivamente autorizzate), «nei primi tre mesi del 2011 - avverte Confindustria - restano negative le aspettative delle imprese riguardo alle assunzioni». A livello globale «i ritmi di crescita restano molto differenziati: surriscaldati negli emergenti (soprattutto in Asia), elevati negli Stati Uniti e in Germania, deboli in molti paesi dell'eurozona». Il Pmi globale in dicembre é salito a 57,1 (da 54,5), massimo da otto mesi, con ordini in più rapido aumento. Corre la Germania: il Pmi manifatturiero é al 60,7 da 58,1 (invariato quello dei servizi) e la fiducia delle imprese registra un record in gennaio (boom di ordini in novembre). Anche negli Stati Uniti la ripresa é più solida: Pmi terziario é a 57,1, manifatturiero a 57. Divergenze, invece, in Asia: Pmi manifatturiero sale in Cina, ma scende in Giappone per il terzo mese.

Tremonti a Telefisco: il federalismo è irreversibile (27 gennaio 2011).
La premessa è che l'Italia è l'unico paese europeo «senza finanza locale». C'era più federalismo fiscale durante il fascismo. Poi, dalla grande riforma dell'inizio degli anni Settanta in poi, si è andato stratificando un sistema fiscale completamente accentrato, il cui risultato è stato l'accumularsi del debito pubblico e l'assenza di fatto di responsabilità su entrate e uscite da parte delle autonomie locali. È stato il trionfo del «piè di lista», osserva il ministro dell'Economia Giulio Tremonti nel suo intervento in videoconferenza alla ventesima edizione di «Telefisco». La riforma delle riforme - osserva Tremonti - è proprio il federalismo fiscale: non si tratta di un «salto nel vuoto», al contrario può essere considerato un «passaggio verso l'Europa», attraverso il ritorno alla regola fondamentale della spesa controllata direttamente dai cittadini. Federalismo fiscale come un processo che comincia adesso e si svilupperà «nei prossimi dieci anni». Da qui l'invito a non focalizzare l'attenzione sulle questioni oggetto in questi giorni di acceso confronto politico, in particolare le modalità applicative del federalismo municipale, ma a guardare oltre, a un processo che «non è impostato in modo traumatico o istantaneo». Un cambiamento che Tremonti definisce storico, soprattutto nel punto fondamentale del passaggio della spesa storica ai costi standard. Il livello identificato - osserva - «è il più alto possibile, è quello delle regioni del nord, non quello delle regioni meridionali più povere». Quanto alle addizionali Irpef a beneficio dei comuni, in attesa della futura compartecipazione del 2% che il decreto legislativo riconosce ai municipi, per Tremonti si tratta non certo di un obbligo «ma di una facoltà, e la scelta dipende dai cittadini. Sono gli amministratori che sotto il controllo dei cittadini, devono risparmiare». Il dibattito è in corso in sede politica e alla "bicameralina" di San Macuto, comprese le spinte per la proroga di sei mesi nel varo di tutti i decreti legislativi. Dal suo punto di vista, Tremonti si limita a osservare che la legge delega è stata approvata nel maggio del 2009 «con un ampio consenso», e che il provvedimento sul federalismo municipale «è in Parlamento dal 5 agosto dello scorso anno. Com'è che proprio adesso si dice che c'è bisogno di più tempo?» Una richiesta, avanzata da ultimo dal «terzo polo» che per il ministro dell'Economia pare «condizionata dal clima politico complessivo che si è creato». D'altro canto, qui non si sta discutendo di una «finanziaria annuale», ma di una «riforma strutturale». Passare per tutti i servizi pubblici locali al criterio del costo standard è uno sforzo «colossale ma fondamentale». Del resto - questo il ragionamento del ministro dell'Economia - i comuni sono «chiamati all'appello» su una partita fondamentale, quella del contrasto all'evasione fiscale. Certo, la competenza primaria resta dell'Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza, «ma anche i comuni devono scendere in campo, rimboccarsi le maniche. In alcuni casi hanno già cominciato a farlo». Dal federalismo fiscale, magna pars dell'intervento del ministro, alla riforma complessiva del sistema tributario, affidata in questa fase alla ricognizione preliminare di quattro tavoli tecnici, in cui sono rappresentate forze sociali e istituzioni, tra cui l'Istat e la Banca d'Italia. «Stanno lavorando, hanno cominciato da poco, a novembre. Quando avranno finito, ci faremo un'idea». Il focus è sul gran numero di detrazioni, deduzioni e agevolazioni che rappresentano «due torri di Babele, una fiscale, l'altra sociale». È in sostanza il prodotto di un sistema stratificatosi dai tempi della grande riforma del 1973, e negli interventi successivi: un anno si agiva sulle detrazioni, un altro sull'assegno sociale per i figli, e poi magari sulle deduzioni per carichi di famiglia, sottolinea Tremonti. L'obiettivo preliminare della riforma è «fare l'inventario di tutti questi interventi. Stiamo cercando di far parlare l'Agenzia delle Entrate e l'Inps. La realtà è che non abbiamo ancora chiara la mappa effettiva della spesa pubblica». Il nostro - aggiunge - è il paese in cui si detraggono «palestre e finestre», mentre l'obiettivo è offrire ai contribuenti la scelta tra diverse opzioni. I tempi di attuazione della riforma? Tremonti osserva come il nostro sia «l'unico paese in Europa che sta conducendo studi per una generale, grande riforma fiscale». L'ambizione del governo è di disegnare «la più grande riforma fiscale del nuovo secolo». Il percorso non si annuncia breve. Prima di tutto occorre poter disporre «dei numeri», tenendo conto che il nostro debito pubblico è il «più alto in Europa e il terzo nel mondo». Infine, la difesa dell'operato del governo, per replicare prima di tutto alle critiche che gli vengono rivolte di aver tenuto sotto controllo i conti pubblici, ma di non aver varato le necessarie riforme strutturali per sostenere la crescita. La linea di Tremonti è che attribuirgli il merito di aver tenuto sul fronte del bilancio pubblico non equivale ad una sorta di ossequio a una «divinità astratta». Cita Quintino Sella, sulla cui scrivania è seduto, per ricordare che nel bilancio pubblico è possibile rintracciare «i vizi e le virtù di un popolo. C'è dentro il risparmio pubblico e quello delle famiglie». La conclusione è che «ha tenuto il bilancio delle famiglie», l'altra faccia della «tenuta dei conti pubblici». Il governo non ha messo in campo alcuna iniziativa mirata di spesa? «Abbiamo fatto molta spesa pubblica - risponde il ministro - concentrata sugli ammortizzatori sociali». Inoltre si è cercato di «tenere aperto il canale di finanziamento dalle banche alle imprese. L'idea della moratoria è stata apprezzata ed applicata bene». È imminente - annuncia - una «buona notizia» da Bruxelles sulle reti d'impresa. Tremonti rivendica al governo il merito di aver detassato i contratti di produttività, e di aver approvato «la migliore riforma delle pensioni in Europa, come riconosce la stessa commissione europea. Credo che l'Italia sia un grande paese. All'estero è considerata tale». Per altri, invece, il mondo è interessato solo a spiare dal buco della serratura della camera da letto di Berlusconi.

Davos: Francia e Germania difenderanno l'euro. Italia: buono il rapporto deficit/pil (27 gennaio 2011).
«L'euro non è in crisi, questo é assolutamente chiaro». Lo ha dichiarato il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, intervenendo a un dibattito al World Economic Forum in corso a Davos, Svizzera . «C'è un problema su alcuni stati firmatari, ma non sull'intera zona euro», ha sottolineato il banchiere centrale ricordando che la Bce ha sempre garantito la stabilità dei prezzi come prevede la sua missione. A Trichet ha fatto eco, sempre da Davos, un determinato Nicolas Sarkozy che ha assicurato: «Angela Merkel e io non lasceremo mai crollare l'euro». Il presidente francese ha lanciato anche una stoccata contro i grandi titoli dei giornali che, nelle scorse settimane, preannunciavano una prossima scomparsa dell'euro: «Gli articoli sono passati, l'euro è rimasto». «La questione dell'euro non è una questione semplicemente monetaria o economica, é una questione di identità» - ha aggiunto Sarkozy, sottolineando che «l'euro vuol dire Europa. E l'Europa vuol dire 60 anni di pace. Quindi non lasceremo mai che questo venga abbandonato o distrutto». Il presidente francese ha poi lanciato un duro avvertimento agli speculatori: «Dico a quelli tra voi che vogliono scommettere contro l'euro, di stare attenti a come investite. Noi siamo determinati ad assicurare la forza dell'euro». La moneta unica «é così importante che saremo lì a difenderlo ogni volta che sarà necessario». Sarkozy ha poi ricordato i tre «grandi rischi» per l'economia mondiale nel 2011: debito sovrano; squilibri monetari e finanziari; volatilità estrema delle materie prime. Sulle materie prime, in particolare, ha attribuito l'aumento dei prezzi alla mancanza di regole. «Un mercato con troppe regole non è un mercato. Ma anche l'assenza di regole non permette un libero mercato». In qualità di presidente del G20, Sarkozy si è chiesto «perchè sia accettabile regolamentare i mercati finanziari e non quelli delle materie prime». Riferendosi anche alle rivolte in Nord Africa legate all'aumento dei prezzi alimentari. «Chi può credere - si è chiesto - che le rivolte della fame portino stabilità?».Se da Davos arrivano buone intenzioni dall'Italia arrivano buoni risultati. L'Italia, infatti, chiuderà il 2011 con un rapporto deficit-Pil del 4,3% (invariato rispetto alle stime di novembre), in calo dal 5% dl 2010 (5,1% nelle stime precedenti). Sono queste le stime aggiornate del rapporto Fiscal Monitor dell'Fmi. Il disavanzo si ridurrà ulteriormente al 3,5% del pil nel 2012 (3,6%). Nell'intera Eurozona il rapporto sarà pari al 4,6% quest'anno e al 4% nel 2012 (6,4% nel 2010). Fra i principali paesi dell'euro solo la Germania sarà più virtuosa dell'Italia con 2,6% quest'anno e 2,3% nel 2012 (dal 3,5% del 2010). Netta anche la discesa della Spagna (9,3% nel 2010, 6,6% quest'anno e 6% nel 2012) e del Regno Unito (da 10,3% a 8,1% fino al 6,1% del 2012), mentre gli Stati Uniti dovrebbero toccare il picco quest'anno (10,8% dal 10,6% del 2010) per poi scendere al 7,2% nel 2012.

Confindustria: sale la produzione industriale (28 gennaio 2011).
A gennaio la produzione industriale é aumentata dello 0,5% su dicembre, quando si era avuta una variazione di +0,1% sul mese precedente (dati destagionalizzati). Lo stima il Centro studi di Confindustria nell'indagine rapida sulla produzione industriale. «Rispetto al picco pre-crisi (aprile 2008) il livello di attività rimane inferiore del 17,3%, avendo recuperato l'11,5% dai minimi di marzo 2009», si legge nel documento. La produzione media giornaliera, aggiunge il Centro studi, «sale del 3,5% sui dodici mesi, contro il +4,9% di dicembre (dati al netto del diverso numero di giornate lavorative)». Le aziende che lavorano su commessa segnalano un incremento degli ordini sia in termini mensili (+2,0% su dicembre) sia annui (+4,1% su gennaio 2010). In dicembre erano aumentati dell'1,8% su novembre e del 3,8% annuo. Per i prossimi mesi, i dati diffusi dalla Commissione europea anticipano la continuazione della ripresa a un passo più veloce. La fiducia tra gli imprenditori manifatturieri è ancora aumentata in gennaio (saldo a 1,7, da 0,5 di dicembre), sostenuta dal miglioramento sia delle aspettative di produzione sia del giudizio sugli ordini, soprattutto quelli esteri (saldo a -12,3, da -16,3). Un contributo positivo verrà anche dalla ricostituzione delle scorte, il cui livello è ritenuto al di sotto dei valori normali.

Il reddito delle famiglie italiane in calo (2 febbraio 2011).
Nel periodo 2006-2009 il reddito disponibile delle famiglie italiane si è progressivamente ridotto: da un incremento del 3,5% del 2006 è passato ad una flessione del 2,7% del 2009, la prima dal 1995. Lo rileva l'Istat nell'indagine sul "Reddito disponibile delle famiglie italiane 2006 - 2009". L'impatto - sottolinea l'istituto di statistica - è stato più forte nel settentrione (-4,1 per cento nel Nord-ovest e -3,4 per cento nel Nord-est) e più contenuto al Centro (-1,8 per cento) e nel Mezzogiorno (-1,2 per cento). La significativa diminuzione del reddito disponibile registrata dal Nord-ovest nel 2009 é da imputarsi alla cattiva performance di Piemonte e Lombardia, che da sole rappresentano il 90 per cento del reddito disponibile della circoscrizione. In Piemonte, infatti, si é verificata una forte contrazione dell'input di lavoro dipendente e, di conseguenza, dei relativi redditi da lavoro; la Lombardia sconta, invece, la battuta d'arresto degli utili distribuiti dalle imprese a seguito della diminuzione del valore aggiunto.

Nasce Ripresa Italia (2 febbraio 2011).
È stata presentata oggi Ripresa Italia, accordo che ha l'obiettivo di supportare le Pmi nella fase di rilancio dell'economia. Si tratta di un accordo fra Unicredit e Rete imprese Italia, che ha un plafond di un miliardo di euro. L'iniziativa si basa su 5 pilastri. Il primo, denominato "Ripresa ciclo economico", prevede prodotti disegnati per accompagnare le aziende nella fase di ripartenza del ciclo produttivo. Il secondo, "Competitività e innovazione" offre assistenza alle aziende che intendono riattivare investimenti in innovazione. Il terzo pilastro è la "Formazione", con percorsi di formazione destinati a giovani e neolaureati, con informazioni di base per attivare un'esperienza imprenditoriale e scegliere la strada del lavoro autonomo. Quarto punto "Internazionalizzazione", con l'intento di sostenere le Pmi nel processo di internazionalizzazione. Ultimo pilastro dell'accordo, "Reti di impresa", visto che l'aggregazione delle Pmi può rappresentare una chance importante per uscire dalla crisi. Il direttore generale di Unicredit, Roberto Nicastro, ha ricordato che nel 2010 l'istituto di credito «ha supportato l'economia con oltre 10 miliardi di nuovi finanziamenti a quasi 200mila piccole aziende e grazie al forte rapporto con i Confidi e le associazioni di categoria sono stati erogati quasi 3 miliardi di nuovi finanziamenti a oltre 40mila piccole imprese». L'iniziativa, spiega Nicastro, disegna «soluzioni concrete che diano sostegno alle aziende in tutte le fasi del ciclo economico».

I costi della festività del 17 marzo (2 febbraio 2011).
La proclamazione del 17 marzo come festa nazionale per celebrare il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia finisce, a sorpresa, nel mirino degli industriali bolognesi. Non certo per ragioni ideologiche, ma per più prosaiche questioni di «portafoglio». Il punto, spiega il presidente di Unindustria Bologna, Maurizio Marchesini, è che «l’onere della festa ricadrà completamente sulle imprese che, in questa fase ancora di crisi, si troveranno ad erogare la retribuzione per un giorno di mancata produzione». Insomma, fabbriche chiuse e lavoratori a casa con lo stipendio pagato, con un incremento del costo del lavoro «non inferiore allo 0,5% annuo». E pensare, nota Marchesini che «in altre occasioni ci si è scontrati per pochi minuti di pausa caffè». Niente da eccepire sulla decisione del Consiglio dei ministri di considerare il 17 marzo festa nazionale: anzi, così si «attribuisce il giusto rilievo ad una ricorrenza di massima importanza», ci tiene a sottolineare Unindustria Bologna che, pur avendo dedicato (attirandosi più di una critica) l’ultima assemblea annuale alla spinosissima «questione settentrionale», apre le proprie assise sulle note dell’inno di Mameli. Tuttavia, «è singolare- sottolinea Marchesini- che venga addebitato interamente alle aziende il costo di una ricorrenza. In questo momento, nel Paese, siamo in presenza di un dibattito particolarmente acceso sulla produttività: ciononostante, non si è tenuto conto dell’incidenza sui costi delle imprese di un’intera, ulteriore giornata pagata ma non lavorata». Per di più, insiste il numero uno degli industriali bolognesi (considerato più colomba che falco nell’affrontare il confronto con i sindacati), «con la crisi in atto le imprese vengono doppiamente danneggiate: quelle che stanno registrando i primi segnali di ripresa, perchè non potranno fare affidamento su un’intera giornata di lavoro. E quelle ancora in difficoltà, perchè dovranno pagare costi aggiuntivi». Eppure una soluzione ci sarebbe. «Per mitigare almeno in parte l’impatto sui costi aziendali- suggerisce Marchesini- sarebbe opportuno prendere in considerazione un eventuale «assorbimento» della retribuzione già dovuta per la festività del 4 novembre (che viene festeggiata la domenica successiva) in quella che verrà erogata dalle aziende per il 17 marzo». In questo modo, conclude, «verrebbero sia pure parzialmente ridotti gli oneri derivanti da una festività eccezionale che le imprese, a suo tempo, non avevano potuto prevedere nell’ambito dei loro budget».

FITCH: banche europee a rischio (3 febbraio 2011).
Il peso della finanza pubblica nelle banche europee continua ad essere consistente. E questo nonostante il settore goda di salute migliore rispetto a due anni fa, quando una fetta consistente dei governi (con l'eccezione italiana) dovettero intervenire in salvataggio dei maggiori istituti di credito, travolti dall'effetto domino innescato dal crack della banca americana Lehman Brothers. Dalla presentazione dell'European credit outlook dell'agenzia di rating Fitch è emerso che, se i governi dovessero ridurre il proprio supporto, un quarto delle banche europee rischierebbe il taglio del rating. Fitch parlano di mercato Emea (Europa, Medio Oriente e Africa) ma si riferiscono soprattutto all'Europa, il cui settore creditizio è decisamente più consistente. Al netto degli aiuti statali, calcola Fitch, il merito di credito di nove banche dovrebbe ridursi addirittura di otto gradi. Per esempio: dalla tripla A (massimo livello di sicurezza) alla tripla B (qualità medio bassa). Sono invece sette le banche in cui il peso del pubblico vale sette gradini di rating. Cinque istituti si vedrebbero tagliare il merito di credito di sei punti. Dieci, senza aiuto statale, avrebbero il merito di credito ridotto di cinque gradi e così via. Fitch non fa i nomi ma precisa che tra queste non ci sono banche italiane. Come ricordato, nessun istituto di credito ha avuto bisogno di essere salvato e non ci sono state, ad eccezione dei "Tremonti bond", forme di sostegno pubblico diretto al settore creditizio. È logico pensare che, tra le più dipendenti dagli aiuti, ci siano quelle dei paesi più a rischio. In particolare l'Irlanda (costretta a nazionalizzare le banche travolte dalla crisi e dalla bolla immobiliare) e la Spagna (che ha recentemente varato un piano per le "cajas"). Quest'elenco comprende poi paesi non periferici come la Gran Bretagna, che ha salvato Rbs e Lloyds e nazionalizzato Northern Rock. Questa situazione - precisa Fitch - è controbilanciata dal sensibile miglioramento dei fondamentali del settore. Nel complesso infatti, l'outlook dell'agenzia di rating britannica sul settore bancario è stabile per il 2011. Almeno questo è l'orientamento per la maggioranza (155) dei 227 istituti di credito censiti. La prospettiva è quella di una stabilizzazione della redditività, di un miglioramento della posizione finanziaria netta e dei coefficenti di patrimonializzazione. Questi ultimi sono sensibilmente migliorati anche sulla scia degli sforzi condotti da diverse banche per mettersi in linea in vista dei nuovi vincoli di Basilea 3. Resta il problema del debito in scadenza per le banche dell'Europa occidentale che toccherà quest'anno quota 600 miliardi di euro. Secondo Fitch l'impatto di questa situazione, effetto della crisi, si farà sentire sui costi di rifinanziamento che resteranno alti per il resto dell'anno.

Spagna e Portogallo, sorvegliati speciali (7 febbraio 2010).
La Banca centrale irlandese ha rivisto al ribasso le stime di crescita dell'isola nel 2011, all'1% dal 2,4% stimato a otttobre. Lo riferisce la stessa banca nel bollettino trimestrale che per il 2012 prevede una crescita del 2,3 per cento. Le prospettive dell'economia irlandese per quest'anno e l'anno prossimo hanno visto un peggioramento negli ultimi mesi», si legge nel bollettino. «La domanda interna avrà un peso più significativo sulla crescita sia quest'anno che l'anno prossimo rispetto a quanto era stato previsto in precedenza», aggiunge la banca. Il governo di Dublino a dicembre ha annunciato tagli alla spesa e aumenti fiscali per una finanziaria da 6 miliardi di euro. La stima di ottobre della Banca centrale irlandese era invece fondata su una finanziaria di 3 miliardi di euro. Dublino punta a riportare entro il 2014 il deficit di bilancio sotto il 3% del Pil dal 12% dell'anno scorso. Considerando anche i costi sostenuti per salvare le banche nazionali, l'Irlanda si ritrova con un deficit di bilancio pari al 32% del Pil. Il dato precedente sulla crescita stimata in Irlanda (2,4%) era stato previsto prima del piano di salvataggio internazionale e dell'adozione delle misure di austerità collegate. A questo proposito, prosegue il negoziato europeo sulla riforma del fondo europeo di salvataggio (Efsf), garantito dai singoli governi dell'Ue e che conta ad oggi un budget di 440 miliardi di euro (di cui però solo 250 possono essere utilizzati come garanzia di prestiti agevolati ai paesi in difficoltà dato che tale è l'importo garantito dai paesi aderenti che hanno rating tripla A). Sono favorevoli a un rafforzamento il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea, mentre la Germania pone qualche resistenza. Esponenti dell'Ue starebbero valutando l'estensione a 30 anni dei prestiti a Grecia e Irlanda. A ciò si aggiunge la richiesta di alcuni, inclusi i rappresentanti del Fondo monetario, che l'accordo includa un salvataggio del Portogallo e quella, da parte di un gruppo più ristretto, circa l'apertura di una linea di credito flessibile per la Spagna. Lo scrive il Financial Times precisando che la prima proposta vede la ferma opposizione delle autorità portoghesi e di altri rappresentanti Ue e analoga resistenza incontra la seconda: per cui la soluzione più probabile al momento appare essere quella di una "sorveglianza rafforzata" della Commissione europea sulle riforme di Spagna e Portogallo, cui Bruxelles apporrebbe un "bollino verde" dopo l'esame. Le distanze da colmare, in ogni caso, sono ancora ampie, spiega il quotidiano, ma venerdì a Bruxelles i leader di Francia e Germania presenteranno una dettagliata descrizione della proposta. Da parte tedesca c'è invece la volontà di spingere per una maggiore disciplina fiscale tramite accordi vincolanti sulle imposte societarie, la dinamica salariale e quella del debito pubblico. Nei giorni scorsi sono emerse anche indiscrezioni sull'ipotesi, appoggiata da Berlino, che vorrebbe un contributo "cash" da parte dei paesi sprovvisti di rating AAA, la cui garanzia al fondo viene valutata meno rispetto ai partner con rating massimo.

Maxi perdita per la Anglo Irish Bank (8 febbraio 2011).
Perdite record per Anglo Irish Bank. La banca irlandese nazionalizzata due anni fa ha annunciato di prevedere un rosso da 17,6 miliardi di euro nel 2010 a causa soprattutto dei crediti deteriorati. Si tratta della peggior perdita mai registrata da una società irlandese. Anglo Irish peraltro batte un record registrato da lei stessa. Il rosso del primo semestre del 2010 si era infatti attestato a quota 8,2 miliardi di euro. Il 2010 della banca irlandese è peggiore del 2009 conclusosi con una perdita da 12,7 miliardi di euro. L'ad di Anglo Irish Alan Dukes ha calcolato che il «buco nero» nel sistema finanziario irlandese potrebbe ammontare tra i 20 e i 40 miliardi di euro. Per il Ceo questa situazione potrebbe essere sanata solo con un'altra maxi ricapitalizzazione. La cifra stimata è 50 miliardi di euro, ovvero il doppio di quanto Dublino ha messo sul piatto finora (46 miliardi). Più della metà di questa cifra (29 miliardi e 880 milioni) è finita nelle disastrate casse della stessa Anglo Irish, capofila di un settore creditizio finito sull'orlo del baratro per gli effetti congiunti della bolla immobiliare e della crisi finanziaria internazionale. La ricapitalizzazione stimata dall'ad di Anglo Irish è superiore anche ai 35 miliardi che il piano di aiuti di Unione europea e Fondo Monetario internazionale ha messo a disposizione del sistema creditizio del paese. Questa voce dell'accordo (che stanzia nel complesso 85 miliardi tra governo e banche) prevedeva la creazione di un fondo, dell'ammontare iniziale di 10 miliardi di euro, a cui le banche avrebbero potuto attingere per far fronte alle perdite sui crediti deteriorati (soprattutto mutui per l'acquisto di case). Solo lo scorso mese il governatore della banca centrale irlandese Patrick Honohan si era detto convinto che le banche non avrebbero attinto a tutti i 35 miliardi del piano. Lo scorso 18 dicembre, in occasione della decisa sforbiciata (5 punti) al rating irlandese, Moody's aveva stimato una ricapitalizzazione ancora più consistente di quella di Dukes: 90 miliardi di euro.

