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I passi della crisi economica 2008 - 2011 - Parte XI


Il sommo sapere è quello che sa uscire, nei casi straordinari, dalle ordinarie norme e trovarne di opportune alle circostanze..
Pietro Verri


L’articolo è  il seguito di
Come si è arrivati alla grande crisi del 2008 Parte I,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte II,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte III,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte IV,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte V,
I passi della crisi 2008 -2010 - Parte VI
I passi della crisi 2008 - 2010 - Parte VII
I passi della crisi 2008 - 2010 - Parte VIII
I passi della crisi 2008 - 2010 - ParteIX
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte X

Con riferimento ai succitati articoli, questo prosegue, per il secondo trimestre del 2011,  l’analisi delle performance economiche delle più importanti imprese del pianeta. Con particolare attenzione è analizzata la situazione italiana. Sono, inoltre, presi in considerazione tutte le più importanti iniziative degli stati e delle organizzazioni internazionali e nazionali, nonché gli andamenti delle economie di vari paesi. L’articolo viene aggiornato quotidianamente.

ISTAT: disoccupazione in crescita (1 aprile 2011).
Il tasso di disoccupazione nel 2010 si è attestato all'8,4%, contro il 7,8% del 2009, il dato più alto dall'inizio delle serie storiche cioè dal 2004. Il tasso di disoccupazione a febbraio 2011, rileva sempre l'Istat, è invece calato dall'8,6% di gennaio all'8,4%. Registrata quindi una diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto a gennaio e di 0,1 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione giovanile scende inoltre al 28,1% con una diminuzione congiunturale di 1,3 punti percentuali. Gli inattivi tra i 15 e i 64 anni aumentano dello 0,1% (21 mila unità) rispetto al mese precedente. Il tasso di inattività, dopo la crescita dei tre mesi precedenti, resta stabile al 38%. Al Sud quasi una donna su due, ossia il 42,4% della popolazione femminile, è disoccupata. Ancora più rilevante il divario tra maschi e femmine per quanto riguarda il tasso di inattività: sempre nel Mezzogiorno è pari al 48,8% ma da parte delle donne il livello di mancata partecipazione al mercato del lavoro raggiunge il livello del 62,8%. Anche al Nord e al Centro la percentuale di donne senza lavoro è molto più alta rispetto a quella degli uomini: al Nord è del 27,3% e al Centro del 31,3%. Complessivamente, il tasso di disoccupazione femminile è del 32,9%, contro il 27,7% di quella maschile.

Auto a picco in Italia (2 aprile 2011).
Il mese scorso - secondo i dati diffusi dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti - le nuove immatricolazioni di vetture hanno sfiorato una flessione del 30%, segnando un calo del 27,57% a 187.687 unità, contro le 259.115 del marzo 2010. A febbraio il calo era stato del 20,49%. Fiat Group Automobiles ha immatricolato a marzo 55 mila vetture, il 31,9% in meno rispetto allo stesso mese del 2010. La quota è del 29,35 per cento, 1,9 punti percentuali in meno nel confronto con marzo dell'anno scorso ma il risultato è in miglioramento rispetto allo scorso mese di febbraio, quando si era ottenuta una quota del 28,4%. Volano invece le vendite di Chrysler negli Usa a marzo. Le immatricolazioni vedono un incremento del 31% con 121.730 veicoli venduti. Nel mese di marzo dell'anno scorso Chrysler aveva venduto 92.363 veicoli. Il risultato di oggi è stato il migliore nel mese di marzo dal 2008 e il più alto in assoluto per qualsiasi mese a partire dal maggio 2008. Le vendite al dettaglio del Gruppo Chrysler nel primo trimestre del 2011 hanno mostrato un aumento del 51% rispetto allo stesso periodo del 2010. In Italia il bilancio per quanto riguarda l'ultimo trimestre vede 149 mila vetture immatricolate, il 29,1 per cento in meno rispetto ai primi tre mesi dell'anno scorso. La quota è del 29 per cento, con un calo di 2,4 punti percentuali nel confronto con il 2010. Le auto immatricolate da Fiat in marzo sono state quasi 39 mila, il 39,8 per cento in meno rispetto a un anno fa. Il marchio ottiene così una quota del 20,7 per cento che - nonostante sia in calo nel confronto con marzo 2010 - è allineata con quella degli ultimi mesi. Nel trimestre Fiat ha consegnato oltre 105 mila vetture, il 36,2 per cento in meno dell'anno scorso, ottenendo una quota del 20,5 per cento, in calo di 4,2 punti percentuali rispetto al 2010. Le posizioni di vertice della classifica delle auto più vendute in Italia sono ancora una volta occupate da prodotti Fiat. Al primo posto si piazza la Punto, che è prima anche nel segmento B con una quota del 22,3%. Alle sue spalle la Panda, che risulta anche la più venduta nel segmento A con il 39,3 per cento di quota. Ottimi risultati anche dalla 500 (15,6 per cento nel segmento A) che con i suoi risultati di vendita sommati a quelli della Panda permette al brand Fiat di detenere il 54,9 per cento di quota nel segmento delle city car. Cubo e Doblò dominano le vendite tra i multispazio, ottenendo insieme una quota del 64,1 per cento. Il brand Lancia ha venduto a marzo oltre 9 mila vetture, il 22 per cento in meno rispetto all'anno scorso. Grazie a questo calo inferiore rispetto a quello complessivo ottenuto dal mercato, il marchio può migliorare la quota: 4,9 per cento rispetto al 4,5 di un anno fa. Decisamente positivo il trend del 2011 per Lancia, che è passata dal 4,3 per cento di quota in gennaio, al 4,5 per cento di febbraio fino all'attuale 4,9 per cento. Nel primo trimestre dell'anno, il marchio ha immatricolato quasi 23.500 auto, il 21,9 per cento in meno rispetto al 2010 e ha ottenuto una quota del 4,6 per cento, in crescita di 0,1 punti percentuali nel confronto con l'anno scorso. Ancora una volta il risultato ottenuto da Alfa Romeo è decisamente positivo. Con oltre 7 mila immatricolazioni a marzo, il marchio aumenta i volumi di vendita del 51,2 per cento ottenendo una quota del 3,8 per cento, in crescita di 2 punti percentuali rispetto a marzo 2010. Altrettanto positivo il risultato ottenuto nel trimestre: quasi 20 mila le Alfa Romeo immatricolate, il 37,5 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. La quota è del 3,9 per cento, 1,7 punti percentuali in più in confronto al primo trimestre 2010. A trainare le vendite del brand è la Giulietta che si conferma nelle posizioni di vertice del segmento C con il 14,5 per cento di quota e con oltre 26 mila immatricolazioni in Italia dal lancio a oggi.

L'evasione in Italia (4 aprile 2011).
Il contribuente italiano, in media, evade il 17,87% rispetto alle imposte versate al Fisco. Se però si escludono i redditi che non si possono evadere (lavoro dipendente, pensione, interessi su Bot e conti correnti, eccetera) la percentuale sale al 38,41%. Ma in certe zone questa evasione arriva al 66% mentre in altre scende al 10%. Anche precisando che nell'imposta non versata è compresa pure quella frutto di errori e quella dovuta a mancati pagamenti da parte delle aziende colpite dalla crisi, resta il fatto che parliamo di livelli di evasione comunque molto alti. Dentro c'è di tutto. Si va dagli scontrini e dalle ricevute che non sono stati emessi all'attività svolta completamente in nero, dall'Iva non pagata all'immobile non dichiarato, dalle parcelle richieste sottobanco alle truffe sulle compensazioni fiscali. E così l'evasione sottrae al Fisco, in media, ben più di un terzo dell'imposta che dovrebbe pagare, con punte di due terzi e oltre. Ma come si è arrivati a questi dati? Prendete 50 indicatori statistici di tipo economico, sociale, finanziario, demografico. Seguitene l'andamento dal 2001 a oggi. Incrociateli tra di loro per ognuna delle 107 province italiane. Compattateli su otto dimensioni: bacino di contribuenti, attitudine a pagare le tasse, condizione sociale, struttura produttiva, tenore di vita, dotazioni tecnologiche, caratteristiche orografiche del territorio. Ecco che avrete Dbgeo, DataBaseGeomarket, la nuova banca dati appena messa a punto dall'Agenzia delle Entrate e che servirà agli uomini e alle donne guidati da Attilio Befera per meglio orientare i controlli antievasione e per meglio distribuire sul territorio il servizio della stessa Agenzia ai cittadini. Il Dbgeo è innanzitutto un potente strumento di conoscenza. Che può far scoprire molte cose, partendo dal generale e arrivando fino al particolare, al dettaglio provinciale e perfino cittadino. Tanto per fare un esempio: a livello nazionale, il Tax gap, cioè il rapporto tra imposta versata e imposta dovuta sulla base del reddito presunto (ricavabile dai dati Istat), è pari appunto al 38,41%. Ma questo dato si può articolare sul territorio e scoprire che la propensione a evadere varia molto. Per ora l'Agenzia ha fatto una prima aggregazione in otto gruppi omogenei e su questa base ha costruito una mappa dell'Italia a colori e una tabella di sintesi. Osservando i risultati, si scopre così che si va da un tasso di evasione minima, pari in media al 10,93%, per il gruppo che comprende le province dei grandi centri produttivi - Milano, Torino, Genova, Roma, Lecco, Cremona, Brescia - a uno massimo del 65,67% nel gruppo che contiene le province «difficili» di Caserta e Salerno in Campania, di Cosenza e Reggio in Calabria e di Messina in Sicilia. In quest'ultimo gruppo, quindi, caratterizzato anche da alti tassi di criminalità organizzata, disagio sociale, truffe e altre frodi (6.726 per milione di abitanti, contro una media nazionale di 4.625), mediamente ogni 100 euro d'imposta versata se ne evadono quasi 66. Appena sotto, troviamo, con un tasso d'evasione del 64,47%, l'area che comprende tutte le altre province del Sud (incluse Nuoro, Oristano e Ogliastra in Sardegna), ad eccezione di Bari, Napoli, Catania e Palermo, dove il Tax gap è mediamente inferiore (38,19%). Tra i «virtuosi», con un tasso d'evasione del 20,31%, troviamo molte province del Nord-Est e dell'Emilia Romagna e le province di Cuneo e di Firenze. I tecnici di Befera sottolineano che si tratta di prime aggregazioni e che andando più in dettaglio la realtà è ancora più a macchia di leopardo e quindi concludono: «L'usuale dicotomia Nord-Sud non è sufficiente a rappresentare la situazione». Ma alcune correlazioni sono già evidenti. Dove il tenore di vita è basso e minore è la presenza dello Stato la compliance fiscale, cioè l'attitudine a pagare le tasse, è inferiore. Questo spiega anche perché nelle aree ad alta evasione fanno eccezione le grandi città con una struttura produttiva più solida, tipo Napoli o Palermo, che presentano dati migliori di Tax gap rispetto al territorio circostante. Un'altra considerazione che gli specialisti dell'Agenzia ci tengono a fare è che una cosa è il tasso di evasione presunta e una cosa diversa sono i valori assoluti dell'evasione. Questi ultimi, infatti, si concentrano nelle zone più ricche del Paese. E quindi anche se qui il tasso di infedeltà fiscale è basso, le somme che non vengono versate nelle casse dell'erario sono molto elevate, mentre nelle zone povere, anche se l'evasione è alta, si può recuperare meno. Tutte informazioni e considerazioni consentite dal nuovo database, che contribuiranno a orientare le scelte strategiche dell'Agenzia. Il database potrà essere migliorato nella quantità e nella qualità, aggiungono i tecnici. Dentro Dbgeo sarà ovviamente possibile aggregare i dati anche per categorie di contribuenti (dipendenti, autonomi, imprenditori) e per dimensione e natura dell'azienda (numero dipendenti, ragione sociale, settori). Ma la nuova banca dati potrà servire anche ad altri rami della pubblica amministrazione. Per esempio, si è scoperto che la provincia di Prato produce una quantità di rifiuti urbani pro capite tra le maggiori d'Italia e questo probabilmente sta a dimostrare quanti residenti in nero ci siano, magari impiegati in forme di schiavismo cinese nella produzione del tessile. Non solo evasione fiscale, quindi. Ma anche quella contributiva (Inps), per non parlare dei gravi reati penali che potrebbero più efficacemente essere indagati e perseguiti. Befera però è deciso a utilizzare le potenzialità di Dbgeo anche per una migliore organizzazione degli sportelli e del personale dell'Agenzia sul territorio. Per distribuire meglio gli ispettori, ma anche i servizi al pubblico. In Sardegna, per esempio, dove c'è un territorio ampio, scarsamente popolato, con molti comuni difficili da raggiungere, si è però constatato che esiste una forte diffusione di Internet e quindi su questa base si potrebbe pensare a una riorganizzazione più funzionale, dicono gli esperti, cercando di potenziare i servizi telematici per rendere sempre meno necessario al contribuente dover andare presso gli uffici del Fisco. L'anno scorso l'Agenzia delle Entrate ha recuperato alle casse dello Stato 11 miliardi di imposte evase, circa il 10% di tutta l'evasione stimata. Per quest'anno l'obiettivo è più ambizioso. Grazie anche a Dbgeo.

L'opinione di Oscar Giannino sui dati dell'evasione fiscale (4 aprile 2011).
Riporto questo articolo del Chicago-Blog perchè Oscar Giannino è un economista che ha studiato a fondo il problema della tassazione in Italia. "So di essere minoranza. Ma mi ha vivissimamente contrariato, l’apertura del Corriere della sera con le estrapolazioni e la mappa dell’evasione fiscale predisposta come ultima trovata dall’Agenzia delle entrate del dottor Befera. Si tratta dell’ennesimo aggiornamento della collaudata strategia di successo mediatico perseguita dallo Stato in materia fiscale: alimentare la guerra sociale tra italiani alla ricerca dell’evasore della porta a fianco, per far dimenticare l’intollerabile crescente livello della spesa pubblica e della pressione fiscale, in cambio dell’ inefficienza e discrezionalità pubblica che tasse e spesa pubblica alimentano. E’ quello il vero scandalo, non la riscoperta dell’acqua calda e cioè che esiste la path dependence e dunque anche che la tax compliance dipende da fattori di lungo periodo storico-culturali, per cui ovviamente nel Sud il problema è molto più elevato, sino a 6 volte rispetto ad aree del Centronord. Solo che se leggete le istruzioni per l’uso elaborate dall’ineffabile team di estrapolatori di Befera, vi si dice che al Sud l’evasione sarà pure percentualmente più alta ma il reddito è molto più basso e dunque anche l’imposta dovuta coi relativi accertamenti più difficili, mentre naturalmente al Nord la propensione a evadere è in effetti molto minore ma il reddito e l’imposta dovuta salgono di molto, e dunque il problema vero per lo Stato che deve recuperare da affamato cronico qual è gettito aggiuntivo sarebbe al Nord. Se invece leggete il quaderno di ricerca del servizio studi di Bankitalia a cura di Stefano Manestra, troverete VERE considerazioni scientifiche sulle serie storiche, sui problemi tecnici che restano molto seriamente aperti per stimare il gettito aggiuntivo dovuto visto che i criteri per il calcolo di cifra d’affari, reddito ricavato e imposta dovuta lo Stato li elabora per i fatti suoi per autonomi e professionisti e piccole imprese, nonchè sul fatto che in realtà storicamente il problema dell’evasione fiscale in Italia – una piaga sin dall’inizio del claudicanmte edificio statuale unitario, e preesistente nei precedenti ordinamenti territoriali – è IN CONTRAZIONE e non in espansione, A DIFFERENZA DI QUANTO SOSTENGONO TUTTI COLORO CHE NE FANNO UNA CLAVA DI CONSENSI A FINE DI MAGGIOR SPESA PUBBLICA E PIU’ ALTO PRELIEVO. E se il tasso di abbattimento dell’evasione resta ancora lento, ciò si deve alla complessità, tortuosità e discrezioalità della legislazione vessatoria posta in essere dallo Stato: la Banca d’Italia correttanmente lo ammette, gli angeli dell’Agenzia tributaria di Stato se ne guardano naturalmente bene. Aggiungo al volo che, per esempio, il più delle estrapolazioni in base alle quali questa nuova mappa dell’evasione dell’Agenzia delle entrate stima che per ogni 100 euro d’imposta versata ne vengano evasi 17,8 che mancano allo Stato – titolo e grido d’allarme sul 38% si fanno invece limitando la stima ad autonomi e professionisti, tanto per riconfermare l’orma di Caino che ispira questa strategia statale – si riferiscono ancora a cifre d’affari e dunque imposte presunte calcolate unilateralmente dallo Stato relative ai pagamenti avvenuti nel 2008 su redditi realizzati nel 2007 – cioè al netto degli effetti della crisi economica e della tardiva e solo parziale correzione in corso da allora dei cosiddetti studi di settore. Con metodi di questo tipo, lo Stato decide lui come non valutare ma SOPRAVVALUTARE l’imposta che ritiene a sé dovuta. Ma, naturalmente, poichè stiam parlando di modalità tecniche di accertamento e di calcolo quel che conta è che gli italiani ci caschino, leggendo che l’evasione è al 38%, si scandalizzino contro il vicino, e levino il pugno al cielo urlando “viva lo Stato e morte agli evasori”. E’ un'affilata trappola dell’induzione, questa mappa dell’evasione. E’ induttivo il metodo unilaterale di chi per lo Stato calcola redditi, imposte dovute ed evasioni stimate, ed è induttiva e non deduttiva la convinzione che il report mira a ingenerare tra cittadini e contribuenti. In realtà, il 17,8% di evasione stimata , se pensiamo che nel 2009 lo Stato ha raccolto imposte per 657 miliardi di euro, non fa che confermare il solito dato “nasometrico” che si ripete da anni, sui 120 miliardi annui che lo Stato lamenta di non incassare. Per quanto mi riguarda, il dato andrebbe SEMPRE corredato della PESSIMA PERFORMANCE realizzata dallo Stato, visto che non si danno volentieri soldi a chi ne fa un pessimo uso. I giorni di lavoro annuo necessari al cittadino italiano per assolvere il proprio dovere fiscale sono passati dai 115 del 1980 ai 140 del 1990, ai 152 del 2000, ai 156 del 2010. I giorni di lavoro necessari per coprire integralmente la spesa pubblica sono passati dai 140 del 1980, ai 182 del 1990, ai 155 del 2000, per risalire ai 174 – centosettantaquattro! – del 2010. Se ci limitiamo alla pressione tributaria – al netto cioè dei contributi sociali – la nostra è al 30% del PIl ,quella tedesca al 23,9%, ma la Germania destina alla spesa sociale il 13,7% del Pil, l’Italia il 9,8%. Da questo Stato avido e dilapidatore, è accettabile farsi dare lezione? O non invece bisogna alzare la testa, riacquistare la dignità di cittadini dismettendo il cilicio dei sudditi, e gridargli in faccia “Giù le mani dalla mie tasche, ladro!”? Conoscete la mia risposta, rispettosa della vostra se sarà diversa."

Draghi: positivo l'aumento di capitale delle banche (6 aprile 2011).
Restano «sacche di debolezza» nel sistema bancario internazionale, ma gli aumenti di capitale annunciati da alcuni istituti italiani sono «molto, molto incoraggianti». Mario Draghi indossa la giacca di presidente del Financial Stability Board, l’organismo internazionale incaricato di riscrivere le regole della finanza globale, riunito ieri in seduta plenaria a palazzo Koch, per analizzare la situazione internazionale. E rileva che tassi d’interesse molto bassi potrebbero portare gli investitori a cercare rendimenti «in segmenti di mercati più complessi, che aumentano l’esposizione al rischio». Una puntualizzazione che arriva all’antivigilia del Consiglio Bce in cui si deciderà un primo, modesto aumento dei tassi. Dopo Ubi Banca, che ha varato un aumento da un miliardo, sarà oggi Intesa Sanpaolo ad annunciare il suo aumento di capitale per 5 miliardi: i consigli di gestione e sorveglianza hanno varato all’unanimità l’operazione che oggi sarà comunicata al mercato. Dopo l’aumento, il Core tier 1 di Intesa salirà al 10%. Le azioni, secondo le attese del mercato, saranno offerte con uno sconto del 25-30% sul Terp (il prezzo teorico dei titoli dopo lo stacco del diritto di opzione) per invogliare le sottoscrizioni. A tutti i soci, inclusi gli azionisti di risparmio, verranno assegnati titoli ordinari. Pronto un consorzio di garanzia composto da 12 banche. In rampa di lancio, inoltre, c’è anche la ricapitalizzazione del Monte Paschi. É stato dunque seguito il suggerimento pressante che Bankitalia ha rivolto alle banche italiane, quello di «muoversi prima piuttosto che tardi. Come ho detto molte volte - osserva Draghi - le banche italiane sono uscite illese dalla crisi», e tuttavia è necessario rafforzarne il patrimonio perché «in Italia come nel resto d’Europa sono aumentate le perdite sul credito tradizionale», e occorre far fronte a un «peggioramento dello scenario». Un peggioramento legato, secondo Draghi, anche agli eventi in Giappone e Nord Africa. Lo scenario «si è complicato, e avrà conseguenze sul prezzo dell’energia, del petrolio, del gas». Nel breve periodo l’impatto sarà contenuto, «ma nel medio periodo le conseguenze - prevede Draghi - sono da considerarsi rilevanti». Le sacche di debolezza bancaria di cui parla il governatore di Bankitalia non riguardano il nostro Paese, ma aree specifiche. Ad esempio l’Irlanda. Il governatore auspica che la prossima tornata di stress test bancari possa servire a porre rimedio alle debolezze «in tempi spediti», identificandone i punti deboli per rafforzarli. Il Fsb accelera intanto la messa a punto delle raccomandazioni sui cosiddetti «Sifi», le istitutioni finanziarie di importanza sistemica (quelle «troppo grandi per fallire)». Le raccomandazioni saranno trasmesse al summit del G20 in novembre.

Tbtf e Sifi (6 aprile 2011).
Tbtf o Sifi: sono due acronimi sui quali si gioca non solo il futuro delle regole della finanza, ma, per certi versi, il futuro della finanza stessa, intesa nel senso più generale, e cioè anche quella che sta nei nostri portafogli. Significano, rispettivamente, Too big to fail e Systemically important financial institutions e rappresentano l’autentico rompicapo sul quale da tempo governi, regolatori, banche e supervisori sono impegnati. In sostanza, e riassumendo, ci sono banche troppo grosse il cui fallimento può avere effetti disastrosi a catena su tutti i mercati e le economie, e quindi che gli Stati le devono necessariamente salvare. Questo finisce con lo scaricare i costi sulla collettività e può favorire, altro termine entrato nel linguaggio comune, il moral hazard, perché se uno sa che, comunque le cose vadano, non fallisce e se la cava, è portato ad avere comportamenti più dissennati e quindi più rischiosi. Ci si chiede allora quali regole siano necessarie per scongiurare questo pericolo, ma anche se non sia il caso di adottare misure che penalizzino la grande dimensione. La questione è complicata perché occorre districarsi tra una serie di indicazioni spesso contraddittorie. E' assolutamente innegabile il pericolo del Too big to fail, ma il dato empirico dimostra come i problemi nascono spesso da banche molto più piccole: se si guarda al passato, la crisi americana degli anni Trenta fu innanzitutto una crisi di piccole banche; guardando all’attualità, mentre i grandi operatori hanno già restituito gli aiuti statali, i morosi sono proprio gli intermediari locali e regionali. Insomma, il virus forse non è tanto nella dimensione ma nella interconnessione, ed è così che si è aggiunta la nuova specificazione utilizzata dal Financial Stability Board di Sifi. In effetti, possono esserci intermediari cross border con attività diversificate, potenziali trasmettitori di crisi in tutto il mondo, ma bisogna stare attenti a non pregiudicare le piattaforme di offerta di servizi internazionali che servono a tutti, soprattutto a chi deve crescere per non rimanere isolato nel gioco della globalizzazione. E i banchieri centrali si trovano di fronte all’esigenza di evitare che i guai di pochi grandi attori possano incidere sulle fortune del mondo intero, salvo poi chiedergli aiuto quando c’è da fare qualche intervento di salvataggio di banche più piccole in difficoltà. Materia molto complessa, quindi da affrontare senza facili semplificazioni demagogiche. Il Financial Stabilty Forum ci sta provando con alcune misure: la previsione di procedure speciali di gestione delle crisi; più elevati livelli di capitale; rafforzamento della vigilanza; definizione di adeguate infrastrutture di mercato per garantire trasparenza alle attività più opache e rischiose (ad esempio i derivati); verifica costante attraverso il peer review di come (e se) i singoli Paesi attuano gli standard internazionali. Prima o poi era inevitabileera però che venisse fuori l’altro spinoso problema, elegantemente riassunto in una espressione di moda: burden sharing. Se vanno in default operatori presenti in tutto il mondo, spesso attraverso società controllate, è difficile stabilire la giurisdizione che si deve far carico dei salvataggi (in altri termini chi deve tirare fuori i soldi), con il pericolo di uno scaricabarile poco commendevole, ma inevitabile. Si parla, opportunamente, della necessità di un coordinamento internazionale su questa spinosa materia, ma è rimasta famosa l’affermazione di un banchiere centrale secondo il quale le banche nascono internazionali, ma muoiono tutte nazionali. Forse la proposta ripresa dalla Cancelliera tedesca di creare fondi privati alimentati dalle stesse banche può essere una buona strada, ma non tanto sul piano delle risorse (è improbabile che nell’ipotesi di un grande default internazionale questi fondi siano sufficienti), ma su quello della prudenza e della stabilità; tirare fuori di tasca propria i soldi per i salvataggi rappresenta il miglior incentivo verso comportamenti virtuosi e un solido presidio per prevenire le crisi.