Governo: per il rilancio dell'economia (9 febbraio 2011).
Diventa più facile avviare un'impresa e l'accesso agli incentivi sarà più semplice e mirato, con il tentativo di fare ordine tra le 1.400 leggi regionali attualmente esistenti. È questo il cuore degli interventi per la crescita varati oggi dal Consiglio dei ministri che prevedono anche il rilancio del piano per il Sud e del Piano casa e il disco verde a 100 milioni di fondi Fas da destinare alla banda larga. Fumata nera invece per il disegno di legge sulla concorrenza, che era all'ordine del giorno del consiglio dei ministri di oggi nell'ambito del piano di rilancio dell'economia, ma che non è stato approvato. Arriverà invece il testo unico delle leggi fiscali: «Vogliamo mettere mano all'approvazione di vari testi unici», ha detto il premier Sivlio Berlusconi, e «abbiamo l'ambizione di produrre un codice delle leggi fiscali». Un obiettivo sul quale il governo si impegnerà presto. Ecco un rapido Abc della ricetta economica del governo per il rilancio dell'economia. Il testo di riforma degli incentivi è stato approvato all'unanimità in Cdm. Il decreto legislativo taglia drasticamente le norme esistenti (110 nazionali e 1.400 regionali) e puntella il riordino degli incentivi in tre categorie: gli incentivi automatici (con preferenza per l'utilizzo di strumenti di fruizione quali buoni o voucher); bandi per il finanziamento di programmi organici e complessi; procedure negoziali per il finanziamento di grandi progetti d'investimento (oltre i 20 milioni di euro). Gli interventi a sostegno del sistema produttivo - spiega la relazione illustrativa - sono definiti con un decreto del ministro dello Sviluppo economico, di concerto con il ministro dell'Economia e delle finanze, con cui si individuano con cadenza triennale gli obiettivi da perseguire, le tipologie di interventi da attuare, le risorse da assegnare ai singoli obiettivi. La programmazione è quindi specificata mediante un decreto annuale del ministro Romani, di concerto con il Tesoro, che individua gli interventi da adottare e le risorse destinate a ciascuno di essi. Particolare attenzione va alle Pmi cui è destinato il 50% delle risorse. Le risorse destinate alle misure abrogate confluiscono dall'esercizio 2012 in un unico Fondo, nello stato di previsione del ministero dello Sviluppo economico, per permettere una flessibilità nell'uso dei finanziamenti necessari all'attuazione della programmazione. Al Fondo confluiscono anche le risorse assegnate dal Cipe allo sviluppo economico nell'ambito del riparto del Fondo per le aree sottoutilizzate. Queste risorse sono destinate per l'85% alle regioni del Mezzogiorno e per il 15% alle regioni del Centro Nord. La data di entrata in vigore del decreto legislativo è il primo gennaio 2012. Tre le modifiche alla Costituzione per il rilancio della libertà d'impresa. Prima modifica all'articolo 41 della Carta costituzionale, che prevede, in sostanza, come «sia permesso tutto ciò che non sia espressamente vietato dalla legge». Nella nuova versione dell'articolo si sottolinea inoltre che l'attività economica non può svolgersi in contrasto «con gli altri principi fondamentali della Costituzione». Ecco la nuova formulazione: «L'attività economica privata è libera ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, con gli altri principi fondamentali della Costituzione o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Modificato anche l'articolo 97 Cost, sulle pubbliche funzioni. «Le pubbliche funzioni sono al servizio del bene comune», è scritto nella modifica dell'articolo 97 della Costituzione. Viene poi espressamente indicato il riconoscimento del merito e della capacità nella carriera degli impiegati pubblici. Il nuovo testo: «Le pubbliche funzioni sono al servizio del bene comune. L`esercizio anche indiretto delle pubbliche funzioni è regolato in modo che ne siano assicurate efficienza, efficacia, semplicità e trasparenza». Le pubbliche amministrazioni sono organizzate secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l`imparzialità dell`amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso pubblico, salvo i casi stabiliti dalla legge. La carriera dei pubblici impiegati è regolata in modo da valorizzarne la capacità e il merito». L'ultima modifica riguarda l'articolo 118 della Costituzione: «Gli enti locali non devono solo favorire ma anche garantire l'autonoma iniziativa». Nella nuova formulazione del comma 4 è scritto che: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni garantiscono e favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Il Consiglio dei ministri ha inoltre approvato l'attuazione del Piano per il Sud «con una tabella di marcia ben precisa», come ha assicurato il ministro Raffaele Fitto. Entro febbraio si chiuderà la discussione con la Commissione europea per accelerare la spesa dei fondi comunitari. Poi ci sarà una chiusura definitiva della ricognizione delle vecchie risorse. Entro il 28 febbraio la chiusura del confronto con le regioni e dal 1° marzo l'approvazione delle delibere Cipe sui programmi nazionali e regionali. Per arrivare entro il 30 aprile e avere subito dopo la sottoscrizione del contratto istituzionale per lo sviluppo all'interno del quale dare concreta attuazione» al Piano Sud. Fitto ha anche indicato che «nei prossimi giorni procederemo con revoche di finanziamento e definanziamenti su interventi che da diversi anni non fanno passi avanti». Partirà più velocemente il Piano casa. Lo ha assicurato il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, anche perchè il problema è che attualmente in molte regioni ci sono norme che «non consentono per il 60% delle case gli ampliamenti». Matteoli ha sottolineato anche che si procede su infrastrutture come la Salerno-Reggio (440 Km complessivi, di cui 200 già aperti al pubblico, 170 finanziati e appaltati e un piccolo tratto in provincia di Cosenza definito il «più difficile»), la Cisa o il Mose a Venezia per il quale, ha detto, «speriamo già dal 2013 si aprano le prime paratie». Il piano per le infrastrutture verrà realizzato e «nei prossimi giorni si insedierà un tavolo» che consentirà un'accelerazione. Matteoli ha anche evidenziato che molto verrà fatto anche grazie al finanziamento per 15 miliardi ottenuto con la banca europea per gli investimenti. Calderoli ha annunciato anche l'arrivo di misure per semplificare le procedure nell'edilizia. «Abbiamo avviato l'esame di un provvedimento che avrà le caratteristiche di necessità e urgenza con misure semplificative rispetto ad una serie di problemi che hanno rallentato la crescita del Paese». Verranno semplificate - ha assicurato Calderoli - le procedure in materia di appalti, di contenziosi che bloccano le grandi opere, interventi in edilizia privata e pubblica, completando il quadro del Piano Casa». E ha annunciato che «verranno rimossi gli ostacoli trovati sul percorso» e che ci sarà «un interevento molto importante a tutela dei beni culturali». Sono in arrivo anche 100 milioni di risorse di fondi Fas per la banda larga, per colmare il digital divide, come ha annunciato il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, al termine del consiglio dei ministri. «Inizia oggi il percorso della banda larga» ha sottolineato Romani. «Abbiamo deciso insieme a Tremonti - ha aggiunto - 100 milioni di fondi Fas per la banda larga», in un un arco temporale breve, «entro metà del prossimo anno». E nel progetto si inserisce anche la Cassa depositi e prestiti che investirà sia in equity sia in finanziarmenti «nel progetto di banda ultralarga a 100 Megabit per portarla almeno al 50% degli italiani». Un progetto che, ha specificato il ministro, «vale 8,3 miliardi, comporterà l'apertura di 3mila cantieri che daranno lavoro a 30mila persone». Il Consiglio dei ministri ha approvato all'unanimità un disegno di legge per smaltire l'arretrato delle cause civili pendenti (circa 6 milioni). «Con la riforma del processo civile e con l'informatizzazione - ha spiegato il ministro della Giustizia Angelino Alfano - nel 2010 i tribunali hanno smaltito 200mila cause in più rispetto a quelle entrate. Rimane però lo zaino di piombo dell'arretrato che incide sulla competitività del Paese». Il disegno di legge, approvato oggi dal cdm, prevede: 1) i vertici degli uffici giudiziari devono preparare ogni anno un piano con i numeri di smaltimento degli arretrati; 2) in appello e in cassazione vi deve essere una istanza delle parti per ravvivare la volontà delle parti di definire. Altrimenti, entro un dato termine, la causa sarà considerata estinta; 3) la motivazione delle sentenze deve essere breve e rapida. La parte che dovesse ritenersi insoddisfatta, potrà richiedere la motivazione estesa; 4) i vertici degli uffici giudiziari potranno chiedere l'aiuto di giovani laureati in giurisprudenza. Questo anno di lavoro varrà per i giovani come pratica legale o come scuola di specializzazione o come dottorato di ricerca. Alfano ha ricordato infine che dal 20 marzo entrerà in vigore la mediazione civile che ridurrà il numero della cause. Dopo la conferenza stampa con la quale Berlusconi ha illustrati i provvedimenti ho potuto registrare i seguenti commenti. "Ma perchè si occupa di economia pensi alle sue veline e letterine!". "Ma è ancora capo del governo?" "Iniziative prive di reale consistenza". " Ci si aspettava ben altro!". Chi la vuole bianca, chi la vuole nera, chi non vuole niente perchè è, per definizione, contrario a tutto. La diagnosi è che siamo un paese irrimediabilmente malato che non riesce a liberarsi dalle fazioni che siano guelfe, ghibelline, bianche, nere, verdi o rosse.

Marcegaglia: il piano del governo è un punto di partenza (11 febbraio 2011).
Taglia il primo traguardo il decreto legislativo per la riforma degli incentivi alle imprese. Finora il percorso è stato particolarmente lungo e accidentato e già si prospettano all'orizzonte due prove da superare: l'individuazione delle risorse e il confronto con le regioni. L'iter era partito con l'approvazione della legge sviluppo (entrata in vigore ad agosto 2009) che conteneva la delega al governo per il riordino entro 12 mesi. Sforata la prima scadenza, un'apposita deroga ha poi spostato il termine a metà febbraio 2011. In extremis, dunque, l'esecutivo è riuscito a portare a termine il primo esame, ma tecnicamente la delega si intende esercitata a percorso ultimato, dunque dopo il passaggio presso le commissioni parlamentari competenti e la conferenza unificata. Per questo, visto il ritardo fin qui accumulato, sembra comunque quasi inevitabile ricorrere a una nuova proroga. Alla fine di questa corsa s ostacoli, il riordino dovrebbe essere operativo dal 1° gennaio 2012. La relazione tecnica chiarisce che dal dlgs non devono derivare nuovi oneri a carico della finanza pubblica e che la programmazione degli interventi dovrà avvenire nell'ambito delle risorse disponibili nei fondi del ministero dello Sviluppo, come determinate dalla legge di stabilità. Il riferimento, in particolare, è al fondo unico che nascerà per inglobare le risorse derivanti da vecchie norme abrogate (l'allegato ne indica 25) e quelle che il Cipe assegnerà al ministero pescando dal Fas. Ma la relazione tecnica si riferisce anche al fondo rotativo per la competitività e lo sviluppo che dovrà sostenere gli interventi effettuati nella forma di concessioni di credito a tasso agevolato. Ad ogni modo per riempire di concretezza la riforma, soprattutto nella parte in cui rilancia meccanismi automatici come i voucher fiscali per le piccole imprese, occorrerà capire se nelle prossime leggi di stabilità arriveranno risorse fresche. Inoltre, bisognerà attendere anche un ulteriore decreto del ministro dello Sviluppo, da emanare di concerto con l'Economia, con cui si individueranno con cadenza triennale i target da raggiungere, le tipologie di interventi da attuare, la ripartizione delle risorse tra i singoli obiettivi. La parte centrale del provvedimento, ha sintetizzato il ministro dello Sviluppo Paolo Romani in conferenza stampa, è la semplificazione degli strumenti, che vengono divisi in tre categorie. «Quelli automatici tipo voucher; la categoria di incentivi erogati in base a progetti su bandi di gara e, infine, le procedure negoziali per gli investimenti al di sopra dei 20 milioni». Tra i criteri preferenziali il testo indica le pmi (riserva del 50% di fondi) e gli investimenti in ricerca e innovazione, mentre c'è un impegno, aggiunge il ministro, a inserire anche «un riferimento all'imprenditoria femminile e a quella giovanile». Il riassetto riguarda solo le misure gestite direttamente dal ministero dello Sviluppo economico, mentre resta fuori la parte più intricata, cioè le 1.400 norme di livello regionale. Lo schema di dlgs, però, prevede «di favorire la compartecipazione finanziaria delle Regioni». L'articolo 2, in particolare, stabilisce che gli «interventi congiunti dello stato e delle regioni siano definiti attraverso la stipula di accordi di programma». Non abbastanza per il presidente della conferenza delle regioni Vasco Errani che, oltre a respingere le critiche del governo per i vincoli posti al piano casa, ha rimarcato come sulla riforma degli aiuti alle imprese non ci sia stato alcun coinvolgimento e la strada per arrivare a un'intesa sia tutta in salita. Inevitabile, poi, attendersi una coda polemica per l'introduzione tra le norme da abrogare anche del programma per l'innovazione "Industria 2015", nato con l'ex ministro Bersani e portato avanti da Scajola. Un «giudizio positivo sulla semplificazione arriva da Rete Imprese Italia, che però aggiunge: «Per evitare che la riforma rimanga una bella cornice vuota va riempita delle risorse indispensabili a rimettere in moto l'attività delle imprese». I commenti di quasi tutta la stampa economica fa notare che esiste, probabilmente, un dissidio tra Berlusconi che vorrebbe più risorse economiche per le imprese e Tremonti che mantiene il timone diritto verso l'obietticvo di una maggiore stabilità finanziaria. Di particolare interesse è la lettera pubblicata oggi da Giuliano Ferrara sul Foglio e che mi piace riportare integralmente, ""Gentile ministro Tremonti, il Foglio non teme smentita quando afferma di avere sempre rispettato e spesso sostenuto il suo lavoro al Tesoro, specialmente nella gestione del debito pubblico. Ora, però, non ci sfugge il suo freddo disimpegno dai contenuti del Piano per la crescita di cui si è discusso ieri nel Consiglio dei ministri; e di cui ha dato conto il premier Berlusconi in una conferenza stampa alla quale lei ha partecipato come un passante (cinque minuti di eloquio e arrivederci a tutti), riuscendo tuttavia a omaggiarci di una frase raggelante: la nostra agenda economica “è dettata, è definita dall’Europa, in Europa”. Ne deduciamo che lei, signor ministro, non crede affatto sia possibile portare la crescita italiana al 3-4 per cento in cinque anni, come ha sostenuto il Cav. sul Corriere. Lei sembra non credere nemmeno all’idea di convocare gli stati generali dell’economia, coinvolgere di slancio le anime dell’intrapresa nazionale, galvanizzarle a forza di liberalizzazioni e riduzioni fiscali rese possibili dallo snellimento di uno stato dal patrimonio ciclopico e inerte (sempre una promessa del Cav. cui s’è aggiunto ieri sul Foglio l’appoggio disincantato del professor Monti). Lei, signor ministro, crede nell’incoercibilità dell’euroburocrazia, della quale si è fatto col tempo naturale e autorevole portavoce. E deve credere anche nelle sue legittime facoltà di guida d’una maggioranza la cui leadership istituzionale, quella berlusconiana, appare infragilita per ragioni contingenti di cui tutti sappiamo. Le stiamo ricordando, signor ministro, ciò che già sa: le linee d’indirizzo del governo sono nelle sue mani e nella sua capacità di visione già così desolidarizzante nei confronti dell’ultimo guizzo berlusconiano. Se il suo orizzonte di pensiero e di volontà è quello che abbiamo descritto, sarebbe giusto che lei lo dicesse a noi e all’Italia con la stessa chiarezza usata da Amato e da Capaldo per preannunciare la patrimoniale che verrà, se verrà, quando l’Europa ci detterà la stangata di marzo. Dopodiché ognuno – noi, gli italiani e lei, signor ministro – saprà trarre le proprie conseguenze.""

Il PIL 2010 in Italia, Germania e Francia (15 febbraio 2011).
Rallenta la crescita del Pil nel quarto trimestre mentre migliora su base annua. Nel periodo compreso tra ottobre e dicembre 2010, secondo quanto riferisce l'Istat nelle stime preliminari, il Prodotto interno lorodo corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e dell'1,3% per cento rispetto al quarto trimestre del 2009. L'aumento congiunturale del Pil, spiega l'Istat, è il risultato di un aumento del valore aggiunto dell'agricoltura e dei servizi e di una diminuzione del valore aggiunto dell'industria. Il quarto trimestre del 2010 ha avuto due giornate lavorative in meno rispetto al trimestre precedente e lo stesso numero di giornate lavorative rispetto al quarto trimestre 2009. Sull'intero 2010 il Pil è salito dell'1,1 per cento. Il 2009 si era chiuso con una contrazione dell'economia del 5,1 per cento. La crescita acquisita per il 2011, ossia la crescita annuale che si otterrebbe per l'effetto trascinamento del 2010 in presenza di una variazione congiunturale nulla nei restanti trimestri dell'anno, è pari allo 0,3%. Il prodotto interno lordo della Germania è cresciuto dello 0,4% nel quarto trimestre del 2010 e del 4% rispetto allo stesso trimestre del 2009. Lo ha reso noto l'Istituto federale di statistica che ha inoltre confermato la crescita del Pil tedesco del 2010 al +3,6% in linea con la cifra fornita il mese precedente. L'economia tedesca dunque continua a crescere ma a un ritmo più rallentato rispetto ai trimestri precedenti quando aveva messo a segno un +2,2% nel secondo trimestre e un +0,7% nel terzo. In Francia la crescita si è attestata allo 0,3% nel quarto trimestre, per un totale dell'1,5% nell'intero 2010. Il dato è più o meno conforme alle previsioni, anche se il governo, fino a poco tempo fa sperava in una possibile accelerazione. Dal canto suo, il ministro dell'Economia Christine Lagarde ha confermato la previsione della crescita in Francia per il 2011 al 2 per cento.

Osservatorio nazionale sui distretti italiani. Rapporto 2010 (15 febbraio 2011).
Come sono andati i distretti italiani nel 2010? Quali sono le previsioni di fatturato, produzione, occupazione ed export per il 2011? Quali sono le nuove strade e le nuove strategie che stanno intraprendendo? A queste domande risponde un lavoro congiunto di Unioncamere, Intesa Sanpaolo, Banca d’Italia, Censis, Cna, Confartigianato, Confindustria, Fondazione Edison, Istat, e Symbola. Un lavoro ideato e coordinato dalla Federazione dei Distretti Italiani che dà vita al Rapporto annuale, giunto alla seconda edizione.

Fusione tra Deutsche Borse e Nyse Euronext (15 febbraio 2011).
Deutsche Borse e Nyse Euronext hanno raggiunto un accordo per la loro fusione, dalla quale nascerà la piazza finanziaria più grande al mondo. Lo comunicano le due società ufficializzando così la fusione di cui si era parlato la scorsa settimana. Nel giorno dell'annuncio dell'accordo tra London Stock Exchange e borsa di Toronto, Deutsche Borse e Nyse Euronext avevano parlato in una nota di colloqui avanzati per la creazione di una nuova società di diritto olandese dalla fusione delle due. Colloqui che sono stati finalizzati con l'annuncio dell'ufficializzazione dell'accordo. Nella nuova Borsa, che sarà la prima al mondo per capitalizzazione i tedeschi di Deutsche Boerse avranno la maggioranza delle quote (60%) mentre al Nyse sarà destinato il 40 per cento. Il nuovo gruppo avrà una doppia sede, a New York e Francoforte, e ricavi pro forma 2010 pari a 4,1 miliardi di euro, con Ebitda (utile ante imposte) a 2,1 miliardi di dollari. L'operazione, secondo le attese, garantirà sinergie di costo da 300 milioni e «opportunità concrete per incrementare i ricavi». Il consiglio di amministrazione Il nuovo gruppo borsistico, che oltre alle due sedi di Francoforte e New York, avrà uffici a Parigi, Londra, Lussemburgo ed altre città, avrà un consiglio di amministrazione di 17 membri: 15 consiglieri, oltre a un amministratore delegato e al presidente. Dei 15 consiglieri, nove saranno designati da Deutsche Borse e sei da Nyse Euronext. Duncan Niederauer, attuale numero uno di Nyse Euronext è stato nominato a.d. del gruppo, con sede a New York. «In base a questo accordo, scrivono in una nota congiunta Deutsche Borse e Nyse Euronext, i due gruppi creeranno la prima piattaforma di scambi mondiale, divenendo un leader a livello mondiale negli scambi di prodotti derivati e la gestione del rischio». «Confidiamo - dice Reto Francioni, ceo di Deutsche Borse - che il nuovo gruppo che nasce dall'accordo di oggi, possa diventare il più attrattivo partner per i mercati dei capitali asiatici e di altri paesi del mondo». Giallo sul nome della nuova Borsa Deutsche Boerse e Nyse Euronext non comunicano il nome della nuova società, che sarebbe - secondo indiscrezioni - oggetto di dibattito con gli americani che premono perchè Nyse resti interamente nel nome della nuova società e preceda quello di Deutsche Boerse.

Audizione di Marchionne alla Camera (15 febbraio 2011).
L'amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, è stato impegnato in un'audizione presso le Commissioni Attività produttive, commercio, turismo e Traporti, poste e telecomunicazioni riunite nella Sala del Mappamondo di Montecitorio. Marchionne, in un'inedita versione giacca e cravatta (d'obbligo per accedere alla Camera), ha iniziato il suo intervento ricordando il recente passato della Fiat, uscita da una crisi dovuta alla sua resistenza ai cambiamenti. Su Fiat si «è aperto un ampio e lungo dibattito; si è sentita molta politica, molta ideologia ma poca aderenza alla realtà e conoscenza dei fatti - ha esordito Marchionne - Il fatto di essere qui in Parlamento è la dimostrazione del rispetto per questo Paese e le istituzioni e la fiducia che abbiamo nel futuro dell'azienda e dell'Italia». «Nessuno può accusare la Fiat di comportamenti scorretti, di vivere alle spalle dello Stato o di voler abbandonare il Paese. Abbiamo progetti ambiziosi che partono dall'Italia», continua l'amministartore delegato di Fiat. Il motivo che ha spinto Fiat alle sue iniziative risiede nella «necessità di cambiamento, indispensabile elemento per sopravvivere e avere successo». Marchionne ha poi sottolineato che Fiat era un'azienda che nel 2004 perdeva 4 milioni al giorno compresi il weekend. Dobbiamo «garantire a Fiat di restare al passo con la realtà e il mercato e assicurare ad azienda e lavoratori prospettive solide», ha aggiunto. «Non è solo vero che la Fiat abbia salvato Chrysler, è vero anche il contrario», ha detto l'ad di Fiat, per il quale l'alleanza è determinante per il futuro della Fiat: «Le ha consentito di diventare un produttore completo, ampliando la gamma in un modo che la Fiat da sola non avrebbe potuto fare». Il futuro di Fiat e Chrysler, pertanto, è «legato a doppio filo. Entrambe avranno enormi benefici da questo legame. Entro il 2014 - ricorda - supereremo un milione di vetture prodotte». Marchionne ha sottolineato anche come l'alleanza Fiat-Chrysler sia «molto più profonda del mero business. è un'integrazione culturale basata su rispetto e unità, dove non c'è posto per nazionalismi e arroganza di chi vuole insegnare. Muove dalla volontà di imparare dall'altro. Si tratta di uno straordinario gruppo di persone che si ascoltano, sono due culture che si uniscono. E' questa la vera forza della nostra partnership». «La Fiat ha il cuore in Italia, ma la testa in più posti» «Stiamo lavorando al risanamento della Chrysler e per un aumento della quota Fiat. Speriamo che Chrysler sia quotata nel prossimo futuro. Quando ci saranno due entità legali quotate in due mercati diversi si porranno problemi di governance. La scelta della sede legale non è stata ancora presa e sarà condizionata da alcuni elementi di fondo», ha detto l'amministratore delegato della Fiat, sottolineando che saranno determinanti l'accesso ai mercati finanziari e un ambiente favorevole allo sviluppo del settore manifatturiero. «Se si realizzeranno questi obiettivi, il nostro Paese sarà adatto per la sede legale». Per le direzioni, invece, bisognerà avere una visione più ampia: «Se il cuore della Fiat sarà in Italia la testa - ha sottolineato Marchionne - dovrà essere in più posti: Torino, Stati Uniti, Brasile ma anche Asia». «Se si realizzeranno le condizioni» rispetto al progetto Fabbrica Italia, «allora il nostro Paese sarà in grado di mantenere la sede legale». Fiat si aspetta un fatturato di «64 miliardi di euro» al 2014 e di «100 miliardi di euro con Chrysler»: per Marchionne il fatturato sarebbe «quasi il doppio di quello dell'anno scorso». Fiat, sul totale di 20 miliardi di euro di investimenti previsti per l'Italia, destinerà 4 miliardi a Fiat Industrial e 16 alla Spa, di cui «il 65% per Fiat Group Automobiles, il 15% per i marchi di lusso e il 20% per i motori e le attività della componentistica». «Nell'ambito degli investimenti previsti - ha aggiunto Marchionne - per Fiat Group Automobiles, i costi relativi alle attività di ricerca e sviluppo sono compresi tra i 3,5 e i 4 miliardi di euro». Il lancio della nuova Panda «avverrà entro la fine di quest'anno», mentre «il prossimo anno introdurremo sul mercato americano la versione elettrica della 500». Nel corso dell'audizione Marchionne ha anche annunciato il lancio di sette nuovi modelli per il 2011. «Abbiamo presentato pochi modelli l'anno scorso per scelta strategica«, ha detto l'ad, sottolineando che questa decisione è stata presa per l'eccessiva debolezza del mercato. Dunque, «il lancio di nuovi modelli è stato riposizionato a partire dalla seconda metà del 2011: presenteremo sette modelli nuovi, una proposta anche troppo aggressiva per il mercato ancora basso». E proprio il 2011, ha continuato, sarà «l'anno in cui si avrà il picco più alto degli investimenti». L'ad del Lingotto ha precisato che «la componente più significativa degli investimenti» sarà destinata all'auto: «tra i veicoli commerciali ci saranno 34 nuovi modelli nel giro di cinque anni, due terzi dei nuovi modelli saranno prodotti da Fiat, mentre 13 da Chrysler». Saranno invece due i marchi globali: «Alfa Romeo e Jeep, e stiamo lavorando perché l'Alfa possa tornare sul mercato americano entro la fine del 2012». L'amministratore delegato di Fiat è poi tornato sul futuro degli stabilimenti Fiat di Cassino e Melfi. «Su Cassino e Melfi non c'è urgenza di intervenire perché hanno prodotti ben accolti dal mercato». Entro fine anno, ha aggiunto Marchionne, a Pomigliano si produrrà la nuova Panda. E a Termini Imerese «la Fiat è disponibile a collaborare ma solo se viene risolto il problema occupazionale e tutti i lavoratori riceveranno una lettera di assunzione da parte della nuova proprietà». Marchionne ha quindi aggiunto che «non abbiamo mai chiesto condizioni di lavoro cinesi o giapponesi, solo condizioni minime di competitività che sono quelle su cui dobbiamo confrontarci con i competitor europei. Gli accordi servono solo a far funzionare meglio la fabbrica, senza la rinuncia ad alcun diritto, lasciando inalterate le condizioni positive non solo del contratto nazionale ma anche degli accordi in Fiat». «Fiat non ha nessuna intenzione di abbandonare l'Italia», ha ribadito Marchionne. «Fiat fa parte di questo Paese, rappresenta un pezzo della sua storia e vogliamo che rappresenti un pezzo importante del suo futuro». Ma da «un esame serio e lucido della situazione italiana» emerge che il nostro Paese «sconta da anni un forte deficit di competitività; in qualunque classifica sui posti dove aprire un'impresa l'Italia è indietro, mentre è nella top ten per i costi. Gli investimenti stranieri sono ridotti al minimo, molte aziende hanno chiuso, altre si sono trasferite all'estero». Per l'amministratore delegato di Fiat l'Italia ha una «cronica performance al di sotto della media europea e ha vissuto tre fasi recessive in 10 anni. La scarsa competitività dell'Italia rappresenta un grave handicap ed è una minaccia perché comprime redditi e salari». Fabbrica Italia «non era un atto dovuto» e per realizzare il progetto «non abbiamo mai chiesto sovvenzioni né aiuti di Stato per portarlo avanti. La verità - ha detto Marchionne - è che la Fiat è l'unica grande azienda che ha deciso di investire in questo paese in modo strutturale». «Il piano che abbiamo presentato è la nostra scommessa - ha aggiunto. È il nostro modo per dire che l'Italia non è un paese da abbandonare ma una sfida che si può vincere». «Se riusciamo a portare l'utilizzo degli impianti dall'attuale 40% all'80%, siamo pronti ad aumentare i salari portandoli ai livelli della Germania. E anche al passo successivo, come ho già detto, che è la partecipazione dei lavoratori agli utili dell'azienda», ha detto l'ad di Fiat, che ha sottolineato come negli accordi per Pomigliano e Mirafiori «non c'è nessuna clausola che penalizzi i lavoratori. Non abbiamo mai chiesto condizioni di lavoro cinesi o giapponesi. Abbiamo semplicemente chiesto di poter contare su condizioni minime e di competitività. Vengono mantenute inalterate - ha detto - tutte le condizioni positive che sono previste non solo dal nostro contratto collettivo, ma anche da tutti i trattamenti che la Fiat nel tempo ha riconosciuto alle proprie persone».

Approvato il decreto Milleproroghe (17 febbraio 2011).
Voce per voce, i provvedimenti nel decreto milleproroghe alla luce del maxiemendamento del governo.
A
ABRUZZO
Più tempo per versamenti e adempimenti fiscali. Il nuovo differimento prevede infatti la sospensione delle rate in scadenza tra il 1° gennaio 2011 e il 31 ottobre 2011. La ripresa della riscossione delle rate non versate sarà disciplinata da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Una nuova proroga al 31 dicembre 2011 riguarda anche gli adempimenti tributari diversi dai versamenti.
ALLUVIONI
Per far fronte allo stato di emergenza sono stanziati 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2011 e 2012, così ripartiti: 45 milioni per ciascuno degli anni alla Liguria, 30 milioni per ciascuno degli anni al Veneto, 20 milioni per ciascuno degli anni alla Campania e 5 milioni per ciascuno degli anni ai comuni della provincia di Messina colpiti dall'alluvione del 2 ottobre 2009. È prorogata poi al 30 giugno la sospensione dei tributi per le zone del Veneto alluvionate.
ASSICURAZIONI
Le assicurazioni potranno sterilizzare le minusvalenze sui titoli governativi nel calcolo dei loro ratios di vigilanza fin dal bilancio 2010. È consentito alle imprese «tener conto del valore d'iscrizione nel bilancio individuale dei titoli di debito destinati a permanere durevolmente nel patrimonio ed emessi o garantiti da stati dell'Unione Europea».
AUTOTRASPORTO
Prorogata a tutto il 2011 la possibilità per le imprese che esercitano autotrasporto in conto terzi di usufruire del fondo di garanzia Pmi anche per acquistare veicoli pesanti. I vettori sono esonerati dalla sanzione in caso di mancata indicazione del costo del gasolio in fattura. Slitta poi dal 16 febbraio al 16 giugno il termine per il versamento dei premi Inail.
B
BANCHE
Nel sistema bancario la perdita d'esercizio del bilancio individuale farà trasformare alcune attività della società in crediti d'imposta. Si tratta delle attività per imposte anticipate iscritte in bilancio, relative a svalutazioni su crediti non ancora dedotte dal reddito imponibile, nonché quelle relative al valore dell'avviamento e quelle immateriali, i cui componenti negativi sono deducibili in più periodi d'imposta ai fini delle imposte sui redditi. Il credito d'imposta non è rimborsabile o produttivo di interessi, ma può essere ceduto o utilizzato, senza limiti di importo. La trasformazione decorre dalla data di approvazione del bilancio da parte dell'assemblea dei soci.
C
CALAMITÀ NATURALI
I presidenti delle regioni colpite da calamità naturali, se non hanno disponibilità in bilancio per affrontare l'emergenza, possono deliberare l'aumento di aliquota delle addizionali o dei tributi propri, in deroga al blocco. Se non basta possono anche aumentare l'aliquota dell'accisa sulla benzina.
CARTA ACQUISTI
Ritorna la carta acquisti (la social card) destinata alle famiglie in disagio economico, con una fase sperimentale di un anno, che sarà gestita dagli enti caritativi dei comuni con più di 250mila abitanti. Un decreto del Lavoro stabilirà le modalità di selezione degli enti destinatari e i criteri di attribuzione delle carte.
CASE FANTASMA
Un altro mese per la denuncia delle case fantasma, sino al 30 aprile 2011. Ma non è solo un slittamento: ai ritardatari arriverà una rendita presunta, che sarà «notificata» con affissione all'albo pretorio (e non con notifica per posta). Per i ricorsi ci sono 60 giorni. Inoltre, la nuova rendita produrrà effetti dal 1° gennaio 2007, quindi con tutti gli arretrati di imposte e sanzioni, salva la possibilità dei contribuenti di dimostrare una diversa decorrenza (per esempio la costruzione dell'immobile in una data più recente).
CINEMA
Ogni spettatore verserà un euro di tassa sul prezzo del biglietto, esclusi i cinema di comunità ecclesiali o religiose. La tassa sarà applicata dal 1°luglio 2011 fino al 31 dicembre 2013, per finanziare le agevolazioni fiscali alla produzione cinematografica.
CONI
Le federazioni sportive iscritte al coni saranno escluse dai tagli previsti per il 2011 dal decreto legge 78/2010, nel limite di spesa di 2 milioni di euro.
CONCILIAZIONE
Prorogata al 20 marzo 2012 l'entrata in vigore della mediazione obbligatoria nelle controversie civili e commerciali. Il rinvio è limitato alle cause condominiali e a quelle per incidenti stradali causati dalla circolazione di veicoli e natanti.
CONTRIBUTO UNIFICATO
Prorogata ancora di un anno l'esenzione dal pagamento del contributo unificato per le controversie in materia di lavoro davanti alla Cassazione.
D
DEMOLIZIONI
Per tutto il 2011 sono sospese le demolizioni disposte a seguito di sentenza penale nella regione Campania. Purché si tratti di immobili esclusivamente adibiti ad abitazione principale da parte di persone che non abbiano altre soluzioni abitative. In ogni caso le demolizioni non vengono sospese se il comune o la Protezione civile abbiano riscontrato pericoli per la pubblica incolumità.
E
ENTI NON COMMERCIALI
Gli enti non commerciali che hanno una sede operativa in Molise, Sicilia e Puglia con un organico superiore alle 1.800 unità, nel settore della sanità privata, in situazione di crisi aziendale in seguito a processi di riconversione e ristrutturazione aziendale, nel limite massimo di 700 unità, avranno tempo fino al 31 dicembre 2011 per versare contributi, tributi e imposte, a qualunque titolo ancora dovuti, anche in qualità di sostituto d'imposta, relativi agli anni da 2008 a 2011 senza necessità di ulteriori provvedimenti attuativi.
F
FARMACIE
È retroattivo di due mesi l'ulteriore sconto sulle forniture farmaceutiche a carico del Ssn nella versione varata con la legge di conversione del Dl 78/2010, prevedendo che a partire dal 31 maggio 2010 nella corresponsione alle farmacie di quanto dovuto sarà trattenuta una quota pari all'1,82% sul prezzo di vendita al pubblico al netto dell'Iva e che le aziende farmaceutiche dovranno versare entro aprile 2011 all'entrata del bilancio dello Stato, in relazione alle stesse forniture, un importo dell'1,83% sul prezzo di vendita al pubblico al netto. Le somme - relative al periodo tra il 30 maggio e il 31 luglio 2010 - saranno calcolate sulla base di tabelle approvate dall'Aifa e definite per regione e per singola azienda.
FERROVIE
Il termine per la stipula dei contratti di servizio per i treni a media e lunga percorrenza di interesse nazionale – il cosiddetto «servizio universale» – sottoposti al regime degli obblighi di servizio pubblico tra il ministero delle Infrastrutture e Trasporti e Trenitalia è prorogato al 31 marzo 2011.
FONDI COMUNI D'INVESTIMENTO
Dal 1° luglio scompare il meccanismo della tassazione sul «realizzato»e non più sul maturato. Il prelievo si applica sui proventi distribuiti ai partecipanti, in base al principio di cassa, con ritenuta del 12,5 per cento. I redditi derivanti da i fondi comunitari non armonizzati saranno assoggettati alla stessa forma di prelievo già prevista per quelli armonizzati (ritenuta secca del 12,5 per cento). Restano fuori i restanti fondi di diritto estero.
FOGLIO ROSA PER I MOTORINI
Arriva il foglio rosa anche per motorini e minicar, per il periodo compreso tra la prova teorica e quella pratica dell'esame di guida. Un decreto delle Infrastrutture stabilirà le procedure. La prova pratica di guida non potrà essere sostenuta prima che sia trascorso un mese dal rilascio del foglio rosa e si potrà ripetere solo una volta l'esame di guida nel periodo di validità.
G
GRADUATORIE INSEGNANTI
L'efficacia delle graduatorie provinciali previste dalla Finanziaria 2007 è prorogata fino al 31 agosto 2012. Alle supplenze brevi (prima fascia) può accedere solo chi è iscritto nella graduatoria della provincia in cui ha sede la scuola richiesta. La norma «fa salvi» gli adempimenti conseguenti alla dichiarazione di illegittimità costituzionale degli inserimenti in coda alle graduatorie per chi cambia provincia: l'illegittimità della norma sembra però cancellare le possibilità di spostamento.
I
IAS
Sono introdotte norme di coordinamento tra i principi Ias/Ifrs e la disciplina contenuta nel codice civile, «con particolare riguardo alla funzione del bilancio di esercizio». A questo fine, i principi contabili internazionali omologati dalla Ue dopo il 31 dicembre 2010 potranno essere soggetti a disposizioni applicative con decreto del ministero della Giustizia. Quest'ultimo dovrà essere emanato entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del regolamento Ue.
L
LAVORO
Spostato dal 24 gennaio 2011 al 31 dicembre 2011 il termine per proporre l'impugnativa del licenziamento da parte dei lavoratori il cui contratto a tempo determinato è cessato prima dell'entrata in vigore del collegato lavoro. È esteso agli anni 2012, 2013, 2014 (inizialmente era previsto per il triennio 2009-2011) il cosiddetto esonero dal servizio del personale che sta per maturare la massima anzianità contributiva. È la possibilità prevista per i dipendenti della Pa, a cui manca poco tempo per raggiungere l'anzianità massima dei quaranta anni, di richiedere l'esonero dal servizio nel corso dei cinque anni immediatamente precedenti il momento della maturazione dei requisiti. Questa disposizione non si applica al personale della scuola.
M
MANIFESTI ELETTORALI
Estesa alle violazioni commesse dopo il 28 febbraio 2010 la sanatoria per i manifesti elettorali abusivi. Chi ha affisso manifesti elettorali fuori dagli spazi consentiti in modo ripetuto e continuato può sanare il tutto pagando mille euro una tantum. I vecchi termini per il pagamento della sanzione slittano di un anno.
MUTUI
Il decreto milleproroghe favorisce le operazioni di sospensione del pagamento delle rate dei mutui ipotecari chiarendo che, nel caso di sospensione dell'ammortamento per volontà del creditore o per effetto di legge, le garanzie ipotecarie già prestate a fronte del mutuo oggetto di sospensione dell'ammortamento continuano ad assistere il rimborso del debito esistente alla data originaria di scadenza del mutuo, senza che sia necessario il compimento di alcuna formalità o annotazione. La norma si applica anche ai mutui sospesi dopo essere stati cartolarizzati.
O
ONERI DI URBANIZZAZIONE
Anche per il 2011 e il 2012 i comuni possono utilizzare fino al 75% delle entrate da permessi da costruire per il finanziamento delle spese ordinarie correnti. La nuova formulazione lascia "scoperto" solo il 2013, ultimo anno considerato dai bilanci triennali che vanno redatti entro il 31 marzo.
ORDINI PROFESSIONALI
I consiglieri degli Ordini dei dottori agronomi e dottori forestali, degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori, degli assistenti sociali, degli attuari, dei biologi, dei chimici, dei geologi e degli ingegneri potranno restare in carico per un mandato in più.
P
PARCHI
I consorzi di funzione per la gestione degli enti parco evitano fino al 31 dicembre 2011 (oppure fino all'approvazione della legge regionale di riordino) l'abolizione prevista per tutti gli altri consorzi dalla Finanziaria 2010. Entro il 30 settembre 2011 deve essere istituito il parco naturale della Costa Teatina.
POLITICA LOCALE
Nei comuni con più di un milione di abitanti (Milano e Roma) i consigli comunali non subiscono il taglio da 60 a 48 membri previsto dal decreto enti locali del 2009; le giunte, che oggi non possono avere più di 12 componenti, a partire dal 1° marzo potranno contarne 16 (compreso il sindaco). Nelle città con più di 250mila abitanti, progressivamente considerate «città metropolitane», vengono reintrodotti i gettoni di presenza per i consiglieri di zona e di quartiere. Introdotti anche i permessi retribuiti per i consiglieri, che non possono superare il 25% dell'indennità prevista per il presidente.
PORTI
Le autorità portuali che, trascorsi cinque anni dall'assegnazione di fondi statali, non abbiano ancora pubblicato i relativi bandi di gara, perderanno, entro il 15 marzo 2011, queste risorse, che saranno redistribuite.
POSTE
Poste Italiane Spa potrà acquistare partecipazioni, anche di controllo, nel capitale delle banche, ma solo al fine di entrare nel capitale della banca per il mezzogiorno. Bancoposta sarà scorporata dalla società.
PROCREAZIONE ASSISTITA
Proroga al 30 aprile 2011 il termine entro cui l'Istituto superiore di sanità predispone la relazione annuale per il ministro della Salute in base ai dati raccolti sull'attività delle strutture autorizzate, con particolare riferimento alla valutazione epidemiologica delle tecniche e degli interventi effettuati. Prevede inoltre che le strutture autorizzate all'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma) inviino i dati richiesti al ministero della Salute.
Q
QUOTE LATTE
Slittano dal 31 dicembre 2010 al 30 giugno 2011 i pagamenti delle rate delle multe arretrate relative allo sforamento delle quote latte, definiti dai piani di rateizzazione delle leggi 119/2003 e 33/2009.
R
RATEIZZAZIONE DI DEBITI FISCALI
I contribuenti che hanno ottenuto una dilazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo, in base all'articolo 19 del Dpr 602/1973, hanno diritto a un ulteriore differimento. Le dilazioni concesse fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione del milleproroghe, possono essere prorogate per un ulteriore periodo e fino a 72 mesi, a condizione che il debitore provi un temporaneo peggioramento della situazione di difficoltà.
S
SFRATTI
Proroga senza complicazioni per gli sfratto degli inquilini appartenenti a famiglie "disagiate". Per beneficiare della proroga (fino al 31 dicembre 2011) gli inquilini devono trovarsi nei comuni ad alta tensione abitativa, con un reddito inferiore a 27mila euro, e devono avere nel proprio nucleo familiare persone ultra65enni, malati terminali o portatori di handicap o figli fiscalmente a carico. Per l'acconto 2012 non si tiene conto dell'esenzione Irpef e Ires sui redditi da locazione dei proprietari.
SOCIETÀ PUBBLICHE
Il termine per le dismissioni obbligatorie delle società pubbliche da parte dei comuni fino a 30mila abitanti (che non possono più detenere partecipazioni) e di quelli fino a 50mila (che ne possono detenere una) slitta al 31 dicembre 2013. Evitano del tutto le dismissioni le società che nel 2011/2013 abbiano mantenuto i bilanci in utile, e che negli esercizi precedenti non abbiano subito riduzioni di capitali o ripiani obbligatori in seguito a perdite di bilancio.
T
TASSA RIFIUTI
Per coprire integralmente i costi del servizio rifiuti, si possono aumentare le aliquote della tassa e della tariffa rifiuti, anche nei territori dove non è dichiarato lo stato di emergenza. In Campania comuni e province possono anche introdurre una maggiorazione all'addizionale sull'energia elettrica.
TRASFERIMENTI AI COMUNI
Entro il 31 marzo sarà assegnata ai comuni delle regioni a statuto ordinario una somma in acconto pari alla prima rata dei trasferimenti erariali che erano stati soppressi in virtù del federalismo fiscale. In questo modo viene evitato ai comuni l'obbligo di attendere almeno fino a giugno, quando potrebbe partire il nuovo meccanismo previsto dal decreto sul federalismo municipale. Per il 2011 sopravvive anche la compartecipazione delle province al gettito Irpef.
TV E STAMPA
È prorogato fino al 31 dicembre 2012 il divieto di incroci tra settore della stampa e settore della televisione.
W
WI FI
Slitta al 31 marzo 2011 l'accesso ai servizi erogati in rete dalle pubbliche amministrazioni con strumenti diversi dalla carta d'identità elettronica e della carta nazionale dei servizi.
Da www.ilsole24ore.com
NOTA Con decreto Milleproroghe si intende nel gergo politico-giornalistico italiano un decreto legge del Consiglio dei ministri volto a prorogare o risolvere disposizioni urgenti entro la fine dell'anno in corso. Questo strumento, nato come misura eccezionale nel 2005, G.U. del 30/12/2005, è stato riproposto in Italia negli anni successivi.

Segnali positivi dal mondo delle imprese (17 febbraio 2011).
Nel 2010 il bilancio anagrafico tra le aziende nate e quelle che hanno cessato l'attività ha visto un aumento dell'1,2% rispetto all'anno precedente. È il dato migliore dal 2006. È quanto emerge dall'indagine svolta da Unioncamere sulla base di Movimprese, la rilevazione trimestrale sulla natalità e la mortalità delle imprese. Le nuove iscrizioni sono 410.736, le cessazioni di attività sono pari a 338.206, dunque il saldo attivo è di 72.530 nuove imprese. Nel 2006, quando la crescita era dell'1,21%, il saldo era di 73.333. Il settore che segnala le maggiori difficoltà è quello dell'artigianato, con un bilancio passivo di 5.064 imprese. Il dato interessante, sottolinea Unioncamere, riguarda la distribuzione territoriale: la crescita si è localizzata in modo più accentuato nel centro e nel sud, aree che hanno determinato il 62,8% della crescita totale. «Rispetto al quadro complessivo - sottolinea Unioncamere - la dinamica dell'artigianato ha seguito un profilo simile, con saldi in progressiva riduzione dal 2004 (con l'unica eccezione del 2007). Nel complesso, però, il comparto segnala difficoltà più marcate della media delle imprese e ciò per il peso che la crisi ha avuto su settori-chiave dell'artigianato, quali le costruzioni e l'industria manifatturiera». ll commercio, pur crescendo lievemente al di sotto della media generale (+1,1,%), presenta il saldo settoriale più elevato in valore assoluto (16.975 unità, il 71% delle quali nel comparto delle vendite al dettaglio). Rilevante il contributo del comparto turistico (servizi di ristorazione e alloggio) che cresce di 13.029 unità (+3,5%). Seguono a ruota le attività professionali e scientifiche e tecniche (+7.694 unità, +4,2% in più rispetto al 2009), attività immobiliare, noleggio, agenzie viaggio e servizi alle imprese. L'agricoltura continua a registrare una riduzione numerica (-13.431) legata più alle modifiche d'uso del territorio che non a processi di razionalizzazioni e accorpamenti tra imprese. Negativo anche il saldo manifatturiero (2.061 aziende in meno), segnato da difficoltà di alcuni comparti quali industrie del legno e del mobile (insieme -1.752 imprese), metallo e abbigliamento. Il contributo più rilevante al saldo annuale viene ancora una volta dalla crescita delle società di capitali: 50.509 le aziende in più, pari al 69,6% del saldo complessivo. Dopo un quinquennio di segno meno, invertono la tendenza le ditte individuali e tornano a crescere (+13.291); il contributo più rilevante arriva dagli immigrati: le imprese aperte da quest'ultimi sono state oltre 15.000 nel 2010, pari al 21,3% del saldo complessivo. Per quanto riguarda le dinamiche sul territorio, «la crescita del 2010 - spiega Unioncamere - si è localizzata in modo più accentuato nel Centro e nel Sud. Le due circoscrizioni, a fronte di uno stock delle proprie imprese che a inizio 2010 era pari al 54% di tutte le imprese italiane, hanno infatti determinato il 62,8% della crescita totale dell'anno. In termini assoluti, la circoscrizione che ha dato il maggior contributo (24.848 unità in più) al saldo positivo delle imprese è stata quella del Sud e Isole. Seguono il Centro (+ 20.702 imprese), il Nord-Ovest (+19.226) e il Nord-Est (+7.754)». Nel dettaglio delle regioni, a registrare un bilancio positivo sono state, nell'ordine, ancora una volta il Lazio (+0,64%), la Liguria (+0,62%), Abruzzo e Valle d'Aosta (+0,52%), e Trentino Alto Adige (+0,22%). «Le imprese - ha commentato il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello - chiedono alla politica risposte concrete per sostenere e facilitare le loro attività: rimuovendo gli ostacoli burocratici che ancora le imbrigliano, riformando la giustizia civile, rilanciando l'ammodernamento delle infrastrutture e della pubblica amministrazione, investendo sulla formazione. La riduzione della pressione fiscale - ha aggiunto Dardanello - è indispensabile, è il problema dei problemi». Il neoimprenditore ha un'età compresa tra i 31 e i 40 anni, è maschio e possiede un diploma di scuola superiore. E' l'identikit che emerge da un'indagine condotta dal Centro studi di Unioncamere su un campione di 5.200 imprese attive nate nel 2010. «I 31-40enni - sottolinea Unioncamere - costituiscono la quota più consistente (41,3%) dei fondatori di una "vera nuova impresa" (le vere nuove imprese rappresentano il 52% delle 411mila iscrizioni al Registro delle imprese nel 2010, mentre il rimanente 48% è rappresentato da trasformazioni di attività esistenti dovute a cambiamenti di forma giuridica, di localizzazioni, a scorpori o a nuove acquisizioni)». Le iniziative avviate da donne restano minoritarie, limitate al 26,4% dei casi. Più della metà degli imprenditori ha un titolo di studio elevato: il 17% è laureato e il 45% in possesso del solo diploma di scuola superiore. Dall'indagine emerge anche che la maggior parte dei neoimprenditori lo ha fatto per scelta, complessivamente un 52% tra quelli che si sono attivati per fiducia nelle proprie capacità e nelle proprie idee di business e quelli mossi da desiderio di affermazione. «Ma non tutti - sottolinea Unioncamere - sono imprenditori per scelta. La necessità di trovare uno sbocco lavorativo, magari anche per le difficoltà incontrate nel cercare un lavoro dipendente, ha infatti guidato la decisione del 24,7% dei nuovi imprenditori».