Generali: Geronzi lascia (7 aprile 2011).
Dopo quasi un anno di presidenza, Cesare Geronzi lascia la guida di Generali. Dietro la scelta delle dimissioni, l'intenzione della maggioranza dei 17 consiglieri della compagnia, manifestata nel pre-Cda, di presentare una mozione di sfiducia nei suoi confronti. «A seguito della situazione venutasi a creare per contrasti che non lo vedono partecipe nelle Generali, - si legge nella nota della compagnia - Geronzi ha ritenuto dopo pacata riflessione, nel superiore interesse della compagnia, di rassegnare oggi le dimissioni dalla carica ricoperta». No comment da parte del presidente dimissionario, che poco prima delle 20 ha lasciato, per ultimo, la sede del gruppo assicurativo di piazza Venezia, dove si è tenuta la riunione del consiglio di amministrazione. Geronzi non ha rilasciato nessuna dichiarazione ai cronisti che lo aspettavano e si è limitato ad abbassare il finestrino della sua auto e a concedersi agli scatti dei fotografi e alle telecamere. In base a quanto previsto dallo Statuto delle Generali, le funzioni di presidente vicario saranno assunte ora dal vicepresidente vicario Francesco Gaetano Caltagirone fino alla nomina di un nuovo presidente: il consiglio di amministrazione per la nomina del successore di Geronzi è stato già fissato per l'8 aprile. La notizia delle dimissioni ha fatto fare un balzo in Borsa alle azioni del colosso assicurativo. Il redde rationem che ha portato Geronzi alle dimissioni è l'ultimo capitolo di uno scontro senza esclusione di colpi, durato tre mesi, che ha visto come principali protagonisti sugli opposti fronti il consigliere Diego Della Valle e il vicepresidente Vincent Bolloré. Il primo ha apertamente contestato i metodi e le esternazioni del presidente, denunciando una gestione scorretta del Cda e una interpretazione «personalistica» del suo ruolo. Il secondo ha criticato platealmente l'operato del management, e in particolare l'operazione nei paesi dell'est con il ceco Petr Kellner, arrivando a sospettare un falso in bilancio e mettendo quindi nel mirino le scelte dell'a.d. Giovanni Perissinotto. Altrettanto attivo si è mostrato il finanziere franco-tunisino Tarak Ben Ammar, storicamente vicino a Geronzi. Il Cda di Generali che ha visto l'addio di Geronzi si è concluso dopo le 17. Fra i primi a lasciare la riunione, il patron di Tod's Diego Della Valle, che è apparso ai cronisti sorridente e visibilmente soddisfatto. La mozione di sfiducia, con le firme anche dell'amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel e del direttore generale della stessa banca, Francesco Saverio Vinci, era stata ventilata al presidente. Di fronte alla discesa in campo della maggioranza dei consiglieri, Geronzi ne ha tratto le conseguenze e ha deciso il passo indietro. Tra i consiglieri, in minoranza, contrari all'ipotesi della sfiducia, una fonte cita il vicepresidente vicario Francesco Gaetano Caltagirone, Alessandro Pedersoli e Paolo Scaroni (a.d. Eni). Oltre ad essersi dimesso dalla presidenza di Generali, Cesare Geronzi lascia anche l'incarico di consigliere d'amministrazione della compagnia e «tutti» quelli ricoperti in rappresentanza del Leone nelle società partecipate. In particolare, Geronzi non siederà più nei patti di sindacato di Rcs, Mediobanca e Pirelli. Nelle discussioni che hanno preceduto il Cda di Generali ci sarebbero state forti pressioni da parte dei consiglieri anche per un passo indietro di Vincent Bolloré. Ma la tempesta che ha travolto Geronzi non ha trascinato anche il francese. «Sono ancora vicepresidente» ha detto ai giornalisti uscendo dalla sede romana della compagnia. Bolloré, consigliere considerato vicino a Geronzi e azionista anche di Mediobanca, si è poi limitato ad aggiungere un «tutto bene, tutto bene» a commento della giornata odierna. «Non conosco le modalità. Cercheremo di leggere e di capire ma credo che, in questa situazione, la cosa importante sia gestire bene e tutelare la società» ha detto la leader di Confindustria Emma Marcegaglia, commentando le dimissioni di Geronzi e ammettendo: «Francamente, non me l'aspettavo». Generali ha concluso la seduta in Piazza Affari in forte rialzo, ma limando i picchi raggiunti in tarda mattinata. La giornata si è chiusa su un +2,97% a 15,93 euro (di 16,35 euro il prezzo massimo). Con i gruppi assicurativi forti in tutta Europa (l'indice Dj stoxx di settore è salito di circa un punto e mezzo percentuale) e l'indice Ftse Mib della Borsa di Milano in rialzo finale dell'1,21%, su Generali gli scambi sono stati forti: nella giornata sono passate di mano 22,5 milioni di azioni Generali, contro una media quotidiana dell'ultimo mese di Borsa di 9 milioni di «pezzi».
Il commento di Repubblica. "L'impensabile è dunque accaduto. Persino in un Paese bloccato come l'Italia. Il ribaltone al vertice delle Generali, senza enfasi, è davvero una "svolta epocale". Un "regime exchange": nel gergo della diplomazia internazionale, non c'è altra formula possibile per definire l'uscita di scena di Cesare Geronzi. Un vero e proprio "cambio di regime". Un "cambio di regime" che rispecchia la metamorfosi in corso negli assetti della finanza. Ma un "cambio di regime" che riflette anche il mutamento in atto negli equilibri della politica. Sul piano politico, la fine del "geronzismo" coincide con il declino del berlusconismo. E non poteva essere altrimenti, vista la perfetta omogeneità e complementarità dei due fenomeni. Se è esistito e resiste un "cesarismo" politico, questo è rappresentato da Berlusconi. Se è esistito e ora si estingue un "cesarismo" finanziario, questo è sempre stato rappresentato da Geronzi. L'uno aveva bisogno dell'altro, per radicarsi e perpetuarsi. E dunque, fatalmente, la caduta dell'uno indebolisce anche l'altro. Lo sancì un editoriale del "Foglio" di due anni fa, quando il Cavaliere aveva da poco trionfato alle elezioni e Geronzi, allora presidente di Mediobanca, veniva consacrato come unico, grande "banchiere di sistema" e "snodo fondamentale", al crocevia tra politica ed economia, del sistema di potere berlusconiano. Lo aveva confermato una cena a casa di Bruno Vespa l'8 luglio 2010, quando il premier (insieme all'inseparabile Gianni Letta, gran sacerdote del rito geronziano) sedeva allo stesso tavolo con lo stesso banchiere e con il segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone. Le dimissioni forzate di Geronzi sono un colpo mortale per quel sistema di potere, cattolico-apostolico-romano, che attraverso l'asse Geronzi-Letta ha blindato il Cavaliere. Facendolo finalmente entrare e poi rafforzandolo nel Salotto Buono del capitalismo italiano. Portandogli in dote un potere d'influenza, diretta o indiretta, sulle banche e le aziende strategiche rimaste nel Paese (da Mediobanca a Generali, da Ligresti a Pirelli, da Telecom a Rcs). Alimentandolo sotto il profilo lobbistico-mediatico (spesso con l'ausilio della "macchina del fango"), attraverso la rete collaudata della P4 di Luigi Bisignani e dei siti Internet più o meno "amici" (come Dagospia). Tutto questo, oggi, viene spazzato via. Con il contributo decisivo di Giulio Tremonti, e questa è l'altra enorme novità politica: attraverso Geronzi, il ministro dell'Economia affonda la lama nel cuore del suo "carissimo nemico" Letta. Si crea così una rottura, proprio nell'ingranaggio vitale dell'apparato. Si produce una sconnessione, proprio dentro il circuito di potere che in questi anni ha garantito continuità al sistema. Dalla Cassa di risparmio alla Banca di Roma, dalla Banca di Roma a Capitalia, da Mediobanca alle Generali: nelle sue tante vite, Geronzi ha incarnato il "motore immobile", il punto di equilibrio. Quando c'era la Dc garantiva Andreotti. Quando è nata Forza Italia ha garantito Berlusconi. Sempre all'insegna della contiguità, e della continuità. Ora tutto questo non c'è più. E questo è già un enorme passo avanti, per il piccolo mondo antico del capitalismo italiano. Sul piano della finanza, cioè degli assetti interni ai Poteri Forti e alle Generali, resta da capire come e perché il ribaltone sia stato possibile. E qui è stato fatale l'approccio che Geronzi ha sempre adottato, quando ha preso in mano le redini di un gruppo. Con l'unica "delega" che gli è sempre stata a cuore, cioè il telefono, il banchiere ha sempre segato il ramo sul quale sedevano i suoi manager. Lo fece con Pellegrino Capaldo, ai tempi della Cassa. Lo fece con Matteo Arpe, ai tempi di Capitalia. Lo fece con Alessandro Profumo, ai tempi di Unicredit. Lo ha fatto con Nagel e Pagliaro, ai tempi di Mediobanca. L'ha fatto con Giovanni Perissinotto, in questo anno vissuto pericolosamente alle Generali. Lo scontro tra Geronzi e Perissinotto, in questi mesi, è stato molto più feroce di quanto non si immagini. È cominciato come un conflitto "locale" (il caso Kellner e l'affare Vtb), ma è diventata ben presto una guerra totale (il ruolo strategico e il futuro della compagnia). Presidente con l'unica delega sulla comunicazione, Geronzi ha cercato in tutti i modi di continuare a controllare le partecipazioni strategiche di Generali (da Mediobanca a Intesa a Rcs) e di far diventare anche il Leone Alato un "braccio armato" della politica economica del governo, ipotizzando di snaturare l'azienda più ricca d'Italia (con attivi per 470 miliardi di euro) in una "compagnia di sistema". Il suo alleato iniziale, in questa battaglia, è stato il finanziere bretone Vincent Bollorè, vicepresidente, col quale si dice condividesse il progetto segreto di una successiva fusione Generali-Axa. Perissinotto, Ceo group con tutte le deleghe, ha resistito. E alla fine l'ha spuntata, forte del sostegno dei consiglieri d'amministrazione "di minoranza". Diego Della Valle su tutti, protagonista e capofila della lotta più strenua contro Geronzi. Ma poi Lorenzo Pelliccioli, i tre consiglieri espressione dei fondi, e alla fine anche i due consiglieri di Mediobanca e lo stesso Francesco Gaetano Caltagirone, vicepresidente vicario. Il momento più drammatico dello scontro è avvenuto il 16 marzo, nel cda in cui Bollorè si è presentato chiedendo di sfiduciare Perissinotto: "Il Ceo se ne deve andare, per me il bilancio è falso". La seduta è stata interrotta tre volte. E per ben tre volte, chiuso in una stanza attigua a quella del consiglio, Bollorè è stato "arginato", e alla fine convinto a ripiegare su un'astensione da Nagel, da Pelliccioli e da Caltagirone. Geronzi ha tentato solo una timida mediazione, ma nulla di più. E quello è stato l'inizio della fine. Il giorno dopo, 17 marzo, Perissinotto ha scritto a Geronzi una lettera di fuoco: "Non posso accettare che un vicepresidente dichiari che il bilancio è falso. Questo episodio lede il nome e l'immagine delle Generali. Su questo non transigo, nessuno si può permettere di dubitare dell'onestà mia e dei miei dirigenti". Già in quella missiva, il manager chiedeva al presidente un atto formale che risolvesse il caso Bollorè: da una presa di distanza pubblica alla richiesta di un passo indietro. Quell'"atto formale" non è mai arrivato. Il presidente, come Don Abbondio, ha cercato di troncare e sopire. Ma senza mai schierarsi apertamente a fianco del management, perché non ha mai rinunciato all'idea di una trasformazione genetica delle Generali. Per prendere tempo, Geronzi ha cercato un ultimo compromesso con il Ceo, nel faccia a faccia del 24 marzo a Piazza Venezia. Un altro confronto-scontro burrascoso. Geronzi ha offerto la tregua: "Chiudiamo la polemica, facciamo un comunicato congiunto e lasciamo decantare le cose...". Perissinotto ha risposto picche. "No, è troppo tardi, lei ha destabilizzato la compagnia, ed io non mi fido più. Se vuole fare il capo-azienda lo dica chiaramente in consiglio, ma così non si può andare avanti". Quella sera stessa, Perissinotto è stato convocato a Via XX Settembre da Tremonti. È stata la mossa che ha cambiato definitivamente il corso della partita. Il superministro dell'Economia ha preso in mano la pratica Generali. Ufficialmente, per ascoltare il resoconto di Perissinotto e formulargli un invito ecumenico: "Siate responsabili...". Ma sostanzialmente, per assestare la spallata finale al Tempio Sacro del potere di Letta. In queste due settimane sono stati frequenti i contatti tra il ministro e Nagel, che dopo qualche incertezza iniziale ha avallato il contrattacco di Perissinotto. In una telefonata del 24 marzo l'ad di Mediobanca avrebbe addirittura caricato il Ceo delle Generali: "Spiega a Tremonti che Geronzi è un problema, e che Bollorè è un pericolo...". La risposta: "D'accordo, io lo faccio. Ma perché non lo fai anche tu?". E Nagel lo ha fatto. In queste due settimane anche Mediobanca ha cambiato strategia. Dall'attesa è passata all'attacco. Alla fine della scorsa settimana, poi, si è mosso Caltagirone. Il vicepresidente vicario si era mantenuto su una posizione mediana. Fortemente irritato dalle manovre di Geronzi: "Stavolta ha veramente esagerato". Ma anche perplesso su certe sfuriate di Della Valle: "Se lui è il "nuovo", non andiamo lontano". E anche su alcune scelte di Perissinotto: "Abbiamo saputo del nuovo assetto della governance in Telecom solo a cose fatte, e questa è un'anomalia...". Ma alla fine il costruttore romano si è convinto che così le Generali non potevano reggere. E ha dato via libera a Nagel. Così si è chiuso il ciclo di Geronzi. Con uno strappo che cambia radicalmente il panorama del potere italiano. Ma le prossime mosse saranno cruciali. Dalla scelta del nuovo presidente di Generali agli assetti di Mediobanca, dal ruolo di Unicredit su Fonsai-Ligresti alla difesa delle aziende strategiche come Parmalat o Edison. Il "sacrificio" di Geronzi non sarà stato inutile solo se consentirà al sistema industrial-finanziario di diventare più moderno, alle strutture proprietarie di diventare più aperte al mercato e ai manager di diventare più autonomi dalla politica. La "rupture" delle Generali segna la fine del vecchio capitalismo. Ma il nuovo è ancora tutto da costruire. m.giannini@repubblica.it".
Il commento de Il Giornale. Quando un pezzo grosso della finanza come Cesare Geronzi, dopo solo un anno, viene estromesso dal suo prestigioso incarico, si apre subito la ricerca del retroscena. Si disegnano scenari di battaglie in corso, di nuovi assetti di potere, di equilibri in via di formazione. Quelle rare volte in cui un potente molla, si ha l’urgenza di capire come e chi riempirà il vuoto. Non saremo certo qui a sostenere che il siluramento del presidente delle Generali non provochi conseguenze. Ma nell’orgia di insinuazioni si perde di vista cosa è successo. Il consiglio di amministrazione delle Generali ha di fatto sconfessato il suo presidente per ragioni piuttosto mondane. Geronzi avrebbe commesso, secondo il consiglio, degli errori nella gestione della propria funzione. Vi è inoltre una questione più complessa e che attiene alla rete di tutele della grande finanza italiana, venuta meno da tempo. Partiamo dalla gestione delle Generali. Si tratta della più importante realtà finanziaria italiana. È controllata da Mediobanca, che con il 14 per cento delle azioni da sempre ne determina le scelte. Il leone di Trieste è sonnacchioso per sua natura e la sua riservatezza, ereditata dal modus operandi di Enrico Cuccia, è proverbiale. Generali, fino a quando Cuccia e il suo delfino Vincenzo Maranghi comandavano in via Filodrammatici, si poteva considerare (si perdoni la semplificazione) eterodiretta. Con il tempo e con il mercato, questo cordone ombelicale si è sfilacciato. Ma resta. In poco meno di un anno, a Geronzi sono stati addebitati due peccati mortali. Il primo: non aver saputo tenere a bada il consiglio di amministrazione. I suoi componenti hanno litigato a colpi di interviste sui giornali di mezzo mondo; il vicepresidente del gruppo si è addirittura astenuto dal votare il bilancio. Si è passati dai silenzi di Cuccia alla rissa condominiale. Il secondo peccato mortale che gli viene attribuito è quello di aver cercato un nuovo fronte di azionisti alternativi a Mediobanca. Il giovane e brillante amministratore delegato, Alberto Nagel, che ha avuto Geronzi, fino all’anno scorso, presidente della sua banca, ha deciso di rompere gli ultimi indugi solo quando ha capito che Geronzi avrebbe cercato di giocare su più tavoli, di creare una pattuglia di azionisti che lo sostenessero in alternativa a quella di Mediobanca. Con l’uscita di Geronzi i problemi del consiglio di amministrazione non si placano. Tutt’altro. Al suo interno, ieri, si è trovata una maggioranza che per motivi diversi è stata concorde nel mettere in discussione il presidente. Nei prossimi mesi si dovranno ricucire i rapporti, ridefinire i ruoli. Diego Della Valle, il consigliere indipendente che per primo aveva posto la questione del ruolo di Geronzi, può certamente oggi dire di aver dato l’innesco a tutta l’operazione. Ma c’è da scommettere che una parte dei consiglieri che ieri lo hanno seguito su Geronzi, domani potrebbero stare da un’altra parte. Un consigliere confessa al Giornale: «Della Valle è un ottimo imprenditore, ma un pessimo consigliere». Insomma, se questo è il clima, ne vedremo ancora delle belle. A ciò si somma il ruolo dell’amministratore delegato, Perissinotto. Per dirla con uno dei membri del cda: «Di fatto ora è sotto osservazione». Non conviene a nessuno decapitare i vertici della prima società finanziaria italiana. Ma una parte del consiglio è piuttosto allergica a molte delle ultime mosse fatte proprio dall’amministratore. Da oggi in avanti avrà tutte le carte per giocarsi la partita da solo. Ma, come si dice, la sua poltrona scotta. Tutto ciò avrà una conseguenza anche in Mediobanca. È difficile pensare che la frattura che si è avuta con la componente francese (Bolloré è stato sempre a fianco di Geronzi) non si riverberi anche nella banca di di piazzetta Cuccia. Qui i francesi fanno parte di un patto di sindacato con il loro 10 per cento. Fonti vicine al governo fanno capire che un nuovo fronte con Parigi non si dovrà aprire. Insomma, l’ipotesi che taluni accarezzavano e cioè quella di compensare lo smacco dei francesi in Mediobanca con un loro maggiore ruolo nelle assicurazioni in cerca di socio forte dell’ingegner Ligresti è fuori discussione. Per farla breve, Bolloré e company se volessero sbarcare in Fondiaria Sai la dovranno pagare e a caro prezzo. D’altronde Unicredit non ha alcuna intenzione di mollare l’osso senza recuperare integralmente i circa 600 milioni che ha versato da quelle parti. Ricapitolando. In Generali è stato spazzato via quell’asse francesi-Geronzi che ha governato un buon pezzo del salotto buono del capitalismo italiano dall’uscita di Maranghi in poi. E già da oggi in Mediobanca si sta cercando un nuovo accordo con i soci francesi, ma da una posizione di forza. Dicevamo, però, che è anche venuta meno quella rete di tutela della grande finanza che per anni ha rappresentato una costante in Italia. Non si può ovviamente dire che il governo sia stato all’oscuro di tutto ciò che avveniva a Trieste (per la verità i consigli Geronzi si ostinava a farli a Roma). Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, sembra oggi molto interessato all’evolversi del capitalismo italiano. È suo il tocco decisivo per le nomine nelle ex partecipazioni statali. È suo l’impulso alla battaglia contro i francesi in Parmalat ed Edison. Come fu anche sua la benedizione, un anno fa, per il passaggio di Geronzi da Mediobanca a Generali. Ma oggi i rapporti tra politica e finanza non sono certo quelli della prima era Geronzi. Alla politica resta un forte potere interdittivo, ma certo non la scelta diretta dei board. Geronzi non ha avuto alcuna sponda governativa nella sua battaglia di resistenza alle Generali. E in molti leggeranno la sua uscita come un colpo basso al potere berlusconiano. Sicuramente perde peso il banchiere più vicino al cavaliere, uno dei pochi che gli ha dato credito, mentre il resto del mondo (compresa Mediobanca) chiudeva le porte. Ma il berlusconismo è sempre stato alieno a questo mondo, che lo ha sempre tenuto ai margini. Il suo potere non si è mai fondato nell’establishment economico. È forse per questo che le partite Generali, Mediobanca, e prima Telecom, lo hanno visto distratto e talvolta assente. Oggi Tremonti si è messo al centro della scena economica finanziaria. Gli strumenti che ha a disposizione, grazie al cielo, non sono più quelli di Andreotti. Può accompagnare le scelte dei privati, può cercare di condizionarle con quel metodo relazionale che è stato subito ribattezzato Aspen, ma le leve oggi più di ieri sono nelle mani di chi per comandare tira fuori i quattrini. Sarà un caso ma i due attori principali di questa vicenda restano due ricchi imprenditori. Della Valle, che non ha un titolo Generali, ma che ha poco da perdere in questa vicenda e Francesco Caltagirone che con il suo abile silenzio e con i suoi quattrini investiti a Trieste ha determinato (e determinerà nelle prossime settimane) gli assetti all’interno del Leone triestino. Giornale.it".
Il commento de Il Foglio. "Dopo aver letto gli articoli che oggi trattano il gran casino relativo all’improvvisa cacciata di Geronzi da Generali ci sono almeno quattro cose che vanno focalizzate per bene per capire di che cosa diavolo stiamo parlando. La prima, ipotesi che viene accreditata oltre che dal Foglio anche da Repubblica e dal Corriere della Sera, è che un ruolo importante nel “cambio di regime”, come scrive Massimo Giannini su Rep, lo ha avuto certamente Giulio Tremonti. E quando nel mondo della finanza si parla di "ruolo" non significa necessariamente che Tremonti abbia alzato il telefono per accelerare la defenestrazione di Geronzi ma che una volta saputo quello che stava accadendo non ha fatto nulla per evitare la rivoluzione. E credo non sia un caso che il Corriere della Sera, giornale nella cui cordata editoriale Geronzi era fino a ieri presidente del patto di sindacato, oggi scrive che Tremonti, in effetti, ha “guardato con favore” all'uscita di Geronzi da Generali.La seconda cosa forse evidente ma che non può comunque non essere sottolineata è che il palcoscenico sul quale si è combattuta la battaglia anti Geronzi è stato quello di Repubblica (l’intervista con cui Della Valle lanciava la sua sfida a Geronzi è stata fatta proprio da Giovanni Pons su Rep.) e da qui a dire a dire che il giornale più attivo nella promozione della Santa alleanza anti berlusconiana nel mondo della politica abbia tentato in tutti i modi di creare le condizioni per riproporre quello schema anche nel mondo della finanza il passo è davvero breve. Il terzo spunto di riflessione riguarda invece il prossimo obiettivo dei “rottomatori della finanza” e in particolare riguarda l’ultimo presidio geronziano nel mondo dei poteri: i francesi in Mediobanca. Entro la fine dell’anno saranno rivisti gli equilibri del cda di Piazzetta Cuccia ed entro dicembre si capirà se i francesi riusciranno a trovare un accordo con qualcun altro oppure verranno travolti dall’ondata della santa alleanza finanziaria. Il quarto punto riguarda invece chi sarà il vero successore di Geronzi nell’universo legato a Unicred-Mediobanca-Generali (universo da sempre in contrapposizione con quello più legato alla Banca IntesaSanPaolo di Bazoli). Il candidato migliore per quel ruolo si chiama Fabrizio Palenzona (attualmente vicepresidente di Unicredit) e considerando che Palenzona, come Bazoli, ha un rapporto molto forte con Giulio Tremonti non è difficile capire come il ministro dell’Economia potrebbe presto diventare il nuovo vero punto di riferimento dei poteri forti italiani. Il Foglio.it".
Intervista di Geronzi al Corriere. La sconfitta di Cesare Geronzi segna una data storica, diremmo epocale se l'aggettivo non fosse abusato, nelle vicende del malcerto capitalismo di relazioni di questo Paese. Il presidente uscente delle Generali è uomo di grande cortesia e al telefono a tarda sera dissimula tutta la delusione per l'andamento del consiglio che l'ha sfiduciato. Non sembra esserci traccia nel suo umore delle lunghe e drammatiche ore trascorse in quella piazza Venezia, così carica di suggestioni storiche, che nel suo disegno doveva diventare il quartier generale di una multinazionale di sistema. Disegno detestato e osteggiato dal management, da molti consiglieri, e infine dall'azionista Mediobanca e considerato da molti il modo per difendersi, passando da una banca a una assicurazione con requisiti di onorabilità più laschi, da una possibile condanna penale nel caso Cirio (otto anni richiesti). Trieste, la sede storica delle Generali, è lontana, lontanissima. Un altro mondo, forse quello che lui non ha capito. Una compagnia di assicurazioni, che non a caso ebbe tra i suoi dipendenti Franz Kafka, è radicalmente diversa da un istituto di credito, per giunta romano. Geronzi ricorda che le Generali sono state sempre terreno di battaglie aspre per i presidenti di carattere che hanno voluto svolgere il loro ruolo. E, al contrario, un'oasi per quelli di campanello o per vanesi parrain d'Oltralpe. Si riferisce a Cesare Merzagora, che fu anche democristiano presidente del Senato? Sì, ma non c'è bisogno di tornare così indietro, dice. Il caso più vicino è quello dell'inusuale decisione di Banca d'Italia, azionista delle Generali, e del governatore Antonio Fazio, amico per anni dell'ex numero uno di Capitalia, di astenersi nell'assemblea che nel 2001 portò alla sostituzione di Alfonso Desiata con Gianfranco Gutty. «Il destino dei presidenti che, come me, hanno cercato di capire le cose». Le Generali muovono una massa di investimenti rilevante. Coagulano interessi e, sottolinea, molti, troppi conflitti d'interesse. O interessi contrapposti. Gli scontri fanno parte della storia della più grande compagnia d'assicurazioni italiana ma, aggiunge sempre con quella serenità che sembra non abbandonarlo mai, «diciamo che non potevo accettare che scendessero a livelli così beceri. Non ho voluto scrivere una delle più brutte pagine della storia dell'establishment italiano». Geronzi ricorda, dando la sensazione di essersi liberato di un peso ormai insopportabile,le decisioni della sua pur breve esperienza di assicuratore. In particolare: il comitato di valutazione degli investimenti e quei momenti, contestati, di controllo della gestione, attuati in seguito alle lettere o alle richieste delle autorità di vigilanza, l'Isvap e la Consob. E alla fine, commenta: la verità è che la compagnia è eterodiretta. L'accusa non è lieve. Tutto finito? «No, non è ancora stato scritto il capitolo finale». L'«arzillo vecchietto», definizione usata in pubblico dal suo rivale, ieri vincitore, Diego Della Valle, non sembra rassegnarsi alla pensione. Non parla dei suoi molti nemici, ex alleati, si limita a dire, con una punta di perfidia, che il nuovo che avanza è formato da una «gioventù anziana», dalla quale non c'è da aspettarsi granché. Chi vivrà vedrà. Corriere.it".
Il commento de La Stampa. Cesare, alla tua età e con la tua storia non ti conviene rimanere in un ambiente dove non puoi lavorare». «Guardate, io non sono il tipo che va in consiglio a scontrarsi... Se le cose stanno così, nell’interesse della compagnia, preferisco presentare le mie dimissioni». Ufficio di Cesare Geronzi al terzo piano di piazza Venezia, le nove e trenta di ieri mattina. Di fronte al presidente delle Generali ci sono l’ad di Mediobanca Alberto Nagel, che della compagnia è vicepresidente e primo azionista con il 13,5%, e il consigliere Lorenzo Pellicioli che rappresenta il socio De Agostini. Hanno in mano una mozione di sfiducia al presidente con almeno 10 firme sui 17 consiglieri, ma non avranno nemmeno bisogno di tirarla fuori. La resa, come sempre nelle grandi battaglie, è un affare di silenzi più che di parole. Nagel e Pellicioli, sono loro la coppia che già da sabato scorso, in maniera riservatissima ma serrata, ha messo a punto il blitz contro Geronzi - considerato ormai un rischio per la compagnia - e quello che un protagonista definisce il suo «golpe strisciante» sul Leone. E adesso, prima ancora si riunisca il consiglio straordinario che dovrebbe trattare proprio lo scontro nelle Generali, è il momento di affrontare il presidente. Lui, che solo pochi minuti prima ha saputo del blitz da una visita del vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone in veste di ambasciatore, è sorpreso ma non spiazzato. E’ arrivato alle Generali da meno di un anno, proposto proprio da Mediobanca, e da allora - lamentano gli insorti di piazza Venezia - non ha fatto che destabilizzare la compagnia, con interviste e interventi poco adatti a un presidente non esecutivo, voci malevole sul management guidato dall’amministratore delegato Giovanni Perissinotto, e poi quello che viene considerato l’atto più grave: il lancio del kamikaze Vincent Bolloré contro il bilancio del gruppo nel cda del 16 marzo. Un attacco motivato ufficialmente dai dubbi del vicepresidente francese della compagnia sull’accordo di Generali con la ceca Ppf ma dietro il quale molti vedono la mano del presidente. Dopo gli scontri in crescendo, il 29 marzo scorso si fa il punto in Mediobanca. In una riunione del comitato nomine, presenti Nagel e i grandi soci di piazzetta Cuccia - Bolloré compreso, che in quella banca pesa per oltre il 5% - si fa il punto della situazione. I manager Mediobanca decidono che dopo quanto è accaduto bisognerà «tagliare le unghie» allo stesso Bolloré e a Geronzi: una censura, magari, per il primo che già si mostra contrito; una decisa riduzione delle deleghe per il presidente. Poi, sabato scorso (2 aprile 2011), qualcosa cambia. Perché? In Mediobanca si comincia a ragionare sul fatto che un Geronzi ferito è più pericoloso di un Geronzi tranquillo o definitivamente neutralizzato. Una visione che nasce dall’esperienza già avuta con il banchiere di Marino alla presidenza di Mediobanca e alla quale non è estranea nemmeno la nuova vocazione interventista di Unicredit che nel consiglio di piazzetta Cuccia ha il suo presidente Dieter Rampl e il vicepresidente Fabrizio Palenzona - e che vuole giocare un ruolo rafforzato nella Galassia del Nord. L’inserimento di Geronzi in Generali - prende atto Nagel, che del resto già un anno fa non pensava fosse una buona idea - non ha funzionato. Lo ritiene anche Pellicioli, stanco delle estenuanti battaglie che da undici mesi drenano l’energia dei soci e paralizzano Perissinotto e i suoi uomini. È una battaglia di potere ma è anche la rivolta dei tecno-cinquantenni - una media, Nagel ne ha 47, Pellicioli va per i 60, il «guastatore» Diego Della Valle che da mesi si distingue per le sue dichiarazioni anti-Geronzi, e Perissinotto ne hanno cinquantotto contro quel potere capitolino vecchissimo ed apparentemente eterno incarnato oggi nel settantaseienne Geronzi. «Il nostro è anche un contributo al cambiamento culturale e generazionale», commenta uno dei «congiurati». E per Mediobanca, dove si rifuggono con un’alzata di spalle le facili suggestioni edipiche che vogliono i figli ormai pronti a uccidere simbolicamente quel padre così ingombrante, si tratta solo di rivestire in pieno il proprio ruolo istituzionale di primo azionista del Leone, mettendo a punto una governance efficace che consenta alla compagnia di crescere e - particolare non indifferente - staccare dividendi. Da sabato sono telefonate, contatti, prudenti sondaggi ma anche la massima attenzione perché Geronzi non capti il pericolo. Il blitz viene reso noto a tutti i consiglieri solo nella serata di martedì, con un vertiginoso valzer di incontri romani. Alle 20 Nagel, il direttore generale di Mediobanca Leonardo Vinci, Pelliccioli si ritrovano a pranzo nella foresteria della banca, in piazza di Spagna, con Caltagirone. Da lui arriva una posizione di sostanziale equilibrio, riconosciuta da tutto il cda: non vuole che Geronzi sia messo alla gogna ma non difenderà certo ad oltranza il presidente. Poi si aggiungono Della Valle e Miglietta, il cui consenso sull’operazione è scontato. Due ore dopo Nagel incontra faccia a faccia Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni e influente consigliere indipendente del Leone: un altro via libera. A mezzanotte i «congiurati» si ritrovano tutti o quasi sono nel palazzone di via Bissolati 23, cuore di Roma, dove c’è la sede di Ina-Assitalia, controllata del Leone. Con loro anche i tre uomini al vertice operativo delle Generali: Perissinotto, Balbinot e Agrusti. Si smorzano gli ardori di chi vorrebbe una punizione esemplare per Bolloré. Si spara è la linea del cacciatore Nagel - al «bersaglio grosso». Ieri mattina l’ultimo faccia a faccia con Bolloré: lui difende fino all’ultimo, o quasi, Geronzi. Poi in cda si preoccuperà di smarcarsi dal ruolo di guastatore: «Se i chiarimenti dati dalla compagnia vanno bene alla Consob e all’Isvap, anche io sono soddisfatto». Bolloré è salvo, Geronzi è fuori, Nagel ha centrato il bersaglio e non teme che la battaglia di Trieste si sposti adesso come prevedono invece molti - ai piani alti di Mediobanca.
Il commento di Oscar Giannino "In Italia si illudono, noi qui a Londra stappiamo champagne, ma non per la stessa ragione". Questo il commento di amici banchieri ai desk europei londinesi di grandi banche d’affari, alle dimission i di Cesare Geronzi dalla presidenza di Generali. E’ la fine di una lunga fase, non c’è dubbio. Dove porti bisogna vedere, e per questo a Londra credono che i vincitori italiani di oggi tendano a fare il conto senza l’oste. C’é la Francia, di mezzo, e stavolta non si parla di latte ma di biscotti ben più sostanziosi. L’abilità oggettiva di Diego Della Valle è stata quella di identificare la linea di frattura in Generali che rendeva Geronzi molto più esposto di quanto la sua aura pluridecennale di power broker facesse immaginare a molti. Ma senza l’aggiunta di Fabrizio Palenzona, Della Valle non ce l’avrebbe fatta. E’ l’ultimo difensore di Maranghi, il primo carnefice di Geronzi. La linea di frattura non è mai stata quella dichiarata, la comunicazione esterna del Leone gestita dai collaboratori di Geronzi. Neanche le cattiverie volate all’ultimo secondo, i milioni di euro del costo complessivo della presidenza – comunque meno che ai tempi di Bernheim, ma allora nessuno fiatava. Della Valle ha fegatosamente scommesso sul fatto che con attacchi pubblici avrebbe portato dietro di sé i fondi privati e gli amministratori indipendenti, tutti i soci privati in cda, e alla fine la stessa Mediobanca. C’è riuscito. Anche perché aiutato da un pizzico di fortuna. Se Vincent Bollorè non avesse reagito con un doppio fallo da cartellino rosso, non votando il bilancio pur essendo vicepresidente e attaccando lancia in resta in pubblico Giovanni Perissinotto. E’ a quel punto, che Della Valle ha affondato la lama. Se l’ex presidente di Mediobanca non riesce a impedire che il vicepresidente francese, esponente di un pezzo essenziale del patto di sindacato di Mediobanca stessa, ponga con le sue incaute decisioni l’ad Perissinotto in condizioni di minacciare un esposto alla Consob contro entrambi, allora bisogna mandarli a casa. Su questa linea, da Nagel di Mediobanca ai grandi privati come Pelliccioli e Caltagirone, fino ai consiglieri indipendenti a nome dei fondi azionisti, non hanno potuto che convenire. Ho purtroppo l’impressione, però, che il problema sia solo a parole quello della maggior focalizzazione di Generali sul suo core business, ponendo termine ai lunghi anni in cui ha sottoperformato rispetto ad Axa e Allianz. La questione è diversa, ed è per questo che i miei amici banchieri a Londra stappavano champagne. Fino a lunedì sera sembrava che la riunione del cda mercoledì si sarebbe conclusa con una abborracciata mezza marcia indietro di Bollorè, e qualche nuovo scambio di sciabola con Geronzi. Ma nella notte di lunedì si è capito invece che in primis i manager di Mediobanca consideravano la posizione di Bollorè non più risolvibile, perché ad essere minacciata era la stessa Mediobanca in prospettiva. E’ stato Palenzona, a convincerli. E tutto è precipitato. Della Valle ha così ufficialmente aperto la grande campagna perché i soci francesi escano da Mediobanca. Il patto di sindacato scade a fine anno, controlla il 44% di Piazzetta Cuccia, e vede i soci stranieri all’11% con singole partecipazioni non superiori al 2%, salvo Financière du Perguet fino al 5% e Groupama fino al 3%. Da settembre dell’anno scorso, anche Bolloré poteva crescere con la propria quota. L’addio di Geronzi è l’inizio della fine della classe C di azionisti in Mediobanca, affiancati alle banche di classe A e ai privati italiani di classe B come Troncheti, Ligresti, le stesse Generali, la Dorint di della Valle, i Benetton, Fininvest, Doris, i Ferrero e i Fumagalli. Per cambiare il patto ci vuole almeno il 30%, diciamo che non ci si divide tra banche e privati gli italiani possono far fuori i francesi. Che però hanno altre azioni non dichiarate, e per questo con Groupama volevano salvare Fonsai di Ligresi – li ha fermati la Consob – e ancora le stanno addosso. Bollorè ha sbagliato ad attaccare a fronte bassa, a meno che non immaginasse che senza Bernheim a Trieste gli italiani lasciassero fare ancor più ai francesi, in Mediobanca come a Trieste. Ammesso che i francesi schiodino senza troppi danni – e a Londra dicono di no, anzi pensano che i banchieri d’affari potrebbero lucrare commissioni notevoli su tentativi di scalata stranieri alle stesse Generali - chi si candida a crescere in Mediobanca rilevando le quote francesi, e ad avviare nelle altre partecipate dal salotto buono come Rcs e Telecom Italia svolte paragonabili a quella avvenuta a Trieste? Dacché è stato chiaro che Della Valle si avviava a vincere, l’unione dei soci alle sue spalle si è fatta sempre più estesa. Perché per candidarsi al ruolo di nuovo baricentro di Mediobanca, con tutto quel che consegue nelle sue partecipate, bisogna partecipare alla defenestrazione di Geronzi oggi. E veleggiare in un pelago rischioso da oggi in avanti. Perché i privati forti di denaro proprio da investire sono pochi, essenzialmente lo stesso Della Valle ma soprattutto Caltagirone, che finora ha molto misurato le parole ed esteso le sue quote, proprio pensando a quando inevitabilmente tra banche e pochi grandi pivati italiani il suo ruolo crescerà ancora. Ben oltre quello di presidente a interim di Generali, a cui è giunto oggi. Al contempo il mondo dei soci di Unicredit non poteva mancare alla defenestrazione, visto he Palenzona è stato decisivo per smuovere Mediobanca: ed è per questo che Miglietta ha dato il suo voto. Nella nuova vulgata dell’Unicredit post Profumo, illustrata da Palenzona, le fondazioni socie non intendono più assistere al fatto che sia solo Banca Intesa a realizzare le cosiddette “operazioni di sistema”, e cioè domani a mettere amici propri al posto dei francesi in Mediobanca. In altri tempi, sarebbero stati innanzitutto i manager operativi di Mediobanca e di Generali, a giocare anch’essi un ruolo di primo piano nel futuro dei propri istituti. Oggi, per la statura personale e per come hanno interpretato i tempi, che non sono più quelli di Marangui, è praticamente impossibile. Anche se quella di Nagel è la firma in testa alla lista, senza la quale la condanna di Geronzi non sarebbe stata seguita. Con tutto il rispetto per Nagel, però, non sarà lui a poter né governare i colpi portati ai francesi né la loro reazione, né a cesellare il nuovo quilibrio che si determinerà di qui alla fin dell’anno in corso, se davvero guerra sarà e non ci si accontenterà del primo colpo di cannone in Generali. Se pensate alla politica, il ministro dell’Economia come la sua Cdp guidata da ex uomini di Banca Intesa e già mobilitata sul fronte Parmalat ed Edison non possono considerarsi disinteressati, a un’azione volta a impedire che i francesi crescano nell’orto Mediobanca. Freddamente, il ministro ha sempre fatto intendere che il rapporto con Geronzi riguardava Palazzo Chigi, non via XX settembre. Della Valle può immaginare che la crescita italiana in Mediobanca di cui il suo oggettivo successo in Generali è fautore possa essere anche vento nelle vele politiche della svolta montezemoliana a favore della “borghesia produttiva”, come si scrive negli articoli di ItaliaFutura. Ma forse è meglio non dimenticare che ci sono anche aziende del Cavaliere, tra i soci Mediobanca. Sarà battaglia dura, perché di mezzo c’è un bel po’ di fette di torte sin qui tenute ad ammuffire. Quanto a Geronzi, per come lo conosco credo sia il primo a non farsi ora illusioni, su quanti gli volterano ora ancor più le spalle. Sarebbe bello immaginare che il no a Geronzi sia il sì di tanti al graduale sciolgimento di patti di sindacato dentro, fuori e sotto Mediobanca, patti che oggi non hanno più giustificazione e significato che avevano quando vennero disegnati, e che servono solo a rendere più opaca la conduzione aziendale, meno focalizzati sulla creazione di valore i manager, e più fitti i conflitti di interesse di amministratori e soci, prenditori prestatori, creditori e debitori. Ma scommtto che la speranza resterà delusa, sperando si sbagliarmi.