G20: accordo su come monitorare gli squilibri globali (19 febbraio 2011).
I ministri finanziari del G20 hanno raggiunto un'intesa sugli indicatori che faranno da spia per monitorare gli squilibri macroeconomici globali. Lo ha annunciato il ministro delle Finanze francesi e presidente di turno del G20, Christine Lagarde. Dopo «una notte intera di lavoro sulla stesura» del comunicato finale, ha spiegato la Lagarde, «siamo giunti a un testo che secondo noi è equilibrato», e che «non può essere attribuito a un Paese o a un altro, ma è veramente frutto del compromesso». «Vogliamo una crescita solida, sostenibile e portatrice di occupazione - ha proseguito - nei Paesi del G20 e oltre». Il commissario europeo agli Affari economici, Olli Rehn, ha parlato di un «passo avanti decisivo ». Sarebbero, dunque, state superate le divergenze tra i paesi del G7 e quelli dell'area 'Bric' (Brasile, Russia, India, Cina) che avevano proposto il ricorso alla bilancia commerciale al posto di quella delle partite correnti. Gli indicatori individuati riguardano gli squilibri interni di un Paese (debito e deficit pubblico, risparmio privato) e "gli squilibri esterni" oltre al tasso di cambio. Secondo quanto si legge nel comunicato finale, è «prioritario» fare in modo che i tassi di cambio siano flessibili e riflettano i fondamentali economici delle economie mondiali. Il G20 punta anche ad aumentare la trasparenza e limitare gli abusi di mercato, oltre a monitorare attentamente i fattori che spingono i prezzi delle materie prime. L'accordo raggiunto dal G20 sugli indicatori degli squilibri economici mondiali si svolgerà in due fasi. Entro aprile - spiega il comunicato - si punta all'accordo sulle linee guida su come misurare gli squilibri «in termini di debito pubblico e deficit fiscale, risparmi privati e debito privato, bilancia commerciale e flussi netti di investimenti, prendendo in considerazione i tassi di cambio, le politiche fiscali e quelle monetarie». Il G20 non è invece riuscito a trovare un accordo sulla riforma del sistema monetario internazionale: «un simile accordo - ha detto la Lagarde - non si fa in un'ora o in un giorno». Il ministro francese ha però tenuto a precisare che «c'è la volontà chiara di riunirci intorno a un tavolo per migliorare le deficienze del sistema monetario». Attorno a quel tavolo resta anche la tassa sulle transazioni finanziarie proposta dal presidente francese, Nicolas Sarkozy. I ministri finanziati hanno anche trovato l'intesa sulla necessità di imporre una maggiore trasparenza agli scambi di materie prime sui mercati. Un'intesa importante, come si evice dalle dichiarazioni rilasciate a Sky Tg24 dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, durante una pausa dei lavori del G20: «Preoccupa la speculazione sui mercati finanziari, ma in questo momento soprattutto quella sul mercato delle materie prime che tradotto significa grano, riso, cibo e petrolio». Tremonti ha spiegato che «la discussione sulla speculazione sulle materie prime sta andando avanti. Due anni fa si diceva che non esisteva e che i prezzi erano fissati dal mercato ed erano quelli giusti. Oggi - prosegue - finalmente se ne parla perché la speculazione sulle materie prime può destabilizzare, come é accaduto nei paesi del Nord Africa dove le rivolte sono state innescate proprio dall'aumento dei prezzi del cibo». Con la speculazione, ha sottolineato ancora il ministro dell'Economia, «pochissimi guadagnano moltissimo e moltissimi perdono tantissimo. Quando tutti sostenevano che il mercato faceva i prezzi giusti, noi dicevamo di no e infatti é così. La giustizia - conclude - impone di limitare la speculazione». Nel comunicato finale del G20 si sottolinea come la ripresa economica globale si stia rafforzando, anche se procede ancora in maniera disomogenea.

G20: il debito privato (20 febbraio 2011).
«Parigi val bene una messa». Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, sceglie la storica frase di Enrico IV per spiegare che il compromesso raggiunto ieri, al termine di una faticosa trattativa in sede G-20, è vantaggioso per l'Italia. Tra i parametri che i paesi di vecchia e nuova industrializzazione hanno identificato come necessari per ricondurre sotto controllo gli squilibri globali, accanto a quelli del debito e del deficit pubblico compaiono anche il tasso di risparmio privato e il debito dei privati, secondo la linea di negoziato che l'Italia porta avanti da tempo in sede europea per la riforma del patto di stabilità. «È stato un G-20 di ordinario lavoro - ha esordito il ministro – nelle fasi drammatiche i G-20 sono drammatici, nelle fasi tranquille sono tranquilli. Tuttavia – ha aggiunto – è passata la tesi giusta, che è anche quella italiana». E ha spiegato: «Se vuoi evitare le crisi devi valutare la stabilità del sistema che è fatto da debiti e finanze pubbliche, ma anche del privato. Negli ultimi mesi la tendenza è stata quella di considerare soltanto la finanza pubblica come se tutte le colpe fossero dei governi e tutte le virtù fossero delle banche». Adesso, ha proseguito, la tesi sostenuta dall'Italia in Europa «sta avanzando anche nel G-20. Non è più soltanto una tesi italiana, ma è una tesi del G-20. Non è più solo italiana ma anche di tutti gli altri paesi. E se va bene per il G-20, va bene anche per l'Ecofin». «Già in Europa - ha ricordato ancora il titolare del Tesoro - abbiamo chiesto di considerare il risparmio privato, il debito privato e la bilancia dei pagamenti, tra gli "altri fattori rilevanti". Adesso stiamo avvicinandoci alla decisione finale e la codifica del G-20 ci rende ottimisti». L'altro aspetto sottolineato da Tremonti riguarda le preoccupazioni per le conseguenze potenziali di una eccessiva volatilità dei prezzi delle commodities alimentari e per gli eventuali abusi di mercato connessi alla speculazione, espresse anche nel comunicato G-20. «Nel 2008 a Osaka abbiamo posto la questione della speculazione, non solo a proposito delle commodities ma anche del petrolio: a quell'epoca il Fondo monetario sosteneva che la speculazione non è un problema. Io invece sono convinto del fatto che la speculazione sia stato il trigger, il motore d'innesco delle rivolte nei paesi del Nord Africa. La mia impressione è che, rispetto ad altre riunioni, l'attenzione sia stata alzata e che si cominci a capire che la speculazione può destabilizzare. C'è il rischio di una cascata di effetti di instabilità. «È una cosa per cui – ha osservato il titolare del Tesoro – pochissimi guadagnano moltissimo e moltissimi perdono tantissimo. Ha destabilizzato e sta destabilizzando tutto il Nordafrica, le rivolte del pane sono innescate dalla speculazione, i prezzi del cibo che sono saliti, e finalmente qualcosa stanno cominciando a comprendere. Noi sono tanti anni che continuiamo a dirlo e ci hanno detto che il mercato fa prezzi giusti. Non sono prezzi giusti, la giustizia impone di limitare la speculazione». E a proposito della tensione politica che sale in tutta l'Africa del Nord il ministro ha commentato: «La democrazia non è come McDonald's: non si esporta. La democrazia è una cosa complessa, sofisticata, che si sviluppa negli anni. La democrazia in Europa è un'eccezione, la sua diffusione è stata complessa e, in fondo, recente». Esiste un problema politico di dimensione biblica, ha osservato ancora Tremonti. «Non è esatto parlare di Libia, Algeria ed Egitto, è bene capire cosa può partire da lì e cosa può arrivare qui». «Lampedusa - ha proseguito il ministro - è a 70 chilometri dalla costa tunisina, e Lampedusa è in Italia e in Europa». Il rischio, nel caso di una pressione migratoria troppo forte «è che si arrivi a un'esplosione dell'estrema destra, già presente in molti governi del Nord Europa». Ai giornalisti che chiedevano se si fosse parlato della candidatura Draghi alla presidenza della Bce, Tremonti ha replicato: sulla questione «si è espresso il presidente del Consiglio. Io condivido la sua posizione, ma oggi non se ne è parlato. Oggi non mi sembra modo e momento. Quando arriverà il momento, che non è ancora arrivato, si aprirà una discussione». Parlarne oggi, in pratica «può essere controproducente». Infine, a proposito della tassa sulle transazioni finanziarie riproposta al G-20 dalla Francia con il supporto della Germania: «Noi abbiamo sempre avuto una posizione di attesa e di analisi» spiegando che tutto dipenderà alla fine da chi aderisce a quest'ipotesi e che vanno considerati gli eventuali effetti collaterali e di spostamento dei flussi di capitale in un mercato globale e telematico. Poi ha concluso, con un pizzico d'ironia: «Se la virtuosità spinge tanto la Francia, questo paese può fare da apripista».

Piazza Affari: ritornano i dividendi (21 febbraio 2011).
Sarà un anno un po' più ricco per piccoli risparmiatori e azionisti in Borsa. A Piazza Affari è in arrivo un fiume di 15 miliardi di euro di dividendi: le blue chip di Milano regaleranno quasi due miliardi in più rispetto al magro 2010 che era stato appena di 13 miliardi. Niente a che vedere con i quasi 30 miliardi di tre anni prima, ma quel +10% del "jackpot" dividendi è comunque il segnale di un'inversione di tendenza. Dopo due anni di digiuno e dieta per gli azionisti, la prossima primavera sarà più generosa. Certo, siamo ancora sotto gli anni d'oro pre-crisi e prima della recessione: il monte dividendi delle aziende quotate è la metà del 2008. S'intravede un barlume, è presto, però, per festeggiare l'uscita del tunnel. «Quest'anno i dividendi sono nettamente in rialzo - osserva Giulio Gallazzi, presidente della società di consulenza Npv - ma è un effetto ottico dopo il crollo dell'anno precedente, la verità è che ancora molte aziende preferiscono autofinanziarsi, per non essere strozzate dalle banche, e tengono gli utili nelle casse aziendali». Lo scoppio della più grave tempesta finanziaria ed economica dai tempi del crollo di del 1929 ha costretto le aziende a stringere i cordoni: in molti casi perché semplicemente non c'erano più utili da distribuire. In altri perché l'arrivo di tempi bui consigliava di tenere fieno in cascina per corazzarsi e patrimonializzare l'azienda. L'anno appena chiuso ha visto un generale miglioramento dei bilanci delle imprese, frutto dei drastici tagli dei costi e dei licenziamenti. Il monte dividendi delle blue chip (sostanzialmente il grosso delle cedole di Piazza Affari), come ogni dato aggregato è la somma di numeri anche contrastanti. Il grosso dei dividendi viene dai colossi pubblici: le sole Eni ed Enel, con oltre 6 miliardi da distribuire, valgono quasi la metà di tutti i dividendi che Piazza Affari eroga. L'altro grande protagonista sono le banche e la finanza (Intesa SanPaolo e Assicurazioni Generali in testa) che si avvicinano a quasi due miliardi. Il terzo grande distributore di cedole è Telecom Italia che si mantiene stabile sul miliardo di euro. Ma c'è anche chi si muove controcorrente: Lottomatica, per esempio, si stima possa abbassare la sua cedola (ma rimane sempre tra le più generose di Piazza Affari con un dividend yield di oltre il 6%), così come Parmalat e Prysmian. C'è chi poi, verosimilmente, lascerà all'asciutto i suoi azionisti: è il caso di Fondiaria-Sai, la compagnia assicurativa della famiglia Ligresti; o della neonata Fiat Industrial, sempre in base al consensus di mercato. Se ogni anno a Milano c'è comunque un nocciolo duro di dividendi, il merito è soprattutto dello stato imprenditore che, nonostante le massicce privatizzazioni, rimane ancora il principale stock-holder di Piazza Affari. Eni ed Enel sono le più grandi società per capitalizzazione ed entrambe a controllo pubblico. E visti i cronici deficit e l'immenso debito pubblico da spesare, lo Stato è un azionista "vorace". Di qui la necessità per i big pubblici quotati di staccare ogni anno un assegno corposo al Tesoro. Di sponda ci guadagnano anche milioni di piccoli risparmiatori, accorsi a frotte a comprare azioni Eni, Enel ma anche Snam Rete Gas, Terna e Finmeccanica. Eni, sulla scia di 6 miliardi di utili è subito corso a rimpinguare la cedola, ingrossata di 400 milioni di euro. A ruota le altre quotate della galassia del cane a sei zampe, da Snam a Saipem.

Germania: indice IFO in crescita (21 febbraio 2011).
Indice Ifo record e stime del Pil in rialzo per il 2011. L'indice tedesco Ifo che misura la fiducia delle imprese sulle prospettive economiche ha segnato un nuovo record a febbraio, salendo a quota 111,2 punti dai 110,3 di gennaio. Le attese erano per un rialzo più contenuto, a quota 110,3. L'indice sulle condizioni correnti è salito a 114,7 da 112,8, a sua volta sopra le attese (113), mentre quello sulle aspettative è salito a 107,9 da 107,8 punti del mese precedente e meglio delle previsioni (107,8). Quest'anno il ministero delle Finanze tedesco stima una continuazione della ripresa dell'economia in Germania. Le stime sulla crescita del Pil, come si legge nel rapporto mensile del ministero, sono pari al 2,3% su base depurata quest'anno e all'1,8% nel 2012. «Gli attuali dati congiunturali indicano un inizio favorevole dell'economia tedesca quest'anno» afferma il bollettino, che individua rischi soprattutto nell'economia esterna. «Un continuo sensibile aumento dei prezzi delle materie prime - osserva il rapporto - frenerebbe ad esempio lo sviluppo dell'economia, mentre vi sono possibilità di sviluppo soprattutto a livello dell'economia interna». La domanda interna in Germania fornisce già adesso, oltre all'export, un contributo crescente alla crescita, osserva il bollettino, aggiungendo che «la ripresa ha guadagnato slancio e rende più facile al Governo sostenere la sua politica economica e finanziaria a livello internazionale». A favore della continuazione della ripresa il trend in rialzo degli indicatori industriali, prosegue il rapporto, per il quale le imprese puntano ad aumentare i loro investimenti. «Anche l'edilizia potrebbe trarre vantaggio quest'anno dall'aumento delle capacità», mentre la disoccupazione da inizio anno continua a calare. L'aumento dei prezzi a gennaio, continua il Ministero, è legato soprattutto al rincaro dei prezzi dell'energia e dei prodotti alimentari. Nel rapporto si precisa anche che il 2011 è iniziato positivamente per gli introiti fiscali di Bund e Laender con un gettito fiscale in rialzo del 5,5% il mese scorso verso un anno prima per un totale di 38,01 miliardi di euro.

Italia: sale l'inflazione (23 febbraio 2011).
Accelera a gennaio l'inflazione che, su base tendenziale, registra un aumento del 2,1%, toccando il livello più alto da dicembre 2008. Su base congiunturale l'aumento è dello 0,4 per cento. Lo comunica l'Istat confermando le stime preliminari. A gennaio 2011 l'inflazione è balzata al 2,1% su base annua, dall'1,9% di dicembre 2010. L'Istat spiga che sul rialzo pesano le tensioni sui prezzi dei beni energetici non regolamentati e degli alimentari non lavorati. L'inflazione acquisita per il 2011 è pari all'1,2%, mentre quella di fondo, calcolata al netto dei beni energetici e degli alimentari freschi, è pari all'1,4%. Sul piano tendenziale, la variazione dei prezzi dei beni sale al 2,5% (dal +2,1% di dicembre 2010), invece per i servizi la dinamica annua dei prezzi scende all'1,5% (era +1,6% a dicembre). Più, in particolare, fa sapere l'Istat, i maggiori incrementi congiunturali hanno riguardato i prezzi dei prodotti alimentari e bevande analcoliche (+0,8%) e dell'abitazione, acqua, elettricità e combustibili (+0,7%). In calo risultano i prezzi di ricreazione, spettacoli e cultura (-0,4%). Sul piano tendenziale i maggiori tassi di crescita hanno interessato le divisioni trasporti (+4,3%) e abitazione, acqua, elettricità e combustibili (+4,0%). Quelli più contenuti le divisioni comunicazioni (+0,1%). Analizzando i prodotti per la tavola, il rialzo mensile degli alimentari non lavorati riflette l'aumento dei prezzi dei vegetali freschi (+12,7%), che su base annua segnano un tasso di variazione pari al +12,4%. Passando ai trasporti, si segnalano forti diminuzioni su base mensile dei prezzi dei voli nazionali, europei ed intercontinentali (rispettivamente, -16,3%, -15,6% e -14,4%. Peraltro, la dinamica tendenziale degli indici di prezzo dei trasporti aerei risulta in marcata flessione (rispettivamente -16,2%, -23,0% e -14,7%). Inoltre, fa sapere sempre l'Istat, «si conferma una persistente tendenza all'aumento per i prezzi delle assicurazioni sui mezzi di trasporto», che crescono dello 0,9% sul mese precedente e del 6,1% su gennaio 2010. Guardando all'indice dei prezzi al consumo per capoluogo di regione, Aosta (+4,0%), Bari (+2,7%) e Roma (+2,4%) sono quelli in cui i prezzi hanno registrato gli aumenti più ampi in un anno. Le variazioni più moderate hanno toccato le città di Palermo (+1,2%), Milano e Campobasso (per entrambe +1,6%).

La dipendenza energetica dell'Italia dal Nord Africa (25 febbraio 2011).
Il nord Africa da decenni ha un ruolo fondamentale nell'approvvigionamento energetico dell'Italia. In quell'area Eni è attiva, senza interruzioni, dagli anni '50. Un dato su tutti rende il quadro più chiaro. In Libia, oggi teatro degli scontri tra i sostenitori del colonnello Muammar Gheddafi e gli insorti, e in Egitto, Eni è il primo produttore internazionale di idrocarburi ed è presente, rispettivamente, dal 1959 e dal 1954. Più in generale, la produzione dell'Eni nell'Africa settentrionale nel 2009 è stata pari a 573mila barili di idrocarburi (petrolio e gas) al giorno (a cui si possono aggiungere i 360mila giornalieri barili prodotti in Angola, Congo e Nigeria), a fronte dei 1.769.000 prodotti in tutto il mondo. Nel 2010 la produzione ha raggiunto i 980mila barili in Africa e superato quota 1.800.000 nel mondo. L'ad di Eni Paolo Scaroni ha spiegato che in Libia la produzione, in condizioni normali, è di circa «280mila barili, molti dei quali sono gas, mentre in questo momento se ne stanno producendo circa 120mila. Abbiamo dovuto ridurre le produzioni anche perchè i nostri dipendenti libici erano tornati a casa. Senza di loro è difficile tenere in funzione i campi ed è difficile anche immaginare quando la situazione tornerà alla normalità». E in relazione alle forniture e alla temporanea chiusura del gasdotto libico GreenStream, Scaroni ha detto che non c'è alcun problema «perchè siamo alla fine della stagione, in tutta Europa c'è gas in abbondanza e sono state aumentate le forniture da Nord e da Sud». Attualmente, circa il 13% del gas che viene importato nel nostro paese arriva dalla Libia, mentre il 34% proviene dall'Algeria e il 30% dalla Russia. Inoltre, importiamo gas in percentuali più ridotte dalla Norvegia e dall'Olanda. Inoltre, ben il 23% di tutto il petrolio che si consuma in Italia arriva dalla Libia (dalla Russia, secondo importatore di petrolio nel nostro paese, ne arriva il 16% del totale). «La situazione libica è particolarmente delicata anche perchè gran parte delle risorse naturali si trovano nelle zone limitrofe a Tripoli e a Bengasi, l'una controllata da Gheddafi, l'altra dagli insorti. Pertanto, qualora gli scontri dovessero protrarsi, le due fazioni potrebbero dividersi la gestione delle fonti energetiche, con il rischio di una modifica del flusso delle forniture che abbiamo conosciuto fino ad oggi», spiega Marzio Galeotti, professore di Economia dell'ambiente e dell'energia presso l'Università degli studi di Milano e direttore del centro di ricerca sull'economia e la politica dell'energia e dell'ambiente (IEFE) dell'Università Luigi Bocconi. Va anche detto che per la Libia, come per altri stati africani e mediorientali, «l'esportazione delle risorse naturali è una la fonte di sostentamento primaria, quasi esclusiva», a cui non è possibile rinunciare, pena il collasso del sistema socio-economico, anche in presenza di gravi crisi politiche. Ancora, la partenza di gran parte dei dipendenti delle compagnie petrolifere (Eni ha rimpatriato 100 persone, mentre in Libia ne restano 34), potrebbe determinare una carenza di personale specializzato, sempre in caso di scontri prolungati. Tuttavia, nel breve e nel medio periodo, non dovrebbero esserci problemi, perchè «nel mondo esistono altri fornitori di gas e poichè, per quanto riguarda il petrolio, l'Opec ha dichiarato di avere una capacità produttiva in eccesso pari a 5 milioni di barili al giorno, contro gli 1,6 milioni prodotti dalla Libia», continua Galeotti. «Assai diverso è il ruolo dell'Egitto, da cui ci arriva soltanto una modesta quantità di petrolio. Ma la posizione del paese è strategica a causa della presenza del canale di Suez, da cui passano numerose petroliere provenienti dal Golfo Persico, in particolare dall'Iraq (10% del petrolio importato in Italia), dall'Iran (12%) e dall'Arabia Saudita (5%)». E, poi, l'Egitto ha una grande importanza per le attività internazionali di Eni, che nel 2009 lì ha prodotto circa 230mila barili al giorno. Inoltre, nel 2009 e nel 2010 sono stati siglati importanti accordi tra il gruppo italiano e il ministero del Petrolio egiziano, finalizzati a intensificare i progetti comuni di produzione e trasporto degli idrocarburi. «Va anche valutata l'evoluzione politica dell'Egitto, dove il regime militare succeduto al presidente Mubarak pare garantire una relativa stabilità, qualora dovessero tenersi a breve elezioni. In questo caso, potrebbe crescere la forza dei Fratelli Musulmani, organizzazione islamica fino ad oggi esclusa dalla vita politica ufficiale, con possibili influenze sulle relazioni con Israele e altri stati vicini. Va detto, e questo è un elemento senza dubbio rassicurante, che i Fratelli Musulmani hanno dichiarato che, se si dovesse votare, non presenterebbero un loro candidato alla presidenza», continua Galeotti. In Egitto è attiva anche Enel in virtù di accordi presi con il governo di Mubarak, relativi allo sfruttamento del gas. L'Algeria, invece, è il primo fornitore di gas del nostro paese (34% delle importazioni). Per la nostra economia è decisamente inferiore il peso della Tunisia (Eni nel 2009 vi ha prodotto soltanto 16mila barili al giorno), fatto salvo che sul suo territorio passa il gasdotto che porta il gas algerino in Sicilia. «È verosimile che il nuovo esecutivo possa chiedere di rinegoziare il prezzo, fino ad oggi tenuto assai basso, per il passaggio del gasdotto sul suo suolo, influenzando il costo delle forniture». La parabola dei prezzi degli idrocarburi e la portata delle ripercussioni macroeconomiche, restano difficili da definire. «L'Agenzia internazionale dell'energia dice che con il petrolio sopra i 90 dollari al barile potrebbero esserci rischi di recessione, mentre Deutsche Bank sposta tale soglia a 120 dollari al barile. Davvero, mi sembra impossibile fare previsioni. Quanto all'Italia, le bollette, per il momento, come ha dichiarato l'Authority, dovrebbero restare stabili, mentre la tendenza al rialzo del prezzo della benzina, già in corso ben prima della crisi nordafricana, potrebbe subire ulteriori pressioni speculative». Pensando a prospettive di lungo periodo, la possibilità di reperire altre risorse in grado di rendere l'Italia e gli altri paesi occidentali meno dipendenti dal nord Africa, è in buona parte legata allo sviluppo delle fonti non convenzionali, come lo shale gas o gli scisti bituminosi (o sabbie oleose) che contengono petrolio. «Si tratta, in sostanza, di estrarre idrocarburi dalle pietre». Sono ricchi di questi giacimenti il Canada (petrolio), il Venezuela, il Brasile e gli Stati Uniti (shale gas). «Probabilmente, si tratta di riserve ingenti, ma ancora non quantificabili, la cui estrazione comporta un grande impatto ambientale, poiché è necessario fare scavi enormi, e assai costose da produrre. Si stima che risultino convenienti quando il petrolio tradizionale supera gli 80-90 dollari al barile». L'altro scenario, oggi di grande attualità, è quello delle fonti rinnovabili. «Qui l'Europa è stata da subito all'avanguardia nel mondo. E, se il petrolio dovesse restare a lungo oltre i 100 dollari al barile, anche i produttori di idrocarburi troverebbero sempre più conveniente puntare sull'energia pulita», conclude Galeotti. Va in questa direzione il progetto Desertec, a cui aderisce anche Enel Green Power, che ha l'obiettivo di produrre energia elettrica nei deserti del Sahara e del medioriente, attraverso le tecnologie del solare termodinamico e dell'eolico. At least but not last l'unica reale alternativa ai combustibili fossili è il nucleare.

La politica industriale non si ferma. Parola del governo. (27 febbraio 2011).
Il dibattito sulla politica economica e industriale italiana, nonostante nel paese si sia tornato recentemente a parlare di altro, non si è mai interrotto. Anzi, ha continuato il suo scrupoloso lavoro fatto di continui confronti con il tessuto imprenditoriale e di analisi dello stato dell'arte. Proprio in questi giorni, su Il sole 24 Ore, è stato messo in evidenza (riportando i dati del ministero dello Sviluppo economico) che nell'arco di un triennio la piena attuazione dello Small Business Act varrà un punto percentuale di Pil. Se, dunque, l'attenzione spesso è focalizzata su altri accadimenti, che mi auguro si sgonfieranno presto, la colpa non è solo della politica. È la forma stessa della notizia che, spesso, prescinde dalla sua sostanza. Leggendo l'editoriale di Giorgio Santilli pubblicato su Il Sole 24 Ore di mercoledì 26 gennaio dal titolo "La politica annoiata lascia da sole le imprese" ho sentito il dovere, come sottosegretario allo Sviluppo economico, di lanciare un appello alle imprese affinché non dimentichino quello che è stato fatto e che stiamo continuando a fare per lo sviluppo e il rilancio dell'economia italiana. Proprio in questi giorni stiamo lavorando, in un continuo e costruttivo dibattito con le aziende e con gli organismi territoriali, al decreto legislativo che recepisce le direttive europee in materia di energie rinnovabili. Il nostro obiettivo, con questo decreto, è ovviare all'incertezza normativa esistente per garantire gli investimenti finora intrapresi e ridurre il finanziamento delle rendite. In questo modo puntiamo a creare un vero e proprio sistema di mercato concorrenziale nelle tecnologie rinnovabili, un settore destinato a crescere ed essere sempre più strategico. Abbiamo approvato il decreto per favorire maggiore concorrenzialità nel mercato del gas con l'aumento dell'offerta del servizio di stoccaggio per importarne significativi volumi quando i prezzi sono più bassi e utilizzarli nei rimanenti periodi. In favore delle industrie energivore, vorrei aggiungere i progetti sui nuovi elettrodotti di interconnessione con i paesi esteri, che hanno permesso alle imprese di acquistare energia a costi competitivi, e i progetti di interrompibilità, un servizio per la sicurezza della rete offerto a Terna per il quale le aziende ricevono una adeguata remunerazione. A completamento di questa tipologia di interventi abbiamo di recente emanato il Conto energia e le Linee guida per le energie rinnovabili. Sul versante, poi, del sostegno alle Pmi, il cuore pulsante del tessuto imprenditoriale italiano, uno dei principali strumenti di politica industriale è il Fondo di garanzia, una vera e propria infrastruttura a disposizione del paese che favorisce l'accesso alle risorse finanziarie con la concessione di una garanzia pubblica. Questo strumento è stato ulteriormente potenziato con 785 milioni di euro per contratti di innovazione tecnologica e industriale. Inoltre sul versante occupazionale, abbiamo riconfermato per tutto il 2011 la cassa integrazione in deroga che rimane il principale strumento di risposta alle istanze provenienti da alcuni segmenti del mondo del lavoro per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali universali. La politica economica e industriale del nostro paese è fatta di queste e tante altre scelte messe in campo dal governo e che, messe insieme a sistema, cercano di contribuire a fare in modo che il paese faccia quel salto di qualità, da più parti invocato, e di creare prospettive di ripresa e di miglioramento, nonostante la poco felice congiuntura economica mondiale. * L'autore è il sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico, Stefano Saglia.

Grandi marchi italiani in vendita (27 febbraio 2011).
Diversi fondi di private equity stanno vendendo Grandi marche che hanno in portafoglio. Non tanto per la voglia di disinvestire dopo due anni di crisi economica, quanto per chiudere il ciclo di vita di fondi partiti cinque, a volte anche sette anni fa. È tempo di restituire i capitali agli investitori se si vuole tornare sul mercato a raccogliere nuovi fondi. Succede in Europa e succede anche in Italia, dove i marchi sul mercato sono marchi noti: Coin, Rinascente, Giochi Preziosi, Blu vacanze, Metroweb. La prossima settimana alcuni dei processi di vendita entreranno nel vivo. A cominciare da Coin: proprio domani scade il periodo di esclusiva concesso dall'azionista di maggioranza Pai Partners (con il 69,304%) al private equity Bc Partners per la due diligence e la presentazione di un'offerta vincolante. Il gruppo, rilevato nel maggio 2005 dal fondo francese guidato in Italia da Raffaele Vitale, è cresciuto da 5.600 a oltre 10mila dipendenti in questi anni grazie anche alle acquisizioni di Mela Blu e Upim. Il bilancio dell'esercizio chiuso al 31 gennaio scorso dovrebbe vedere un margine operativo lordo attorno ai 200 milioni a fronte di un fatturato di 1,647 miliardi, secondo le stime presentate dalla stessa società nel novembre scorso in occasione del piano industriale. La cessione, seguita per Pai Partners da Ubs e Madiobanca, potrebbe concludersi entro aprile e a seguire dovrebbe poi essere lanciata l'Opa sul flottante da parte del nuovo azionista di maggioranza. Il gruppo, rafforzatosi negli ultimi anni in Italia sotto la guida dell'a.d Stefano Beraldo, potrebbe, nel nuovo corso, sposare una strategia di espansione internazionale. Sempre la settimana prossima Lazard, advisor per la vendita di Metroweb da parte del fondo di private equity Stirling Square Capital Partners (76,47%), dovrebbe ricevere le manifestazioni d'interesse per la società proprietaria della più grande rete di fibre ottiche di Milano e della Lombardia. Della partita non sarà Telecom Italia, visto che l'amministratore delegato Franco Bernabé ha dichiarato che non c'è interesse per l'acquisizione, mentre altri operatori industriali potrebbero partecipare alla gara, così come alcuni fondi tra cui F2i, Antin Infrastructure Partners, 3i e Kkr. Nell'azionariato della società c'è anche la ex municipalizzata A2A con il 23,5%. In questo caso si è parlato di un valore attorno ai 400 milioni di euro. Stirling Square Capital Partners è in uscita anche dall'azienda torinese Microtecnica, costruttore di componenti di volo critici per il settore aeronautico. Il fondo aveva rilevato la società tre anni fa tramite un buyout e ora ha dato mandato a Ubs per valorizzare l'investimento. Microtecnica genera un margine operativo lordo di circa 35 milioni a fronte di un fatturato di circa 200 milioni. La valutazione del gruppo di Torino potrebbe aggirarsi, secondo le indiscrezioni, sui 350 milioni. Tornando, invece al settore retail, è stato aperto il periodo di data room per Rinascente, seguita da UniCredit e Citi nell'operazione. Contendenti: i thailandesi di Central Retail Corp (Crc) e una cordata organizzata da Maurizio Borletti, presidente e azionista con il 4% e nipote del fondatore della società. La situazione è alquanto complessa perché Borletti, che non è in possesso di alcuna prelazione per l'acquisto, si è dichiarato compratore ad un prezzo superiore a quello offerto dai thailandesi ed è andato anche per vie legali contro gli amministratori di Rinascente, colpevoli, a suo dire, di non aver aperto un'asta competitiva. Ora la corsa a due è aperta e Borletti se vorrà partecipare dovrà concretizzare l'interesse che dice di aver raccolto intorno all'operazione da griffe internazionali come Prada, Armani, Lvmh e Ppr. Rumors dicono che queste ultime potrebbero mettere un chip nell'operazione, ma di certo non sostenere in toto l'acquisizione che viene valutata dai thailandesi 200 milioni di euro circa. Crc, per altro, offrirebbe al marchio italiano la possibilità di un'espansione all'estero partendo dall'Asia. Gli altri azionisti, Investitori Associati (46%), Rreef del gruppo Deutsche Bank (30%) e Prelios (20%), non hanno preclusioni purché le offerte siano supportate dalla disponibilità di liquidità. Investitori Associati ha messo sul mercato anche Bluvacanze, acquisita nel luglio 2005 affiancando i tre manager fondatori Vittorio Manzini, Alberto Dal Zilio e Mario Manzini. Il percorso in questo caso è più complesso perché la società è in un periodo di sofferenza. Da poco più di un mese è stato avviato il processo di vendita e al momento è in corso la data room con alcuni operatori del settore turismo. Per la cessione sarà, però, necessario anche il via libera di UniCredit, banca creditrice della società. Hanno, invece, rinunciato alla quotazione alla fine del 2010 per optare per la cessione gli azionisti di Giochi Preziosi: Clessidra (38%), Intesa Sanpaolo (14,25%) e Idea Capital (5%). Nell'azionariato è presente anche il fondatore Enrico Preziosi (42,1%), che probabilmente reinvestirebbe nella società accanto al nuovo compratore se si trattasse di un fondo. La procedura di vendita è nelle mani di Bofa Merrill Lynch. Chi ha deciso di andare in Borsa è il Gruppo Rhiag, controllato dal fondo Alpha. In settimana potrebbe già arrivare l'annuncio del prossimo filing per la società, che secondo le stime dovrebbe chiudere il 2010 con 620 milioni di fatturato e oltre 70 di Ebitda. Sempre nel portafoglio del fondo francese, guidato in Italia da Edoardo Lanzavecchia, potrebbe essere arrivato il momento della cessione per Permasteelisa, che conta nel proprio azionariato oltre ad Alpha (43%) anche InvestIndustrial (48%). La società veneta stima per il 2010 circa un miliardo di ricavi e 80 milioni di margine operativo lordo. Sul mercato anche società di dimensioni minori, ma comunque indice di un'industria che sta riprendendo vigore dopo due anni di immobilità.

Putin contro le regole europee sul gas (27 febbraio 2011).
Sono state vere scintille, ieri a Bruxelles al vertice tra Ue e Russia, sul terzo pacchetto europeo di liberalizzazione del l'energia, quello che prevede l'unbundling per tutti, cioè la separazione tra produzione da una parte, trasporto e distribuzione dall'altra. In breve, il divieto per Mosca di possedere gasdotti nell'Unione. «Queste regole Ue equivalgono a una confisca di proprietà e per di più sono destinate a far aumentare i prezzi perché se i gasdotti saranno utilizzati anche da piccole società queste vorranno aumentare i prezzi per fare più profitti" ha dichiarato il premier russo Vladimir Putin. José Barroso, il presidente della Commissione, non è stato a sentire ma è immediatamente intervenuto in difesa della nuova normativa europea. «Noi siamo favorevoli al divorzio tra produzione e distribuzione. Per farlo ci sono diverse opzioni, spetterà a ciascun paese della Ue scegliere quella che preferisce. Comunque si tratta di una legislazione che non è in nulla discriminatoria versi i paesi terzi: vale per la Russia come per la Norvegia, è compatibile con le regole della Wto e anche con i nostri accordi con Mosca». Comunque, ha aggiunto, ci sono clausole e strumenti per andare incontro alle preoccupazioni russe. Uno scambio di battute acceso, che riflette le profonde divergenze che, nonostante i tentativi di appianarle, continuano a informare il dialogo Mosca-Bruxelles. Che ieri ha visto il fattore petrolio alla ribalta e uno dei rari momenti di sintonia tra i due interlocutori. «No all'aumento brutale dei prezzi del greggio»: su questo punto Putin è stato netto nella conferenza stampa congiunta tenuta al termine del vertice. «L'economia è finalmente in ripresa ma gli eventi nordafricani hanno già portato il petrolio a 118 dollari a barile, un livello che minaccia la crescita economica nel mondo, con gli esperti che prevedono possa arrivare addirittura a 200 dollari» ha continuato il primo ministro russo. Spiegando che il suo Governo intende diversificare lo sviluppo del paese: «Per questo non siamo interessati ad avere alti prezzi energetici». Tanto più che Mosca, ha ricordato, non vende solo greggio e gas ma anche i derivati prodotti dall'industria chimica e petrolchimica (che dipendono per il 60% dall'export). Libia e Nordafrica in rivolta rappresentano dunque per la Russia come per l'Unione non solo una preoccupazione politico-umanitaria ma anche la possibile anticamera dell'instabilità economica globale. Di qui il comune invito a fermare la violenza e la disponibilità a offrire tutta l'assistenza necessaria. Anche perché Putin non ha fatto mistero del timore di un contagio di instabilità e magari di estremismo islamico nel Caucaso del Nord. La sintonia tra il premier russo e Barroso ieri si è fermata qui. Il primo non ha nemmeno mancato di punzecchiare l'Europa sulle sue esitazioni a costruire i gasdotti Nord Stream e South Stream destinati a portarle il metano russo: «Oggi diventano sempre più importanti e se fossero già in funzione l'Unione non sarebbe a rischio» di fronte alle incognite in Libia. Dove tra l'altro ha precisato che i programma di cooperazione tra Gazprom ed Eni nel paese sono per il momento congelati. «Siamo pronti a investire ma non è il buon momento».

Corte dei Conti e Uil. Tagliare i costi della politica (28 febbraio 2011).
“Se ci fosse ancora qualcuno che avesse dei dubbi sui reali obiettivi della campagna “meno costi della politica=meno tasse” promossa dalla UIL farebbe bene a leggersi le relazioni diffuse ieri in occasione dell’apertura del nuovo anno di attività della sezione regionale della Corte dei Conti. Una bella sforbiciata ai costi della politica, accompagnata da una riorganizzazione di uffici e centri decisionali di spesa, sono l’antidoto più efficace contro i casi di sprechi pubblici”. A sostenerlo è il segretario generale regionale della UIL lucana Carmine Vaccaro per il quale “non possono che preoccupare il sindacato le vicende di sperpero o comunque di uso distorto delle risorse finanziarie pubbliche specie, come è stato denunciato dai magistrati della Corte dei Conti, se gli investimenti finalizzati all’occupazione non producono nemmeno un posto di lavoro. Come non può che allarmarci l’andamento della spesa complessiva della Regione per investimenti, pari appena al 26,4%, tra l’altro in calo rispetto alle annualità precedenti, con un rapporto insoddisfacente tra impegni e stanziamenti previsti”. Nel sottolineare che secondo i dati dello studio della UIL nazionale, i costi della politica diretti e indiretti ammontano a 24,7 miliardi di euro (solo le auto blu e quelle grigie, secondo una stima molto prudente, costano 4,4 miliardi l'anno), pari al 2% del Pil e al 12,6% del gettito Irpef, Vaccaro sottolinea che “con una riforma delle istituzioni e tagli agli sprechi possono essere ridotti di 10,1 miliardi, cifra che equivarrebbe all'azzeramento delle addizionali regionali e comunali Irpef o a far ottenere a lavoratori dipendenti e pensionati una permanente detassazione della tredicesima con un vantaggio economico pari a circa 400 euro in busta paga. "In Italia – aggiunge - spendiamo il 30% in piu' per il funzionamento della politica, con una dinamica di crescita doppia rispetto agli altri Paesi dell'area euro. La strada che abbiamo indicato non sara' facile, ci saranno ostacoli da parte del sistema politico che in Italia e' pesante ma siamo convinti che questa e' una cosa da fare, un obiettivo da raggiungere, non una battaglia". Secondo il leader della Uil, "una presa di coscienza andrebbe a beneficio del Paese, consentirebbe ai nostri uomini politici di avere un atteggiamento piu' morigerato, restituirebbe un po' piu' di credibilita' alla politica italiana, prevenendo i casi di sprechi denunciati ogni anno dalla Corte dei Conti in tutt’Italia". “Abbiamo scritto ai due Sindaci di Potenza e Matera – spiega il segretario generale della UIL – per chiedere di evitare aumenti della pressione fiscale per i cittadini e di privilegiare, invece, provvedimenti volti alla riduzione dei costi della politica, ad iniziare da quelli per il funzionamento di Giunte e Consigli. Ai Comuni basterebbe infatti diminuire del 20% le uscite per le spese istituzionali per recuperare notevoli risorse, evitando così possibili maggiorazioni dell’Irpef locale. Sono queste le scelte che avvicinano i cittadini alla politica e all’amministrazione del “bene comune”. Di questo la politica dovrebbe occuparsi quando pone il tema del contenimento della spesa pubblica. E’ un’operazione che “si può” e “si deve” fare perché ridurre i costi della politica non sia un semplice slogan.

Cresce il pessimismo degli italiani (28 febraio2011).
Che la crisi sia superata lo pensa solo il 7% degli italiani. Per tutti gli altri, il 93%, invece siamo ancora «in terra incognita», per usare un'espressione coniata dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Lo rileva la periodica Indagine Confesercenti-Ispo, che sottolinea come rispetto a febbraio 2010 sia aumentata dell'11% la quota di italiani che pensa che il peggio sia ancora ben presente. A preoccupare è soprattutto la situazione economica (che da febbraio 2010 a febbraio 2011 passa dal 90% al 96%), con il picco nelle regioni del Nord-Ovest (97%, era l'86% un anno fa). E le prospettive non sono rosee: fra un anno per il 53% degli intervistati la situazione sarà ancora negativa (e in peggioramento per il 25% di essi). Mentre il 43% vede un futuro positivo: di essi un 38% scommette sulla ripresa. «Quello che manca - ha commentato il presidente di Confesercenti, Marco Venturi - è un progetto, non vediamo un piano che si ponga il problema di portare avanti l'Italia». E il federalismo fiscale? «Finora abbiamo sentito soltanto chiacchiere, manca la volontà di agire», ha concluso Venturi. Italiani sempre più insoddisfatti di istituzioni e forze politiche: da settembre 2010 a febbraio 2011 il miglior risultato in termini di considerazione positiva lo ottengono le associazioni delle Pmi (dal 20% al 24 per cento). Bene anche i sindacati (dal 15% al 20 per cento). Cala il governo di otto punti dal 23% al 15%, mentre resta stabile l'opposizione ma all'11 per cento. Sempre fanalino di coda le banche al 9% come a settembre scorso. Spicca come negli ultimi 12 mesi il governo abbia perso 13 punti (dal 28% di febbraio 2010 al 15% di febbraio 2011 ), e l'opposizione 10 punti. Dal sondaggio Confesercenti-Ispo emerge ancora la crisi del mercato del lavoro. Il 95% del campione continua a dichiararsi allarmato (un anno fa era il 92%) e di essi lo sono «molto» coloro che non hanno lavoro o subiscono la cassa integrazione. Anzi con il 100% i disoccupati esprimono tutta la loro mancanza di speranza che impedisce di intravedere la fine del tunnel. Nella classifica dei preoccupati seguono con il 97% impiegati e insegnanti e con il 94% i lavoratori dipendenti con qualifiche meno elevate. Un altro tema dolente della crisi è l'accesso ai prestiti, mitigato in parte dalle intese sulla moratoria dei debiti delle imprese, prolungata proprio nei giorni scorsi. Le difficoltà di ottenere prestiti però ci sono: la pensa così il 52% degli italiani (un punto sopra il dato di un anno fa, ma era il 60% a settembre 2010). Resta elevata la preoccupazione per il proprio posto di lavoro, è al 56%, anche se i «molto preoccupati» calano di 6 punti dal 31% di settembre 2010 al 25% di febbraio 2011. Per aree geografiche l'unico caso di preoccupazione in aumento per il proprio posto di lavoro si registra nel Nord-Ovest dal 25 al 27 per cento: «È anche la conseguenza delle vicende della Fiat?», si chiede Confesercenti. Nessun dubbio anche sul fatto che la crisi sia particolarmente pesante per le pmi: la pensa in questo modo l'86% degli italiani, vale a dire il livello più alto da febbraio 2010 (81 per cento). L'indagine segnala però anche spostamenti di giudizio verso orizzonti meno negativi: Il problema grave della perdita del lavoro personale o in famiglia si attesta al 15% con un calo dell'1% sulla precedente rilevazione. Meglio ancora la situazione della cassa integrazione che segna un 9%, inferiore di due punti rispetto a settembre 2010. Il federalismo fiscale è l'unica salvezza per il Paese, ma ...... leggere il prossimo articolo.

Le difficoltà del federalismo (28 febbraio 2011).
Finora il nucleo dell’opposizione al federalismo è sempre stato di matrice sudista-solidarista. I nemici del federalismo, più che combatterlo, hanno cercato di frenarlo, mitigarlo o temperarlo (le iniziative politiche dei vari Casini, Follini, Fini, Lombardo non hanno altro obiettivo che questo). Grandi giornalisti della grande stampa da anni ripetono il trito e falso ritornello "Il federalismo aggraverà il divario tra Nord e Sud". Il Pd, che nella sua classe dirigente è convinto della necessita del federalismo si oppone perchè vorrebbe essere lui a realizzarlo e non lasciarlo alla Lega o, quantomeno, realizzarlo in collaborazione con la Lega. Il timore è sempre stato che il federalismo possa funzionare, con la conseguenza di spostare risorse dai territori attualmente privilegiati (Mezzogiorno e regioni a Statuto speciale del Nord) verso le grandi regioni del Nord, gravemente penalizzate dagli sprechi e dall’evasione fiscale di quasi tutte le altre. Cosa cambia adesso nell'avversione al federalismo? Secondo Luca Ricolfi " Da alcune settimane, accanto a questa opposizione classica al federalismo fiscale se ne sta costituendo una nuova, di segno del tutto opposto. Gli alfieri di questa nuova opposizione non sono i nemici storici del federalismo, ma alcuni fra i suoi più convinti sostenitori. Persone che da anni si occupano del problema, che hanno sempre difeso le buone ragioni del progetto federalista, ma ora vedono con raccapriccio che quello che si sta consumando a Roma, fra infinite riunioni, tavoli tecnici, negoziati non è l’ultimo passaggio di un lungo cammino, ma è una mesta, lenta e non detta agonia del sogno federalista. I dubbi degli studiosi sulla legge 42 e sui decreti delegati non sono una novità, e sono stati espressi più volte in questi anni nelle sedi più diverse. A tali dubbi, nelle ultime settimane, se ne sono aggiunti molti altri, e due in particolare hanno allarmato un po’ tutti: il timore che l’esigenza, tutta politica, di ottenere l’approvazione dell’Anci (l’associazione dei Comuni) porti a un ulteriore aumento della pressione fiscale; l’obbrobrio anti-federalista per cui i comuni si finanzieranno con tasse pagate dai non residenti (imposta di soggiorno e Imu sulle seconde case), con tanti saluti al principio del controllo dei cittadini sui loro amministratori. Un frutto avvelenato dell’abolizione dell’Ici sulla prima casa, provvedimento demagogico voluto dal governo Prodi e completato dal governo Berlusconi. Federalismo alla Calderoli? Preoccupati che la riforma non passi, ma anche preoccupati che non funzioni, o che dia frutti perversi. Perché la novità è questa: oggi chi è veramente federalista non può non chiedersi se sia meglio che il federalismo di cui si sta discutendo oggi passi, o sia meglio che tutto venga affossato per l’ennesima volta. Io, che ho sempre difeso il federalismo, il dubbio ce l’ho. E vi posso dire che altri federalisti convinti, almeno in privato, confessano di augurarsi che tutto si blocchi, tali e tante sono le concessioni che gli artefici del federalismo sono stati costretti a fare alla rivolta degli interessi costituiti e alla miopia del ceto politico locale. È una conclusione amarissima. Perché non è dettata da alcuna convinzione specifica pro o contro l’idea federalista, ma solo dalla constatazione che la classe politica non è capace di discutere una riforma così cruciale per il futuro di tutti noi sollevandosi, almeno un pochino, al di sopra dei propri meschini interessi di bottega. Pensando per un attimo solo al bene dell’Italia". Se veramente l'Italia non sarà in grado di attuare una vera e seria riforma federalista finirà con il mangiarsi la gallina dalle uova d'oro e, allora sarà veramente la fine di ogni illusione.

Italia: sale l'inflazione, deficit sotto controllo. Andamento del Pil e commenti (1 marzo 2011).
Sale, come da attese, l'inflazione in Italia. A febbraio, secondo i calcoli provvisori dell'Istat, l'indice dei prezzi al consumo si è attestato al 2,4 per cento, con una crescita dello 0,3% rispetto a gennaio. È il valore più alto dal novembre 2008, quando era stato toccato un livello più alto (2,7%). Sul dato hanno pesato gli aumenti dei beni alimentari e dei carburanti. La crescita è più alta di quanto si attendevano diversi operatori. «I prezzi al consumo calcolati sulla misura nazionale sono visti in crescita dello 0,2% mese su mese», scriveva Intesa Sanpaolo che aggiungeva: «L'inflazione annua, invece, è vista in accelerazione al 2,2% da 2,1 per cento». In particolare, il balzo all'insù è stato provocato dai prezzi degli energetici non regolamentati, saliti dell'1,2% su mese e del 14,6% su anno. Sui dodici mesi, la benzina cresce dell'11,8% e il gasolio del 18 per cento. Rispetto al primo mese del 2011, invece, il prezzo della benzina sale dello 0,8% e il gasolio dell'1,1 per cento. Lo scenario italiano si replica in Europa. A dar retta alle previsioni di Eurostat, lo scorso febbraio l'indice dei prezzi al consumo di Eurolandia è salito a quota 2,4% contro il 2,3% di gennaio. Le stime sull'anno, quasi giocoforza, sono state riviste al rialzo. In media, nel 2011, il caro-vita si attesterà al 2,2 per cento. Si tratta di un valore che è al di sopra dei target della Bce, che vuole l'nflazione inferiore ma prossima al 2 per cento nel medio periodo. Il che ripropone il tema, da parte di Eurotower, del rialzo dei tassi. Si sa infatti, che la Banca centrale europea, chiaramente influenzata dalla cultura teutonica per la disciplina e il rigore di bilancio, è molto più sensibile al costo della vita di quanto non lo sia la Fed statunitense. Nel 2008, Jean Claude Trichet, sbagliando clamorosamente il timing nella gestione dei tassi, decise per un rialzo del costo del denaro. Una mossa che, visto il credit crunch diffuso dagli Stati Uniti, fu costretto a abiurare di lì a poco. Dall'inflazione alla, seppure non così forte, crescita il passo è breve. Su questo fronte, la Commissione europea ha rivisto in lieve rialzo le previsioni di crescita economica nell'area euro. Nel 2011 il Pil di Eurolandia dovrebbe salire dell'1,6 per cento. In precedenza, cioè il novembre scorso, la Commissione indicava il Prodotto interno lordo del 2011 (targato Ue) in crescita dell' 1,5 per cento. Un miglioramento delle prospettive, indica Bruxelless, che trova riscontri in un quadro globale rafforzato e nel recupero di fiducia tra le imprese. Anche se «l'incertezza resta elevata e gli sviluppi tra paesi diseguali». Già gli sviluppi diseguali: tra questi purtroppo c'è l'Italia. Per la Commissione Ue il nostro Pil potrebbe salire dell'1,1 per cento. Per Bruxelles, «una ripresa moderata che continua a essere trainata dall'esportazione». Rispetto a Germania, Francia, Olanda e Spagna, siamo il solo paese in cui la crescita non migliora rispetto alle stime di novembre. Guardando, invece, al passato secondo l'Istat il 2010 italiano si chiude con una crescita della ricchezza interna lorda dell'1,3 per cento. Il dato è migliore di quanto previsto dal governo che nella decisione di finanza pubblica aveva indicato una salita dell'1,2 per cento. «Con la bussola giusta, con i piedi per terra un passo dopo l'altro, gli italiani e l'Italia stanno andando nella giusta direzione», ha commentato il ministro del Tesoro Giulio Tremonti. Ma non è solo Pil. L'istituto di statistica nazionale ha anche pubblicato i numeri sul deficit e sul debito pubblico. Sul fronte del rapporto deficit/pil, nel 2010, il numero è stato pari al 4,6 per cento, valore inferiore a quello (5,4%) registrato nell'anno precedente. In crescita, al contrario, il rapporto Debito-Pil. Secondo l'Istat, si è attestato al 119% del Prodotto interno lordo. Si tratta di circa tre punti in più rispetto all'ultima stima che dava il rapporto nel 2009 al 116,1 per cento. I due numeri hanno, ovviamente, una lettura differente rispetto al consensus di mercato: sul disavanzo, «le nostre stime indicavano il 5% del Pil», scrive Intesa Sanpaolo. Quindi la realtà sembra meglio delle previsioni. Discorso opposto, invece, per il debito «che era visto al 118,6% del Pil». Qui gli economisti di Intesa erano troppo ottimisti.
L’Istat ha comunicato, quindi, i dati ufficiali sul Pil del 2010 e un preconsuntivo dei dati di finanza pubblica. In attesa del conto consolidato della P.A. per il IV trimestre 2010 e per l’intero anno, che sarà pubblicato lunedì 4 aprile, è tuttavia utile commentare due dati del 2010 i quali appaiono positivi a un primo esame e assai meno ad una più attenta amnalisi. Uno di essi è la crescita del Pil reale: se è vero che il +1,3% dell’Italia è comunque distante dall’1,7% dell’euroarea, dall’1,8% dell’UE27 e dal 2,8% degli USA, esso è pur sempre maggiore di qualche decimo di punto di quanto ci aspettavamo sino a pochi mesi fa. La seconda notizia positiva è la riduzione della pressione fiscale: secondo l’Istat si sarebbe infatti attestata nel 2010 al 42,6%, mezzo punto al di sotto dell’anno prima. Sin qui le buone notizie ma se leggiamo con attenzione il comunicato scopriamo subito che l’Istat ha rivisto al ribasso il Pil del 2009: non sarebbe stato pari a 1520,9 mld., come abbiamo sempre creduto, ma a 1519,7, quindi 1,2 mld. in meno. Questo implica che la caduta del Pil reale, avvenuta nel 2009, è stata del 5,2% e non del 5,0%, come ci era stato detto un anno fa. Alla fine della fiera la maggior crescita nel 2010 rispetto alle previsioni è esattamente controbilanciata dal maggior calo dell’anno prima e il Pil nominale 2010, pari a 1548,8 mld., è ancora 19 mld. al di sotto del Pil nominale 2008 che fu du 1567,8 mld. Quanto alla pressione fiscale dobbiamo rallegrarci della riduzione 2010, conseguenza del venir meno dell’effetto al rialzo una tantum prodotto dallo scudo fiscale nel 2009, oppure rattristarci degli elevati livelli ai quali continua a collocarsi? Lo scorso dicembre l’Ocse ha idealmente assegnato al ministro Tremonti la medaglia di bronzo della più alta pressione fiscale tra i paesi industrializzati (e quindi del pianeta intero): solo Danimarca e Svezia nel 2009 hanno fatto meglio dell’Italia (peggio, ovviamente, secondo il nostro punto di vista), rispettivamente con il 48,2 e 46,4% del Pil. Si tratta di un risultato notevole per il nostro paese, conseguito in poco tempo, se si considera che solo nel 2005, quattro anni prima, i paesi Ocse con pressione fiscale superiore all’Italia erano addirittura sette: oltre a Danimarca e Svezia anche Belgio, Finlandia, Austria, Francia e Norvegia. Da allora tuttavia la pressione fiscale si è ridotta in ognuno di essi, compresi Danimarca e Svezia, mentre solo in Italia è cresciuta. Sin qui i dati ufficiali, tuttavia non dobbiamo scordarci che la pressione fiscale viene misurata mettendo a rapporto il gettito fiscale effettivo col Pil nominale, il quale rappresenta l’insieme degli imponibili delle differenti imposte. Ed è qui che casca il nostro asinello: il Pil nominale è lo somma di due componenti, il Pil emerso e il Pil sommerso, quest’ultimo derivante da attività economiche lecite ma che sfuggono all’ufficialità presumibilmente per non non dover pagare le tasse e non per la timidezza di carattere di chi le realizza. La pressione fiscale effettiva è dunque, correttamente, il rapporto tra gettito fiscale e Pil emerso: per il 2005 è il rapporto tra il 40,8%, pressione fiscale ufficiale secondo l’Ocse, e l’82,5%, corrispondente alla quota di Pil emerso in quell’anno secondo le stime dell’Istat. Il risultato è una pressione fiscale effettiva al 49,6% nel 2005 che già poneva l’Italia al secondo posto al mondo dopo il 50,4 della Danimarca e prima del 48,9 della Svezia. Per il 2009 non vi sono stime ufficiali sul peso del sommerso ma nello scorso autunno il Centro Studi Confindustria ha stimato che sia pervenuto al 20% del Pil totale, quota che porterebbe la pressione fiscale effettiva, calcolata secondo il metodo precedente, al 54%, sei punti sopra la Danimarca e sette sopra la Svezia!