Lisbona: richiesta di aiuto a Bruxelles (7 aprile 2011).
Lisbona rompe gli indugi. Il dimissionario ministro delle Finanze, Fernando Texeira Dos Santos, ammette come il ricorso del Portogallo agli aiuti dell’Unione europea «è necessario», visti i danni irreparabili provocati dalla crisi del debito. «Davanti a una situazione così difficile credo sia necessario ricorrere ai meccanismi di finanziamento disponibili nel quadro europeo», spiega Dos Santos in un’intervista al quotidiano economico Jornal de Negocios, facendo appello a tutte le principali istituzioni e forze politiche del suo Paese di impegnarsi su questo fronte. Del resto il messaggio ribadito anche oggi da Bruxelles è chiaro: se il governo portoghese lo chiede, l’Ue è pronta a salvare Lisbona, ma a patto che ci sia un mandato chiaro. Quindi, con l’appoggio dell’opposizione portoghese, favorita per le elezioni di giugno. Non c’è ancora una richiesta formale di aiuto. Ma l’annuncio di Dos Santos arriva alla vigilia di un importantissimo appuntamento: l’Ecofin informale che venerdì e sabato si svolgerà a Budapest. Trovare una soluzione alla crisi portoghese è l’obiettivo numero uno dei ministri delle Finanze e dei governatori centrali europei (per l’Italia ci saranno Giulio Tremonti e Mario Draghi) che - riuniti nel castello di Godollo, a 30 chilometri dalla capitale ungherese - ascolteranno dal ministro portoghese le ultime novità sulla situazione finanziaria e politica del suo Paese. Situazione che rischia di contagiare il resto dell’Eurozona dove - si legge nei documenti preparatori dell’Ecofin - la crisi dei debiti sovrani e quella delle banche è tutt’altro che superata. Il governo portoghese dimissionario ha deciso di uscire allo scoperto nonostante Lisbona sia riuscita oggi a collocare sul mercato tutti i titoli a sei mesi e a un anno che si era prefissata (nell’asta odierna ha piazzato bond per 550 milioni di euro con scadenza ottobre, e titoli per 455 milioni di euro con scadenza marzo 2012). Ma i rendimenti e, dunque, i costi di finanziamento del debito continuano ad aumentare vertiginosamente. Senza contare che l’agenzia Moody’s, dopo aver abbassato il rating complessivo del Paese lusitano, ha deciso di tagliare anche il rating delle sette principali banche portoghesi a causa delle loro debolezza finanziaria. Banche che nelle ultime ore stanno accentuando il pressing sul governo perchè avanzi urgentemente a Ue ed Fmi una richiesta di attivazione del Fondo salva-Stati, per neutralizzare il rapido incremento dei tassi di interesse e calmare i mercati. Tutto ciò prima delle elezioni di giugno, quando oramai potrebbe essere troppo tardi. Fondamentale per Bruxelles è che l’eventuale richiesta di Lisbona sia supportata da tutte le principali forze politiche portoghesi, visto che il salvataggio (si è parlato di un piano da 75 miliardi di euro) dovrà essere accompagnato da severe condizioni sia sul fronte dell’aggiustamento dei conti sia su quello del tasso di interesse sui prestiti. Intanto il ministro delle Finanze spagnolo, Elena Salgado, ha smentito la richiesta di un prestito bilaterale da parte di Lisbona. Ma non c’è solo il Portogallo. A preoccupare è anche la Grecia che - nonostante gli sforzi compiuti e i prestiti ricevuti - potrebbe non essere in grado di tornare a finanziarsi sui mercati nei tempi previsti. Tanto che sempre più insistenti si fanno le voci su una ristrutturazione del debito. Bruxelles smentisce si stia lavorando in questa direzione, ma fonti comunitarie ritengono questa ipotesi inevitabile. Fortunatamente Draghi e Tremonti stanno spingendo le banche italiane a sensibili ricapitalizzazioni.

Trichet: troppi disoccupati (10 aprile 2011).
Nell'Eurozona «abbiamo ancora un livello di disoccupazione inaccettabile». L'allarme è stato lanciato dal presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, nel corso della conferenza stampa finale dell'Ecofin informale svoltosi a Budapest. Trichet ha quindi sottolineato come sia in atto una ripresa dell'occupazione nell'insieme dell'Eurozona, ma come in alcuni Paesi, vedi la Spagna, la situazione sia ancora molto critica, nonostante le misure prese. «Pre rafforzare la crescita e aumentare i livelli di occupazione - ha detto il presidente della Bce - bisogna andare avanti con il risanamento dei conti pubblici e le riforme strutturali. E questo, comunque, vale per tutti i Paesi, senza eccezione». E nel frattempo non ci sono buone notizie sulla crescita economica: «La ripresa dell'attività nell'Eurozona continua, ma restano molte incertezze», ha detto Trichet, sottolineando «i rischi legati alla situazione in cui versano alcuni segmenti dei mercati finanziari e l'impatto sulla crescita sia delle crisi in Nordafrica sia del dramma accaduto in Giappone». Anche per il commissario Ue agli affari economici e monetari, Olli Rehn, la ripresa dell'economia reale prosegue, «anche se in maniera diversificata tra Paese e Paese». Il presidente dell'Ecofin, il ministro delle finanze ungherese Matolcsy Gyorgy, ha quindi detto di aver condiviso l'analisi fatta all'Ecofin dal segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria: »La crisi non è ancora alle nostre spalle e i rischi per la ripresa restano significativi. Per questo - ha sottolineato il presidente dell'Ecofin - tutti gli Stati membri devono proseguire con le riforme strutturali per eliminare gli squilibri macroeconomici e per creare crescita e occupazione«. Intanto però continuano le grandi manovre per la successione al francese alla guida delal Bce: «La decisione sarà presa entro fine giugno», ha annunciato il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, sempre da Budapest per la riunione dell'Ecofin.

Marcegaglia: imprenditori, soli davanti alla crisi (10 aprile 2011).
Soli di fronte alla crisi e abbandonati dalla politica, gli imprenditori devono mobilitarsi ed agire in prima persona per dare quelle risposte che, in un Paese «troppo diviso», sono finora mancate. Il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, chiama a raccolta il mondo delle imprese, «ogni singolo imprenditore ed ogni singola associazione», per mettere a punto un’agenda di priorità che rimetta in carreggiata il Paese. In un videomessaggio sul sito internet dell’associazione, il portavoce degli industriali parla di «momento straordinario», caratterizzato da infinite difficoltà, di fronte al quale serve «un’iniziativa eccezionale». L’occasione saranno le Assise generali di Bergamo in calendario il 6 e 7 maggio, momento di riflessione ma anche di elaborazione di un nuovo piano di azione. «Il momento è drammatico, ma non vogliamo abbandonare la speranza, lasciare il campo, perdere lo spirito di proposta e di spinta per la politica e per la società», aveva detto giorni fa in un’intervista. E proprio ricalcando quelle frasi arriva ora il messaggio via web: «mai come in questi momenti gli imprenditori si sentono soli - scandisce la Marcegaglia - In un paese che stenta sempre di più a crescere, di fronte a nuove ondate di sconvolgimenti internazionali che mutano le fondamenta di Paesi a noi vicini come il Nord Africa e il Medio Oriente, mentre l’Europa si divide sul rigore tra pochi paesi forti e molti a rischio, quando la lotta per la competitività sui mercati mondiali che diventa sempre più aspra, con prezzi delle materie prime sempre più instabili, gli imprenditori si sentono soli di fronte a tante difficoltà». L’urgenza è tale da rendere però inutile ora «scaricare le colpe» su altri. Ognuno deve rimboccarsi le maniche, mettere a punto proposte sui temi dell’impresa che sono quelli di tutto il Paese: le relazioni industriali, la produttività della scuola, il welfare, le infrastrutture, il fisco, il Mezzogiorno, la ricerca e l'innovazione. Ma soprattutto ogni imprenditore deve puntare a «dare l’esempio». «L’Italia di oggi è un Paese diviso - denuncia Marcegaglia - e dal mondo delle imprese deve venire un esempio per tutti. Dobbiamo far capire che si può convergere su poche scelte chiare, su priorità condivise per ridare all’impresa la capacità di crescere, di creare lavoro, coesione sociale e proiezione nel mondo». Le Assise saranno dunque l’occasione per «far sentire forte la nostra voce per dare messaggio chiaro al Paese sulle cose da fare». «Il caldo invito che vi rivolgo - insiste la presidente chiudendo il suo intervento - è che partecipiate tutti con forza e determinazione a questa grande occasione di libertà. È una grande opportunità per decidere l’Italia che vogliamo. Uniamo esperienze, passioni, voci e intelligenze. Non è il momento di scaricare sugli altri le colpe». Gli ultimi interventi della Marcegaglia, in un momento in cui tutti stiamo stringendo la cinghia e si inizia a vedere una sia piccola luce in fondo al tunnel, sembrano prove generali per sollecitare qualcuno a entrare in campo.

Bocciato il ricorso di Lactalis (11 aprile 2011).
Il Tribunale di Parma ha respinto l'istanza di sospensione presentata da Lactalis contro la delibera del cda di Parmalat che ha rinviato l'assemblea. Lo dice una nota del gruppo alimentare precisando che il tribunale ha confermato il decreto del presidente del tribunale del 4 aprile. Venerdì 1 aprile il consiglio di amministrazione del gruppo alimentare aveva convocato una nuova asssemblea per il 25-27-28 giugno avvalendosi di quanto previsto dalla normativa varata dal governo a fine marzo a tutela dei settori strategici. La decisione della magistratura parmense rende più difficile la conquista della Parmalat da parte dei francesi di Lactalis: la scelta di rinviare l'assemblea, avvalendosi delle nuove norme, era del resto stata presa proprio per questo, ossia per dare più tempo a un'eventuale cordata italiana di costituirsi e di sbarrare la strada all'operazione transalpina. Ormai l' ipotesi più accreditata è quella di una discesa in campo delle banche, capitanate da Intesa Sanpaolo, e della Cassa depositi e prestiti. Gran Latte, la società con cui la Legacoop controlla l' 80% di Granarolo, secondo alcune ipotesi allo studio dovrebbe poi vendere la società alla stessa Parmalat, per raccogliere la somma necessaria per partecipare al progetto. A quel punto la palla passerebbe in mano ai francesi che dovrebbero decidere se allearsi agli italiani, finendo però sostanzialmente in minoranza. Su tutto però pende ancora la decisione dell'Unione europea sul decreto anti-scalata: Bruxelles ha già fatto sapere che non accetterà norme restrittive della concorrenza. Giova ricordare che il gruppo è presente in 16 paesi con 69 stabilimenti produttivi: con un fatturato di 4,3 miliardi, Parmalat è tra i leader mondiali nella produzione e distribuzione di alimenti. I marchi globali sono Parmalat per il latte e i suoi derivati: yogurt, panna (Chef) probiotici (Kyr), dessert (Malù), formaggi. Santàl per le bevande a base di frutta. Fibresse, Omega3, Zymil sono alcuni dei marchi internazionali dedicati ai prodotti a valore aggiunto (regolarità intestinale, salute cardiaca, alta digeribilità). Segue poi una serie di marchi localmente forti per posizione di mercato e notorietà, in Italia (Berna, Centrale del latte di Roma, Lactis, Sole, Carnini) e all'estero (fra gli altri: Astro, Lactantia, Frica, Bonnita, Black Diamond, Ice Break, Ucal).

FMI: la ripresa tiene (11 aprile 2011).
La ripresa globale tiene con un tasso di crescita previsto al 4,4% quest'anno e del 4,5% nel 2012, ma è allarme disoccupazione nelle economie avanzate, mentre quelle emergenti e in via di sviluppo, che restano il motore dell'espansione, vanno incontro a rischi di surriscaldamento. È questa la valutazione dell'Fmi nell'ultimo World Economic Outlook, diffuso oggi a Washington che ha lasciato invariate le stime sulla crescita globale rispetto all'aggiornamento del gennaio di quest'anno. Il rischio di una recessione «double-dip» non si é materializzato, ma ora «i timori sono sui prezzi delle commodities», su una crescita sempre troppo squilibrata fra le varie aree e sull'incertezza geopolitica che, da gennaio, ha fatto salire i rischi sull'outlook. Nell'Eurozona - si legge nel World Economic Outlook - «la ripresa sta guadagnando slancio», ma nonostante i «significativi progressi», i mercati «restano in apprensione» sulle prospettive dei Paesi «periferici», dove «si è assistito a rinnovate turbolenze nell`ultimo trimestre 2010». Per questo, deve essere ristabilita una «maggiore fiducia negli istituti bancari attraverso ambiziosi stress test e programmi di ristrutturazione e ricapitalizzazione». Sul fronte dei conti pubblici, l'Italia, per il Fmi «è più vicina di altri paesi europei a raggiungere l'obiettivo di un deficit sotto il 3% nel 2013, ma servono ulteriori misure». Il deficit italiano nel 2011 si attesterà al 4,3% del Pil per poi scendere al 3,5% nel 2012. Le nuove stime del Fmi parlano poi di un debito al 120,3% quest'anno e al 120,0% nel 2012. Il prodotto interno lordo italiano dovrebbe crescere dell'1,1 per cento nel 2011 e dell'1,3 per cento nel 2012. Si tratta di una stima superiore dello 0,1 per cento rispetto al precedente outlook diffuso a gennaio. Secondo il Fmi, in Europa si può prevedere uno scenario con «espansione graduale ma sbilanciata», con le economie avanzate che registreranno un aumento del Pil reale dell'1,7% nel 2011 e dell'1,9% nel 2012, mentre in quelle emergenti si avrà una crescita del 3,7% nel 2011 e del 4% nel 2012. In particolare, il Fmi prevede che il Pil della Zona Euro cresca dell'1,6% nel 2011 e dell'1,8% nel 2012, contro l'1,7% del 2010 e la contrazione del 4,1% dell'anno precedente (in particolare, nel quarto trimestre di quest`anno e dell'anno prossimo si dovrebbe registrare rispettivamente un rialzo dell'1,5 e del 2,1%, contro il 2% degli ultimi tre mesi 2010). Le stime per il 2011 e il 2012 sono state riviste al rialzo dello 0,1% rispetto all`aggiornamento del Weo diffuso lo scorso gennaio. Sempre nell'Eurozona il tasso di disoccupazione dovrebbe rimanere alto, attestandosi al 9,9% nel 2011 e al 9,6% nel 2012 dal 10% del 2010. L'inflazione dovrebbe invere rimanere contenuta, con un aumento dei prezzi del 2,3% quest`anno e dell`1,7% l'anno prossimo, dopo il +1,6% del 2010. Per quanto riguarda il deficit delle partite correnti, come percentuale del Pil, dovrebbe segnare lo 0% quest'anno e nel 2012, contro il -0,6% dell'anno scorso. Riviste al ribasso le stime per l'anno in corso sul Giappone, a causa dei danni dovuti al mega terremoto. Quelle sul 2012, al contrario, sono state ritoccate all'insù a riflesso dell'attesa spinta che dovrebbe derivare dalla ricostruzione. Secondo il Fondo monetario internazionale restano «elevate incertezze» su quelle che saranno le effettive ricadute economiche del cataclisma, specialmente sulle fughe di radiazioni alla centrale nucleare di Fukushima. Tuttavia «dando per scontato che i problemi sulle penurie di elettricità e che la crisi nucleare vengano risolti in pochi mesi», quest'anno il Pil dell'Arcipelago dovrebbe aumentare dell'1,4 per cento, mentre nel prossimo del 2,1 per cento.

Parmalat: la cordata italiana (12 aprile 2011).
Per Parmalat si lavora su una cordata che ha il fulcro industriale in chi ha vere motivazioni al business del latte, vale a dire le cooperative di allevatori presenti in Granlatte, che ha il controllo di Granarolo (il 20% è di Intesa Sanpaolo), e la Legacoop che pure è presente nell'azionariato. Oggi ripartiranno gli incontri con le banche al lavoro sul dossier – Intesa Sanpaolo, Mediobanca e UniCredit – per mettere a punto una soluzione, con l'obiettivo di chiudere possibilmente entro la prossima settimana. Lo schema di base sul quale si sta ragionando prevede il lancio di un'offerta volontaria sul 60% del capitale di Collecchio. L'Opa, alla quale finora la Borsa ha dimostrato di credere poco, rappresenta comunque un passaggio obbligato, dal momento che ai francesi di Lactalis si è rimproverato di aver tentato di ottenere il controllo di Parmalat mantenendosi sotto la soglia del 30%, senza coinvolgere il mercato. La cordata in formazione otterrebbe lo stesso scopo rilevando la quota dei francesi. Ieri il Tribunale di Parma ha reso noto di aver respinto l'istanza di Lactalis contro la decisione del consiglio Parmalat che, il 1° aprile scorso, ha rinviato al 28 giugno l'assemblea, per bilancio e rinnovo del cda, inizialmente prevista per il 14 aprile. Ma il gruppo di Laval ha abbozzato. Comunque, ha fatto sapere con una nota, «Lactalis è fiduciosa sugli sviluppi della vicenda e continuerà a proporre il proprio piano di sviluppo industriale di lungo periodo, nella convinzione di agire nell'interesse di Parmalat, dei suoi dipendenti e dei suoi stakeholders». Al momento, a quanto risulta, non ci sono contatti tra i due schieramenti. L'ipotesi italiana, dunque, fa leva su Granlatte che cederebbe Granarolo a Parmalat, recuperando fino a 500 milioni per finanziare la sua offerta su Parmalat. Anche Legacoop contribuirebbe con asset ed equity. A supporto del mondo cooperativo, si stanno raccogliendo le adesioni di potenziali partner disposti a rilevare piccole quote di capitale. Tra questi, in primis, Intesa Sanpaolo che, nell'ipotetica newco, farebbe confluire non solo la quota già in suo possesso (il 2,2%), ma l'arrotonderebbe ancora stanziando altri 300 milioni. Degli istituti in cabina di regia, la banca guidata da Corrado Passera è l'unica che metterebbe sul piatto anche la disponibilità a investire in azioni, mentre Mediobanca e UniCredit si sono dichiarate pronte, eventualmente, a fornire finanziamenti. Anche la finanziaria veneta Palladio è tra i candidati a partecipare alla cordata, mentre un ruolo potrebbe averlo Bnl. Infine, ci sono contatti con il gruppo olandese del latte Friesland-Campina, la brasiliana Lacteos (che già si era fatta avanti mostrando un interesse concreto per Parmalat) e il gruppo messicano Ala per vagliare l'interesse a mettere un cip a suggello di future collaborazioni nei rispettivi mercati. E, a completare il quadro, ci sarebbe poi ovviamente il possibile intervento del fondo della Cassa depositi e prestiti, dopo che il latte è stato incluso tra i settori strategici per il Paese. Lactalis, dunque, per il momento sta a guardare. Se la cordata italiana si materializzerà, Lactalis avrà la possibilità di cedere pro-quota la propria partecipazione all'eventuale Opa parziale oppure potrà cercare di trattare, come avevano fatto in precedenza i tre fondi Skagen, MacKenzie e Zenit con il loro 15,3%, per rivendere il proprio pacchetto alla controparte italiana. Non dovesse invece andare in porto l'iniziativa italiana, tra due mesi i francesi si troveranno nella posizione di esprimere la maggioranza del board. Quanto al contenzioso legale, non pare che i francesi abbiano intenzione di proseguire su questa strada, dopo che il Tribunale di Parma ha respinto l'istanza sul rinvio dell'assemblea.

Draghi: Italia, problemi strutturali (13 aprile 2011).
Il nostro paese, non corresponsabile della crisi, vi è entrato già debole, ha pagato un prezzo alto di riduzione del reddito e dell'occupazione, ne esce con i suoi problemi strutturali ancora da risolvere». Lo ha affermato il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, intervenendo a Torino a Biennale democrazia con un discorso sul tema Globalizzazione e politiche economiche: lezione da una crisi. Secondo Draghi, l'Italia deve ritrovare la «capacità di sviluppo» che ha messo in campo alla fine dell'Ottocento e dopo la seconda guerra mondiale, «per sciogliere i nodi che stringono le nostre prospettive di crescita». Al contempo - ha detto il governatore - «la politica economica deve saper creare quell'ambiente istituzionale in cui la capacità dell'economia di svilupparsi possa dispiegarsi appieno». «In tutto il mondo - ha poi spiegato Draghi - si delinea ora chiaramente la necessità di far cessare il sostegno straordinario fornito nell'ultimo triennio alle economie dai bilanci pubblici e dalle politiche monetari. L'incidenza sul prodotto dei debiti pubblici nei paesi avanzati - ha sottolineato il governatore - è aumentata di quasi un quarto; i programmi di medio termine di molti governi sono già orientati, con varie intensità, alla riduzione degli squilibri. Le politiche monetarie devono tenere conto dell'emergere di tensioni inflazionistiche, sospinte dal rincaro dei prodotti alimentari ed energetici». Secondo Draghi, nell'Area dell'Euro la politica monetaria «rimane, anche dopo il rialzo dei tassi di interesse di riferimento deciso la scorsa settimana, molto accomodante». Quanto al rapporto con l'Unione europa, il governatore ha detto che «per noi italiani, per noi europei è la condizione essenziale per progredire ancora». L'Unione - ha affermato Draghi - «è un punto di riferimento nel mondo per come ha saputo sviluppare negli anni una forma originale di governo, fondata sugli stati sovrani ma dotata di strutture sovranazionali volte alla soluzione di problemi comuni. Il suo assetto è in evoluzione. I successi si accompagnano con tensioni fra Stati e fra questi e le istituzioni comunitarie».

CDM: sì alla riforma Tremonti (13 aprile 2011).
Via libera del consiglio dei ministri al Def (il Documento di economia e finanza) e al Pnr (il Piano nazionale di riforme). Lo ha detto il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, lasciando la riunione. Il consiglio dei ministri, durato poco meno di un'ora, si è svolto nella sala del governo della Camera, durante la pausa nelle votazioni del processo breve. Secondo fonti del governo, a maggio arriverà un decreto legge ad hoc nel quale verranno recepite le misure del piano nazionale delle riforme. Nel provvedimento, spiegano le stesse fonti, potrebbero essere inserite altre norme e potrebbe trasformarsi quindi nella consueta manovra estiva che l'esecutivo da qualche anno a questa parte vara a maggio-giugno. «Dal 2015 anche noi ci dedicheremo alla riduzione del debito pubblico, non per un ventesimo della parte eccedente il 60% in rapporto al Pil, come inizialmente previsto, ma per la parte che é superiore a quella somma considerando l'aggregazione del debito pubblico e del debito privato», ha detto il premier Silvio Berlusconi commentando, in conferenza stampa assieme a Giulio Tremonti, l'approvazione da parte del consiglio dei ministri del Def e del piano di riforme. «Abbiamo approvato un importante documento di economia e finanza per il 2011», ha proseguito il premier. «Documento che ora dobbiamo presentare all'Unione Europea, entro aprile, e che rappresenta il seguito del Patto per l'euro approvato il 24 e 25 marzo scorsi dal consiglio dei capi di governo Ue». Si tratta, ha spiegato, di «un vero trattato all'interno del trattato, teso a far rafforzare la moneta comune e a far sì che ci sia una comune politica economica sulla base di principi a cui tutti gli Stati si impegnano a sottostare». Dal canto suo il titolare del Tesoro ha sottolineato come «siano undici le priorità» indicate dal piano nazionale di riforma (Pnr). «Ci sono le cose che noi riteniamo possano essere focalizzate da subito», ha spiegato il ministro precisando che «una è la riforma fiscale che sarà costruita in base allo schema scritto nel documento». Con una precisazione: Nei provvedimenti che arriveranno nei prossimi mesi «ci sono e ci devono essere economie», ma «non avranno nessun impatto drammatico sulle persone e sulle famiglie». Inoltre: «L'Italia non è più il paese con il terzo debito pubblico al mondo, la Germania ci ha superato». Tremonti ha poi detto che nel Pnr è previsto un credito d'imposta pari al 90% per le imprese che faranno ricerca e sviluppo. In più: si sta lavorando a delle norme di semplificazione del processo civile in modo da ridurne il volume. Il 25% dei processi civili sono fatti da cause dell'Inps e queste cause hanno un tasso di soccombenza pubblica altissimo». Tremonti ha poi aggiunto che uno strumento «efficace» per l'economia italiana può essere il «distretto turistico-balneare», lanciato dal piano nazionale delle riforme. Ma ha anche precisato: «Non abbiamo emergenze o urgenze. Fare un drammatico intervento su 2011? È una visione pessimistica». Durante il consiglio dei ministri si é parlato anche del decreto legge in materia di semplificazione messo a punto dal ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli. «Se ne é parlato», ha confermato lo stesso ministro interpellato a Montecitorio. Non é sicuro che il provvedimento possa essere già in calendario per il prossimo consiglio dei ministri. Un passaggio anche sul fronte emergenza immigrazione: l'Ue sta cambiando atteggiamento, le cose stanno migliorando, hanno spiegato sia il ministro dell'Interno Roberto Maroni che il premier, Silvio Berlusconi. «Anche i governatori della Lega si sono detti disponibili a dare una accoglienza congrua ai migranti, naturalmente il principio è che tutti quelli che arrivano bisognerà rimandarli indietro», ha detto Berlusconi. Entrambi poi hanno sottolineato l'importanza della missione del presidente della commissione europea Josè Manuel Barroso in Tunisia. Barroso, ha affermato il premier, «mi ha garantito che incontrerà il governo tunisino e lo incoraggerà ad accettare il piano italiano sull'immigrazione. E mi ha assicurato - ha ribadito - che l'Europa farà la sua parte». Il piano nazionale di riforme è già stato rinominato piano nazionale della rassegnazione e non sembra che questo nome sia improprio. Il paese è ingessato dagli egoismi dei vari centri di potere; ognuno rema nella direzione che ritiene più appropriata per i propri interessi. Contro o a favore del federalismo, contro o a favore di una minor presenza dello stato nell'economia, contro o a favore di un minor assistenzialismo verso il Sud, contro o a favore della riduzione del carico fiscale, contro o a favore di una riduzione dei costi della PA, contro o a favore del nucleare, ecc, ecc.. Quest'anno le istituzioni hanno più volte battuto il tasto dell'unità d'Italia e, quindi, dell'unità di interessi, ma tutto si riduce a folklore: l'inno, le ricorrenze, la bandiera, la costituzione ecc.ecc.. Nella realtà ogni comune, ogni provincia, ogni regione, rimessa la bandiera tricolore nel cassetto, prosegue per la strada dei propri ideologismi e dei propri interessi. Forse non è il caso di addossare tutte le colpe sulle spalle di Tremonti.

Governo: pareggio di bilancio nel 2014 (15 aprile 2011).
L'obiettivo di un livello «prossimo al pareggio di bilancio» è per il 2014, «al netto delle condizioni cicliche e delle misure una tantum». Nell'immediato, il «Def» conferma gli obiettivi di deficit previsti dagli ultimi documenti programmatici: 3,9% nel 2011, 2,7% nel 2012, 1,5% nel 2013. È l'impegno che il Governo assume in sede europea, sostenuto dall'inserimento nella Costituzione del «vincolo della disciplina di bilancio». Si procederà attraverso la manovra correttiva anticipata in giugno, così come è avvenuto dal 2008 in poi, ma il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ribadisce che la gestione dei conti pubblici non è da emergenza, «non vi saranno interventi drammatici». Si opererà dunque attraverso l'aggiornamento delle misure già introdotte con la manovra triennale dello scorso anno, che ha operato una riduzione netta della spesa primaria di circa 42,2 miliardi nel triennio, prevedendo al tempo stesso maggiori entrate nette per 20,1 miliardi. Lavoro di «manutenzione» limitato al 2011 e 2012. Stando alle tabelle contenute nel «Def» e nel contestuale aggiornamento del Programma di stabilità, la manovra cumulata netta sul saldo primario ammonterà nel 2013 all'1,2% del Pil, e al 2,3% del Pil nel 2014. Circa 35 miliardi, dunque nel dato cumulato del biennio, utili appunto a raggiungere l'ambizioso obiettivo del «close to balance». In sede europea si punta sui «fattori rilevanti», tra cui il livello complessivo dell'indebitamento del settore privato, del resto incorporati nella nuova governance economica, decisivi per rendere "compatibile" un debito pubblico che nel 2011 toccherà quota 120% del Pil, per poi scendere nel 2012 al 119,4% e al 116,9% l'anno successivo fino al 112,8% del 2014. L'intero quadro programmatico poggia su una previsione di incremento del Pil dell'1,1% nell'anno in corso, dell'1,3% nel 2012 e dell'1,5% nel 2013. Uno scenario che - si legge nel documento - sconta le incertezze che insistono sul contesto geopolitico globale. L'avanzo primario (il saldo di bilancio al netto degli interessi) è indicato allo 0,9% del Pil, al 2,4% nello 2012 e al 2,7% nel 2013, mentre la pressione fiscale, stante il livello del debito pubblico, non subirà sostanziali modifiche: 42,5% del Pil quest'anno, 42,7% nel 2012, 42,6% nel 2013. Per la spesa per interessi, si prevede il 4,8% del Pil nel 2011, il 5,1% nel 2012, il 5,4% nel 2013. Al rigore non vi è alternativa, come ammette lo stesso Tremonti. La valutazione dei «fattori rilevanti» non va «in alcun modo interpretata come il mezzo per attenuare gli obblighi europei per la riduzione del debito pubblico, quali derivano da una meccanica regola numerica». Le prossime manovre di finanza pubblica saranno «orientate a ridurre la spesa primaria, senza tuttavia sacrificare la spesa necessaria a favorire la crescita». Si prospettano a regime ulteriori interventi sulla spesa per «oltre quattro punti di Pil». Intanto è record per il debito pubblico. La vita media ponderata dei titoli di Stato, che ha registrato nel 2010 un incremento rispetto all'anno precedente, è stata pari a 86,43 mesi «toccando un massimo storico»: è quanto rileva il Def. Il dato è importante e positivo per la gestione del debito pubblico, nel contesto della crisi del debito sovrano europeo: gli investitori misurano la vita media dei titoli di Stato, nel confronto tra Stati. I BTp rappresentano quasi il 60% sul totale della consistenza del debito (contro il 51% del 2007) e questo attenua il roll-over, riduce l'entità dei titoli in scadenza annualmente. Vita media e durata finanziaria (con pagamento delle cedole) misurano l'esposizione del debito al rischio di rialzo dei tassi: tanto più lunga è la vita media, tanto più diluito nel tempo è l'impatto dovuto ad aumenti di tassi e rendimenti. La spesa per gli interessi sul debito è però destinata a salire parecchio passando dai 70,1 miliardi del 2010 (in calo rispetto ai circa 80 del 2008) a oltre 97 miliardi nel 2014. Nel 2011, gli interessi passivi sono stati stimati a quota 73,459 miliardi: «il gravame rispetto all'esercizio 2010 è legato sia ai maggiori interessi sui titoli del debito pubblico che ai previsti maggiori pagamenti sugli interessi dei buoni postali fruttiferi», si legge nell'analisi.

Grecia: sull'orlo del default (15 aprile 2011).
È sempre più tragedia finanziaria per la Grecia. Lo spread tra il rendimento dei titoli di stato di Atene e quelli tedeschi è entrato letteralmente in orbita. Il decennale ellenico ha raggiunto una differenza di oltre 1.000 punti rispetto al corrispettivo governativo di Berlino. In particolare l'emissione con scadenza nel 2021 ha toccato un rendimento del 13,52% lordo. Nella parte più breve della curva lo yield del biennale e del quinquennale, poi, è cresciuto rispettivamente di 11 basis point (17,43%) e di 22 basis point (17.44%). Inoltre, il costo per assicurare il debito sovrano greco, secondo i dati di Cma, è aumentato di 11 punti base, portando il Cds sul quinquennale a quota 1.107. Certo, si deve sempre ricordare che i Credit default swap sono prodotti finanziari scambiati su piattaforme over-the-counter, cioè opache: la speculazione, quindi, può amplificare le loro quotazioni per spingere all'insù i rendimenti delle obbligazioni. Tuttavia, il segnale rimane significativo. «Il livello del rendimento dei bond greci è uno shock -scrive Alessandro Giansanti, rate strategist di Ing Group -. Ciò che preoccupa il mercato è la capacità del Governo di raccogliere» i soldi per ripagare il debito e la possibilità «di ridurre la spesa pubblica». La sitazione, insomma, è molto seria. Tanto che la parola "ristrutturazione" non è proprio più un tabù, nonostante le resistenze della Bce. Dalla Germania il vice-ministro degli esteri Werner Hoyer ha detto che la ristrutturazione «non sarebbe un disastro». Immancabile, poi, Mr. Doom, al secolo Nouriel Roubini: «Non è una questione di se, ma solo di quando», ha detto l'inneffabile professore. Il quale può aver ragione ma, come sempre accade in simili situazioni, dimentica che le parole sono come spade e vanno usate con cautela. Soprattutto, riguardo al timing con cui si "dà fiato alla bocca". Getta acqua sul fuoco infine il presidente dell'Eurogruppo, Jean-Claude Juncker per cui la ristrutturazione «non è nemmeno una opzione». Il balzo dei rendimenti, che segue quello dei giorni scorsi, avviene peraltro nel momento in cui Atene presenta il suo piano di austerity. Il Governo ha detto di voler varare riforme strutturali, risparmi per 23 miliardi e privatizzazioni per 50 miliardi. La road-map del Governo greco indica che nel 2012 verrà ridotta, dal 51 al 34% massimo, la quota dello Stato nella compagnia elettrica Dei, «mantenendo però il controllo sulla direzione del gruppo». Inoltre: nel 2011 scenderà la partecipazione (ora del 20%) nell'operatore telefonico Ote, di cui Deutsche Telekom è azionista di riferimento; sarà privatizzata parzialmente Trainose, società di sviluppo dei treni, e verrà ridotta la presenza dello stato nelle Casse di risparmio e nella banca postale. Tra gli obiettivi del piano, indicati dal primo ministro Georges Papandreou, c'è la discesa entro il 2015, delle «spese dello Stato a circa il 44% del Pil», in sintonia con la media dell'Eurozona, e «aumentare le entrate a circa il 43% dal 38% del 2009». Riguardo alla ristrutturazione? «Il grande debito lo affrontiamo - ha risposto Papandreu-. Il problema però è quello di risolverlo non con la ristrutturazione del debito ma con la ristrutturazione del Paese, cosa che il governo fa con la road-map». Il mercato però, almeno oggi, non sembra credergli. Ma non è solo Grecia. L'ampiamento dello spread sul Bund tedesco ha riguardato altri governativi. Il decennale di Dublino è salito al 9,867 % di rendimento, con il differenziale su Berlino passato da 583,5 basis point di ieri a 643,1 di oggi. Qui, a dire il vero, oggi c'è stato il commento positivo di Commissione Ue, Bce e Fmi. Le tre istituzioni, attrici nel salvataggio della ex tigre celtica, hanno sottolineato: da un lato, «è forte l'attuazione del programma economico per uscire dalla crisi»; dall'altro, il nuovo Governo compie «buoni progressi verso il superamento della peggiore situazione economica della sua storia». Immancabile, però, come accade da un po' di tempo a questa parte, è arrivato anche il downgrade da parte di un'agenzia di rating. Moody's ha abbassato di ulteriori due tacche la nota di debito dell'Irlanda da "Baa1" a "Baa3", relegando il Paese al più basso livello possibile per i mutuatari affidabili. Il provvedimento è reso necessario dal deterioramento delle prospettive dell'economia del Paese. Con il che sorge una considerazione: da un lato, proprio per contenere il debito, sono stati invocati a furor di popolo piani di austerity che anche lo studente del primo anno di economia sa essere deflattivi (ciè riducono la ripresa); dall'altro, quando il rallentamento si manifesta i giudici del credito dicono: non va bene, si cresce poco; il rischio è il consolidamento del debito. Risultato? Scatta il downgrade, rendendo ancora più oneroso il rifinanziamento del debito stesso. Tutto formalmente lecito, certo. Tuttavia, come è stato invocato più volte a Bruxelles, forse bisogna dar meno peso a simili voti.

Il ritorno di alcune famiglie di imprenditori (17 aprile 2011).
Le ultime cronache raccontano il ritorno della BandB Italia, famoso marchio italiano di arredamento, nelle mani della famiglia Busnelli, e lo sforzo di Maurizio Borletti per tenere la gestione della Rinascente, che suo nonno Senatore Borletti ha reso un secolo fa la catena di grandi magazzini più elegante d'Italia. Quando si narrano le operazioni di riconquista del marchio di famiglia, il pensiero corre al caso più noto, quello di Pietro Barilla e dell'azienda che si trovò a vendere nel 1970 alla multinazionale Grace, per poi riprenderla nel 1979 dopo un periodo di grande sofferenza. Ma sono diverse ogni anno le piccole e medie aziende storiche del made in Italy che ritornano sotto il controllo dei fondatori. Quelli che si ricomprano l'azienda lo fanno per spirito d'impresa, attaccamento al territorio, senso della tradizione. Ricomprano con i figli, per i figli, ma pensando al papà o al nonno. C'è chi l'ha venduta e la riacciuffa, chi invece non se n'è mai andato davvero ma vuole riprendere la gestione. A ragione. Perché i leader familiari, come sottolinea il rapporto 2010 dell'Osservatorio Aidaf-Bocconi, fanno bene alle aziende, in particolare quelle di medie dimensioni. «Non parlerei di fenomeno rilevante – spiega Gioacchino Attanzio, direttore generale di Aidaf, l'Associazione italiana delle aziende familiari – perché non c'è un boom di operazioni del genere, alla Barilla. Anche se è certo che ogni anno ci sono una serie di imprenditori che ricomprano l'azienda di famiglia. La gente le lascia andare, poi le riprende, magari guadagnandoci, perché sono andate in mano a fondi che non hanno avuto la giusta dedizione». E poi, c'è il ritorno di immagine. «L'azienda crea un'identità consolidata nel territorio: quando la si vende, si diventa uomini ricchi e basta. Ma poi ritorna la passione dell'imprenditore». Il territorio e la clientela. «Confesso che quando siamo tornati in possesso dell'azienda, in zona hanno cominciato a guardarci di nuovo con simpatia. L'azienda non si è mai spostata, ma forse far parte di un gruppo più grande dava questa percezione di lontananza, che in qualche modo aveva peggiorato il nostro rapporto diretto con la clientela». Cataldo Aprea, 56 anni, è l'erede di una dinastia di maestri d'ascia (oggi imprenditori nautici) che risale al 1849 e al bisnonno Giovanni. L'Apreamare, marchio del gozzo sorrentino nato nel 1988, è entrata a far parte del gruppo Ferretti nel 2001 e solo nove anni dopo ha lasciato Forlì per tornare a Torre Annunziata. «Nel 2008 consideravo già chiusa l'esperienza in Ferretti, troppo legato alla finanza e poco al prodotto. Poi con l'arrivo della crisi, gli investimenti sono stati azzerati e loro hanno deciso di vendere Apreamare: non faceva parte del core business». E' stato allora che si è presentato il bivio. «Con i figli del mio socio storico (Pollio), abbiamo fatto un po' di numeri e visto che poteva funzionare». Il 24 marzo 2010 arriva l'accordo, e il ritorno a casa. Oggi ad accompagnare Cataldo nella nuova gestione ci sono il figlio Giovanni (quinta generazione), e Rita e Antonino Pollio, figli di Salvatore, socio storico del cantiere. «Abbiamo 180 dipendenti e il nostro obiettivo è di far lavorare l'azienda, spiega Cataldo, anche se non è certo un bel momento per il settore nautico. «Sono sempre stato convinto che per crescere meglio e in fretta ci sia bisogno di sinergie tra più aziende. Quando siamo entrati in Ferretti avevamo un fatturato di 17 milioni, senza un euro di debito. Volevamo crescere, ma nel tempo il vantaggio è venuto meno. L'ultimo fatturato è di 11,5 milioni, speriamo di arrivare quest'anno a 25-26 milioni». Rifarebbe tutto, anche cedere di nuovo il controllo dell'azienda? «Assolutamente sì, ma mi dispiace che sia finita così con Norberto Ferretti. Dopo quest'esperienza, lo rifarei ma a determinate condizioni, con la finanza al servizio dell'impresa. Noi vendiamo sogni e giocattoli, il cliente vuol essere accolto, seguito. Quando eravamo nel gruppo, la parola customizzazione sembrava una bestemmia, mentre noi dobbiamo mantenere un'offerta ricercata e su misura, per sopravvivere. Come dice una mia amica "il cantiere è un servizio come la boutique"». Meglio se di famiglia. Delusi dalla finanza forse anche Giorgio Busnelli e la sua BandB Italia. Fondata da Piero Ambrogio Busnelli nel 1966 a Novedrate (Como), come azienda di imbottiti, la BandB ha fatto la storia del design italiano. Nel 2003 il controllo è passato nelle mani del fondo Opera, con l'obiettivo di arrivare in breve alla quotazione in Borsa. «La partnership – ha spiegato Busnelli - è nata dall'idea di approcciare la Borsa, ma l'incertezza dei mercati in questi ultimi anni ci ha portato ad accantonare questo progetto. Una delle ragioni che ci ha fatto riflettere sul futuro dell'azienda e ci ha spinto a riprenderne il pieno controllo per garantire un percorso di continuità e di crescita». La crisi economica ha pesato non poco sulle ambizioni della BandB, il cui fatturato globale nel 2009 si è ridotto del 18% rispetto ai 210 milioni del 2008. A inizio marzo, la famiglia Busnelli ha perciò rilevato la quota del 51,4% dell'azienda, che oggi ha 160 milioni di fatturato, di cui l'80% sull'export, e 500 dipendenti. Rientra dunque tra quelle mille aziende, sulle quasi 3mila che hanno un giro d'affari oltre i 100 milioni, a gestione familiare. «Consolideremo la collaborazione – ha dichiarato Giorgio Busnelli - con tutti i nostri partner e guarderemo a quei mercati che, oltre a crescere economicamente, stanno maturando la giusta sensibilità per apprezzare il design dei nostri prodotti».

FMI: paura per i debiti sovrani (18 aprile 2011).
Nell'ultimo World economic Outlook dell'Fmi a Washington Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo monetario, ha lanciato l'allarme sulla sostenibilità fiscale (dei conti pubbblici) e finanziaria (banche dissestate) dei paesi membri del club di Bretton Woods come elementi di pericolo, oltre al rialzo dell'inflazione, che possono far deragliare la fragile e disallineata ripresa economica al 2,5% nelle economie avanzate e del 6,5% in quelle emergenti. Che succede, dunque, nei conti pubblici dei paesi membri dell'Fmi? Una crisi finanziaria iniziata nel 2007 con i subprime americani e scoppiata in tutta la sua virulenza il 15 settembre 2008 con il fallimento di Lehman Brother di solito dura più o meno sui 18 mesi, mentre questa volta siamo a più di quattro anni di distanza dal suo deflagrare, i ricchi superbonus dei banchieri continuano a fioccare puntuali come le cambiali delle bollette a fine trimestre indipendentemente dai risultati ottenuti, le banche d'affari restano ancorate ai depositi di quelle commerciali in un abbraccio mortale, mentre la crisi finanziaria si è trasferita nei conti degli stati erodendone la stabilità e mettendo in dubbio persino la tenuta dell'euro con la crisi dei debiti sovrani dei periferici. Per di più con un solo responsabile in prigione: Madoff, l'unico colpevole della più grande crisi finanziaria dagli anni '30. Una situazione talmente insostenibile politicamente che Berlino addirittura è pronta a concordare con le banche francesi, tedesche e britanniche in primis, le più esposte per 118 miliardi di dollari, una ristrutturazione del debito greco da 340 miliardi di dollari per evitare di mettere ancora mano al portafoglio e perdere il consenso degli elettori. Cittadini che soprattutto nel Nord Europa, si veda la Finlandia dove è nato un partito ostile ai salvataggi dei paesi in difficoltà, sono ormai stanchi di far sacrifici per chi non ha rispettato le regole e di non far pagare gli investitori che hanno speculato su titoli a rischio secondo la regola: profitti privati, perdite pubbliche o too big to fails, troppo grande per poter fallire. Esagerazioni dei mass media? Non proprio, visto che la Germania ha un debito pari all'80% del Pil ma un saldo primario negativo (-0,3%) come pure la Francia, 88% di debito con un saldo primario negativo -3,5%, segnale inquietante di difficoltà rispetto a un più 0,2% dell'Italia che pure ha un debito del 120%, ma un trend in recupero, quello che guardano i mercati. Il Portogallo ha un debito pubblico al 91% del Pil ma un saldo primario negativo a -1,6% e un quota del debito in mano straniera al 57%, come pure l'Irlanda ha un debito al 114% del Pil, un saldo a -7,5% e una quota in mano straniera al 59%.