Fiat: produzione in calo (1 marzo 2011).
Nel 2011 il mercato italiano dell'auto «andrà peggio rispetto alla nostra previsione di un calo del 5%», mentre per l'Europa dovrebbe essere confermata la flessione stimata intorno al 3%. Lo ha affermato l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. I dati relativi a febbraio «sono totalmente in linea - ha detto Marchionne - con quello che mi aspettavo. A marzo il confronto sarà con un periodo in cui c'era ancora la scia degli incentivi. Da aprile invece ci confronteremo con un mercato normale». A febbraio in Italia sono state vendute 158 mila unità (in calo del 21% rispetto alle 201.631 dello stesso mese 2010) e la quota di Fiat è del 29% (mentre era del 31% un anno fa). I numeri sono stati indicati da Andrea Formica, responsabile delle vendite di Fiat Group Automobiles, parlando con i giornalisti a margine del Salone dell'Auto di Ginevra. Formica ha ricordato che entro il 2013 arriveranno sette nuovi prodotti del marchio Fiat e che la nuova Panda sarà presentata al Salone di Francoforte e sarà in vendita da gennaio. «Da aprile in poi - ha sottolineato - l'andamento del mercato sarà più trasparente perchè il confronto sarà con un mese senza incentivi, anche se potrebbe esserci un impatto negativo a causa del rincaro del prezzo del petrolio». Nonostante questi dati negativi, in Borsa Fiat sale. L'interesse, speculativo, è per le indiscrezioni riportate ieri dal quotidiano russo Vedomosti, secondo il quale il gruppo torinese sarebbe in trattativa per un'alleanza con la casa automobilistica russa Tagaz. Su questo punto, il ceo Sergio Marchionne ha puntualizzato: «In Russia ci sono trattative con vari partner, ma non abbiamo ancora deciso niente». Per quanto riguarda invece Fiat Industrial, la società ha comunicato ieri di aver dato mandato a una serie di banche di organizzare degli incontri con investitori a partire dall'1 marzo 2011, con lo scopo di esplorare possibili opportunità sul mercato obbligazionario. Peraltro, per Marchionne, «Il calo del rating di Fiat da parte dell'Agenzia Standard and Poor's non andrà a impattare sulla capacità finanziaria del gruppo».

Approvato il decreto sul federalismo municipale (3 marzo 2011)
Condurre in porto il testo che, dal 2011, istituisce la cedolare secca sugli affitti e sblocca l'addizionale comunale all'Irpef mentre, dal 2014, introduce l'imposta municipale sugli immobili (Imu) al posto dell'Ici è stato tutt'altro che semplice. Sin dall'inizio, visto che il governo ha dovuto utilizzare non solo la proroga di 20 giorni per il via libera in bicamerale ma anche passare per i tempi supplementari dinanzi alle Camere dopo il 15 a 15 registratosi in commissione il 3 febbraio scorso, e fino alla fine. Come testimoniato dalle ore convulse che hanno preceduto l'ok dell'emiciclo. Per portare a casa quello che il leader leghista Umberto Bossi ha definito «un giro di mattoni in più» in attesa di arrivare «al tetto», il Carroccio si è detto pronto a concedere anche una proroga di quattro mesi sulla scadenza dell'intera delega. Che passerebbe così dal 21 maggio al 21 settembre. Ad annunciarlo è stato Roberto Calderoli, al termine di un incontro con i «Popolari d'Italia domani» dell'ex-udc Saverio Romano. Ottenuta «l'approvazione definitiva del fisco regionale e provinciale» e fermo restando l'iter degli altri tre dlgs già in rampa di lancio, ha spiegato il ministro della Semplificazione, verrà proposta al Cdm «un'iniziativa legislativa» per l'ampliamento dei termini. Con il voto blindato di ieri la cedolare secca è diventata una realtà, dopo anni di polemiche a colpi di calcoli sulla copertura. Oggi, nel gioco sospeso del federalismo, trova spazio anche la riforma del fisco sugli affitti, che fa crescere i benefici insieme al reddito del proprietario. Dal 1° gennaio, quindi, i canoni incassati dai proprietari privati per locazioni abitative saranno soggette a due aliquote fisse: il 21% per i canoni a mercato libero, che interessano circa l'80% delle case in affitto (escluse le case popolari), e il 19% per quelli a canone concordato, che si concentrano nelle città più grandi e nel loro hinterland. Nessuna novità, invece, per gli alloggi dati in affitto da imprese, che continueranno a pagare l'Ires come accade oggi. La cedolare, che è un'imposta nuova di zecca, sostituisce Irpef, registro e bollo: la scelta è affidata al proprietario: in base al calcolo della convenienza, potrà anche optare per restare nel regime attualmente in vigore. Il calcolo non è difficile, però entrano in scena alcune variabili e, soprattutto, chi sceglie la cedolare non potrà applicare gli adeguamenti annuali indicati dall'Istat per i canoni. La riforma della tassazione introduce anche la stretta sui proprietari «infedeli»; chi non registra il contratto entro 30 giorni dalla stipula, oltre alle sanzioni si vedrà imporre un canone low cost, pari al triplo della rendita catastale, per quattro anni: nelle grandi città, si tratta di uno sconto che può sfiorare il 70 per cento.

Cade un altro marchio famoso (7 marzo 2011).
Un simbolo del lusso italiano cambia bandiera: il marchio Bulgari passa infatti nelle mani del colosso francese della moda Lvmh. Un comunicato della società transalpina riferisce infatti che Lvmh ha acquisito la partecipazione della famiglia Bulgari pari al 50,45 per cento. L'accordo prevede uno scambio azionario in base alla quale la famiglia Bulgari entrerà nel capitale di Lvmh. Inoltre, quest'ultima sarà tenuta a lanciare un'Opa obbligatoria sulle restanti azioni di Bulgari cui farà seguito la revoca della quotazione di Bulgari. L'alleanza, si legge in un comunicato della maison italiana creata da Sotirio Bulgari nel 1884, ha l'obiettivo «di rinforzare, nel rispetto della sua storia, dei suoi valori, della sua artigianalità e della sua identità, lo sviluppo a lungo termine del Gruppo Bulgari. L'accordo è stato approvato all'unanimità da parte del consiglio di amministrazione del Gruppo Lvmh. Anche il consiglio di amministrazione di Bulgari ha approvato all`unanimità il progetto di conferimento a Lvmh della partecipazione di controllo della famiglia nel capitale sociale di Bulgari». Al termine del processo di conferimento delle azioni, Lvmh emetterà 16,5 milioni di azioni in concambio dei 152,5 milioni di azioni Bulgari attualmente detenute dalla Famiglia Bulgari, che diventerà così il secondo maggior azionista familiare del Gruppo Lvmh. In osservanza degli obblighi di legge previsti dalla Borsa italiana, prosegue la nota, Lvmh promuoverà un'Offerta Pubblica di Acquisto al prezzo di 12,25 euro per azione sulle azioni detenute dagli azionisti di minoranza. Un premio consistente se si pensa che alla chiusura degli scambi di venerdì 4 marzo l'azienda italiana quotava 7,58 euro. Paolo e Nicola Bulgari resteranno, rispettivamente, presidente e vice presidente del consiglio di amministrazione di Bulgari. La Famiglia Bulgari, inoltre, potrà nominare due membri nel consiglio di amministrazione di Lvmh e Francesco Trapani, amministratore delegato di Bulgari, entrerà nel comitato esecutivo di Lvmh, assumendo, nel secondo semestre 2011, anche la direzione di tutte le attività «Orologeria - Gioielleria» di Lvmh. Philippe Pascal, attuale responsabile di tali attività, resterà nel comitato esecutivo di Lvmh e gli saranno affidate nuove responsabilità in seno al Gruppo.
Dopo Gucci (fiore all'occhiello della Ppr della famiglia Pinault), Fendi e Pucci (tutti in Lvmh), Valentino (controllato dal private equity Permira) e molti altri, l'ennesimo pezzo di storia imprenditoriale italiana passa sotto la bandiera francese. La Lvmh, secondo gli analisti finanziari, continuava a essere troppo debole nel segmento watches and jewelry con 985 milioni di ricavi nel 2010, pur in aumento del 21% a cambi comparabili. Una dimensione di nicchia nel settore orologi, dominato dal leader mondiale Swatch Group della famiglia Hayek (6,44 miliardi di franchi nel 2010) e con la Richemont di Johan Rupert (3,259 miliardi di euro nel semestre al 30 settembre scorso), che controlla fra l'altro il marchio Cartier. Senza dimenticare la Rolex, l'azienda indipendente con il più alto fatturato per singolo marchio (3,7 milioni di franchi svizzeri nel 2009, ultimo dato disponibile). Bulgari, dal canto suo, ha registrato «un primo bimestre 2011 sprint», come dichiarato da Trapani a Luxury24.it, dopo il record di fatturato del quarto trimestre 2010 e un intero 2010 a 1,069 miliardi, in crescita dell'8,3% a cambi comparabili, con il ritorno all'utile, dopo il difficilissimo 2009. Con l'incorporazione di Geral Genta e Daniel Roth, inoltre, l'impresa Bulgari ha assunto lo status di manifattura nel segmento top price. Proprio quello che serve per andare a caccia dei ricchi consumatori dei mercati emergenti, Cina in primis.

Allarme inflazione (7 marzo 2011).
La ripresa del carovita un effetto lo produrrà di sicuro, e per legge: l'adeguamento automatico dei prezzi di una serie di beni e servizi che sono agganciati all'inflazione o quantomeno al tasso di inflazione programmata (pari all'1,5% per il 2011). Quindi, se dal benzinaio o al supermercato i prezzi sono già lievitati, in altri ambiti (casa, auto e assegni di lavoro o previdenziali) l'arrivo della nuova pressione è all'orizzonte. Val la pena tenerne conto per evitare di veder travolto il proprio bilancio familiare: poiché questi rincari sono inevitabili, bisognerà organizzarsi per tirare la cinghia da qualche altra parte. Tanto più che, a causa del fiscal drag, a fronte di redditi che aumentano solo nominalmente per via dell'inflazione (mentre beni e servizi costano di più), l'esborso per le imposte tende a cresce e il cittadino finisce per vedere ulteriormente eroso il suo reddito. Locazioni, utenze, canone Rai: queste le principali voci del bilancio domestico sul quale l'inflazione agirà a scoppio ritardato. A chi ha un contratto d'affitto è utile ricordare che l'adeguamento all'indice Istat dell'inflazione viene applicato una volta all'anno, in occasione della scadenza del contratto. Il proprietario dell'abitazione non ha l'obbligo di applicarlo, ma ovviamente – soprattutto in tempi grigi come questo – è difficile che non lo faccia. Quanto al valore utilizzato non potrà superare il 75% dell'indice Istat più recente (di solito è quello di un paio di mesi prima). Anche il canone d'abbonamento 2012 alla Rai (che si pagherà entro il 31 gennaio del prossimo anno) sarà aggiornato in base all'andamento del carovita nel corso di quest'anno (tanto che l'importo viene di solito comunicato a fine dicembre). Non sfuggiranno alla risalita dell'inflazione la tassa per i rifiuti, nonché la fattura per la fornitura idrica (spese che nei condomini finiranno nel rendiconto generale). Quanto a luce e gas, gli aggiornamenti del prezzo base sono stabiliti ogni tre mesi dall'Autorità per l'energia non sulla base dell'inflazione, ma della sua causa primaria, l'andamento del prezzo del petrolio. In tema di elettricità non va, tra l'altro, dimenticato che a partire dal 2012 per gli utenti in regime di "bioraria" (praticamente quasi tutti, se si esclude quella minima quota passata al libero mercato) si accentuerà la differenza di prezzo fra i kilowattora consumati nella fascia diurna e quelli della fascia notturna/ weekend/festivi: maggiori possibilità di risparmio dunque, ma anche di salassi. Sul versante auto, pieno a parte, la morsa si farà sentire ai caselli autostradali, a partire da gennaio: dopo il rincaro medio del 2,7% nel 2010 e del 6% quest'anno (ma con picchi fino al 20%), è certo anche per il 2012 l'incremento dei pedaggi, in base a una percentuale che dipende da un mix di fattori, quali gli investimenti fatti, l'efficienza sui costi e, come sempre, l'inflazione. Per Autostrade per l'Italia (cui fanno capo 17 tratte autostradali tra cui la Milano-Napoli) la formula tariffaria è legata all'inflazione reale, mentre per le altre vale l'inflazione programmata. Quanto alle multe per le contravvenzioni al codice della strada, c'è un po' più di respiro: l'aggiornamento dei valori agli indici Istat del costo della vita ha cadenza biennale e l'ultimo incremento è avvenuto lo scorso gennaio (quindi fino a gennaio 2013 non se ne parla). Poi ci sono le polizze Rca: il premio (escluso l'eventuale malus) può essere aumentato di una percentale pari al tasso di inflazione programmata (1,5% anche per il 2012): ma se la compagnia supera questa soglia, il contraente deve sapere che potrà disdettare il contratto anche oltre il termine (almeno 15 giorni) previsto e fino al giorno di scadenza indicato in polizza. L'indice dell'inflazione metterà in moto anche qualche rimpolpamento (mai ritenuto sufficiente comunque a controbilanciare la perdita del potere d'acquisto) degli assegni fissi, delle pensioni, degli accantonamenti per il Tfr. La rivalutazione (perequazione automatica) dei trattamenti pensionistici, per esempio, scatta da gennaio sulla base di un dato provvisorio indicato nel novembre precedente da un apposito decreto e basato sugli ultimi dati Istat (sempre lo stesso decreto determina anche la percentuale di variazione definitiva da applicare per l'anno precedente e sulla quale calcolare il conguaglio). L'adeguamento delle retribuzioni invece - visto che l'accordo del luglio 1992 ha messo la parola fine alla vecchia "contingenza" – è rimandato ai rinnovi contrattuali.

Sale il debito (14 marzo 2011).
Ancora un record per il debito pubblico. In gennaio il debito delle Amministrazioni pubbliche è aumentato di 36,7 miliardi rispetto al mese precedente, (a quota 1.879,9 miliardi) «in buona parte dovuto all'accumulo delle attività del Tesoro presso la Banca d'Italia (come avviene regolarmente in questo periodo dell'anno)». È quanto riporta il Supplemento al Bollettino Statistico della Banca d'Italia. A tale aumento si aggiunge il fabbisogno del mese (2,1 miliardi). Le entrate tributarie del bilancio dello Stato sono aumentate (+6,4% su base annua; pari a 1,8 miliardi di euro) rispetto allo stesso mese del 2010. Lo ricorda la Banca d'Italia spiegando che la significatività dei dati del mese di gennaio è limitata da disomogeneità nei tempi e nelle modalità di contabilizzazione di alcune entrate. Il positivo andamento delle entrate tributarie nel mese di gennaio fa seguito ad un 2010 che ha visto crescere gli «incassi» da parte dello Stato. Nel 2010 segnano il +0,3% al netto delle una tantum. Secondo il bollettino del Dipartimento delle Finanze sulle entrate del bilancio dello Stato, si registra però al lordo delle una tantum una flessione dello 0,6%. Se si considerano anche le entrate comprensive dei ruoli e degli enti territoriali, le entrate invece sono salite dell'1,6%. Per quanto riguarda il dato al netto delle una tantum, il Tesoro segnala che le entrate sono state pari a 403.289 milioni, di cui 214.739 (-1%) dalle imposte dirette e 188.550 (+1,9%) dalle imposte indirette.

Esportazioni in crescita (14 marzo 2011).
Nel 2010 la ripresa delle esportazioni ha interessato tutta l'Italia. Dopo il crollo subito nel 2009, le diverse ripartizioni territoriali presentano rialzi a doppia cifra. La fotografia dell'ultima rilevazione Istat sottolinea in particolare l'aumento particolarmente elevato registrato per l'Italia insulare (+51,7%), «dovuto al forte incremento delle esportazioni di prodotti petroliferi raffinati». Anche il Centro e il Sud registrano aumenti superiori alla media nazionale (+15,7%, come già rilevato dall'Istituto di statistica), rispettivamente +17,2% e +15,9%. Nel 2010, i maggiori aumenti dell'export, guardando alle regioni che contribuiscono di più ai flussi commerciali con l'estero, sono stati messi a segno da Sardegna (+59,4%), Sicilia (+47,6%), Lazio (+24%), Puglia (+20,2%), Trentino-Alto Adige (+19,4%) e Abruzzo (+18,8%). Mentre l'Istituto di statistica registra una crescita contenuta per Liguria (+1,9%) e Friuli-Venezia Giulia (+7,9%). Ed è inferiore alla media nazionale la crescita delle esportazioni per Marche (+11,2%) e Lombardia (+14,1%), regione per la quale si riduce leggermente la quota sul complesso delle esportazioni nazionali (dal 28,2 al 27,8%). Nel complesso il Mezzogiorno ha visto salire le esportazioni del 27%, e la quota sull'export nazionali è aumentata dal 10,5% del 2009 all'11,5% del 2010. L'analisi per area di sbocco mette in evidenza come la crescita delle esportazioni delle regioni del Mezzogiorno abbia interessato maggiormente i flussi diretti verso i paesi extra Ue (+35,7%), con variazioni particolarmente significative per Russia, paesi Mercosur (America meridionale), e Turchia. Un incremento particolarmente intenso si registra, per l'area Ue, anche per le esportazioni verso la Spagna. Per le altre regioni risulta sempre maggiore l'incremento delle esportazioni verso i paesi Ue. Nonostante la crescita del Mezzogiorno, le aziende del Nord continuano ad essere il motore dell'export italiano. Come emerge dai dati Istat il Nord ovest mantiente una quota del 39,9% (di cui il 27,8% arriva solo dalla Lombardia). Il Nord est ha una quota del 31,3%, il centro del 15,8%, mentre a Sud e isole, come accennato, fa capo l'11,5 per cento.

Affonda anche il marchio Aiazzone (15 marzo 2011).
«Provare per credere» è lo slogan che ha reso famoso il marchio Aiazzone. Negli anni Ottanta non c'era tv locale che non proponesse a tambur battente gli spot del mobilificio biellese, affidati al «sorriso» del televenditore Guido Angeli. Vent'anni dopo, Renato Semeraro, un finanziere torinese, ci ha riprovato. Con Gian Mauro Borsano, l'ex presidente del Torino calcio ed ex deputato psi, coinvolto in Tangentopoli, che ha rilevato il marchio dalla vedova Aiazzone (il fondatore del mobilificio, Giorgio Aiazzone, è morto in un incidente aereo nel 1986) e si è presentato in tv per ripetere, ancora una volta, l'invito a comprare. Le cose, però, sono andate male. Ora c'è un esercito di 13 mila persone che lamenta d'essere stato truffato. «Abbiamo comprato i mobili, abbiamo chiesto un prestito, ma non ci sono mai stati consegnati e noi le rate siamo obbligati a pagarle ugualmente». Non solo, tutti i punti vendita sono stati chiusi e ci sono 800 persone a spasso, dipendenti e venditori di Aiazzone ed Emmelunga (una seconda catena di mobilifici acquisiti due anni fa da Borsano e Semeraro (con la loro BeS SpA) rimasti senza stipendio per quasi dieci mesi. Sui cancelli dei magazzini c'è un cartello che parla chiaro e invita «chiunque ne avesse bisogno, a rivolgersi ai nuovi proprietari», cioè alla società Panmedia di Torino, una concessionaria di pubblicità specializzata in tv locali, che fa capo a Giuseppe Gallo. Già, perché il marchio Aiazzone e la stessa società BeS SpA sono state oggetto di una sospetta e quanto mai rapida cessione a costo zero, perfezionata prima dell'estate ma che non ha portato a nulla: Gallo ha solo chiuso definitivamente i battenti. Intanto le denunce non si contano più, la Procura di Torino ha aperto un'inchiesta e le indagini sono affidate ai carabinieri della compagnia Mirafiori ma i fascicoli sono pronti a partire per Roma dove già a settembre, dopo un'indagine della Guardia di finanza, i sostituti procuratori Francesca Ciardi e Maria Francesca Loi avevano iscritto nel registro degli indagati Borsano, i suoi due figli Giovanni e Margherita, Semeraro e il loro socio Giuseppe Palenzona, fratello del più noto Fabrizio, banchiere, presidente di Gemina e di Aeroporti di Roma. Le accuse sono gravi: bancarotta fraudolenta, evasione fiscale, riciclaggio, truffa. Sotto la lente d'ingrandimento degli inquirenti le società BeS, Aiazzone Network, Emmelunga, Emmedue, Emmecinque, per un totale di 200 punti vendita in tutto il Paese. Intanto le proteste dei 13 mila beffati si manifestano non solo con la carta bollata ma anche con continui appelli sui social network: «chiediamo, almeno, che non ci facciano pagare le rate dei finanziamenti per mobili che non abbiamo mai visto». E mentre i due protagonisti principali della vicenda tacciono, uno spiraglio si apre. Dario De Cartis, responsabile servizio clienti di Fiditalia, finanziaria di proprietà della francese Société Générale, con la quale Aiazzone era convenzionata per la cessione dei crediti, dice: «Inizialmente pensavamo si trattasse solo di qualche caso isolato di inadempienza, purtroppo non è così. Ora siamo disponibili a trattare con le associazioni consumatori, le istituzioni e con tutti i clienti di Aiazzone che si sentono truffati. Con loro cercheremo di trovare una soluzione soddisfacente».