SandP taglia l'outlook degli Usa (18 aprile 2011).
Standard and Poor's conferma il rating di "Tripla A" degli Stati Uniti ma rivede l'outlook a "negativo" da "stabile". Una decisione senza precedenti nella storia. Riflette, spiega in una nota l'agenzia di rating, il deterioramento dei conti pubblici. Per SandP, la cui decisione arriva dopo lo stallo del Congresso sulla manovra fiscale, c'è il rischio che il Congresso e il presidente Usa, Barack Obama, «non riescano a raggiungere un accordo per risolvere le sfide di bilancio di medio e lungo termine entro il 2013». Probabile, spiega l'agenzia, che un accordo sarà trovato solo dopo le elezioni presidenziali del prossimo anno (novembre 2012). Ragion per cui il profilo fiscale degli Stati Uniti potrebbe diventare secondo l'agenzia «significativamente più debole» rispetto a quello degli altri Paesi con rating sovrano di tripla A. «L'economia Usa - si legge nella nota di SandP - è flessibile e altamente diversificata e le politiche monetarie del Paese hanno sostenuto la produzione contenendo le pressioni inflazionistiche». Tuttavia «poiché gli Usa hanno un deficit molto ampio rispetto agli altri Paesi con tripla A, e il percorso per ridurlo non ci è chiaro, abbiamo rivisto il nostro outlook sul rating di lungo termine a "negativo" da "stabile"». Immediata la reazione del dipartimento al Tesoro. «Riteniamo che un outlook negativo sottostimi la capacità dei leader americani di trovare un punto di incontro per risolvere i difficili problemi di bilancio che la Nazione deve fronteggiare», ha detto Mary Miller, collaboratore del segretario al Tesoro Timothy Geithner. Proprio Geithner ieri aveva annunciato di essere «assolutamente certo» che il Congresso degli Stati Uniti approverà l'innalzamento del tetto del deficit Usa. Anche perché, se non lo facesse, i parlamentari americani avrebbero la responsabilità di mettere l'economia americana in condizione di «rischi catastrofici». Secondo il consigliere economico della Casa Bianca, Austan Goolsbee quello di SandP è un «giudizio politico». Parlando alle tv MSNBC e CNBC, Goolsbee ha riferito di non essere d'accordo con SandP ribadendo che gli Stati Uniti raggiungeranno un'intesa a lungo termine sulla riduzione del deficit di bilancio. Dopo la notizia, Wall Street e le Borse europee viaggiano in netto ribasso. Mentre l'oro si è avvicinato, per la prima volta nella storia, alla soglia dei 1.500 dollari. Complice il calo del dollaro. Reazione negativa anche da parte dei titoli del Tesoro Usa, con l'interesse sul titolo decennale in rialzo al 3,45 per cento a New York.

CONFINDUSTRIA : critiche al governo (19 aprile 2011).
È condivisibile che «senza stabilità della finanza pubblica non è possibile lo sviluppo economico», ma «è vera anche la relazione inversa: senza crescita è molto difficile conseguire la stabilità finanziaria». È la posizione di Confindustria sul piano economico varato dal Governo, espressa dal direttore generale Giampaolo Galli in audizione al Senato. Per Galli il Pnr è «deludente per quanto attiene alle azioni concrete» per crescita e competitività. E «serve uno scatto di orgoglio per affrontare le urgenze del Paese». Confindustria «condivide gli impegni del Governo in materia di risanamento dei conti pubblici, che è obiettivo essenziale, nonché le grandi aree su cui è necessario intervenire per rilanciare la crescita». Ma giudica «deludente» il Pnr «per quanto attiene alle azioni concrete da intraprendere per la crescita e la competitività del sistema». Quindi, «si aspetta che tali azioni vengano definite e rese rapidamente operative. Per quanto riguarda il quadro macroeconomico, viale dell'Astronomia dà atto al Governo «di aver assunto a riferimento previsioni più realistiche rispetto a quelle della Decisione di finanza pubblica, per quanto riguarda sia la crescita economica sia i tassi di interesse». Previsioni che «sottolineano ulteriormente quanto siano impegnativi gli obiettivi di riduzione del disavanzo pubblico e sottolineano altresì quanto sia urgente mettere in atto le misure per rilanciare la crescita economica». Il piano di risanamento indicato dal governo nel Def è «estremamente ambizioso», con manovre per il biennio 2013-2014 da «circa 39 miliardi, cifra ben superiore a quella di 25 miliardi approvata la scorsa estate». Per Confindustria «questi dati delineano uno sforzo di gran lunga superiore a quello compiuto negli anni '90 per rispettare i parametri di Maastricht e partecipare fin dall'inizio alla moneta unica europea». «Per conseguire questi obiettivi - rileva Confindustria - il Governo, oltre a confermare gli impegni già assunti, ne assume di ulteriori, prevedendo di varare una manovra di 2,3 punti di Pil per il biennio 2013-2014». L'impegno, secondo Viale dell'Astronomia, «è ancora più gravoso oggi, in un contesto reso difficile dalle conseguenze della crisi finanziaria globale e dalla perdita di competitività accumulata nel nostro Paese». Considerando «l'elevato livello della pressione fiscale» che non lascia margini di intervento su questo fronte, «per avere successo, un simile sforzo richiede che si ridisegnino i meccanismi di spesa e lo stesso perimetro dello Stato nell'economia e nella società». Senza questi cambiamenti - dice Confindustria - i tagli alla spesa potrebbero rivelarsi difficili da sostenere e rischiano di tradursi nel rinvio di spese necessarie o in forme occulte di debito pubblico», come il «debito verso fornitori». Preoccupa però «il taglio agli investimenti pubblici» che deriva «in misura importante» dalla compressione della spesa primaria. «Scenderebbero a 27 miliardi già nel 2012 - ha detto Galli - erano 38 miliardi nel 2009. Si tratta di una diminuzione consistente che avrà effetti di lungo periodo sull'infrastrutturazione del Paese ed è in contrasto con le raccomandazioni dell'Unione Europea, che chiede di effettuare il risanamento senza penalizzare la spesa in infrastrutture».

Tremonti: manovra nel 2013-2014 (20 aprile 2011).
La correzione dei conti pubblici «va fatta», ci sarà e sarà «come minimo dello 0,5% l'anno per due anni, nel 2013 e 2014», sarà quella richiesta da Bruxelles «tra le più basse al mondo». Verrà fatta, sì. Ma per il prossimo biennio, 2013-2014, «non in questo biennio». È quanto ha detto il ministro dell'economia Giulio Tremonti intervenendo all'audizione sul Documento di economia e finanza (Def) a Palazzo Madama, davanti alle commissioni Bilancio congiunte di Camera e Senato. «Tutto dipenderà dall'andamento dell'economia», ha subito precisato, parlando di correzioni. Questo significherebbe, dunque, una manovra di circa 7,5-8 miliardi l'anno, quindi 15-16 miliardi complessivi: non immediata. Incalzato dalle domande dei senatori sulla possibilità di una manovra correttiva già da quest'anno, o di correzioni più dolorose che potrebbero superare i 30 miliardi o sfiorare i 35 miliardi così come indicato dalla Banca d'Italia pari al 2,3% del Pil, il ministro ha osservato che l'Italia è in linea con gli altri stati e «non risulta che altri paesi europei abbiano fatto già adesso correzioni per il 2013 e il 2014». La correzione, ha precisato, sarà di un'entità stabilita con Bruxelles. E servirà a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2014: per questo «va fatta», ha convenuto ma ha anche puntualizzato che «quella chiesta all'Italia da Bruxelles é tra le più basse del mondo». «La nostra posizione non è particolarmente spiazzata - ha riferito -. Anzi confrontata con altri paesi si può verificare che tutti i sentieri che vanno seguiti per riportare in norma la posizione dell'Italia è diversa dalle rappresentazioni fatte da altre parti. Come percentuale la nostra posizione è piuttosto interessante». Ha poi ribadito che l'impegno verso la riduzione del deficit andrà accompagnato da «una modifica della Costituzione». Come richiesto dal nuovo patto per l'euro. E in quanto al capitolo ricerca, anch'esso nel nuovo patto, Tremonti ha annunciato che «il prossimo decreto conterrà il credito d'imposta del 90% perchè riteniamo che ci sia il margine per finanziare nel modo più efficace la ricerca fatta nelle università e negli istituti». «Ci poniamo l'obiettivo di una necessaria maggiore crescita, ma sui grandi numeri non vedo spiazzamenti rispetto agli altri Paesi», ha confermato il ministro, ribadendo l'impegno del governo nel Meridione: «dobbiamo concentrare gli sforzi soprattutto dove oggi la crescita é più bassa, al Mezzogiorno». Che si può fare di più il ministro lo ha sempre detto e lo ha confermato: «in Italia sicuramente dobbiamo fare di più e possiamo farlo», ha ammesso, ricordando tuttavia che «la crescita è stata dell'1,3% con deficit al 4,6% del Pil, meno della metà, ad esempio, della Gran Bretagna». Il Def, contenente anche il piano nazionale di riforme, sono i documenti che l'Italia invierà a Bruxelles nell'ambito del semestre europeo e sono «aperti alle proposte delle forze politiche, economiche e sociali», è l'invito che il ministro ha rivolto parlando al Senato. Il documento presentato dal Governo su conti pubblici e riforme è «un gioco, un meccanismo che si apre a tutte le proposte». «Sono attesi i documenti dell'opposizione. Ma le proposte devono essere scritte con metrica europea. È molto attesa la parte propositiva», ha spiegato. «Siamo in attesa di questi documenti ed anche se i tempi sono limitati, abbiamo ancora margini per riceverli». Il governo è tuttavia pronto ad adottare «le prime azioni che riguarderanno Meridione, opere pubbliche, semplificazioni amministrative, edilizia privata, e riduzione dei costi per le imprese». Un «primo blocco che adotteremo nei prossimi giorni». Sulla riforma fiscale, un documento «fatto non solo da tecnici», «quando avremo dei dati», ha detto il ministro in risposta alle domande, «li porteremo in Parlamento». Della riforma fiscale, ha rilevato che «non è semplice farla». «Un solo paese la sta mettendo in cantiere ed è il Regno Unito. Noi ci stiamo lavorando con impegno e cominciamo ad avere grandi linee su cui operare». Sul debito pubblico, e sulla necessità di abbatterlo, il ministro ha rilanciato una sua vecchia proposta: la vendita degli immobili pubblici per abbattere il debito. «Siamo convinti sia una via giusta ma la questione va vista nel contesto europeo, per avere l'approvazione». «Non l'abbiamo fatto in questo periodo perchè nel pieno della crisi non c'era la possibilità di montare uno strumento finanziario che raccogliesse i beni per poi metterli sul mercato. Ora - ha aggiunto - possiamo riprendere quel percorso: fermo che ai fini dell'abbattimento prima lo devi fare e poi lo puoi scomputare». Sulla ricapitalizzazione delle banche, il ministro si è limitato a dire che non si tratta di operazioni fatte per legge e che serviranno per lo sviluppo del paese. E sulla Cassa depositi e prestiti, oggetto di domande perchè attivata nell'operazione Parmalat e per la creazione di un fondo d'investimento, Tremonti ha chiarito che la Cdp serve già l'economia con 100 miliardi di investimenti, prevalentemente tramite gli enti locali, ma anche per le imprese e con garanzie. Il modello della Cassa, ci ha tenuto a precisare, non è unico, «è quello della Cdc francese e della Kfw tedesca».

Tremonti : le imprese tartassate dal fisco (20 aprilòe 2011).
I controlli fiscali, accessi e visite alle imprese, sono eccessivi «con costi come tempo perso, stress, e occasioni di corruzione. Un'oppressione fiscale che dobbiamo interrompere». Questo l'auspicio espresso dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, in audizione davanti alla commissione Finanze della Camera. Il titolare di via XX Settembre apre dunque alle richieste degli imprenditori che da tempo sollecitano un alleggerimento del carico fiscale e burocratico che grava sulle aziende. Davanti ai deputati di Montecitorio il ministro chiarisce poi meglio i contorni della sua promessa. «La proposta, ma deve essere equilibrata, - aggiunge Tremonti - non può essere del tipo della 626 (legge sulla sicurezza sul lavoro), ma potremmo immaginare un qualche tipo di concentrazione, salve esigenze di controllo erariale e ridurre il continuo controllo sulle imprese. Ne va via uno, e dopo un po' arriva il vigile urbano. Ci abbiamo già iniziato a lavorare. Fermo il discorso della sicurezza sul lavoro. Serve o un coordinamento dall'alto o un diritto dal basso: il diritto di dire "non mi rompere più di tanto"». Il ministro è quindi tornato sul decreto anti-scalate varato dal governo per bloccare le mire dei francesi su aziende strategiche del sistema industriale italiano. «La migliore difesa è l'attacco, il problema economico di questo paese non è difendere ma sviluppare. Serve far crescere l'economia nella sua dimensione». Il problema, afferma ancora il ministro, «non è altro se non crescere, noi dobbiamo far crescere l'economia nella sua dimensione, questo non vuol dire che dobbiamo ingratitudine a milioni di imprenditori che fanno la loro economia». Sulla crescita dimensionale delle imprese, ha poi aggiunto che «gli incentivi alla fusione non hanno funzionato» e dal momento che «non abbiamo la bacchetta magica» l'idea giusta è quella delle reti, "un'idea che sta funzionando in modo incredibile». Quanto al decreto Tremonti anti scalate ha poi sottolineato che «è importante sia convertito» e ha chiarito che la norma sul rinvio delle assemblee delle società quotate «è generale non particolare. È una misura che c'era già lo scorso anno e penso che debba essere messa a regime nel milleproroghe». Il ministro ha quindi precisato che la norma non serviva per prendere tempo sulle nomine delle società quotate partecipate dal Tesoro. «I giornali - spiega Tremonti - dicevano che la norma serviva per le nomine nelle società pubbliche, ma le nomine sono state fatte in tempo». Certo, ha aggiunto, avrebbe avuto una certa «utilità». Il ministro si è detto poi convinto che il piano nazionale delle riforme italiano sarà apprezzato da Bruxelles. «Abbiamo ragione di ritenere che il piano sarà apprezzato dai partner europei» ribadendo quindi che il piano contiene ipotesi che saranno presto oggetto di un decreto legge che saranno relative a opere pubbliche, edilizia abitativa, turismo e ricerche scientifica». Poi una stoccata all'opposizione. «Non ho ricevuto grandi proposte, mi è stato detto che il Pd ha lavorato a un documento, in effetti conosco quel documento e per usare una parafrasi diplomatico-eufemistica credo che il lifetime all'Eurostat di quel documento non superi i 10 minuti». Si tratta di un documento, ha proseguito, «politico programmatico, in cui si fanno proclami. Noi - ha ribadito - aspettiamo le proposte che devono essere scritte con la metrica europea. Devono essere coerenti nei tempi e nei numeri». Le parole del ministro sono state contestate da alcuni esponenti del Pd in particolare il passaggio sul "lifetime" all'Eurostat. Infine Tremonti ha risposto a una domanda sul crollo delle società quotate in Borsa. «Per quotare in Italia una società da 80 milioni i costi sono l'8 per cento. Una follia. Quando si dice il peso delle barriere nell'economia mica le fa solo lo Stato. L'8% è pazzesco». Tremonti ha poi rilevato che dal 1994 il numero delle società quotate è salito grazie al premio di quotazione. «Poi è venuto meno quel meccanismo e per altre infinite ragioni», come i costi «operativi, di spese di revisione, di stamperia, di pubblicità, legali», calcolati dal Fondo pmi nell'8%, il processo si è invertito. «Poi ci sono anche fattori di scelta: il nostro è un capitalismo molto familiare. Se lei va in un'assemblea societaria e chiede "chi di voi è posseduto da una holding italiana" la risposta è quasi nessuno. Se chiede "chi di voi è posseduto da una holding lussemburghese", tutti. Da lì avvengono gli investimenti, avvengono nell'Est, nel Far East... La struttura dell'economia italiana é molto particolare e a volte andare in Borsa non conviene».

FIAT: i conti trimestrali e la Chrysler. (21 aprile 2011).
Fiat riduce il debito nel primo trimestre, aumenta utili e ricavi e conferma gli obiettivi per il 2011; grazie alla tenuta degli utili e al calo dei debiti sarà inoltre in grado di minimizzare il prezzo di acquisto della quota Chrysler. Oltre ai tempi dell'operazione Chrysler restano però all'orizzonte due incognite "industriali": la vertenza sindacale, con Sergio Marchionne che ha nuovamente minacciato di tagliare la produzione in Italia se non verranno accettate le modifiche chieste dalla Fiat all'organizzazione del lavoro in fabbrica; e la perdita di quote di mercato in Europa, che pesa negativamente sui risultati anche dal punto di vista fiscale. I conti trimestrali – i primi dopo lo scorporo da Fiat Industrial – vedono un aumento dei ricavi a 9,21 miliardi dagli 8,6 dello stesso periodo del 2010; un risultato di gestione di 251 milioni contro 230, un utile netto di 37 milioni contro 13 e un debito netto industriale sceso a fine periodo a 489 milioni di euro dai 542 di fine 2010. La divisione auto Fga ha visto aumentare i ricavi a 7 miliardi di euro (+2,6%) nonostante il calo delle consegne (-2,6%) grazie al miglioramento del mix di prodotto; ha però subìto un calo dei profitti da 153 a 130 milioni. Fiat Auto ha fatto peggio del mercato sia in Italia (-29% contro -23%) che fuori (+0,2% contro un +2,3%), con un -20% totale in Europa contro il calo del 5% delle vendite complessive di automobili: nei primi tre mesi del 2011 Fiat ha perso ancora terreno nel suo mercato più importante. Certo, una parte del fenomeno è puramente statistica, e deriva dal fatto che l'Italia va peggio degli altri paesi europei. Ma la quota del mercato europeo controllata dal gruppo italiano è tornata nel primo trimestre al 7,3%; praticamente lo stesso livello del 2004, quando al Lingotto arrivò Sergio Marchionne; nessun concorrente europeo vende così poco, in percentuale, al di fuori del proprio mercato nazionale: il 3,8% del 2010 (sceso poi al 3,6% nel 1° trimestre 2011) si confronta con un 7,9% di Renault e un 9,7% di Peugeot; se si esclude l'Italia, in tutti gli altri paesi d'Europa Fiat vende meno di Hyundai e Kia (451mila auto nel 2010 contro 565mila). Non solo: delle 451mila unità vendute l'anno scorso, circa 200mila, ovvero quasi la metà, erano Panda e 500; questo conferma la superiorità di Torino nelle minicar ma non garantisce certo margini elevati. Tornando alla quota del 7,3%, il miglioramento dal minimo del 2005 (6,6%) al massimo dell'8,8% toccato nel 2009 si è dunque rivelato di natura congiunturale, legato al successo di prodotti come la Panda, la Grande Punto e la 500, oltre che agli incentivi che nel 2009 favorirono i modelli più piccoli ed ecologici. Adesso che queste auto iniziano a mostrare i segni dell'età, le vendite mettono la marcia indietro. Non è un caso che anche nei primi tre mesi del 2011 l'unico marchio in controtendenza sia Alfa Romeo, che risente positivamente del successo della Giulietta appena lanciata. «Abbiamo risentito della fine degli incentivi e dello spostamento del mercato verso i segmenti medio alti, dove Fiat è meno presente» ha detto Sergio Marchionne rispondendo alle domande degli analisti; l'amministratore delegato ha definito i risultati «più che soddisfacenti, dato l'andamento del mercato». Il calo di vendite e i conti in rosso in Europa hanno un effetto collaterale negativo citato ieri dall'amministratore delegato Sergio Marchionne: un'aliquota fiscale media elevata, poiché le perdite subite in Italia non sono deducibili dagli utili ottenuti in Brasile.
La Fiat ha raggiunto un accordo con Chrysler, e con gli altri soci della casa di Detroit, per acquisire un ulteriore 16% del capitale del gruppo Usa. Il passaggio è previsto entro il secondo trimestre 2011. Il prezzo complessivo per l'esercizio della call option sarà di 1,26 miliardi di dollari Usa. Attualmente il Lingotto ha il 30% della casa americana. Quindi, entro giugno salirà al 46 per cento. «Chrysler sta seguendo uno straordinario cammino di ripresa, a livello industriale ed economico, e la Fiat è pronta ad assumerne il controllo, per rendere il legame ancora più stabile e più forte, nell'interesse di entrambe».Questa notizia se è un buon segnale per la Fiat lo è meno per il progetto Fabbrica Italia, perchè Fiat sta accelerando gli investimenti in Usa, dove trova porte aperte da parte dei sindacati e del governo e iniziano a vedersi gli utili. Gli investimenti su Pomigliano, Mirafiori ed ex-Bertone sono, invece, fermi. Sono pendenti, infatti, i ricorsi alla magistratura presentati dalla Fiom per comportamenti antisindacali da parte di Fiat. Se i giudici dovessero accogliere i ricorsi è molto probabile che la Fiat smobiliti, definitivamente, dall'Italia. La Fiom avrebbe vinto sui suoi principi ma perso migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti.

Il costo dell'eventuale ristrutturazione del debito greco (21 aprile 2011).
Un'eventuale ristrutturazione del debito di Atene potrebbe costare alle banche europee (ad esclusione di quelle greche) fino a 41 miliardi di euro. Lo stima la banca d'affari Goldman Sachs ipotizzando un haircut (cioè il taglio del valore nominale dei titoli) da un minimo del 20 a un massimo del 60 per cento. Nella migliore delle ipotesi, la perdita che il sistema creditizio registrerebbe sarebbe di 13 miliardi. Nella peggiore di 41. Gli analisti segnalano tuttavia che questa cifra sarebbe stata decisamente superiore se la ristrutturazione del debito greco fosse avvenuta un anno fa. E questo per via dei canali privilegiati di rifinanziamento che la Bce ha messo a disposizione prima alle banche greche (fino 91 miliardi di euro) e poi a quelle di Portogallo e Irlanda (altri 153 miliardi). In sostanza l'Eurotower si è sostituita al mercato interbancario a cui le banche greche faticano ad avere accesso. Basti pensare che, ad ottobre dell'anno scorso, il 17,3% del totale dei finanziamenti erogati dalla Bce (le cosiddette lending facilities) è stato destinato alle banche greche. Questo fenomeno ha portato a una riduzione dell'esposizione del sistema creditizio europeo verso le banche greche. Queste ultime infatti sono le più esposte verso il debito di Atene e subirebbero inevitabilmente il peso maggiore di una ristrutturazione. Secondo Goldman, in caso di un "haircut" del 60%, le banche grece registrerebbero una riduzione fino all'80% del proprio Tier 1 (coefficiente di patrimonializzazione che misura della solidità di un istituto di credito). Insomma conseguenze devastanti per il settore creditizio e, a cascata, per la già depressa economia greca. Decisamente più contenuto l'impatto sul capitale delle banche europee. Secondo gli analisti di Goldman Sachs, nella peggiore delle ipotesi (taglio del 60% del valore nominale dei titoli) queste vedrebbero calare del 3% il proprio Tier 1 capital ratio. «Diverse banche - fa notare Angelo Drusiani gestore obbligazionario di banca Albertini Syz - hanno parzialmente assorbito il colpo della svalutazione dei titoli greci. Alcune li hanno venduti, altre li hanno contabilizzati a prezzo di mercato mettendo quindi a bilancio una svalutazione». Intanto continuano a salire vertiginosamente i rendimenti dei titoli di Stato della Grecia. L'interesse sui bond a due anni è schizzato al record storico del 22,41% mentre quello sui titoli a dieci anni è volato al 14,92%. La forbice tra il bond greco a dieci anni e il corrispettivo bund tedesco si è allargata a 1.159 punti base. Record anche per i premi di rendimento dei titoli decennali portoghesi. Lo spread col bund è salito a 600 punti base.

Giappone: crolla la produzione di auto (25 aprile 2011).
Crolla la produzione di automobili in Giappone a causa del terremoto che ha devastato il Paese nel marzo scorso. In particolare, Toyota ha tagliato la sua produzione del 62,7% a marzo ed è destinata a perdere la corona di primo produttore mondiale conquistata nel 2008 a vantaggio di General Motors. E anzi potrebbe scivolare fino al terzo posto, superata anche da Volkswagen. Secondo Toyota, i problemi produttivi, determinati dalla difficoltà di reperire le componenti elettroniche e in resina, dureranno almeno fino a dicembre. Giù anche la produzione di Honda (-62,9%) e Nissan (-52,4%). Tra le conseguenze finanziarie c'è il taglio, da «stabile» a «negativo» dell'outlook di Toyota, Nissan e Honda operato dall'agenzia di rating Standard and Poor's. Lo riporta il Wall Street Journal, sottolineando che la produzione delle tre case automobilistiche si è dimezzata in marzo. La decisione di Standard and Poor's aumenta le possibilità di un downgrade di Toyota, Nissan e Honda. Il calo della produzione «potrebbe ridurre la quota di mercato delle tre case automobilistiche - osserva Standard and Poor's - e ridurre la loro competitività nel lungo periodo». Il piano di rilancio della Toyota. Immatricolare 9 milioni di unità l'anno tra Toyota e Lexus (sfiorando quota 10 milioni con le affiliate Daihatsu e Hino), vendere metà delle sue vetture nei mercati emergenti, lanciare 10 nuovi prodotti ibridi, riorganizzare il management riducendo i membri del board dagli attuali 27 a 11. Il tutto per raggiungere un utile operativo da 1.000 miliardi di yen (8,7 miliardi di Euro). Sono queste le linee guida tracciate dal Presidente Akio Toyoda nell'illustrare il nuovo piano denominato "Global Vision" con riferimento al 2015 e per quell'anno punta a utili per 12 miliardi di dollari. Un programma quinquennale, dunque, e non decennale come era stato ipotizzato (ma Toyoda ha annunciato che un nuovo piano separato a medio-lungo termine sarà svelato presto). "Vogliamo consolidarci nei Paesi emergenti e nel settore dei veicoli ad alimentazione alternativa", ha ricordato Toyoda nell'anticipare che la Cina, da sola, assorbirà il 15% del totale vendite del Gruppo. Per quanto riguarda l'obiettivo vendite, è chiaro che sfiorare i 10 milioni di veicoli complessivi nel 2015 rappresenta una sorta di sfida al Gruppo Volkswagen che ha previsto il superamento di questa soglia entro il 2018. Ma in realtà, almeno a parole, non è questa la priorità Toyota. "Il calcolo numerico che si avvicina ai 10 milioni non lo riconosco come vero target perché il nostro obiettivo è semplicemente migliorare la qualità delle nostre vetture". Esplicito il riferimento di Toyoda al grave danno economico e di immagine provocato dai recenti mega richiami mondiali e che hanno portato la società a creare team specifici in grado di seguire lo sviluppo produttivo dei modelli sin dall'inizio per evitare il ripetersi di tali operazioni. Il target di realizzare profitti operativi da 1.000 miliardi di yen è certamente ambizioso, considerando che presto il Gruppo annuncerà un risultato da 550 miliardi per l'anno fiscale in fase conclusiva (31 marzo). Ma rimane comunque ben al di sotto del record stabilito nel 2007 quando gli utili operativi si attestarono a 2.270 miliardi di yen. Attualmente, il 60% dei profitti operativi è generato dal mercato nordamericano. La crescita Toyota arriverà non soltanto dai mercati emergenti (Bric e Thailandia), ma anche da un consolidamento in Giappone, USA ed Europa, seppur con tassi più limitati. La riduzione dei membri del board da 27 a 11 determinerà l'uscita di top manager di livello quali i vice Chairman Katsuaki Watanabe e Kazuo Okamoto, il vice Presidente esecutivo Yoichi Ichimaru e il direttore Yoshimi Inaba che però conserverà l'attuale carica di responsabile delle operazioni nordamericane.

Lactalis; Opa su Parmalat (26 aprile 2011).
Lactalis annuncia la promozione di un'Offerta pubblica di acquisto volontaria totalitaria sulle azioni ordinarie di Parmalat a un prezzo di euro 2,60 per azione, ovvero il 12,45% in più rispetto all'ultima chiusura. Lo rende noto la società francese motivando l'operazione «anche a seguito del mutato quadro normativo successivo all'acquisto della propria partecipazione del 28,969 per cento». Il titolo Parmalat, sospeso fino alle 9.40, ha aperto le contrattazioni con balzo del 10% a 2,54 euro per poi allinearsi dopo pochi minuti ai 2,6 euro messi sul piatto dal gruppo transalpino. Lactalis ha comunicato alla Consob che per l'acquisizione della quota rimanente del gruppo di Collecchio sarà finanziata da quattro banche: Credit Agricole, Hsbc, Natixis e Société Générale. Le azioni oggetto dell'offerta sono complessivamente 1.298.186.659 per un controvalore di 3,375 miliardi di euro. Il prezzo offerto incorpora un premio del 21,3% circa rispetto al prezzo di borsa delle azioni di Parmalat degli ultimi dodici mesi e, inoltre, del 33,6% rispetto all'enterprise value per azione (calcolato come capitalizzazione di Borsa al netto della posizione finanziaria netta e delle interessenze di minoranza per azione) degli ultimi dodici mesi. Lactalis rende noto inoltre che intende mantenere Parmalat quotata alla Borsa di Milano e procederà, se necessario, al ripristino del flottante sufficiente ad assicurare il regolare andamento delle negoziazioni. Il presidente del gruppo Lactalis, Emmanuel Besnier, afferma che «noi abbiamo un progetto di crescita ambizioso per Parmalat: farne il gruppo italiano di riferimento nel latte confezionato a livello mondiale, con sede, organizzazione e testa in Italia». Lactalis ritiene che nel contesto competitivo attuale sia importante per Parmalat raggiungere dimensioni significative tali da poter sviluppare brand globali. A tal fine, Lactalis valuterà l`opportunità di far confluire in Parmalat le proprie attività europee nel settore del latte confezionato, tra le quali quelle detenute in Francia e in Spagna. Il progetto industriale di Lactalis prevede la valorizzazione di Parmalat a livello internazionale, grazie alla forte complementarietà tra i due gruppi sia a livello geografico che di prodotto. Inoltre, l`espansione nei mercati in forte sviluppo quali Brasile, India, Cina, nei quali entrambi i Gruppi ad oggi hanno una limitata presenza, potrebbe essere perseguita in modo più efficace attraverso un intervento congiunto. Il gruppo Lactalis ribadisce la sua volontà di sviluppare il proprio piano nel rispetto dell`italianità di Parmalat, mantenendo la sede in Italia, salvaguardando gli asset produttivi, i dipendenti e la filiera italiana del latte, nell`interesse dell`economia del territorio. Secondo un gestore interpellato da MF-Dowjones «il mercato potrebbe scommettere su un rilancio. A mio parere gli operatori ipotizzano che ci sarà un rilancio a 2,8 euro e a quel punto Lactalis potrebbe anche cedere e uscire dalla partita». Il prezzo dell'Opa lanciata dai francesi, pari a 2,6 euro per azione, nota l'esperto, è «inferiore ai 2,8 euro che sono il prezzo massimo pagato da Lactalis per acquisire azioni Parmalat negli ultimi mesi». Giova ricordare che il gruppo Lactalis, fondato nel 1933, è di proprietà della famiglia francese Besnier, presente in 148 Paesi. Tra i più grandi produttori e distributori di prodotti lattiero-caseari a livello internazionale - che commercializza attraverso 100 diversi brand (di cui i due marchi globali Galbani e President rappresentano circa il 30% del giro d`affari) - conta 126 siti produttivi in 24 Paesi, impiegando oltre 38.000 dipendenti. Con un fatturato di circa 10 miliardi di euro (di cui circa il 50% generato al di fuori della Francia), è il terzo produttore mondiale di latticini e il primo nella produzione di formaggi (889.000 tonnellate). Il settore caseario costituisce, infatti, il core business del gruppo, e conta il maggior numero di prodotti a denominazione di origine controllata. Lactalis è inoltre secondo nella produzione di latte confezionato a livello europeo (1.840.000 tonnellate di latte), secondo nei latticini freschi a livello europeo (731.000 tonnellate) e secondo a livello mondiale per raccolta di latte (9,2 miliardi di litri). A partire dagli anni Novanta, il gruppo ha iniziato una fase di sviluppo internazionale attraverso un`attiva strategia di acquisizioni. Lactalis ha così sviluppato e consolidato un expertise nell`integrazione di business e gestione di team nel rispetto dell`identità locale, sia a livello di cultura organizzativa che di valorizzazione delle diverse specificità locali. I marchi italiani già di proprietà di Lactalis sono: Bel paese, Vallelata, Gim, Invernizzi, President, Cademartori.

Il rischio derivati non è scomparso (26 aprile 2011).
Ad aprile sono scattati i primi campanelli d'allarme. Come quello lanciato dal Financial Stability Board sulle «potenziali vulnerabilità» della nuova categoria di prodotti finanziari sintetici chiamati Etf. Simultaneamente si è registrato un vero e proprio boom di Asset backed securities (Abs) con prestiti auto come sottostante, cioè cartolarizzazioni garantite dai flussi di cassa di una categoria di debito a rischio di mora molto alto. Nel settembre 2008 si è avuta la bancarotta di Lehman Brothers. È stato il punto di svolta per otto milioni di americani rimasti senza lavoro nel grande crack finanziario che l'ha seguita. Per i nove milioni ai quali è stata pignorata l'abitazione. E per l'economia di tutto il mondo. L'ironia è che l'unica strada d'America in cui ci sono stati meno cambiamenti è proprio quella da cui tutto è partito: Wall Street. Certo, il settore finanziario si è contratto, le cartolarizzazioni di mutui tossici sono cose del passato. Ma i regolamenti attuativi della riforma del sistema finanziario - la legge Dodd-Frank siglata da Barack Obama nel luglio scorso - non sono entrati in vigore. Anzi, li si attende ancora dalle cinque agenzie federali che li devono definire. Nel frattempo, nella finanza sono riemersi i tre ingredienti della ricetta che due anni e mezzo fa ha prodotto il grande crack: la liquidità, i prodotti o le operazioni borderline, e la propensione a correre rischi sempre più forti. Il 19 aprile Hedge Fund Research ha comunicato che il denaro amministrato dagli hedge fund ha sfondato per la prima volta nella storia il tetto dei 2mila miliardi di dollari. Superando di 72 miliardi il record precedente raggiunto nel giugno 2008. Insomma, per gli hedge funds è tutto come prima. E non solo per loro. «Le banche di investimento hanno bisogno di mettere a frutto i soldi ma mancano i business. Quindi stanno rientrando in settori difficili e pericolosi. E poiché c'è molto liquidità non si vagliano adeguatamente i rischi», osserva Stefano Ghersi, ex dirigente Nomura e poi gestore di un fondo. Con il mercato che nuota in un mare di liquidità alla rincorsa di rendimenti soddisfacenti e in un settore ancora di fatto deregolato, stanno crescendo pressioni e incentivi per tornare a imboccare quella che un analista definisce «la strada sdrucciolevole che porta al precipizio». Strada lastricata di prodotti e operazioni sul filo del rasoio. A partire da veicoli finanziari strutturati ad alto rischio quali gli Asset Backed Securities che hanno come sottostante una categoria di debito di bassa qualità come è quella dei finanziamenti per l'acquisto di auto. Secondo l'agenzia Bloomberg, il volume di tali obbligazioni immesse sul mercato quest'anno ha già raggiunto i 18 miliardi di dollari. E proprio negli ultimi giorni sono state annunciate altre due operazioni. La prima da 2,9 miliardi della Ally Bank e la seconda da 784 milioni di Banco Santander. Il Financial Stability Board, l'organismo di controllo della finanza internazionale guidato da Mario Draghi, vuole che il 2011 sia l'anno in cui i riflettori porteranno finalmente alla luce le banche ombra, figlie naturali della deregulation finanziaria scattata negli anni 80. Il G20 di Seul, a novembre, ha deciso "il rafforzamento di regole e supervisione sullo shadow banking" e ha chiesto al Fsb di vararle entro la metà di quest'anno. Ma cos'è il sistema bancario ombra? Secondo l'Fsb è un sistema di intermediazione del credito attivo sin dagli anni 50 che coinvolge entità e attività esterne ai sistemi regolari. La Federal Reserve Bank di New York l'anno scorso ha spiegato che il sistema ufficiale e quello mbra hanno gli stessi attori: creditori, debitori e intermediari. Le banche ombra sono fondi e operatori che investono negli strumenti emessi da veicoli societari, differenti per garanzie, duration, rischio e rendimento. Il sistema ombra, come quello ufficiale, intermedia il credito, ne trasforma le scadenze e aumenta la liquidità, ma non in operazioni regolate: con suddivisioni, trasformazioni, impacchettamenti e rivendite successive, in una catena di passaggi granulari. Che, negli Usa, sono di solito sette: si acquisiscono prestiti, li si impacchetta, poi si usano i pacchetti come garanzia per emettere titoli strutturati (Asset Backed Securities), che vengono a loro volta impacchettati. Sui pacchetti di Abs si emettono Collateralized debt obligation (Cdo) che vengono venduti. I ricavi rifinanzieranno altri prestiti. Vi siete persi? Siete in buona compagnia. Lo stesso Fondo monetario internazionale – non un nome qualsiasi – ha appreso solo a luglio 2010 che le stime sullo shadow banking Usa andavano riviste al rialzo. Un suo economista, Manmohan Singh, e un consulente, James Aitken, avevano scoperto una tecnica (la rehypothecation) usata in silenzio dalle banche ombra: l'utilizzo per più volte dello stesso denaro come collaterale per emettere titoli da vendere. Per l'ingegneria finanziaria è la moltiplicazione degli zecchini nel campo dei miracoli.

Cala la fiducia dei consumatori (27 aprile 2011)
Ad aprile l'indice del clima di fiducia dei consumatori scende a 103,7 da 105,1 di marzo. Lo comunica l'Istat. Il peggioramento è dovuto soprattutto ad una caduta dell'indicatore relativo alle prospettive future (da 93,7 a 90,1), mentre migliora lievemente l'indice sulla situazione corrente (da 113,9 a 114,4). Peggiorano anche il clima economico (da 75,5 a 72,8) e quello personale (da 119,7 a 118,8), secondo l'indagine Istat. Si deteriorano, in particolare, le previsioni sulla situazione economica del Paese e sulle possibilità future di risparmio. Peggiorano anche le opinioni sulla situazione economica della famiglia e sul bilancio familiare. I saldi dei giudizi e delle previsioni sull'andamento dei prezzi al consumo scendono lievemente rispetto a marzo. Per quanto riguarda i beni durevoli, recuperano i giudizi sulla convenienza all'acquisto, ma restano negative le attese a breve termine. Sulla base delle consuete domande trimestrali, recuperano le intenzioni di acquisto dell'autovettura e l'abitazione e quelle relative alle spese per manutenzione. Il calo della fiducia dei consumatori registrato a livello nazionale presenta differente intensità sul territorio: il calo è particolarmente marcato nel Nord-Est e nel Centro, più moderato nel Nord-Ovest e soprattutto nel Mezzogiorno.

FED: tassi ancora bassi (28 aprile 2011).
La politica di monetizzazione del debito si concluderà definitivamente fra due mesi, ma la Federal Reserve non ha nessuna fretta di alzare i tassi di interesse americani perché l'inflazione resta per il momento sotto controllo e l'economia Usa ha ancora bisogno di una spinta. Ben Bernanke non ha avuto un momento di esitazione quando ha illustrato in gran dettaglio i ragionamenti alla base delle sue decisioni di politica monetaria, e ha confermato che per un periodo «prolungato» nulla cambierà. Bernanke ha confermato che il secondo round da 600 miliardi di dollari di acquisti di titoli pubblici finirà come previsto a giugno, e un terzo round è estremamente improbabile. Anche se i titoli di stato e i mortgage-backed securities, i titoli garantiti da mutui, verranno reinvestiti. Perché lo stop di giugno, è stata una domanda, se questa iniziativa è stata efficace a stimolare l'economia e far salire la Borsa? «Il trade-off di questa politica sta diventando meno favorevole dato che l'inflazione è in salita», ha risposto Bernanke. In altre parole il rischio di rinfocolare il trend inflazionistico è troppo alto rispetto ai benefici di uno altro stimolo economico. Ciò detto, la Banca centrale ha intenzione di mantenere i tassi di interesse praticamente a zero (i tassi sui federal funds resteranno tra lo zero e lo 0,25%) per un periodo prolungato, aggettivo opaco di dubbia interpretazione. «Per periodo prolungato si intende un paio di riunioni del comitato esecutivo» ha chiarito il governatore. Il Federal Open Market Committee si riunisce ogni sei settimane circa. Bernanke ha offerto anche chiare spiegazioni sull'andamento del dollaro con una dettagliata risposta a chi lo critica, in casa e all'estero, per avere perseguito la strategia del dollaro debole e "svilito" la valuta americana. «I fattori che determinano i tassi di cambio sono molteplici - ha precisato -. Ma il corso attuale della politica monetaria ha il duplice obbiettivo di stimolare la crescita economica mantenendo sotto controllo l'inflazione. Nel medio periodo quindi questa politica avrà effetti positivi sul dollaro». Il governatore ha offerto un quadro generalmente ottimistico nonostante la lieve correzione al ribasso delle previsioni sulla crescita e al rialzo sull'inflazione. La Fed prevede oggi che il tasso di inflazione quest'anno sarà pari all'1,3-1,6% anziché l'1-1,3% calcolato in gennaio, ma per Bernanke l'aumento dei prezzi trainato dall'impennata delle materie prime è un fenomeno «temporaneo». Altrettanto temporaneo è il lieve rallentamento della crescita del Pil (la stima è scesa dal 3,4-3,9% di gennaio al 3,1-3,3%) causato dalla perdita di sprint nel primo trimestre. Che dire del pericolo di inflazione alla luce di un aumento delle aspettative di inflazione per il 2011 dall'1,3-1,7% al 2,1-2,8%? Bernanke pare tranquillo, pur riconoscendo che la situazione dovrà essere tenuta sotto controllo attentamente dalla Fed. Ma Bernanke ha lasciato intendere che l'obbiettivo di stimolare l'economia e far scendere il tasso di disoccupazione riveste enorme importanza. «Abbiamo tutti visto i risultati della disoccupazione di lungo periodo in Europa» ha detto. Secondo le ultime proiezioni della Fed, il tasso di disoccupazione in Usa dovrebbe scendere all'8,4-8,8% nel 2011, una previsione lievemente più ottimistica che in gennaio. Per finire, il governatore ha defnito «costruttiva» la minaccia di downgrade dell'America fatta da Standard and Poor's: «Incoraggia Washington a risolvere la crisi fiscale, il più grave problema per il Paese nel lungo periodo».

Draghi: crescita e rischi (2 magguio 2011).
La crescita economica a livello globale c'è, ma vi sono «rischi che probabilmente dureranno ancora per un po' di tempo». È il monito lanciato dal governatore di Bankitalia, Mario Draghi, intervenendo a un convegno a Bruxelles. Draghi ha elencato i principali rischi esistenti: «Una ripresa diseguale, politiche economiche divergenti, debiti sovrani in aumento, incremento dei prezzi, ampi squilibri nelle bilance dei pagamenti e pressioni sui tassi di cambio». Questa situazione richiede un maggiore coordinamento internazionale tanto più necessario perché solo se i mercati finanziari saranno robusti, potranno reagire agli choc. In questa fase, ha sottolineato il governatore di Bankitalia, é «essenziale e decisivo» si affermi «coerenza a livello internazionale» nella definizione e nella attuazione delle nuove regole per la finanza. Deve esserci la consapevolezza che non si può procedere in modo scoordinato né per quanto riguarda i soggetti della regolazione e della supervisione sparsi per il mondo né per quanto riguarda gli ambiti degli interventi. «Il fattore del rischio del debito sovrano é collegato allo stato di salute delle banche: tutte queste politiche sono complementari e devono essere coerenti». Solo assicurando coerenza «il sistema finanziario potrà fronteggiare» gli choc. La riforma della governance dei mercati finanziari é «un processo ad alta intensità politica». Draghi ha sottolineato che la nuova architettura normativa «deve partire dal livello nazionale» e in questo quadro «governi e legislatori devono agire in modo interattivo per rendere coerente il sistema». E su cosa significhi coerenza cita le norme di Basilea sulla banche. «Il mancato coordinamento su Basilea 2 - ha detto - é stata una delle principali cause della crisi finanziaria». «È necessario risanare i deboli sistemi bancari in Europa e ovunque», rafforzando il capitale e la liquidità. E «i prossimi stress test in Europa dovranno essere effettuati in tutto il continente in maniera credibile, coerente e trasparente». Per Draghi «ogni punto di debolezza del sistema dovrà essere identificato attraverso questi test per essere prontamente aggrediti». Nel dopo crisi, ha ricordato Draghi, sono stati compiuti «grandi progressi» nelle riforme della finanza globale, «e non solo da parte delle autorità, ma anche nella stessa industria della finanza: oggi è completamente diversa di come fosse 4 anni fa».

Ritorna l'utile alla Chrysler (2 maggio 2011).
La Chrysler è tornata in utile nel primo trimestre del 2011, con un risultato netto di 116 milioni di dollari contro una perdita di 197 milioni nello stesso periodo del 2010. È la prima volta dalla bancarotta, del giugno 2009, e prima di allora l'ultima trimestrale di Chrysler non in rosso risale al secondo trimestre del 2006 quando la società era controllata dalla Daimler. Marchionne aveva annunciato un utile compreso tra 200 e 500 milioni di dollari entro il 2011. Nei primi tre mesi dell'anno, il fatturato della casa automobilistica americana che fa capo alla Fiat è salito del 35% a 13,1 miliardi di dollari contro i 9,7 miliardi del primo trimestre dello scorso anno. L'utile operativo si è attestato a 477 milioni di dollari da 143 milioni. Il margine operativo lordo è arrivato a 1.171 miliardi di dollari contro 787 milioni nel primo trimestre dello scorso anno mentre il flusso di cassa operativo è balzato a 2,5 miliardi da 1,6 miliardi. Nello stesso periodo, le vendite mondiali sono cresciute del 18% a 60.000 veicoli e la quota di mercato Usa è salita al 9,2% (dal 9,1% un anno prima) mentre quella canadese ha guadagnato un punto percentuale attestandosi al 14,7%. Moodys' ha assegnato a Chrysler il rating B2 con outlook positivo. Lo comunica l'agenzia, precisando che sono coinvolti da questa valutazione debiti per circa 7,5 miliardi di dollari. Il rating B2, indica Moody's, "riflette le attese che l'alleanza strategica tra Chrysler e Fiat, il cui rating e' Ba1 sotto esame per un possibile declassamento, consentira' alla societa' di far fronte in modo efficace agli impegni piu' pressanti e di generare una performance operativa e una metrica del credito adeguati a sostenere solidamente il rating B2".

Cassa integrazione in calo (3 maggio 2011).
Cala la cassa integrazione ad aprile. Lo evidenzia l'Inps che sottolinea come le ore autorizzate siano risultate pari a 92,1 milioni contro le 102,5 milioni di marzo con una contrazione congiunturale quindi pari al 10,1 per cento. Rispetto a un anno fa (aprile 2010), invece, quando furono autorizzate 114,7 milioni di ore, la flessione è del 19,7 per cento. «Si tratta di un dato significativo - commenta il presidente dell'Inps, Antonio Mastrapasqua - che conferma i segnali di ripresa nella produzione che, nelle linee generali, risulta in crescita. Non c'è poi da dimenticare che oltre al dato delle richieste in diminuzione si sta confermando costante negli ultimi mesi anche quello di un bassissimo tiraggio, sceso in gennaio a circa il 34%. Solo un terzo delle ore autorizzate viene effettivamente utilizzato in azienda». Soddisfatto il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi: «È il primo effetto della crescita», sottolinea in una nota. Il ministro - che incontrerà oggi i sindacati sull'annunciata riforma dell'apprendistato - ha ribadito la sua ricetta per il rilacio del lavoro: «investire in buona formazione, fare azioni di ricollocamento nei territori, incoraggiare l'assunzione dei giovani attraverso l'apprendistato, appunto, adattare gli orari di lavoro per aiutare donne e uomini a conciliare lavoro e famiglia». Tornando ad aprile, per quanto riguarda gli interventi ordinari (Cigo), le ore autorizzate sono diminuite del -17,1% rispetto a marzo, essendo passate da 23,2 a 19,2 milioni. Ancora più sensibile (-41,2%) il calo rispetto allo stesso mese di aprile dell'anno scorso. Il forte decremento della cassa integrazione ordinaria rispetto a un anno fa si registra sia nell'industria (-47,1%) sia nell'edilizia (-22,5 per cento). Invariato invece il numero di ore di cassa integrazione straordinaria (Cigs) - pari a 24 milioni - mentre calano le ore per gli interventi in deroga (Cidg): sono state autorizzate 30,5 milioni di ore, -17,3% rispetto a marzo scorso. Tutti i settori produttivi mostrano un segno meno nelle richieste di cassa integrazione, tra marzo e aprile: -6,9% industria e artigianato; -12,8% edilizia; -28,7% commercio. A livello territoriale la diminuzione più sensibile riguarda il Nord Est dove le richieste di cassa integrazione sono diminuite del -26,8%; seguono il Centro (-13,7%); il Nord Ovest (-5,6%) e il Sud (-1,7 per cento). L'Inps rileva infine che risultano «in calo anche le domande di disoccupazione e mobilità, i cui dati sono riferiti ai primi tre mesi dell'anno». In particolare, le domande di disoccupazione presentate nel marzo del 2011 sono state 73 mila, contro le oltre 78 mila dello stesso mese del 2010 (-7 per cento). Più accentuata ancora la diminuzione delle richieste di mobilità, passate dalle oltre novemila del 2010 a poco più di seimila di quest'anno (-30,25 per cento).

Auto: immatricolazioni sempre in calo (3 maggio 2011).
In Italia nel mese di aprile 2011 sono state immatricolate 157.309 autovetture, il 2,24% in meno rispetto allo stesso mese del 2010 quando il dato si attestò a quota 160.919. In questo contesto la quota del gruppo Fiat ora veleggia intorno al 28,8% circa (dal 30,8% dell'aprile 2010) con vendite che scendono dell'8,4%. Ed è bene non farsi ingannare dalla limitata perdita (2,2 per cento in meno in fondo non è un grande calo): il problema sono i numeri assoluti, perché l'aprile del 2010 fu un mese iper-depresso per le consegne. "Pur trattandosi di un numero non lontano da quello registrato lo scorso anno - spiega infatti Gianni Filipponi, direttore generale dell'UNRAE, l'Associazione delle Case estere presenti in Italia - va ricordato che si tratta di volumi comunque molto bassi e per risalire a livelli inferiori alle 160.000 unità bisogna tornare indietro addirittura all'aprile di 15 anni fa. Anche per quanto riguarda gli ordini - continua Filipponi - lo scambio di dati tra ANFIA ed UNRAE indica una prima stima di 158.000 contratti, a conferma della debolezza del mercato. Il valore è - infatti - simile a quello registrato nell'aprile dello scorso anno (160.000), ma va sottolineato che - da quando esiste questa rilevazione (1998) - non si sono mai registrati per lo stesso mese livelli così bassi". Su come vada davvero però il mercato nei primi 4 mesi è difficile fare i conti. Il confronto con il 2010 è infatti falsato dal fatto che nel gennaio-marzo dello scorso anno c'erano gli incentivi. Per cui la forte differenza (negativa ovviamente con 671.788 unità rispetto alle 828.940 del gennaio-aprile 2010) del 19% conta poco. Così come lascia il tempo che trova segnalare che il Gruppo Fiat registra una quota intorno al 29% (da circa il 31,3%) e vendite in ribasso di circa il 25%. Quello che spaventa sono le prospettive, sempre più nere. I concessionari infatti sono oramai sul piede di guerra: "Il mese di aprile - spiega infatti Filippo Pavan Bernacchi, presidente di Federauto, l'associazione che raggruppa i concessionari ufficiali di tutti i marchi automobilistici - fornisce la prima vera indicazione sull'andamento del mercato del 2011. È in quest'ottica che aprile è pessimo perché, paragonato al bruttissimo aprile dello scorso anno, sostanzialmente ne conferma i numeri". Aggiunge Nuccio Longhi, presidente dei concessionari Opel: "Mi sembra che i nostri politici siano come quegli degli anni '70 che rincaravano sempre il mondo dell'auto. Un modo sicuro e semplice per raccogliere denari, senza tener conto che si distrugge una filiera fondamentale per il nostro Paese. Oggi avremmo bisogno di interventi mirati, a partire dalla semplificazione della fiscalità, con qualche misura di alleggerimento. Invece, assistiamo con stupore ad un possibile aumento della pressione fiscale: l'aumento della IPT sull'immatricolazione degli autoveicoli nuovi camuffato nel Federalismo fiscale che aveva l'obiettivo di ridistribuire le risorse, non di alzare le tasse".

Aumenta il divario tra i redditi (3 maggio 2011).
L'Italia è tra i Paesi industrializzati con la maggiore disparità dei redditi, anche per effetto dell'aumento del divario tra ricchi e poveri negli ultimi 20 anni. È quanto emerge da uno studio dell'Ocse. L'Italia figura al quinto posto tra i 17 Paesi Ocse che hanno segnato un ampliamento del gap dei redditi tra il 1985 e il 2008, dopo Messico, Stati Uniti, Israele e Regno Unito e in assoluto è al sesto posto per il divario tra i 22 Paesi considerati. Il coefficiente Gini, che misura l'ineguaglianza dei redditi (va da 0, ovvero totale uguaglianza di reddito a 1, totale disparità), per l'Italia era pari a 0,35 alla fine degli anni 2000, con un incremento del 13% rispetto allo 0,31 di metà degli anni 80. Non solo, mentre il reddito reale nell'Ocse in questo lasso di tempo è salito in media dell'1,7% l'anno, con un incremento dell'1,4% per il 10% più povero della popolazione e del 2% per il 10% al top, in Italia l'incremento medio annuo si è fermato allo 0,8% (solo la Turchia ha fatto peggio, con lo 0,5%) e mentre per il 10% della popolazione con il reddito più basso l'aumento è stato solo dello 0,2%, per la fascia dei redditi più elevati è stato dell'1,1 per cento. Il Paese con le maggiori diseguaglianze è il Messico, con un coefficiente Gini dello 0,50, davanti alla Turchia (0,42), mentre la Danimarca (0,25) ha le minori disparità. Nemmeno i Paesi nordici e la Germania, che tradizionalmente avevano una bassa disparità tra i redditi, sono stati tuttavia risparmiati dal trend di aumento del divario tra ricchi e poveri e anzi - come sottolinea l'Ocse - negli ultimi dieci anni hanno segnato il maggior incremento. In media il coefficiente Gini nell'area Ocse è salito all'incirca del 10% dallo 0,28 di metà degli anni 80 allo 0,31 della fine dello scorso decennio. Tra le cause dell'aumento, l'Ocse ricorda che le ore lavorate sono diminuite soprattutto tra gli occupati con il salario più basso, che sempre più spesso il lavoro femminile é part-time e che il peso del reddito da capitale é aumentato ma soprattutto per i redditi più elevati. Anche globalizzazione e progressi tecnologici hanno aumentato la disparità dei salari, andando a favore dei lavoratori più qualificati. Tra le annotazioni, anche il fatto che il trend verso famiglie più piccole (con un solo genitore) aumenta il divario tra i redditi. Inoltre é cresciuta la tendenza dei matrimoni tra persone con livelli di reddito simili. Oggi il 40% delle coppie in cui entrambi i partner lavorano appartengono allo stesso decile contro il 33% di 20 anni fa. Secondo l'Ocse lo strumento più diretto ed efficace per ridurre le disparità sono la riforma delle tasse e delle politiche di agevolazione per i redditi più bassi. La persistenza e l'ampiezza delle perdite di reddito nelle fasce più svantaggiate dopo la recessione - scrivono gli esperti dell'Ocse - sottolinea l'importanza di politiche di sostegno al reddito ben mirate.