Via libera allo statuto delle imprese (15 marzo 2011).
Via libera della Camera all'unanimità alla proposta di legge sullo Statuto delle imprese. Il provvedimento, che é stato approvato con 520 voti favorevoli, é nato dall'unificazione di testi presentati da tutti i gruppi parlamentari e passa ora all'esame del Senato. Il testo, che «definisce lo Statuto delle imprese e dell'imprenditore» con una particolare attenzione alle medie, piccole e medie imprese, introduce qualche novità di rilievo. La principale, decisa dall'Aula, è l'istituzione presso il ministero dello Sviluppo economico del Garante per queste imprese, "mister Pmi". La misura è arrivata con un emendamento di Raffaello Vignali (Pdl) che inizialmente aveva ricevuto parere negativo della commissione Bilancio, poi diventato favorevole grazie all'introduzione di una condizione che ne esclude l'onerosità. Tra le altre novità del provvedimento di iniziativa parlamentare, con due emendamenti della Lega é stata alzata al 60% la "riserva" alle micro, piccole e medie imprese e alle reti di imprese degli «incentivi di natura automatica o valutativa» e introdotta la "sotto-riserva" del 25% alle micro e piccole imprese. Via libera anche al varo, da parte del ministero dello Sviluppo economico, di un portale dedicato al "Made in Italy" per aiutare il consumatore ad orientarsi nella ricerca di prodotti tipici italiani. È stato inoltre inserito il dimezzamento delle sanzioni previste dal codice civile nel caso di omessa esecuzione nei termini di denunce, comunicazioni o depositi al registro delle imprese. Nel provvedimento vengono poi definiti i rapporti con la Pubblica amministrazione con l'obiettivo di ridurre e rendere più trasparenti gli adempimenti e di porre rimedio ai ritardi nei pagamenti. Si cerca poi di favorire l'accesso delle piccole imprese agli appalti pubblici anche tramite la suddivisione in lotti degli appalti e introducendo modalità di coinvolgimento nella realizzazione di grandi infrastrutture delle imprese residenti nelle regioni e nei territori nei quali sono localizzati gli investimenti. Inoltre, con un emendamento presentato dalla Lega sono riviste al rialzo le soglie per le procedure di affidamento. Sono "saltati" nel corso dell'esame la possibilità per le imprese di compensare crediti e debiti nei confronti della Pubblica amministrazione così come la previsione di una riforma fiscale e l'istituzione di una Agenzia nazionale per le piccole imprese e di un Commissione parlamentare ad hoc. È stato trasformato in ordine del giorno, e in questa veste accolto dal Governo, un emendamento per introdurre in Italia le norme europee sui ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali tra imprese. Potrebbe invece essere riproposta in Senato, con un "asse" Pd-Lega, la norma per il salvataggio delle imprese in crisi: una sorta di legge Marzano per le Pmi. Rinviata al Senato, sempre per questioni di copertura, con un impegno del Governo a discutere della questione in quella sede, é anche la previsione che le disposizioni dello Statuto costituiscano «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».

Il via alla nuova governance europea (16 marzo 2011).
Accordo fatto a Bruxelles sulla nuova governance economica europea con l'approvazione, da parte dei ministri finanziari, di cinque regolamenti e una direttiva. Dopo il patto sulla competitività, licenziato dal vertice Ue di venerdì scorso, ieri è venuto il turno della riforma del patto di stabilità. A questo punto, al mosaico della risposta globale alla crisi dell'euro, manca solo la tessera dei fondi di stabilizzazione, Efsf e Esm, la cui capacità effettiva di erogare prestiti sarà rispettivamente di 440 e 500 miliardi. Stabilito il rispettivo volume di risorse, resta da decidere la struttura del capitale, le modalità per finanziarlo, la chiave di ripartizione tra i paesi, la formula per fissare o cambiare il "prezzo" dei prestiti erogati. Oltre che le modalità di intervento sul mercato primario dei titoli di stato. Tutti nodi che, si spera, saranno sciolti lunedì dai ministri riuniti di nuovo in sessione straordinaria. Dopo di che il 24-25 saranno i leader di governo al vertice di Bruxelles a chiudere il cerchio dell'accordo globale. Che poi passerà all'esame dell'europarlamento, il quale promette di renderlo più stringente sul lato di procedure e sanzioni. Quindi ritornerà in giugno all'Ecofin per l'imprimatur definitivo e unanime. Cammino ancora lungo, dunque, e forse anche accidentato. Sei paesi dell'Est - Estonia e Slovacchia già nell'euro, con Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca e Bulgaria che vogliono entrarci - ieri hanno infatti minacciato di bloccare in giugno l'intesa sull'Esm se non verrà cambiata l'attuale chiave di ripartizione degli oneri per finanziarlo: le quote di capitale nella Bce sono ritenute "inique". A parte questa mina vagante, a rovinare la festa dell'accordo di Bruxelles ci ha pensato anche il presidente della Bce denunciando il fatto che «non tutte le carenza del sistema sono state colmate». Implicito riferimento alla non automaticità delle sanzioni e al rifiuto (tedesco) di consentire a Efsf e Esm l'acquisto di bond anche sul mercato secondario, per alleggerire l'enorme fardello che oggi grava sulle sole spalle della Bce. «Per l'Europa è l'accordo del possibile, per l'Italia è un buon accordo» ha commentato Giulio Tremonti. La riforma del patto di stabilità per la prima volta sbatte anche il debito, oltre al deficit pubblico, in primo piano. Ma con una serie di ammortizzatori. E l'entrata in vigore del meccanismo di riduzione di 1/20 annuo solo a partire dal 2015 per l'Italia. Per i paesi ad alto debito (sopra il 60% del Pil), aggiustamento dei conti verso il pareggio di bilancio oltre il normale 0,5% annuo del Pil però non in modo automatico. Semi-automatiche le sanzioni per gli indisciplinati: 0,2% del Pil per deficit e debiti eccessivi, 0,1% per squilibri macro-economici eccessivi (surplus o deficit dei conti correnti, gap di competitività), che entrano per la prima volta nel patto e verranno segnalati con "allarmi preventivi". Le proposte punitive di Bruxelles entreranno in vigore, a meno che non vengano bloccate dall'Ecofin ma solo con voto a maggioranza qualificata. Altra novità, la crescita della spesa pubblica dovrà essere rapportata a quella del Pil nel medio termine con l'intento di dirottare le entrate dei singoli paesi sulla riduzione del debito e non sul solito aumento delle spese. Soprattutto in periodi di vacche grasse.

L'Italia rischia di perdere il marchio Parmalat (18 marzo 2011).
I francesi di Lactalis sono usciti allo scoperto: dietro al rastrellamento delle azioni Parmalat – nel giro di tre sedute è passato di mano il 20% del capitale col titolo salito a 2,5 euro – c'erano proprio loro. Il gruppo lattiero-caseario transalpino – che in Italia è già presente da 14 anni avendo rilevato i marchi Galbani, Locatelli, Invernizzi e Cademartori – ha dichiarato di avere già la disponibilità dell'11,42% del capitale, il 7,28% in maniera diretta e il 4,14% con un equity swap che, a quanto risulta, ha come controparte SocGen, la banca che ha aiutato Lactalis a raccogliere le azioni sul mercato. L'equity swap contempla però la possibilità di avere la disponibilità di un ulteriore 2,86% (7% in tutto), che potrebbe far salire la quota dei francesi al 14,28%. Quanto basta per presentare una lista per il rinnovo del consiglio che è in preparazione in queste ore e arrivare al deposito entro le 18 di questa sera. Lactalis non esclude di poter salire ulteriormente – e dovrà farlo se vorrà contrastare il 15,3% in mano ai tre fondi esteri Zenit, MacKenzie e Skagen per esprimere una maggioranza nel rinnovo del board – ma senza oltrepassare la soglia d'Opa del 30%. L'obiettivo, spiega una nota, è quello di proporsi come partner industriale del gruppo di Collecchio e «perseguire lo sviluppo per un progetto di lungo periodo». Dal fronte Lactalis si rassicura che non si farà lo spezzatino di Parmalat e che la cassa (1,4 miliardi di "tesoretto") non si tocca. Nel contempo arrivano grandi aperture al commissario-ad Enrico Bondi, che però ha già detto sì a Intesa-Sanpaolo che lo schiererà come capolista. E Bondi, per chi lo conosce, considera la calata dei francesi su Collecchio un'operazione ancora meno gradita di quella messa in atto dai tre fondi esteri, che pure un merito l'hanno avuto: quello di evidenziare che nel titolo Parmalat c'era un valore inespresso e di segnalare alla fine che era arrivato il momento per la società di chiudere l'era della public company con azionariato finanziario. Prima che Lactalis uscisse allo scoperto, il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, si era detto «molto favorevole» all'intervento di una cordata italiana per Parmalat. A questo punto, però, i richiami all'italianità rischiano di restare lettera morta: l'unica soluzione in grado di dare concretezza ai proclami sarebbe quella di promuovere un'Opa con un gruppo industriale tricolore realmente interessato a gestire Parmalat. Ma nei sei anni in cui il gruppo è tornato in Borsa, sgravato dal fardello di debiti del crack Tanzi, di offerte di questo tipo non se ne sono materializzate. L'unica ipotesi di aggregazione sulla quale si è effettivamente ragionato era quella di Granarolo, la società cooperativa partecipata al 20% da Intesa-Sanpaolo, che è il principale concorrente su piazza di Parmalat. L'opzione Granarolo, molto più piccola per fatturato rispetto alla multinazionale di Collecchio, era stata frenata però da considerazioni antitrust (il 20-30% dei ricavi nazionali a rischio dismissione) e dal timore delle cooperative azioniste di perdere il controllo della fornitura del latte. Negli ultimi giorni era arrivata la disponibilità della società emiliana (colta di sorpresa dalle notizie di ieri) a partecipare a un'iniziativa nazionale per Parmalat che avrebbe potuto materializzarsi dopo il rinnovo del board. Intesa-Sanpaolo, che ha comunicato su richiesta Consob di avere il 2,15% di Parmalat e confermato che presenterà una lista capofilata da Bondi, in questo momento non si starebbe muovendo. Nel frattempo Assogestioni ha già depositato una lista di tre nomi, con in testa quello dell'ad di Lavazza Gaetano Mele. Saranno quattro, quindi, le liste che si contenderanno gli 11 posti in consiglio alla prossima assemblea del 14 aprile. I tre fondi esteri, che hanno vincolato il 15,3%, confermano l'intenzione di proporre i propri candidati con Rainer Masera come presidente e Massimo Rossi come amministratore delegato ad interim e futuro vice-presidente. Certezze, però, a questo punto non ce ne sono più. E intanto c'è tempo ancora fino a cinque giorni prima dell'adunanza dei soci per comprare eventualmente azioni utili a partecipare. Se la tensione in Borsa si allenterà nei prossimi giorni vorrà dire che la partita è già considerata sostanzialmente chiusa. I tre fondi-pattisti scioglieranno il vincolo dopo l'assemblea: tranne Zenit che ha in carico il suo 2% a un prezzo molto alto (si dice vicino ai 3 euro per azione), gli altri due avranno probabilmente una buona convenienza a realizzare l'investimento. Si vedrà.

Il deficit commerciale italiano (18 marzo 2011).
A gennaio le esportazioni italiane sono cresciute del 4,3% (dato destagionalizzato) rispetto a dicembre e del 25,1% rispetto allo stesso mese del 2010. Lo rileva l'Istat aggiungendo che a livello congiunturale si registra «una crescita significativa», trainata dai mercati extra Ue. A gennaio aumentano anche le importazioni, con un rialzo inferiore all'export su base mensile (+2,8%) e superiore sul piano tendenziale (+31,3%). La conseguanza di questi dati è che cresce il deficit della bilancia commerciale, appesantita dalla componente energetica. Il disavanzo globale, informa l'Istat, si è attestato a 6,554 miliardi contro i 3,999 miliardi segnati nello stesso mese dell'anno scorso. Si tratta del peggior risultato mensile dall'inizio delle serie storiche. L'andamento degli scambi con i soli Paesi Ue ha chiuso il mese con un passivo di di 786 milioni per effetto di esportazioni pari a 15,328 miliardi e importazioni pari a 16,168 miliardi. Gennaio 2010 aveva registrato un deficit di 649 milioni. Esclusi i prodotti energetici, la bilancia commerciale italiana a gennaio sarebbe comunque risultata in rosso di 752 milioni. Il fatturato dell'industria italiana, dal canto suo, è aumentato in gennaio dell'1%, rispetto al mese precedente e dell'8% rispetto a gennaio 2010 (dato corretto per gli effetti di calendario, essendo i giorni lavorativi di gennaio 2011 20 rispetto ai 19 di gennaio 2010). A livello congiunturale, invece, si registra un incremento dell'1% sul mercato interno e dello 0,9% su quello estero. Su quello tendenziale l'aumento dell'8% é l'effetto del 5,3% del mercato interno e del 14,1% del mercato estero. A livello europeo il deficit delle partite correnti dell'eurozona è, invece, nettamente calato in gennaio a 700 milioni di euro contro 12,5 miliardi nel dicembre 2010. Lo mostrano i dati provvisori diffusi oggi dalla Bce. Il dato odierno rappresenta il più piccolo deficit dal gennaio 2010, quando era stato segnato un surplus di 1,6 miliardi di euro. I dati sono corretti per gli effetti stagionali e tengono conto del numero dei giorni lavorativi in ciascun mese. La Bce ha detto che il deficit nei trasferimenti correnti é stato quasi completamente compensato dal surplus di merci, servizi ed entrate. Il surplus nel commercio delle merci si é ampliato a 1,5 miliardi di euro nel mese di gennaio da 0,3 miliardi del mese precedente, mentre un deficit di 0,5 miliardi di euro in dicembre nel settore dei servizi si é trasformato in un surplus di 4 miliardi nel mese di gennaio. Il conto finanziario, unitamente agli investimenti diretti e di portafoglio ha mostrato un deflusso netto di circa 7 miliardi di euro a gennaio, paragonato con flussi in entrata di 42 miliardi di euro nel mese di dicembre.

Nasce un nuovo colosso delle TLC (21 marzo 2011).
Un accordo che, se supererà gli ostacoli delle autorità competenti americane, porterà a tempo debito alla nascita della più grande compagnia di telecomunicazioni mobili degli Stati Uniti, ruolo oggi coperto da Verizon Wireless. Un'operazione - la più grande in valore per Atandt dopo quella da 83 miliardi di dollari condotta nel 2006 per scalare BellSouth e per l'intera industria wireless dal 2004, quando Sprint si fuse con Nextel Communications - che darà vita a un operatore con gli asset più importanti nella corsa al business dei servizi di quarta generazione a tecnologia Lte (Long-Term Evolution) e Hspa+. L'asso da 39 miliardi di dollari, fra contanti e azioni, messo sul tavolo da Atandt per comprare T-Mobile Usa da Deutsche Telekom è in buona sostanza di quelli che cambiano le sorti di una partita. E nel caso specifico le dinamiche di un mercato, quello degli smartphone, su cui le grandi telcos mondiali si giocano il futuro. Fra le tante chiavi di lettura del merge c'è per esempio anche la seguente, che riguarda da vicino proprio il settore dei telefonini intelligenti. Atandt è stata la prima a vendere (in modo esclusivo negli Usa fino a un mese fa) l'iPhone di Apple; T-Mobile ha creduto per prima in Android lanciando il primo cellulare di Google, il G1. Se il matrimonio verrà celebrato - e ci sono ovviamente moltissime probabilità che ciò accada anche se i tempi per avere le dovute approvazioni dal Dipartimento di Giustizia e dalla Federal Communications Commission (FCC) si annunciano lunghi (non meno di un anno) - Atandt potrà esibire a partire da metà 2012 numeri da vero e proprio colosso. Poco meno di 130 milioni di utenti mobili, circa 80 miliardi di dollari di fatturato (il dato deriva dalla somma dei ricavi dell'esercizio 2010 delle due compagnie), 290mila dipendenti (compresi quelli delle società satellite) e oltre 200 Paesi coperti nel mondo con i rispettivi servizi di fonia. E come ciliegina sulla torta un portfolio di prodotti che comprendono, oltre all'iPhone 4, alcuni degli ultimi modelli – compatibili con le reti 4G – a firma di Motorola, Htc e Samsung. Un operatore capace di vantare una copertura capillare e una posizione di leadership assoluta negli Usa e con al suo attivo gli attributi per essere uno dei più importanti player dell'industria mobile su scala planetaria. L'unico ostacolo all'accordo, come detto, è rappresentato dagli organismi regolatori: del resto la scalata interessa il secondo e il quarto operatore mobile americano e il rischio che le possibilità di scelta per i consumatori, e quindi la concorrenza, venga ridotta è evidente. Il Presidente e Ceo di Atandt, Randall Stephenson, ha espresso in proposito ottimismo circa il fatto che l'operazione – "studiata – ha detto il manager – molto intensamente negli ultimi mesi - possa ricevere l'atteso semaforo verde. Nulla è comunque oggi garantito. Certo è il fatto che AtandT ha messo a segno sulla carta un grande colpo, anche in relazione al fatto che ad acquisire T-Mobile ci aveva provato mesi addietro senza successo un'altra big delle telco made in Usa, e cioè Sprint. Per la società di Dallas l'operazione ha quindi una doppia valenza: da una parte elevarsi al rango di operatore più grande del Paese, con una quota mercato pari al 39% in un mercato da 296 milioni di utenti mobili, e dall'altra poter offrire servizi di mobile broadband su rete Lte ad ulteriori 46 milioni di persone. Cavalcando in tal senso anche le aspettative di una maggiore disponibilità di connessioni a banda larga mobili e di una meno problematica ripartizione dello spettro di frequenza più volte espresse proprio dalla Federal Communications Commission. Per Atandt, inoltre, la possibilità di ampliare significativamente il proprio catalogo di smartphone è indirettamente una risposta alla grande concorrente Verizon, che varie stime accreditano nella condizione di poter vendere circa 11 milioni di iPhone nel corso del 2011. Persa l'esclusiva per il telefonini di Apple, la sinergia derivante dall'integrazione degli asset di T-Mobile potrebbe regalare alla società ricavi aggiuntivi nell'ordine dei 40 miliardi di dollari. Una cifra enorme, se paragonata al giro d'affari attuale, circa 58 miliardi di dollari, di Atandt.

Fusione Vimpelcom-Wind (21 marzo 2011).
Via libera dagli azionisti della russa Vimpelcom alla fusione (per 6,5 milioni di dollari) con la società Wind Telecom, che controlla l'italiana Wind. Operazione - che dovrebbe essere finalizzata nella prima metà del 2011 - porterà alla nascita del quinto operatore mondiale di telefonia mobile. Secondo l'accordo annunciato dall'azionista norvegese Telenor (che si è opposto), Vimpelcom (di cui Telenor controlla il 36% dei diritti di voto e il 39,5% del capitale) acquisisce di fatto Wind e Orascom dalla Weather Investments del magnate egiziano Naguib Sawiris. L'operazione è stata sostenuta dal 53,3% dei diritti di voto: hanno infatti votato contro il 60,2% dei soci partecipanti all'assemblea, tra cui Telenor, ma ciò non è bastato a evitare l'acquisizione, visto che ha ottenuto l'approvazione del principale azionista russo Alfa Group.

PARMALAT Integrazione del 22 marzo 2011.
Il gruppo francese Lactalis ha raggiunto un accordo per comprare dai fondi Zenit Asset management AB (svedese), Skagen AS (norvegese) e Mackenzie financial corporation (canadese) le loro quote in Parmalat al prezzo di 2,80 euro per azione (ieri riferimento a 2,466 euro). L'acquisto riguarda 265.744.950 azioni, pari al 15,3% del capitale del gruppo di Collecchio, un assegno da circa 750 milioni. Con questa operazione Lactalis sale al 29% di Parmalat e l'azienda viene valutata 5 miliardi di euro. Le azioni Parmalat sono state sospese prima dell'avvio della seduta, poi subito riammesse alle negoziazioni. A metà seduta erano in forte calo (-5%). L'accordo tra Lactalis e i tre fondi azionisti di Parmalat, spiega una nota, «verrà eseguito in data odierna nei più brevi tempi tecnici necessari e l'esecuzione potrà avvenire mediante acquisti effettuati direttamente da Lactalis e/o nell'ambito di contratti equity swap». Inoltre, continua il comunicato, «il numero esatto di azioni Parmalat acquisite direttamente dal gruppo Lactalis e di quelle acquistate dalle controparti dei contratti di equity swap verrà comunicato non appena disponibile». Ad ogni modo, continua la nota, a seguito dell'operazione con i fondi deterrà una partecipazione diretta e una potenziale che, sommate tra loro, rappresenteranno complessivamente circa il 29% del capitale sociale del gruppo agroalimentare italiano. La motivazione a vendere dei fondi è che in Parmalat c'era «un rischio crescente di un cda diviso e di una governance inefficiente». Rischio che ha indotto i fondi a concludere che «l'intento iniziale di creare le premesse per lo sviluppo di parmalat attraverso l'elezione di un consiglio di amministrazione altamente qualificato che i fondi avevano individuato é stato compromesso». In una nota Zenit, Skagen e Mackenzie hanno comunicato che sono stati avvicinati anche da altri soggetti, ma l'unica offerta che hanno ricevuto è stata quella dei francesi. Per ora non ritirano la lista presentata per il rinnovo del Cda di Parmalat. Non sono mancate le reazioni all'avanzata di Lactalis nell'azionariato Parmalat. Il vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona, ha detto di reputare ancora «importante» l'ipotesi di un'aggregazione fra il gruppo Ferrero e Parmalat. Parlando a margine di un convegno all'università Roma Tre, Palenzona, a chi gli chiedeva delle ultime mosse dei francesi, ha risposto: «Per me occorre preservare la filiera industriale dell'agroalimentare e del latte in Italia». In una eventuale operazione, Palenzona ha spiegato come Unicredit, fatto salvo che la decisione spetta all'ad Federico Ghizzoni, «potrebbe appoggiarla. Ritengo che sarebbe profittevole per la banca», ha concluso. «Certamente - ha commentato il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi - dobbiamo preoccuparci per quanto riguarda le attività strategiche come quelle relative all'energia o alla filiera agroalimentare. Quanto più sono filiere a forte valenza italiana tanto più possiamo pensare di irrobustire la nostra più complessiva indipendenza economica». A proposito del provvedimento in difesa dell'industria nazionale dagli attacchi stranieri, annunciato dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, Sacconi si è limitato a dire: «La situazione la sta studiando Tremonti». Ad ogni modo, la presenza dei francesi nelle aziende italiane è un fenomeno sul quale, secondo Sacconi, «non si deve esagerare perchè è più contenuto di quello che talora viene descritto». Tremonti ora vorrebbe rispolverare per la Lactalis il congelamento dei diritti di voto che fu introdotto dal governo Amato nel 2001 per impedire a Edf di appropriarsi della Edison. Ma difficilmente potrà funzionare. Potrà tutt'al più creare qualche ostacolo, rallentare, ritardare l'ingresso dei francesi, ma non respingerli. Per anni la nuova Parmalat è stata lì, in Borsa, alla mercé di chiunque, ma ci sono voluti i francesi perché si materializzase una cordata italiana, peraltro ancora non ben definita. Se le banche come Intesa Sanpaolo e il governo avessero voluto ergersi a difensori dell'interesse nazionale, avrebbero dovuto darsi una mossa prima. Era evidente che una public company non sarebbe durata a lungo in Italia, per di più con buoni margini di guadagno e con quasi un miliardo e mezzo di liquidità in cassa derivante delle cause per danni intentante da Bondi contro le banche corresponsabili del crack. Non si può difendere l'interesse nazionale dopo che una società estera ha già messo sul piatto centinaia di milioni in contanti. Si può cercare di metterle i bastoni tra le ruote, come è avvenuto con Edf in Edison, si possono escogitare misure per prendere tempo, ma con quale obiettivo? O c'è un imprenditore italiano disposto a lanciare un'Opa sull'intero capitale della Parmalat oppure con il 29% la Lactalis alla prossima assemblea sarà in grado di far eleggere la maggioranza del consiglio d'amministrazione. Giova notare che l'assalto dei francesi alla Parmalat è tanto più grave se si considera la leadership dei francesi nella GDO in Italia.

CDM, i principali provvedimenti: moratoria sul nucleare e decreto anti scalata per salvare Parmalat (23 marzo 2011).
Il Consiglio dei ministri (CDM) ha approvato la moratoria di un anno al programma di rientro dell'Italia nel nucleare, intervento annunciato ieri dal ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani. Previsti 12 mesi di moratoria e 24 mesi per l'elaborazione della strategia nucleare. Nel provvedimento correttivo al decreto sulla localizzazione dei siti, l'elaborazione della strategia era prevista originariamente a distanza di tre mesi dall'approvazione del provvedimento. Ora, con l'approvazione della moratoria di un anno, il termine per la definizione del piano programmatico è spostato ulteriormente in avanti a 24 mesi da oggi. Il rinvio è una sorta di "controffensiva psicologica" alla luce della tensione innescata dal disastro in corso in Giappone sul programma italiano di rientro nel nucleare. «Il governo oggi ha fatto una scelta responsabile e nell'interesse dei cittadini. L'Italia – ha detto il ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani - si muove dunque in piena sintonia con gli altri Paesi dell'Ue che, dopo il dramma di Fukushima, stanno definendo nuovi e più condivisi criteri di sicurezza riguardanti l'energia nucleare». Una decisione, secondo il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, «di buon senso, di cautela, di rispetto per la preoccupazione dei cittadini di fronte a eventi straordinari che hanno suscitato grande inquietudine nell`opinione pubblica». Proprio oggi la cancelliera tedesca Angela Merkel riferendosi sulla «lezione da apprendere» dal caso Giappone ha annunciato: «Prima si uscirà dal nucleare e meglio sarà». Durante il question time alla Camera, nel pomeriggio, Romani ha spiegato che il governo bloccherà il nucleare se le iniziative europee non daranno garanzie sufficienti sulla sicurezza. Il ministro ha sottolineato che «il governo non procederà alla realizzazione se le iniziative già avviate a livello di Unione europea non forniranno elementi in grado di dare piena garanzia sulla sicurezza. I risultati degli stress test - ha aggiunto - saranno determinanti sulle scelte del governo per l'attuazione del piano nucleare». Il Consiglio dei ministri ha anche dato il via libera al decreto legge per tutelare le società di settori strategici in Italia. Il provvedimento, preannunciato nei giorni scorsi dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti, si ispira ad analoghe norme francesi in nome della reciprocità di condizioni. Il provvedimento è giunto dopo l'acquisizione da parte di Lactalis del 29% di Parmalat e prevede, per le società di interesse nazionale, l'obbligatorietà del parere preventivo in caso di Opa da parte di imprese straniere ed è in buona parte disegnato sul modello della legge francese 'anti-Opa' del 2005. Il dl anti-scalate, inoltre, concede al consiglio di amministrazione di poter rinviare a fine giugno la convocazione delle assemblee. Una possibilità che vale anche per le assemblee già convocate. L'assemblea di Parmalat è attualmente prevista per il 14 aprile (in terza convocazione). E' questo un provvedimento chiaramente anti francese dopo che la Francia aveva bloccato, a suo tempo, l'acquisizione da parte di Enel di Suez-Electrabel. Questo Portale che è in prima fila nella difesa della libertà dei mercati, in questo caso, difende l'operato del governo perchè la Francia ha sempre calpestato i principi basilari della libertà dei mercati e difeso, in modo corporativo, le proprie imprese "strategiche". E' ovvio che il dl potrà avere effetto solo se si presenterà una solida cordata italiana, con un valido piano industriale, in grado di contrastare Lactalis. Giova sottolineare che il dossier Parmalat era sulla scrivania di tutti i gruppi industriali e bancari italiani da almeno due anni, che era noto che in pancia a Parmalat ci fossero 1,5 miliardi di euro di capitale, ma forse qualcuno pensava di poterne acquisire il controllo con il solito giochetto del 2%.
Per capire il decreto del governo che “compra tempo” contro le scalate ostili straniere alle società italiane, bisogna fare un passo indietro e parlare di Parmalat. Fino a quest’oggi, l'impresa di Collecchio evocava tre fasi. I lunghi anni di gestione di Calisto Tanzi, riverito come uno degli industriali di riferimento della solidità e serietà dell’impresa tradizionale italiana, vicinissimo al potere democristiano. Poi l’erompere della verità , cioè il peggiore scandalo finanziario dell’intera storia italiana, con 14 miliardi di euro di finta liquidità e attivi patrimoniali, dove per “finta”bisogna proprio intendere l’aggettivo alla lettera, cioè fabbricata con fotocopiatrice e ciclostile, ma asseverata dalle maggiori banche e agenzie di rating del mondo. Infine, la terza fase, quella degli ultimi anni. Che ha visto il rilancio, la difesa e la crescita di una nuova Parmalat, linda nei suoi conti finalmente trasparenti. Tornando all’utile, a oltre 4 miliardi di fatturato, e ad avere la cassa piena anzi pienissima, con un miliardo e mezzo di liquidità da investire per crescere. Tutto questo perché a guidarla è stato un manager galantuomo a prova di bomba, Enrico Bondi. Un mastino della guerra alle banche che avevano piazzato i bond, chiamate con incredulità e fastidio crescente dei banchieri ad azioni revocatorie e risarcitorie, in Italia come in America e nel resto del mondo, cavandone dai forzieri oltre 2 miliardi di euro. E con uno statuto che impegna l’azienda a ridare il 50% degli utili ai risparmiatori fregati, fino a piena oblazione del danno. Le banche italiane sono sempre rimaste a guardare, Una di esse – Banca Intesa – in questi anni si è vista spesso accreditata dai media dell’intenzione di unire l’addio a Bondi con il matrimonio tra Parmalat e Granarolo, di cui detiene il 20%. Naturalmente, Granarolo non ha i soldi per comprare Parmalat: ed ecco evocare ogni volta il fantasma di quelle fantomatiche “operazioni di sistema”, alla Alitalia per intendersi, con la scusa dell’italianità. Ma questa volta tre fondi stranieri con circa il 15% del capitale hanno formalizzato una lista diversa, senza Bondi, ma con diversi manager italiani non lontani da Intesa. Tutti, ancora una volta, son rimasti a guardare. Non i francesi di Lactalis, che coi buoni uffici di Societe Generale hanno rastrellato un altro 14% e rilevato il 15% dei tre fondi anti Bondi. Col 29%, e senza obbligo di lanciare Opa che scatta oltre il 29,9%, si portano a casa la maggioranza del consiglio e Parmalat è roba loro, con 1,4 miliardi di spesa e cioè meno della sola cassa dell’azienda. Lo hanno fatto seguendo le norme del mercato. Approfittando di due debolezze. La prima è l’assenza di privati italiani del settore convinti e pronti a investire almeno un terzo di quella cifra, visto che il resto l’avrebbero messa le banche, a cominciare da Intesa sempre vicina al dossier. Gli ultimi a tirarsi indietro sono stati i Ferrero, quando già però i francesi erano ben avanti sulla loro strada. La seconda è la debole e contraddittoria strategia delle banche italiane stesse, incapaci di vincere l’astio che provano per Bondi. A quel punto, sarebbe il caso di dire a vacche già fuori dalla stalla, ecco tutti volgersi verso la politica. Possibile che si debba assistere ai francesi di Edf che alla fine si pappano Edison, quando già anni fa il centrosinistra fece una norma ad hoc per fermarli? Possibile che lo stesso avvenga per Parmalat? E meno male che la Consob ha fermato Groupama imponendo loro l’Opa obbligatroria se avessero finanziato il gruppo Ligresti, assicurando ai francesi indirettamente un 5% ulteriore di Mediobanca. E’ rispondendo a questo pressante appello, che Tremonti ha presentato il decreto che si limita a dire che per tenere le assemblee è possibile, anche se già convocate come quella di Parmalat, farle slittare di altri due mesi. Il messaggio ai francesi è chiaro, sono sgraditi. Ma Tremonti ha preso solo tempo, non ha voluto usare l’accetta che esporrebbe l’Italia a sanzioni. E’ una palla rilanciata a Intesa e Unicredit insieme. Per vedere se si riesce ad evitare di apparire come coloro che cambiano le regole a gioco in corso, cosa che esporrebbe comunque a una non esaltante figura. Chissà se il capitalismo banco-finanziario italiano avrà la forza e l’unità – invece di continuare a dividersi in aspre guerre per bande – di fare un bell’affare. Che certo oggi costerà più di quel che sarebbe costato senza attendere che i francesi facessero il loro mestiere. Ma un bell’affare resta, la nuova Parmalat di Enrico Bondi.

CS Confindustria: il pil va a rilento (23 marzo 2011).
Il Pil va al rallentatore e la disoccupazione è destinata a crescere. E' questa l'analisi sulla congiuntura del centro studi di Confindustria, che evidenza come in italia la dinamica del prodotto interno lordo a inizio 2011 si stia rivelando "più lenta dell'atteso, dopo il +0,1% di fine 2010. Il traino principale viene sempre dalla domanda estera. Ancora fiacchi spesa delle famiglie e investimenti", dice lo studio. Rispetto a dicembre, lo scenario 2011 appare migliorato per domanda estera e trascinamento (+0,4 punti per il Pil, da 0,3), ma peggiorato per prezzi delle materie prime, cambio dell'euro e tassi. Si avverte anche l'impatto della catastrofe giapponese, che genererà un rimbalzo anche nel 2012. Viene inoltre sottolineata la debole congiuntura della produzione industriale (-1,5% a gennaio), mentre per febbraio si stima un rimbalzo dell'1,7%, ma servirà a poco in quanto, nota Confindustria, "riduce a solo lo 0,3% l'aumento acquisito nel primo trimestre". Per quanto riguarda il mercato del lavoro, a gennaio il tasso di disoccupazione "è rimasto fermo all'8,6% per il terzo mese consecutivo". Ma, evidenzia l'analisi, "è destinato a salire, ipotizzando che la partecipazione al mercato del lavoro aumenti in corso d'anno, mentre la variazione dell'occupazione (-0,4% a gennaio su dicembre) non tornerà positiva prima del 2012". Il mercato del lavoro beneficia della diminuzione della cassa integrazione, però la creazione di occupazione risente di produttività e orari molto lontani dai livelli pre-recessione. Qualche progresso nei conti pubblici, ma resta impegnativa la cura nei prossimi anni. Secondo l'analisi del Csc, lo scenario economico globale è plasmato da forze nuove e contrastanti. Le influenze positive vengono dal commercio mondiale, che ha registrato un maggiore slancio ereditato dal 2010 e in avvio del 2011. Si attende un miglioramenti dell'8,0% per quest'anno e il prossimo (nel biennio 1,5 punti in più di quanto indicato dal CSC a dicembre), già inglobando una stima dell'impatto degli eventi in Giappone. E il quadro internazionale agisce su una dinamica interna italiana ancora in sofferenza. Nonostante indicatori qualitativi record, la produzione industriale stenta a prendere velocità, e lo stesso accade a fatturato e ordini. L'export è molto vivace a seguito del buon andamento degli scambi esteri, ma i consumi delle famiglie e gli investimenti ristagnano. Tra le cause, le condizioni del credito più selettive. Il Pil italiano potrebbe risentire della congiuntura per un totale di quasi un punto percentuale nel biennio 2011-2012, con l'impatto maggiore l'anno prossimo. L'effetto sarebbe molto attenuato qualora rientrassero rapidamente le turbolenze politiche nei paesi esportatori di beni energetici, e se la Bce non varasse rincari seriali del denaro, calmierando anche il cambio. Molto dinamici Usa e Germania, sostenuti i ritmi di espansione degli emergenti. Le altre variabili, invece, attenuano la crescita internazionale. Rispetto al quadro delineato tre mesi fa, lo shock petrolifero dovuto a fattori extra-economici, il greggio è di un quarto più costoso e anche le altre materie prime riducono il potere d'acquisto dei paesi consumatori. A questo si aggiungono il rialzo dei tassi anticipato dalla Bce, e il cambio dell'euro, più forte di quasi l'8% sul dollaro.

Salvataggio Ligresti (24 marzo 2011).
Salvatore Ligresti si è dimesso martedì dal consiglio di amministrazione di Unicredit. Lo si apprende da fonti finanziarie. Il board della banca ha affrontato il nodo dell'intervento a sostegno delle compagnie assicurativa della famiglia. Il sì che metterà in sicurezza il Gruppo è stato approvato all'unanimità. L'investimento complessivo di Unicredit nella partita Premafin-Fonsai sarà pari a 170 milioni di euro, ripartito tra l'impegno di sottoscrizione dell'aumento di capitale della compagnia e il corrispettivo per l'acquisto dei diritti di Premafin, la holding della famiglia Ligresti che controlla Fonsai. L'intervento si è reso necessario dopo il fallimento delle trattative con il gruppo francese Groupama. In una nota si legge che Premafin e Unicredit sottoscriveranno un patto di sindacato su Fondiaria Sai di durata triennale e che «dovrà garantire il mantenimento dell'influenza dominante di Premafin ed il conferimento alla banca di diritti e prerogative tipici del socio finanziario di minoranza». Il patto parasociale che Unicredit e Premafin stipuleranno su Fonsai attribuirà alla banca di Piazza Cordusio 3 consiglieri nel cda e un peso importante nella governance della compagnia assicurativa, con un ruolo nelle scelte strategiche. Dei tre consiglieri nominati da Unicredit due entreranno a far parte del comitato esecutivo e il terzo entrerà a far parte, con funzioni di presidente, di ogni comitato per il quale sia prevista una componente indipendente. Unicredit designerà anche il presidente del collegio sindacale in assenza di una lista di minoranza. Le decisioni in merito a determinate operazioni (come l'approvazione del business plan, investimenti, disinvestimenti e finanziamenti qualificati) saranno riservati al cda di Fonsai, che delibererà con le maggioranze ordinarie. Ma per le decisioni in merito ad alcune operazioni straordinarie (come alcune operazioni sul capitale, le operazioni significative rispetto al perimetro di attività del gruppo Fonsai) il cda delibererà previo il parere favorevole di un comitato composto da consiglieri indipendenti tra cui l'amministratore indipendente designato da Unicredit. Le operazioni di aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione (per esempio finalizzate all'ingresso di nuovi soci) necessiteranno del consenso della banca. A Unicredit viene inoltre attribuito un diritto di co-vendita qualora Premafin ceda una quota superiore al 10% della propria partecipazione in Fonsai.

Lo scontro Italia Francia si sposta sul settore dell'energia (28 marzo 2011).
Si arroventa il contrasto tra Italia e Francia sull’economia. Nuovo teatro la Edison di Milano, secondo produttore elettrico nazionale controllato da Electricité de France e A2A, l’ex municipalizzata lombarda. Il monopolio statale francese ha deciso di sostituire l’amministratore delegato di Edison, Umberto Quadrino, con un proprio manager. Quadrino, 65 anni, è un top manager di formazione Fiat che dal 2001 governa il gruppo milanese di Foro Bonaparte. L’avvicendamento verrà formalizzato venerdì 1 aprile, quando sarà presentata la lista di maggioranza per il rinnovo del consiglio di amministrazione. Edison è controllata al 61% da una holding, Transalpina di Energia, formata pariteticamente da Edf e da una cordata di ex municipalizzate a sua volta controllata da A2A. I francesi hanno inoltre un 19% in proprio. Secondo gli accordi del 2005, a Edf spetta la designazione del capo azienda e ad A2A quella del presidente. Entrambi possono procedere in modo unilaterale e, addirittura, senza nemmeno consultare il partner. Henri Proglio, presidente di Edf, lascia filtrare il nuovo orientamento quale atto difensivo di fronte alle pressioni del ministero dell’Economia che mira a riportare sotto il controllo italiano Edison o almeno la gran parte delle sue attività. Poiché l’ex municipalizzata di Milano e di Brescia è assai indebitata, il governo italiano ha fatto balenare anche la discesa in campo di Enel e di Eni: l’Enel in quanto partner strategico di Edf nel nucleare italiano; l’Eni in quanto interessato alle centrali Edison per poter bruciare il gas che si ritrova in eccesso nei suoi tubi. Come si vede, la partita è fluida. E’ possibile che le decisioni sulla guida operativa di Edison possano ulteriormente cambiare in ragione degli equilibri tra i due paesi. Ma il segnale che da Foro Bonaparte va al ministero dell’Economia resta forte.

Giù il rating di Grecia e Portogallo (29 marzo 2011).
Standard and Poor's, dopo la mancata approvazione del piano di risanamento concordato con l'Europa e che ha portato alla caduta del governo portoghese, taglia il rating del Portogallo a «BBB-» da «BBB». È il livello più basso di investment grade. Al di sotto c'è solo il livello junk (spazzatura), che appartiene ai titoli non consigliabili agli investitori. La prospettiva è giudicata negativa. Standard and Poor's sottolinea che il Portogallo dovrà probabilmente fare ricorso agli aiuti del cosiddetto fondo salva-Stati. Per Standard and Poor's Lisbona potrebbe aver bisogno di «considerevole finanziamento esterno nei prossimi anni». Standard and Poor's ha tagliato anche il rating della Grecia a «BB-» da «BB+». Anche in questo caso la prospettiva rimane negativa. In caso di ulteriore deterioramento della posizione di bilancio di Atene, avverte Standard and Poor's, il rating potrebbe venire nuovamente abbassato. «L'agenzia conta di risolvere lo stato di credito sotto osservazione entro i prossimi tre mesi, dopo che le autorità greche avranno pubblicato i dati finali sulla performance di bilancio 2010 e saranno divenute chiare le tendenze del 2011. Se le nostre attuali aspettative di aggiustamento dei conti si realizzassero potremmo confermare il rating sovrano», spiega in una nota Standard and Poor's.
In Italia, nessuno o quasi sembra dare importanza al fatto che al Consiglion Europeo dei giorni scorsi si è arrivati con un nuovo euromembro collassato, il Portogallo il cui premier Socrates è andato sotto per il no del Parlamento al piano di austerità coerente con l’obiettivo di evitare il ricorso all’eurosalvataggio come per la Grecia. Si comprende che l’emotività converga verso l’atomo e la vicenda libica, ma che a un anno dall’esplosione greca l’euroarea continui penosamente a imbarcare acqua senza che i politici diano troppa importanza alla cosa è un segno di grave incapacità. Delle due l’una: o la politica non sa misurare l’importanza e l’impatto reale di un rischio divergenza europea che continua a crescere, tra Germania Francia pochi altri e tutti gli “eurodeboli”; oppure significa semplicemente che la politica non ha voglia di dire la verità ai suoi elettori e ai contribuenti. Il presidente dell’eurogruppo Juncker ha detto l’amara verità, anticipando le cifre dell’intervento straordinario necessario per evitare al Portogallo di avvitarsi al fallimento: siamo nell’ordine dei 75-80 miliardi di euro. Socrates e la politica portoghese negano di averne bisogno, ma i rendimenti dei titoli pubblici portoghesi sono del 6.7% sul biennale, dell’8.2% sui quinquennale e del 7.7% sul decennale, in ulteriore salita (il picco sul quinquennala dice che il mercato scommette sulla mancata tenuta). L’Irlanda, oggi, sul decennale ha superato il rendimento secco del 10%. Continuare a far finta di niente è un suicidio. Imporre al Portogallo, come avvenne per la Grecia, aiuti a tassi ulteriormente maggiori – per poi dover cambiare idea come si è fatto a 7 mesi di distanza, sempre per la Grecia – è miope, perché i portoghesi hanno visto che cosa è avvenuto alla Grecia spinta in deflazione, e non sono disposti a seguire quella strada (né a destra né a sinistra, le opposizioni hanno votato no insieme). Il meccanismo già stabilito per le nuove emisisoni di titoli pubblici dal 2013 – le clausole che espongono i prenditori a compartecipare al rischio di allungamento delle scadenze e ribasso degli interessi, cioè al rischio di default controllato – non potrà che estendere l’effetto-divergenza all’interno dell’euroarea. Si continua a non dire l’amara verità. Se il problema è innanzitutto quello delle banche europee piene di titoli pubblici, allora bisognerebbe pensare esplicitamente a meccanismi che concentrino gli interventi – e i fallimenti pilotati, eventualmente – sulle banche stesse, non sulle economie nazionali. Inoltre, non come alternativa ma come ulteriore exit strategy, è il caso di mettere mano esplicitamente a meccanismi di uscita temporanea e sotto condizione dall’euro per quei Paesi che non reggano, la cui classe politica non abbia voglia o coraggio di dire la verità sul fatto che l’euro è uno scudo al solo patto di essere rigorosi nella finanza pubblica e produttivi nell’economia privata e pubblica insieme. Almeno l’uscita dall’euro funzionerebbe da sanzione per i politici che continuassero a tacere e a dire “non preoccupatevi”. Anche se non ci si illude: in molti Paesi, compreso il nostro, probabilmente scopriremmo che le opinioni pubbliche lì per lì pur di non mutar passo brinderebbero alla svaluitazione monetaria, tornando a illudersi come negli anni dell’inflazione a doppia cifra e dando nuovo margine ai politici per accrescere il debito pubblico, visto che la svalutazione ne ridurrebbe il valore reale.

Fisco: maggiori entrate grazie alla lotta all'evasione (29 marzo 2011).
L'Agenzia delle entrate annuncia di aver recuperato nel 2010 oltre 10,6 miliardi, contro i 9,1 del 2009. L'importo supera poi gli 11 miliardi se a quanto incassato direttamente dall'attività di accertamento e di liquidazione delle dichiarazioni si aggiungono i 480 milioni di riscossioni da ruolo relative a interessi di mora e maggiori rateazioni. Positivo anche il bilancio delle due task force dell'Agenzia: dalle indagini internazionali dell'Ucifi sono emersi 7,6 miliardi di attività estere e trasferimenti non dichiarati nel quadro Rw, mentre l'Antifrode ha individuato e frodi in materia di imposte sui redditi e Irap per oltre 6,4 mld d'imponibile evaso. Negli accertamenti sull'Irpef si registra un boom di incassi ottenuti attraverso il cosiddetto redditometro, il meccanismo di controlli incrociati utilizzato per risalire al reddito dei contribuenti partendo dal loro tenore di vita. Secondo l'Agenzia delle Entrate, l'imposta maggiore definita ha segnato nel 2010 un'impennata del 63% da 59 a 96 milioni di euro. I controlli sono stati 30.443. In particolare, sono schizzati verso l'alto gli accertamenti sintetici definiti con adesione o con acquiescenza, passati dagli 8.506 di due anni fa ai 12.729 del 2010 (+ 50%). I controlli sono stati più intensi anche sulle imprese di medie dimensioni, da cui arrivano 569 milioni di euro di incassi da versamenti diretti, più del doppio rispetto ai 234 del 2009. Le imprese controllate sono state 15.524 contro le oltre 7mila del 2009. In crescita anche gli accertamenti sui "grandi contribuenti", passati da 1.667 del 2009 ai 2.609 dell'anno scorso. Il risultato sono incassi per circa 1,5 miliardi, ottenuti anche grazie all'attività di tutoraggio. Sul piano della lotta alle frodi, spiega l'Agenzia delle entrate, c'è stata una riduzione delle verifiche con un maggior imponibile accertato di oltre 4 miliardi per le imposte dirette e di 2,4 miliardi per l'Irap.

Irlanda: male gli stress test (31 marzo 2011).
Le quattro grandi banche irlandesi sopravvissute alla crisi, per restare in piedi in caso di ulteriori periodi di difficoltà, hanno bisogno di 24 miliardi di euro di capitale aggiuntivo. La cifra viene dal risultato degli stress test effettuati dalla Banca centrale sui maggiori istituti di credito dell'Isola. Nel dettaglio, per affrontare il peggioramento del quadro economico ipotizzato dagli stress test, Allied Irish Bank dovrebbe raccogliere altri 13,3 miliardi, Bank of Ireland altri 5,2 miliardi, Ebs altri 1,5 miliardi e Irish Life and Permament altri 4 miliardi. Il governatore della banca centrale, Patrick Honohan, ha spiegato che i test sono stati svolti in maniera molto rigorosa e che tutte le banche irlandesi finiranno per avere lo stato come azionista di maggioranza. Honohan ha sottolineato che anche senza il sostegno della Bce le banche non rischieranno una crisi di liquidità e che i 24 miliardi di capitale necessari non verranno tutti necessariamente versati dallo stato in quanto potranno anche essere reperiti dagli istituti sul mercato. Il totale degli interventi statali rischia così di toccare quota 70 miliardi di euro, una somma che rende insufficiente il contributo di 35 miliardi avuto dal settore del credito nel pacchetto di aiuti "concordato" l'anno scorso da Dublino con Ue e Fmi. Gli interventi pubblici per tamponare il dissesto delle banche, del resto, avevano avuto un ruolo decisivo nell'affondare il bilancio dello stato (il deficit 2010 ha superato il 30% del Pil) e nel costringere il governo a richiedere il prestito internazionale. Nel piano di "ristrutturazione" del governo di Dublino è prevista la fusione tra Allied Irish Bank ed Ebs e la vendita del ramo assicurativo di Irish Life. I dati odierni sono stati diffusi a mercati quasi chiusi, ma le Borse li avevano in gran parte messi in conto e il settore finanziario ha pagato prezzi alti sulle piazze europee. Peggio di tutte ha fatto Milano, data l'incidenza dei titoli bancari sui listini. Piazza Affari ha chiuso con l'Ftse-Mib in flessione dell'1,24% a 21.727,44 punti. Ubi ha perso l'1,55% e ben oltre sono andati Intesa Sanpaolo (-4,48%), Unicredit (-3,70%), Bpm (-3,35%) ed Mps (-2,60%). Il Dax di Francoforte perde lo 0,22% a 7.041,33 punti, il Cac40 di Parigi scivola dello 0,88% a 3.989,18 punti, l'Ftse100 di Londra arretra dello 0,66% a 5.908,76 punti.

Pieni poteri a Tremonti contro scalate (31 marzo 2011)
Pieni poteri a Giulio Tremonti per bloccare le scalate da parte di società straniere alle aziende strategiche per l'economia italiana. Il consiglio dei ministri ha autorizzato oggi il ministro dell'Economia e delle Finanze "a predisporre ed attivare strumenti di finanziamento e capitalizzazione mirati ad assumere partecipazioni in società di interesse nazionale rilevante in termini di strategicità del settore", di livelli occupazionali etc. La nota di Palazzo Chigi, nel dare l'annuncio, precisa che la Parmalat rientra "nella casistica di cui sopra". Il Tesoro potrà, in sostanza, creare un fondo destinato a finanziare il "pronto intervento" dello stato nel capitale di aziende nazionali ritenute strategiche in presenza di "aggressioni" da parte di investori stranieri. La nota di Palazzo Chigi sottolinea come strumenti simili siano "in essere in altri paesi europei". A provocare l'intervento del governo è stata, ovviamente, la scalata di Lactalis al gruppo alimentare di Collecchio e il gruppo francese oggi è intervenuto con una nota per chiarire le proprie intenzioni alla vigilia del cda del gruppo di Collecchio, chiamato a decidere sul rinvio dell'assemblea degli azionisti che dovrà rinnovare il board. Lactalis, dunque, ha comunicato intanto di avere raggiunto una partecipazione effettiva in Parmalat pari al 28,97% del capitale sociale. La società francese afferma poi di aver sempre informato gli organismi Ue dell'operazione e di ritenere "che il suo ingresso nel capitale di Parmalat non possa essere considerato come una acquisizione del controllo della Parmalat ai sensi del regolamento sul controllo delle concentrazioni, e che, pertanto, non vi sia la necessità di procedere a una notifica preventiva". Il Tesoro dal canto suo conferma che la società francese non ha mai superato la soglia del 30% del capitale, che imporrebbe l'obbligo di promuovere un'opa. Il sottosegretario Sonia Viale, rispondendo a un'interrogazione leghista, ha aggiunto che oltretutto, neppure "il superamento della soglia del 30% non comporta l'obbligo di promuovere un'offerta pubblica d'acquisto laddove la soglia del 30% sia superata per non più del 3% e l'acquirente si impegni a cedere le azioni in eccedenza entro 12 mesi e non esercitare i relativi diritti di voto". Lactalis, si legge nella nota, è sempre stata disponibile "a dialogare con altri azionisti interessati allo sviluppo industriale di Parmalat, nell'interesse dell'azienda e dei suoi collaboratori" e per "concorrere allo sviluppo di Parmalat nel quadro di un piano industriale di lungo termine che prevede l'integrità del gruppo così come oggi strutturato, nessuna delocalizzazione, la centralità della filiera agro-alimentare italiana, il rispetto del legame con il territorio e la valorizzazione delle competenze del management e di tutti i dipendenti". Lactalis, comunque, annuncia che farà quanto necessario "affinché, nel rispetto delle normative, possa comunque essere esercitato il voto in occasione della prevista riunione dell'assemblea dei soci".

Eugenio Caruso

Gennaio - marzo 2011

Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda al successo editoriale
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.

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