Ex-Bertone: accordo (4 maggio 2011).
La maggioranza dei lavoratori dell'ex Bertone ha detto sì all'investimento Fiat: il referendum si è concluso con 886 sì, mentre i no sono sati 111, le schede nulle 10, le bianche 4. All'ex Carrozzeria Bertone, oggi Officine Automobilistiche Grugliasco, dove è in vigore la cassa integrazione dal 2005, le Rsu a maggioranza Fiom avevano dato indicazione di voto favorevole al referendum sull'accordo che sostituisce il contratto collettivo nazionale di lavoro in cambio di investimenti. «I lavoratori hanno seguito le indicazioni delle loro Rsu e hanno deciso come forma di difesa di non regalare alla Fiat alcun alibi per non riaprire questo stabilimento», afferma Federico Bellono, segretario generale della Fiom torinese. «A questo punto - aggiunge - deve essere la Fiat a confermare l'investimento prospettato». «La Fiat apprezza il grande senso di responsabilità dimostrato dai dipendenti delle Officine Automobilistiche Grugliasco (ex Bertone)». È quanto si legge in una nota ufficiale del Lingotto, a commento dell'esito del referendum. Ora l'azienda «si attende di verificare la disponibilità delle organizzazioni sindacali a formalizzare la proposta aziendale che comporta l'applicazione anche nelle Officine Automobilistiche Grugliasco, a partire dal 1 gennaio 2012, del Contratto collettivo specifico di primo livello già previsto per lo stabilimento Giambattista Vico di Pomigliano d'Arco e per quello di Mirafiori». «In presenza della firma di un accordo e della esistenza delle condizioni applicative necessarie, provvederà a dare il via libera al piano di investimenti previsto dal progetto». Il piano Fiat per l'Oag, rilevata dall'amministrazione controllata nel 2009, prevede un investimento di 550 milioni di euro per produrre, da fine 2012, un nuovo modello Maserati del segmento E, destinato ai mercati internazionali. L'obiettivo è arrivare a una produzione, a regime, fino a 50.000 vetture l'anno. Nello stabilimento, che è a pochi chilometri da Mirafiori, è previsto il reimpiego di tutti i 1.100 dipendenti, da sei anni in cassa integrazione. La proposta della Fiat, illustrata per la prima volta ai sindacati il 15 febbraio, prevede l'applicazione a Grugliasco dello stesso contratto di Pomigliano, con il massimo utilizzo degli impianti, il graduale passaggio ai 18 turni, fino a 120 ore di straordinario ulteriori rispetto a quelle del contratto, la governabilità dello stabilimento con regole per contenere l'assenteismo e per l'esigibilità degli accordi. Con il metodo Ergo Uas verranno riprogettate tutte le postazioni di lavoro della linea di montaggio. Molto sarà investito anche nella formazione del personale. «Ha vinto la responsabilità, ha perso l'estremismo della Fiom»: così il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, commenta la vittoria del sì al referendum alla ex Bertone per l'investimento della Fiat. «L'esito del voto alla ex Bertone è un segnale di svolta nella vicenda Fiat. Spero - aggiunge Bonanni - che ora il gruppo dirigente della Cgil tiri le somme e analizzi questa clamorosa sconfitta di una linea antagonista che è stata bocciata in maniera plebiscitaria dai lavoratori della ex Bertone. I lavoratori hanno dimostrato nei fatti di essere molto più responsabili del gruppo dirigente nazionale della Fiom». «Sono naturalmente contento per l'esito del referendum»: lo ha detto il Presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota. «Mi auguro adesso - ha aggiunto Cota - che tutta la concentrazione e le energie siano rivolte agli investimenti da fare e che i modelli prodotti abbiano successo». Ancora una volta la linea dell'ideologismo e dei "principi" della Fiom è stata sconfitta dal realismo degli operai e delle rappresentanze locali della Fiom stessa. Forse è venuto il momento che la sinistra si chieda perchè alle elezioni politiche del 2008 è stata completamente disintegrata.

Marcegaglia: l'opinione degli industriali (4 maggio 2011).
La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, è intervenuta oggi dalle 9 alla trasmissione di Radio 24 condotta da Oscar Giannino. Tra gli argomenti della puntata il suo progetto di "Italia che vogliamo": far ripartire la crescita, imprimere un'accelerazione alle liberalizzazioni del mercato e sostenere il merito. «Il peggio della crisi è alle spalle - dice Marcegaglia - però siamo ancora in una fase di crescita lenta e in cui il recupero dell'occupazione è basso, la produzione industriale e l'export stanno rallentando. Se questo paese continua a crescere all'1,1% noi non andiamo da nessuna parte. Siamo ancora in una fase rallentata e incerta. L'obiettivo è tornare a crescere del 2%». «Confindustria lo ha sempre detto con chiarezza: per ricominciare a crescere bisogna avere i conti pubblici in ordine - ha proseguito la presidente degli industriali - Usare il deficit per fare un po' di crescita sarebbe stata una scelta sbagliata. Abbiamo sostenuto la politica del rigore del governo, e sono convinta che se avessimo fatto manovre in deficit la nostra posizione oggi sarebbe più complicata. Non si può sforare sui conti pubblici, però che si investa su poche cose fondamentali. Chiaramente, abbiamo sempre chiesto al governo su alcuni punti fondamentali di esserci: ammortizzatori sociali, Tremonti ter, ricerca e innovazione, fondi di garanzia per aiutare le piccole imprese, restrizione del credito». «Noi abbiamo firmato tutti i contratti di settore anche con la Cgil, tranne quello del settore meccanico. C'è una spaccatura in corso, chi sta nelle aziende, anche della Fiom, comincia a capire che c'è un problema di competitività che va affrontato assieme. Credo stia succedendo una cosa molto chiara - ha aggiunto Marcegaglia - che ho visto succedere anche in altre aziende, compresa la mia. Succede che all'interno delle aziende anche i lavoratori Fiom comprendono i problemi e seguono l'azienda, dopo aver trattato e aver discusso, mentre la componente nazionale Fiom continua a dire no». Per Marcegaglia, «chi sta nelle aziende capisce che la situazione sta cambiando» mentre «c'è un pezzo di Fiom che ragiona più su principi e ideologie, senza guardare concretamente alle cose. Oggi o si fa un passo avanti tutti insieme o non ce la facciamo». La via giudiziaria alle relazioni industriali è sbagliata e nemmeno la politica deve entrarvi, ha detto Marcegaglia rispondendo alla domanda di un ascoltatore. Per quanto riguarda gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, la presidente di Confindustria ha aggiunto che «è vero che con i nuovi accordi si chiede ai lavoratori di lavorare di più, ma a fronte di paghe più alte. I salari devono indubbiamente crescere, ma a fronte di una maggiore produttività delle imprese, altrimenti non ce la facciamo». «e Assise di Confindustria (Bergamo, 7 maggio) saranno tenute a porte chiuse. Gli unici esterni che ci saranno rispetto agli iscritti di Confindustria saranno giovani che sono andati all'estero per studiare e lavorare. Non ci sarà Berlusconi, non ci saranno ministri. Non nasce nessun partito politico, ci mancherebbe altro. C'è la volontà di guardarci in faccia e dirci: intanto anche Confindustria deve cambiare. Ci sarà poi una parte che riguarda noi e le sfide vere per le imprese. C'è la volontà di dire: noi rappresentiamo una componente importante di questo paese, vogliamo dire la nostra, prendere impegni su noi stessi e chiedere impegni alla politica». «Liberalizzazioni e tlc saranno tra i temi al centro delle richieste dell'agenda di Confindustria. Perché da qui passa una vera possibilità di crescita. Noi dobbiamo soprattutto concentrarci sulle riforme fondamentali a costo zero: liberalizzazioni, tlc, servizi pubblici locali, trasporti. Su questi temi il governo ha fatto dei passi indietro. Anche in Confindustria abbiamo delle aziende che vivono di oligopoli. Noi andremo avanti.». «Una delle nostre proposte fondamentali è sul fisco. Bisogna ridurre il peso fiscale sui lavoratori e sulle imprese. Non v'è dubbio che una riforma fiscale che abbassi le tasse su lavoratori e imprese» è indispensabile per favorire la crescita».

CDM: il decreto sviluppo (5 maggio 2011).
Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al decreto Sviluppo, che contiene una serie di misure tanto da far assomigliare il decreto a una vera e propria finanziaria. A giugno poi si sta studiando la manovra di mantenimento dei conti e di rifinanziamento di alcune misure che dovrebbe pesare circa 7 miliardi in due anni. Anche se il Tesoro smentisce che ci sarà un intervento sui conti 2011. Accorpamento controlli. Il controllo amministrativo deve essere unificato, esclusi i casi straordinari di controlli per la salute, giustizia ed emergenza. Potrà essere operato al massimo con cadenza semestrale e non potrà durare più di 15 giorni. Gli atti compiuti in violazione di queste nuove misure costituiranno illecito disciplinare.
Appalti, arrivano nuove regole. Per le opere pubbliche fino a un milione di euro si può procedere all'assegnazione senza gara d'appalto. I lavori fino a un milione possono essere affidati dalle stazioni appaltanti a cura del responsabile del procedimento. L'invito è rivolto, per lavori superiori a 500mila euro, ad almeno dieci soggetti e per lavori inferiori a 500mila euro ad almeno cinque soggetti. Limiti alle opere compensative e alle riserve. Arriva anche una brusca frenata sulle varianti in corso d'opera.
Atenei, Fondo per il merito. Nascerà la fondazione per il merito che avrà il compito di governare l'omonimo fondo previsto dalla riforma degli atenei. A farne parte dall'inizio saranno i ministeri dell'Istruzione e dell'Economia.
Beni obsoleti. Sui beni obsoleti si raddoppia. È infatti previsto ilraddoppio a 10mila euro del valore dei beni di cui le imprese possono disfarsi, perché obsoleti, per cui sarà sufficiente l'atto notorio.
Bonus assunzioni al Sud. A ogni imprenditore che assume un dipendente a tepoo indeterminato al Sud spetta dal 2011 al 2013 credito d'imposta pari a 300 euro per ciascun lavoratore assunto e per ciascun mese.
Bonus banchieri. La Banca d'Italia può «fissare limiti all'importo totale nella parte variabile delle remunerazioni dei soggetti abilitati, quando sia necessario per il mantenimento di una solida base patrimoniale». Possibilità di rimuovere i manager bancari non più adeguati al loro ruolo, possibilità di tagliare i dividendi e anche, per le banche che hanno avuto aiuti pubblici, limitare la spesa per le retribuzioni in generale.
Carta d'identità elettronica. Viene soppresso il limite di età (15 anni) per ottenere la carta d'identità che ora diventa "elettronica". La nuova carta varrà 3 anni per i minori e 10 anni per i maggiorenni.
Contabilità semplificata. Estensione del regime di contabilità semplificata a 400mila euro di ricavi per le imprese di servizi e a 700mila euro di ricavi per le altre imprese.
Contratti per la ricerca. Il ministero della Pubblica istruzione, come lo Sviluppo economico, sono autorizzati a stipulare appositi contratti di programma per la ricerca con soggetti pubblici e privati.
Credito d'imposta ricerca. Previsto un credito d’imposta per la ricerca per due anni, 2011 e 2012. La misura è fissata nel 90% della spesa aggiuntiva d'investimento.
Incentivi a distretti balneari. Sgravi fiscali e notevoli semplificazioni normative per i nuovi distretti turistico-alberghieri. Il diritto di superficie per gli arenili, poi, durerà 90 anni e potrà riguardare anche aree già occupate lungo le coste da edificazioni esistenti.
Mutui a tasso variabile. Si possono rinegoziare i mutui casa fino a 150mila euro. Fino al 30 aprile 2012 il mutuatario ha diritto di chiedere la rinegoziazione a patto che abbia un reddito Isee non superiore a 30mila euro e sia in regola con i pagamenti. Con la rinegoziazione il tasso viene trasformato da variabile a fisso per la durata residua del mutuo.
Piano casa e costruzione case. Introdotto il silenzio-assenso entro un massimo di 90-100 giorni (180-200 per le città di oltre 100mila abitanti) per il rilascio del permesso di costruire. Quanto al piano casa, vengono riaperti i termini per i piani regionali incentivando la "demolizione e ricostruzione" con libertà di sagoma, viene introdotto per la prima volta anche un premio di volumetria del 10% per gli edifici non-residenziali.
Precari scuola. Per i precari della scuola la stabilizzazione dovrebbe essere spalmata su tre anni dribblando la norma europea contro gli abusi dei contratti a termine. Varrebbe 65mila assunzioni.
Riscossione, arriva una accelerazione. Accelerazione della riscossione attraverso l'accertamento esecutivo.
Scheda carburanti. Soppresso l'obbligo di compilazione per chi paga con moneta elettronica presso i distributori di carburanti.
Semplificazioni carichi di famiglia. Cade l'obbligo di comunicare al sostituto d'imposta l'aggiornamento dei carichi di famiglia per i quali si ha diritto a detrazioni se non ci sono variazioni.
Spesometro. Vengono esclusi dallo spesometro i pagamenti con carte di credito, di debito o prepagate emesse da operatori finanziari.

Chrysler: Marchionne accelera per il riassetto del debito (5 maggio 2011).
Sergio Marchionne ha deciso di stringere i tempi per le nuove emissioni obbligazionarie Chrysler destinate a rifinanziare i 7,6 miliardi di dollari del costoso indebitamento con i governi americano e canadese. Il 4 maggio 2011, durante un incontro con i banchieri a New York, convocato per lanciare l'operazione, l'amministratore delegato del gruppo automobilistico americano ha dato una timeline che prevede la chiusura della sottoscrizione già il 24 maggio, con circa un mese di anticipo rispetto alle attese degli investitori. Dalla documentazione contenuta nell'offering memorandum si stabilisce una scadenze del 18 di maggio per la chiusura delle sottoscrizioni e del 24 maggio per il closing finale e l'erogazione dei fondi. Il rifinanziamento consentirà di risparmiare 200 milioni di dollari all'anno in interessi passivi, per il 2011 si dovrà calcolare ovviamente la quota parte su base annuale con rimborso fissato a fine maggio, ci sarà dunque un guadagno aggiuntivo rispetto alle prime stime di circa 20 milioni di dollari per il 2011. Il documento stima in 11 miliardi di dollari la liquidità del gruppo al momento del closing, elimina circa 2,6 miliardi di dollari in rimborsi in conto capitale dovuti nel 2011 e rimanda al 2017 alcune scadenze significative che si sarebbero altrimenti manifestate in tempi più brevi. L'accelerazione di questa operazione consentirà di stringere i tempi anche su un'altra operazione finanziaria importante che Chrysler deve ancora portare a termine, l'erogazione di 3,5 miliardi di dollari in finanziamenti agevolati in parcheggio al dipartimento per l'Energia: «Appena ho chiuso questa operazione partirò subito con l' altra» ha detto Marchionne. Complessivamente il rifinanziamento è per 7,5 miliardi di dollari divisi in una linea di credito da 1,5 miliardi di dollari, in obbligazioni garantite, da 2,5 miliardi di dollari con scadenze a otto e a dieci anni e in titoli di credito garantiti riservati agli investitori istituzionali per 3,5 miliardi di dollari con scadenza a sei anni. La parte del leone come numero l'ha fatta Goldman Sachs con 30 banchieri, Morgan Stanley all'incontro ne ha portati 25, Citi 22 e BofA 20, i quattro sottoscrittori più presenti. Gli altri 130 erano un misto di banchieri europei (c'erano anche Banca Intesa e Unicredit) americani, fondi hedge, private equity come Blackstone o Apollo e investitori asiatici (Nomura e Sumitomo). Marchionne ha ricevuto i complimenti da diversi investitori per la rapidità con cui ha ottenuto il riassetto finanziario della Chrysler.

La classifica dei marchi (9 maggio 2011).
Nella classifica globale sul valore stimato dei marchi, spinta dall'avanzata incontrastata dell'iPad, Apple mette a segno un rialzo dell'84 per cento a 153,28 miliardi di dollari e batte tutti. "Innovando costantemente e arricchendo il suo marchio, Apple ha mantenuto la sua capacità di vendere i prodotti a un prezzo 'premium' anche in periodi di incertezza economica - ha affermato Eileen Campbell, direttore generale della Millward Brown, la società che ha stilato la ricerca - Apple è riuscita a scrivere una bella storia alla quale oggi tutti possono ispirarsi". Google aveva dominato incontrastato la classifica dei marchi più redditizi del mondo ininterrottamente negli ultimi quattro anni. Secondo Millward Brown il valore del marchio Google ha segnato una contrazione del 2 per cento, a 111,5 miliardi di dollari nonostante il lancio (e il successo) del browser Chrome e del sistema operativo Android, "che ancora però deve dare i suoi frutti", ha spiegato Campbell. "Google è ancora un avversario temibile e resta uno dei marchi più ambiti e importanti", ha detto ancora il dirigente aspettandosi una sua probabile risalita nei prissimi mesi. Tra i fattori che hanno penalizzato Google, la Millward Brown individua gli investimenti nelle piattaforme mobili e l'uscita dal mercato cinese. Terza in classifica è Ibm, con un più 17 per cento a 100,85 miliardi. A seguire il gigante dei fast food McDonald's, a 81 miliardi di dollari. Poi Microsoft (78,24 miliardi) e, al sesto posto, Coca Cola che con 73,75 miliardi surclassa Budweiser, ferma a 15,9 miliardi di dollari e Pepsi, salita dell'1% e stimata a 12,9 miliardi. Al settimo posto troviamo Atandt con 73,76miliardi, all'ottavo Malboro con 67,52 miliardi, al nono China Mobile con 57,37 miliardi, al decimo General Electric con 50,32 miliardi; giova ricordare che solo 15 anni fa GE era il primo marchio assoluto nel mondo. Unici due marchi italiani presenti nella graduatoria: Telecom Italia, al 75esimo posto (11,609 miliardi), e Tim, al 95esimo con 8,838 miliardi di dollari. Dallo studio della Millward Brown se i primi otto brand della classifica continuano a essere americani, la Cina sta avanzando veloce e ora ha 12 marchi nella top 100, un aumento notevole rispetto ai sette che aveva fino allo scorso anno. Migliorano anche il Brasile, la Russia e l'India. Tra i sorpassi più importanti, Amazon ha superato Walmart ("perché essendo stato il primo retailer online gode oggi di una credibilità e di una fiducia superiori alla media", ha detto Campbell). Cresce anche la Toyota nonostante la crisi automobilistica. L'avanzata più veloce è stata invece registrata da Facebook, salito del 246% e arrivato al 35esimo posto della classifica (19,1 miliardi di dollari). Veloce anche l'avanzata del motore di ricerca Baidu (al 29esimo posto con una stima di 22,6 miliardi). Buoni risultati anche del settore assicurativo e di quello dei fast food. Fermi in classifica invece i marchi di prodotti per la cura del corpo, dove in testa si piazzano L'Oreal e Lancome che supero Gillette, Procter and Gamble Co. e Pampers.

Grecia: Standard and Poor's boccia il debito (9 maggio 2011).
Non c'è pace per Atene. Dopo le indiscrezioni (smentite) di una prossima uscita dall'euro, la Grecia subisce il taglio di rating. Standard and Poor's ha abbassato il giudizio a lungo termine sul debito pubblico della Grecia a «B» dal precedente «BB-», aggiungendo che la valutazione che ha raggiunto ormai i livelli cosiddetti «spazzatura» potrebbe essere ulteriormente rivista al ribasso. Il taglio di SandP riflette i timori di ristrutturazione del debito stesso e potrebbe essere seguito da un'analoga decisione da parte di Moody's. Dura la prima reazione del governo greco che ha marchiato come «senza ragioni» l'ulteriore riduzione del rating operato da SandP. Il declassamento «arriva in un momento in cui non ci sono stati nuovi sviluppi negativi o decisioni» è quanto si legge in una nota diffusa dal ministero delle Finanze di Atene. Secondo il ministero le decisioni «dovrebbero essere basate su dati oggettivi, su annunci dei politici e su valutazioni realistiche delle condizioni dell'economia e non su 'rumors' di mercato e articoli di stampa». Inoltre, Atene ha deciso di affilare le armi contro il settimanale tedesco Der Spiegel, reo di aver diffuso la notizia («semplicemente falsa», per Atene) secondo cui la Grecia sarebbe pronta a uscire dall'euro per uscire dall'impasse provocata dall'ingente debito pubblico. Secondo fonti del ministero della Giustizia greco, le autorità avrebbero aperto un'inchiesta contro la testata: l'accusa è la pubblicazione di «notizie false» che potrebbero creare disordini sui mercati. Intanto, però, dalla Germania rilanciano: anche il tabloid tedesco Bild si schiera a favore dell'abbandono dell'euro da parte della Grecia con un editoriale dal titolo Bye, bye, Grecia. La Grecia, scrive in un editoriale il giornale più letto della Germania, «non riesce a rimettere in piedi la propria economia», «non ripagherà mai il suo enorme debito e questo aumenterà la pressione sui propri creditori, incluse le banche tedesche, per rinunciare a una parte dei debiti». «L'euro è indispensabile per l'Europa, ma Eurolandia non dipende dalla Grecia», commenta il giornale: «Se la Grecia non vuole più l'euro, non si dovrebbe costringerla a rimanere». Ciò nonostante, «i bilanci pubblici dei paesi avanzati devono essere progressivamente migliorati», ha ribadito una volta ancora, proprio lunedì mattina, il presidente della Bce, Jean Claude Trichet. Facendo implicitamente riferimento a paesi come Grecia, Portogallo e Spagna, Trichet ha ricordato che la crisi del debito nei paesi avanzati è il problema più grosso, mentre in quelli emergenti il rischio è il «surriscaldamento dell'economia» (con effetti indesiderati sotto il profilo dell'inflazione) legato alla crescita eccessiva. Le piazze finanziarie europee hanno vissuto una giornata difficile, con gli investitori che tengono gli occhi puntati sulla delicata situazione finanziaria della Grecia.

Microsoft compra Skype (10 maggio 2011).
Microsoft ha comprato Skype per 8,5 miliardi di dollari. Con il suo investimento il colosso di Redmond appianerà i 686 milioni di dollari di debiti del gruppo telefonico, che ha chiuso lo scorso anno fiscale con una perdita netta di 7 milioni di dollari nonostante gli 860 milioni di fatturato. Le difficoltà finanziarie avevano portato Skype, società che consente di telefonare praticamente gratis via Internet, a rinunciare alla quotazione in Borsa. La capitalizzazione della società successiva al collocamento era stata valutata intorno al miliardo di dollari, una cifra notevolmente inferiore a quella messa sul piatto dal gruppo di Bill Gates. Skype è stato creato nel 2003 da Niklas Zennstrom e Janus Friis già noti al popolo di Internet per Kazaa, uno dei primi controversi servizi di file-sharing. La sua offerta di telefonate gratuite o a prezzi bassi sfruttando la tecnologia Voip (Voice over ip, la telefonia via Internet) ha conquistato più di 800 milioni di utenti, 124 milioni connessi al mese, di cui 8.1 milioni paganti. Lo scorso 17 gennaio ha superato la soglia dei 28 milioni di persone collegate al servizio nello stesso momento. Il servizio funziona in due modalità: peer-to-peer e disconnesso. La prima permette di effettuare telefonate completamente gratuite e funziona solamente se il mittente e il destinatario sono collegati a Internet e connessi tramite il software Skype. Un funzionamento analogo a qualsiasi sistema di messaggeria istantanea. La seconda, invece, permette di effettuare telefonate ad utenze telefoniche fisse o mobili di utenti non collegati tramite computer. Con questa modalità a pagamento (nome commerciale SkypeOut), la comunicazione corre sulla Rete fino alla nazione del destinatario, dove viene instradata sulla normale rete telefonica del Paese. I costi ridotti sono dovuti al fatto che la telefonata sfrutta i normali mezzi della trasmissione telefonica solamente in prossimità della destinazione, per tratte caratterizzate dal basso costo delle telefonate locali.

FMI: lo stato dell'Italia (12 maggio 2011).
Con il deterioramento del settore bancario irlandese, "nel novembre 2010 è scoppiata una nuova ondata di turbolenze sul mercato. I rischi sovrani si sono intensificati di nuovo nei paesi periferici della zona euro, espandendosi ad altri paesi". E' quanto afferma il Fondo monetario internazionale nel Regional Economic Outlook sull'Europa, sottolineando però che il rischio di un contagio "sull'economia reale è rimasto ampiamente confinato ai paesi colpiti" dalla crisi: Irlanda, Grecia e Portogallo. "I differenziali dei titoli di Stato sono saliti a livelli significativamente elevati rispetto a quelli registrati durante le turbolenze di maggio 2010" si legge nel documento, spiegando che "questi sviluppi sollevano ulteriori preoccupazioni sulla capacità dei governi periferici di sostenere il settore bancario ancora debole, allo stesso tempo pesando sui bilanci delle banche che detengono significative quote di titoli di Stato". Per l'Fmi "questo ciclo avverso" nelle aree periferiche "ha minacciato di danneggiare in modo significativo i mercati". "Le pressioni sono diventate sempre maggiori in Irlanda ed hanno portato le autorità ad intraprendere un piano di aggiustamento sostenuto dall'Ue e dall'Fmi", si legge, ricordando che anche il Portogallo ha chiesto un piano di salvataggio internazionale. Per l'Italia le prospettive di crescita sono deboli: "Nonostante la domanda interna si sia ripresa in modo moderato, le prospettive di crescita dell'Italia restano deboli, contro lo sfondo di un trend di perdita di competitività". E' quanto afferma l'Fmi prevedendo per il 2011 una crescita del Pil italiano dell'1,1 per cento e per il 2012 dell'1,3 per cento. Complessivamente, la ripresa globale "sta guadagnando forza", rileva l'istituto, e anche in Europa "è attesa consolidarsi". Secondo l'Fmi il Pil di Eurolandia salirà dell'1,8 per cento quest'anno e del 2,1 per cento il prossimo. Nel suo Rapporto regionale dedicato al vecchio continente il Fondo stima che l'Europa nel suo complesso crescerà del 2,4 per cento quest'anno e del 2,6 per cento il prossimo. Destinate a rientrare le tensioni inflazionistiche che nell'area dell'euro si attesteranno al 2,3 per cento nel 2011 per poi scendere all'1,7 per cento nel 2012. Per questo l'organismo di Washington invita la Bce a mantenere una politica monetaria "relativamente accomodante". Intanto, la Banca centrale europea prevede: "In prospettiva è probabile che il tasso di inflazione resti nettamente al di sopra del 2 per cento nei prossimi mesi. La pressione al rialzo sull'inflazione, derivante soprattutto dalle quotazioni dell'energia e delle materie prime, è ravvisabile anche nelle fasi iniziali del processo produttivo. I rischi per le prospettive a medio termine sull'evoluzione dei prezzi restano orientati verso l'alto". "È indispensabile - sottolinea l'Eurotower nel bollettino di maggio - che l'aumento dell'inflazione armonizzata non generi effetti di secondo impatto nel processo di formazione di salari e prezzi, dando luogo a spinte inflazionistiche generalizzate. Le aspettative di inflazione - aggiunge - devono rimanere saldamente ancorate in linea con l'obiettivo del consiglio direttivo di mantenere i tassi di inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2 per cento nel medio periodo. La politica monetaria per l'area euro resta accomodante e il consiglio direttivo della Banca centrale europea continuerà a seguire con molta attenzione tutti gli sviluppi relativi ai rischi al rialzo per la stabilità dei prezzi".

Rallenta il Pil (13 maggio 2011).
Rallenta la crescita del Pil nel primo trimestre dell'anno, crescono le entrate fiscali e il debito pubblico conferma la sua discesa dal record storico di gennaio. E l'Italia, dice la Commissione Ue, «cresce meno della media dell'Euorozona». La raffica di dati che compongono almeno il quadro sullo stato di salute dell'economia nel primo scorcio del 2011 è arrivata con i bollettini diffusi, nell'ordine, da Istat, ministero dell' Economia, Banca d'Italia e infine da Bruxelles.
Secondo i dati diffusi dall'Istat, tra gennaio e marzo il Prodotto interno lordo è aumentato dell'1% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, contro una crescita dell'1,5% (calcolata su base annua) nel quarto trimestre 2010. La crescita «acquisita» per il 2011, cioè quella che si avrebbe in caso di crescita pari a zero, è dello 0,5%. Il Governo, nel Def (Documento di economia e finanza) varato di recente, aveva indicato una crescita per l'intero 2011 dell'1,1%. La crescita dello 0,1% registrata nel primo trimestre dipende da un aumento del valore aggiunto dell'agricoltura e segnala una «sostanziale stazionarietà» dell'industria e dei servizi.
Il Pil dell'Eurozona crescerà nel 2011 dell'1,6%, secondo quanto si attende la Commissione Ue che conferma le previsioni del febbraio scorso e mette in guardia da «nuovi rischi» che potrebbero minare la ripresa, come un eventuale peggioramento della situazione dei debiti sovrani in alcuni Paesi. A trainare la ripresa è sempre l'economia tedesca, che quest'anno però crescerà del 2,6% dopo il 3,6% del 2010. Resteranno in recessione, invece, Grecia (-3,5%) e Portogallo (-2,2%). A livello di Ue-27 il pil crescerà nel 2011 dell'1,8%. Mentre le previsioni di crescita per l'Italia nel 2011 e nel 2012 sono «al di sotto della media dell'eurozona» di mezzo punto.
I risultati del gettito del primo trimestre del 2011 «confermano la tendenza alla ripresa delle entrate tributarie che tornano a collocarsi a livelli di crescita prossimi a quelli registrati nel periodo 2007-2008 (+5,6%) precedente alla crisi». Nel periodo sono aumentate del 4,6% (87,4 miliardi). Il dato è rilevato nel bollettino del ministero dell'Economia che segnala anche il balzo del 30,4% degli incassi da ruoli relativi ad attività di accertamento e controllo «a conferma dell'efficacia dell'azione di contrasto all'evasione e all'elusione».
È la Banca d'Italia invece a segnalare la riduzione del debito pubblico a marzo nel suo bollettino sulla finanza pubblica: «il debito delle amministrazioni pubbliche è calato a 1.868,060 miliardi, con una flessione di 7,9 miliardi rispetto a febbraio (1.875,972 miliardi). La flessione del debito è la seconda consecutiva, dopo il livello record raggiunto a quota 1.879,955 miliardi nel mese di gennaio.

Tremonti: il vero problema è il gap tra Nord e Sud (14 maggio 2011).
Uno dei grandi problemi dell'Italia resta quello del Meridione. Lo ha ribadito il ministro dell'Economia Giulio Tremonti parlando della crisi e del problema della crescita italiana durante il convegno giovani-editori che si è concluso a Bagnaia, in provincia di Siena. «Il Nord Italia è la regione più ricca d'Europa» - ha aggiunto Tremonti, mentre il Sud «è una realtà che va indietro e non avanza. Bisogna fare di più. Il grande punto del Meridione è che deve spendere i soldi europei che ci sono». «Al Sud vengono spesi solo il 10% delle risorse provenienti da Bruxelles -ha continuato Tremonti- si vantano quando arrivano al 20%. Quei soldi non spesi vanno ad altri Paesi europei. Questa è una follia». Interpellato dai giornalisti presenti sulla concessioni governative delle spiagge ai privati il ministro è stato sintetico quanto chiaro: «Ho fatto un Decreto con misure importanti ma si parla solo di spiagge. Posso dirlo pubblicamente, delle spiagge non me ne frega nulla». Quello che è importante, ha spiegato il ministro, «sono i distretti turistici, che sono fondamentali per il paese». Poi Tremonti ha ricordato come nel recente decreto per lo sviluppo varato dal governo «i distretti industriali sono in campo», lamentando come alcuni aspetti innovativi siano stati ignorati: «voglio solo ricordare ad esempio che c'è il credito d'imposta per la ricerca e c'è credito d'imposta per chi assume nel Sud». L'Italia potrebbe recuperare il terreno perso rispetto all'economia tedesca, aveva detto in precedenza il ministro riguardo ai possibili scenari della crisi. «Per cinque anni siamo stati davanti alla Germania. Poi è avvenuto un cambiamento, la Germania ha fatto di più e diversamente, e ha avuto la fortuna terribile di incrociare la domanda cinese». Tuttavia - ha aggiunto - «non è detto che tra qualche anno ci troviamo in posizione ribaltata». Tremonti ha anche salutato ironicamente con un «welcome, Germania» il fatto che l'economia tedesca si sia ritrovato con il terzo debito pubblico mondiale durante la crisi, facendo retrocedere l'Italia alla quarta posizione. Niente domande per gli studenti alla fine dell'intervento del ministro. Una scelta - quella di risparmiare domande a Tremonti mentre la maggior parte degli altri intervenuti aveva dovuto rispondere ai tanti studenti - che un giovane di Cagliari ha contestato allo stesso ministro all'uscita dal convegno organizzato dall'osservatorio Giovani-Editori. Tremonti, però, non si è scomposto: «Vieni dentro, vieni dentro», ha detto invitando lo studente, Federico Demurtis, 20 anni, a rientrare. Il ministro si è così avviato a passo deciso verso l'interno dell'edificio fra le colline senesi ed è salito nuovamente sul palco arrivando davanti al sorpreso presidente dell'organizzazione, Andrea Ceccherini, che però ha tagliato corto dicendo che il convegno era ormai chiuso. Tremonti è nuovamente uscito mentre Ceccherini spiegava ai giornalisti che la decisione di non sottoporre a domande il ministro è stata presa «dall'organizzazione: il tempo era finito e noi dovevamo chiudere». Il presidente dell'Osservatorio ha assicurato subito dopo che non c'era «nessuna paura di problemi o domande scomode». Lo studente, comunque, non aveva seguito il ministro all'interno e poi ha spiegato ai giornalisti che la sua protesta voleva essere un modo per sottolineare «la distanza dei politici dai giovani».

Riaperte le indagini sui mutui subprime (17 maggio 2011).
Il procuratore generale di New York, Eric T. Schneiderman, ha deciso di riaprire il fascicolo subprime per far luce sul ruolo giocato dalle banche nella crisi finanziaria. Secondo quanto apprende il New York Times ha richiesto informazioni e documenti a tre delle maggiori banche di Wall Street: Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley (che al momento non hanno commentato la notizia). Schneiderman è il successore di Andrew M. Cuomo che a sua volta si era occupato del comportamento delle istituzioni finanziarie durante la crisi finanziaria. Per il nuovo procuratore è però «inaccettabile» che i regolatori abbiano firmato il patteggiamento proposto dalle grandi banche di Wall Street di non condurre indagini ulteriori. Schneiderman punta nuovamente il dito sulle operazioni impacchettamento di mutui rischiosi (concessi alle categorie subprime, ovvero meno abbienti) cartolarizzati e successivamente collocati anche ai piccoli risparmiatori, non sempre consapevoli dell'alto rischio sottostante dell'investimento. E' noto, infatti, che la macchina della cartolarizzazione avviata da Wall Street ha mascherato l'esistenza di mutui rischiosi e incoraggiato prestiti sconsiderati. La crisi, si sa, è poi scoppiata quando la Federal Reserve ha iniziato ad alzare i tassi di interesse dal 2004-2005. Di conseguenza molti possessori di mutui subprime che avevano stipulato un mutuo a tasso variabile non sono più stati in grado di rimborsare il mutuo trasformando di default in spazzatura i titoli cartolarizzati sottostanti. Questa nuova tornata di indagini, secondo quanto apprende il New York Times, potrebbe essere lunga e complessa, considerata la mole dei documenti richiesti dal procuratore alle tre big bank di Wall Street. Non si conosce se l'indagine seguirà il percorso civile o penale ma quel che pare certo è che, non a caso, attingerà dalle numerose cause giudiziarie intentate da singoli investitori quanto da cordate (attraverso class action) contro gli istituti di credito che hanno collocato titoli derivati agganciati ai mutui ad alto rischio concessi negli Stati Uniti tra il 2002 e il 2004, quando i tassi volavano basso, sotto il 2% (più alti però rispetto alla soglia attuale vicina allo 0 che rappresenta il minimo storico della politica monetaria della Federal Reserve, attuata proprio in reazione alla grande crisi finanziaria originata dai subprime). Alcune cause si sono chiuse con accordi e sanzioni per gli istituti di credito, come la maxi-multa di 550 milioni di dollari comminata dalla Sec, l'autorità che vigila sui mercati finanziari americani, a Goldman Sachs. Sanzione che, però, contemplava anche l'accordo a non proseguire più nelle indagini. Accordo che non piace al nuovo procuratore di New York. Che ha deciso di riaprire il caso.

Auto: aprile ancora in rosso (17 maggio 2011).
Ancora un mese in "rosso" per il mercato dell'auto in Europa. Ad aprile nei 27 Paesi Ue più quelli Efta le nuove immatricolazioni hanno subito una flessione del 3,8% rispetto ad aprile 2010, totalizzando 1.128.327 unità, contro 1.172.476 di un anno fa. A marzo le vendite di auto in Europa erano scese del 4,7% a 1.602.131 unità. Nei primi quattro mesi dell'anno il mercato europeo è sceso del 2,4% totalizzando 4.820.870 unità. Il mese di aprile ha segnato una contrazione dei maggiori mercati, con l'eccezione della Germania (+2,6%). In Italia la domanda é scesa del 2,2%, in Gran Bretagna del 7,4%, in Francia dell'11,1% e in Spagna del 23,3 per cento. La Germania é anche risultato il maggior mercato, seguita da Francia, Italia, Gran Bretagna e Spagna. Da gennaio ad aprile la crescita é prevalsa in due terzi del mercato, ma sono rimasti di segno negativo l'Italia (-19,0%), la Gran Bretagna (-8,5%) e la Spagna (-26,3%). Anche nei primi 4 mesi la Germania é stato il maggior mercato. Il Gruppo Fiat ha segnato in aprile una flessione del 7,8% a 82.315 unità, con una quota di mercato in calo dal 7,6% a 7,3 per cento. All'interno del gruppo, perdono quota il brand Fiat (-14,8%) e Lancia (-11,9%), mentre prosegue il buon momento di Alfa Romeo (+61,7%) con quota di mercato in crescita dallo 0,7% all'1,1 per cento. Nei primi quattro mesi dell'anno il brand Fiat cala del 23,3%, Lancia del 20,7% e Alfa Romeo sale del 52,2 per cento. Tra le altre case costruttrici si nota la crescita ulteriore, in aprile, del Gruppo Volkswagen, sempre più saldo al primo posto (+3,7% a 276.002 vetture vendute), con quota di mercato in crescita dal 22,7% dell'aprile 2010 al 24,5% attuale, mentre nei primi quattro mesi sale del 5,3% e aumenta la quota di mercato al 22,5% dal 20,9% di un anno prima. Sale, di poco anche Gm (+0,6), e continua a salire pure Bmw (+5,0% a 66.450 vetture), la cui quota di mercato aumenta dal 5,4% al 5,9 per cento. Il costruttore americano sale del 2,1% nei primi quattro mesi mentre Bmw del 10,5% da gennaio ad aprile. In declino sia come vendite sia come quota di mercato il Gruppo Psa, Renault, Ford e Daimler. Giova notare che in questi articoli prendiamo in considerazione, molto spesso, il settore dell'auto, in quanto rappresenta tuttora un ottimo indicatore sull'evoluzione dela produzione industriale e sullo stato dei consumi. Secondo il Centro Studi Promotor GL events l'attuale quadro del mercato automobilistico italiano (che si delinea mentre il mercato mondiale è in crescita e quello europeo è soltanto in modesta flessione) è coerente con i segnali che vengono dai primi dati statistici del 2011 e che sembrano indicare che la ripresa dell'economia italiana, già debole nel 2010, si sarebbe arrestata in questo inizio d'anno.

Bce: Ecofin propone Draghi (17 maggio 2011).
Mario Draghi è il «candidato unico alla presidenza della Bce». L'imprimatur del presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker parla chiaro: «Draghi è uomo che gode di una reputazione eccellente in campo europeo e internazionale. Come banchiere centrale ha dato prova di avere a cuore l'euro e l'unione monetaria. Incarna in pieno tutti gli elementi per essere il degno successore di Jean-Claude Trichet». Il governatore della Banca d'Italia e presidente del Financial stability board, forte del decisivo placet politico ottenuto da pezzi da novanta come Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, è dunque formalmente designato alla guida dell'Eurotower. Pochi minuti per sbrigare la pratica. Fino a tarda sera, dopo aver raggiunto l'accordo sul piano di aiuti per 78 miliardi al Portogallo, i ministri dell'Eurozona hanno speso gran parte della discussione sul caso della Grecia. La designazione di Draghi figurava all'ultimo punto dell'ordine del giorno. Scelta peraltro indicativa, poiché di fatto non c'è molto da discutere. Questa mattina vi sarà l'ufficializzazione in sede Ecofin. Non è ancora il passaggio conclusivo, perché formalmente la decisione spetta ai capi di Stato e di Governo che si riuniranno a Bruxelles il 24 giugno. Decisione scontata, anche se il caso che ha travolto il direttore dell'Fmi, Dominique Strauss-Kahn, è sembrato a un certo punto frapporsi sul cammino di Draghi. L'incarico, una volta ultimate le varie procedure, scatterà a partire dal prossimo 1° novembre. Si è preso atto che, nei fatti, quella di Draghi era non solo la candidatura più autorevole sul tappeto ma l'unica sulla quale fosse già stato raggiunto il consenso dei Paesi che contano in Europa. Nel mese che intercorre dal placet definitivo da parte dei capi di Stato e di Governo, Draghi, terzo presidente della Bce dopo Wim Duisemberg e Jean-Claude Trichet, sarà ascoltato dalla commissione affari economici e monetari del Parlamento europeo che dovrà esprimere il suo parere, peraltro non vincolante come quello che verrà reso noto dal Consiglio direttivo della Bce. Poi la questione si potrà considerare chiusa. Si apre ora un'altra partita, tutta interna ma non meno impegnativa, sul ruolo da assegnare a Lorenzo Bini Smaghi, membro del board della Bce e dunque teoricamente prossimo alle dimissioni per rispettare la prassi condivisa da tutti i Paesi europei, in base alla quale non si possono avere due uomini dello stesso Paese ai vertici dell'Eurotower. Per ora tuttavia Bini Smaghi fa sapere che non lascerà la Bce: «Il mio mandato scade nel 2013, ho in programma di continuare», ha detto in una intervista alla Dow Jones. I giochi sono tutti aperti e riguardano evidentemente la successione a Draghi, che tra gli altri vede in corsa lo stesso Bini Smaghi. La lunga corsa di Draghi sta dunque per volgere al termine. Del resto, dopo il via libera da parte di Sarkozy, reso esplicito nel corso dell'ultimo incontro bilaterale a Roma con il premier Silvio Berlusconi, e dopo il placet di Angela Merkel della scorsa settimana, non sembravano proprio sussistere ostacoli di sorta sulla strada di Mario Draghi all'Eurotower («È una persona molto interessante e di grande esperienza, ed è molto vicino alle nostre idee per quel che riguarda la cultura della stabilità e solidità nella politica economica»). È stato il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, secondo quanto lui stesso ha reso noto mercoledì scorso nel corso della conferenza stampa congiunta con gli esperti dell'Fmi, a ufficializzare con una lettera la candidatura. Un atto formale, nulla di più, ma necessario per porre ufficialmente il "timbro" del Governo sulla designazione. Lo stesso Berlusconi si è detto peraltro assolutamente convinto che il 24 giugno non sorgeranno ostacoli di sorta nel vertice dei capi di Stato e di Governo. «Di Draghi ci possiamo fidare», avrebbe confessato la Merkel.

Tremonti sul fisco (20 maggio 2011).
Dopo il richiamo sulla vessazione delle imprese con la moltiplicazione dei controlli fiscali, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti afferma che bisogna porre «un limite» all'applicazione delle ganasce fiscali perché «c'è un eccesso». Intervenendo al convegno per il decennale delle agenzie fiscali Tremonti ha affermato che «serve un sistema fiscale più vicino alla condizione reale di tanti cittadini». «La struttura amministrativa è pronta, ora va fatta la riforma della struttura sostanziale del sistema fiscale, perchè il sistema economico è radicalmente cambiato», ha sostenuto il ministro, notando che «il sistema fiscale si è terribilmente complicato, ha mezzo secolo, un mezzo secolo che non è stato banale: tutto è stato accelerato, è cambiata la struttura globale e il sistema industriale, il sistema fiscale è stato pensato prima della diffusione sul territorio delle partite Iva; è cambiata la struttura sociale del Paese, e sull'intersezione tra fiscale e assistenziale occorre la massima riflessione; l'ambiente prima si poteva consumare ora si deve conservare. Anche la struttura politica è cambiata da centrale a federale e il potere fiscale non è più concentrato», ha concluso. Tremonti ha lodato poi la riforma delle Agenzie fiscali, pur avendo votato contro di essa a suo tempo: «Do atto e verifico che è stata una buona riforma, ragione per cui è in arrivo la quinta Agenzia», ha detto riferendosi alla trasformazione imminente dei Monopoli di Stato. «Ci sono delle forme di calcolo degli interessi» sulle sanzioni fiscali che «ricordano da vicino l'anatocismo (interessi calcolati sugli interessi). L'avvicinamento dei tassi di interesse utilizzati in passato dagli istituti di credito, da parte del fisco, «non ha portato rigore fiscale ma discredito», secondo Tremonti. Questo perchè nel calcolo si arriva a non comprendere più la distinzione tra sanzioni e interessi. E quindi, ribadisce il ministro, «è necessario l'avvio di un processo di riforma sostanziale del sistema fiscale». Per Tremonti, è possibile procedere «tutti insieme. Abbiamo un'idea di alcune correzioni che dipende dal legislatore» che potrà concretizzarle.

Declassate le emissioni greche (20 maggio 2011).
L'agenzia di rating Fitch ha declassato il giudizio sulle emissioni a lungo termine del debito della Grecia, che passano da BB+ a B+. Resta la B per quelle a breve. L'agenzia ha disposto anche un rating watch con implicazioni negative. Già una decina di giorni fa erano circolate voci sul nuovo declassamento del rating della Grecia da parte dell'agenzia. Fitch ha spiegato la decisione affermando che «il calo riflette le sfide di fronte alla Grecia nell'attuazione di un programma di riforme radicale a livello fiscale e strutturale necessario per garantire la solvibilità dello Stato e le basi di una ripresa sostenuta». Il ministro delle Finanze francese, Christine Lagarde in una intervista al quotidiano austriaco Der Standard citata dall'agenzia Bloomberg ha lanciato l'allarme: «La Grecia è a rischio default».

Standard and Poor's: negativo sull'Italia (22 maggio 2011).
Previsione fosche sullo stato di salute dell'economia italiana. L'agenzia Standard and Poor's ha tagliato l'outlook dell'Italia da stabile a negativo, confermando il rating A+ al debito a lungo termine. È quanto si legge in una nota, in cui si sottolinea che «le attuali prospettive di crescita sono deboli e l'impegno politico per riforme che aumentino la produttività sembra incerto». Una nota che però non trova d'accordo il ministero dell'Economia, che in un comunicato ufficiale replica: «L'Italia rispetterà gli impegni presi e non c'è nessun rischio di paralisi politica». Secondo SandP's invece, «il potenziale ingorgo politico potrebbe contribuire a un rilassamento nella gestione del debito pubblico. Come risultato, crediamo che le prospettive dell'Italia per ridurre il debito pubblico siano diminuite». L'outlook negativo sull'Italia riflette «la previsione di SandP's dei rischi collegati al piano di riduzione del debito nel periodo 2011-2014 e implica una possibilità su tre che i rating possano essere ridotti nei prossimi 24 mesi». Secondo l'agenzia, «i rischi sono connessi alla crescita dell'economia più debole delle nostre attuali stime, che prevedono un +1,3% nel periodo 2011-2014». Per questo motivo, «il debito dell'Italia potrebbe ristagnare agli attuali alti livelli». D'altro canto, avverte comunque l'agenzia, «se il governo riesce ad ottenere sostegno politico per l'attuazione di riforme strutturali a favore della competitività, ponendo le basi per una crescita economia più elevata ed una più veloce riduzione del debito, i rating potrebbero rimanere al livello attuale». Secondo SandP'S inoltre «la limitata capacità dell'economia italiana di beneficiare del rafforzamento della domanda esterna riflette la bassa crescita della produttività, la limitata mobilità nel mercato del lavoro, e una costante erosione di competitività internazionale negli ultimi dieci anni». «Anche se questi fattori influenzano l'economia italiana da oltre un decennio - sottolinea l'agenzia - il loro impatto sulla crescita e, di conseguenza, la dinamica del debito, è maggiore ora a causa dell'intensificarsi della concorrenza nei settori chiave per l'esportazione, dell'ulteriore apprezzamento del tasso di cambio reale deflazionato dalle dinamiche salariali e del rischio di un aumento dei costi della raccolta nei settori pubblico e privato». Standard and Poor's ritiene che «le misure strutturali attuate nel 2010 e quelle contenute nel Piano Nazionale di Riforma recentemente aggiornato non siano sufficienti a stimolare la crescita economica nel medio termine». Inoltre, SandP's ritiene che «la crescente fragilità dell'attuale coalizione di governo renda più impegnativa la tempestiva attuazione delle riforme strutturali più significative che favoriscono la crescita». «Se la debole crescita economica dovesse persistere - secondo SandP's - il risultato di bilancio probabilmente non raggiungerà in modo significativo gli obiettivi del governo e quindi farà deragliare il piano di riduzione del debito contenuto nel Programma di Crescita e Stabilità». «Nel lungo termine, SandP's ritiene poi che «le prospettive di crescita potrebbero ulteriormente diminuire a causa dello sfavorevole profilo demografico in Italia. Il costo legato agli interessi sul debito pubblico italiano è pari a oltre il 10% delle entrate pubbliche nel 2011, superiore del 7,5%, al livello mediano della categoria di rating A e previsto in ulteriore aumento. Gli interessi passivi - prosegue la nota - riflettono l'impatto dell'elevato indebitamento pubblico sulle finanze italiane. Dall'altro lato, i solidi bilanci delle famiglie e delle aziende hanno consentito al governo di finanziarsi a tassi storicamente bassi e SandP's si attende che questi tassi bassi potrebbe facilitare un consolidamento fiscale più graduale rispetto ad altri paesi dell'Europa meridionale. La posizione netta sull'estero delle aziende italiane (compresi gli investimenti diretti esteri e il patrimonio netto) è pari al 42% del Pil, equivalente al doppio della posizione debitoria netta sull'estero del settore finanziario - afferma ancora l'agenzia - Tuttavia, la posizione debitoria netta sull'estero del settore pubblico è pari a 782 miliardi di euro (50% del Pil)». All'agenzia di rating replica direttamente il ministero dell'Economia che, come detto, in una nota spiega che «L'Italia rispetterà gli impegni presi e non c'è nessun rischio di paralisi politica». «L'Italia - si legge nella nota - è stata, è, e sarà un Paese con risorse economiche e politiche tali da fargli sempre rispettare gli impegni presi». Quanto all'analisi dell'agenzia di rating, si sottolinea che «l'unico elemento nuovo, pare costituito dal rischio di una possibile paralisi politica. Questa - si precisa - è da escludere in assoluto». «Il Governo ha avviato ed intensificherà il ciclo di interventi riformatori; per quanto riguarda il bilancio pubblico, sono in avanzata fase di preparazione i provvedimenti mirati al rispetto dell'obiettivo di pareggio di bilancio per il 2014. Questi avranno entro luglio l'approvazione da parte del Parlamento. «I dati macroeconomici sulla base dei quali l'agenzia SandP's ha confermato il proprio giudizio lo scorso dicembre, non solo non hanno subito variazioni sfavorevoli nel corso del primo trimestre 2011, ma in alcuni casi sono risultati migliori»».
Revisione del 26 maggio 2011. La polemica scaturita dalla decisione di Standard and Poor’s di rivedere da stabile a negativo l’outlook sul rating assegnato al debito dell’Italia si è rivelata una tempesta in un bicchier d’acqua. Moody’s e Fitch hanno infatti confermato sia il giudizio sia le prospettive sul nostro Paese. Non solo. Per il commissario europeo agli affari economici e monetari, Olli Rehn, «la crescita economica italiana è relativamente solida e il Paese è sul sentiero prestabilito per rispettare gli obiettivi di deficit», che è calato al 4,6% nel 2010 dal 5,4% del 2009. Insomma, non dobbiamo preoccuparci più di tanto. Lo ha ricordato anche il ministro Tremonti: «Abbiamo tenuto e ci sono tutte le basi per continuare a tenere». Tuttavia, la guardia deve rimanere alta. Ma non certo per colpa del giudizio negativo di Standard and Poor’s, che aveva puntato il dito contro le prospettive di bassa crescita per il nostro Paese, ritenendo comunque improbabile il bisogno di aiuti internazionali in futuro per l’Italia (nessun allarme Grecia, insomma). Perché se non si metterà mano alla spesa pubblica una volta per tutte, sarà difficile ridurre il debito pubblico in modo significativo, senza ricorrere a misure straordinarie (tipo patrimoniale). E qualora l’Italia premesse il piede sull’acceleratore, non potrebbe permettersi di bruciare soldi per mantenere una macchina amministrativa dispendiosa: lo scorso anno lo Stato ci è costato 67,5 miliardi di euro, una cifra inferiore rispetto al 2009 (86,8 miliardi di euro) anche perché sono state fatte slittare le quote di prestito per la Grecia. Che hanno inciso, infatti, sul fabbisogno del primo trimestre 2011, a quota 31,6 miliardi, 3,8 miliardi in più rispetto allo stesso periodo del 2010.

Scompare il marchio Ariston (22 maggio 2011).
Investimenti per l'innovazione e la comunicazione, una nuova gamma di prodotti e una convention, a Roma, con oltre mille clienti da tutto il mondo. Indesit Company cambia passo e archivia, dopo 53 anni di gloriosa carriera, il marchio Ariston. Gli elettrodomestici del gruppo di Fabriano si chiameranno d'ora in poi HotPoint, acquisito nel 2002 nel Regno Unito e che già da quattro anni affiancava la «vecchia» denominazione. Con la pensione, Ariston si porta via anche una fetta di costume nazionale e di storia industriale: gli elettrodomestici - l'industria del «bianco»: lavatrici, frigoriferi, lavastoviglie - hanno rappresentato a lungo un'eccellenza del Paese, dal boom economico fino ai giorni nostri. E Ariston è stata per mezzo secolo un nome «di casa» nella vita di tante famiglie italiane. Un abbinamento con la società italiana suggellato, tra l'altro, anche dal lungo rapporto di sponsorizzazione tra il marchio marchigiano e la Juventus degli anni '80, quella di Trapattoni e Platini. Ricordando prodotti come la storica «Margherita» Ariston, il gruppo di Fabriano ha voltato pagina, presentando la nuova linea Hotpoint, come la nuova lavabiancheria «per la cui realizzazione industriale sono stati investiti oltre 25 milioni di euro», per l'ad Marco Milani «la migliore che abbiamo mai fatto». Il lancio di nuovi prodotti con tecnologie altamente innovative verrà supportato «da investimenti in comunicazione che raggiungeranno la cifra record di 100 milioni di euro». E «nel 2011 l'azienda investirà 90 milioni di euro in ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, livello mai raggiunto in passato». «Per noi il futuro inizia da domani mattina - dice il presidente di Indesit Company, Andrea Merloni - con tutti i nuovi prodotti presentati oggi di cui siamo molto orgogliosi». «La competività di una azienda dipende dalla capacità di innovare e proporre sempre nuove soluzioni, ne abbiamo dato una forte dimostrazione», ha commentato l'amministratore delegato Marco Milani.

Italia: crisi del lavoro (23 maggio 2011).
In Italia "la crisi ha portato indietro le lancette della crescita di quasi dieci anni" e l'attuale "moderata ripresa" ne ha fatti recuperare 13. E' quanto si legge nel Rapporto annuale dell'Istat, in cui si sottolinea anche che nel decennio 2001-2010 l'Italia "ha realizzato la performance di crescita peggiore tra tutti i Paesi dell'Unione europea, con un tasso medio annuo di appena lo 0,2% contro l'1,3% registrato dall'Ue e l'1,1% dell'Uem". "In Italia l'impatto della crisi sull'occupazione è stato pesante. Nel biennio 2009-2010 il numero di occupati è diminuito di 532 mila unità". I più colpiti sono stati i giovani tra i 15 e i 29 anni, fascia d'età in cui si registrano 501 mila occupati in meno. Nel biennio di crisi economica 2009-2010 "più della metà delle persone che hanno perso il lavoro erano residenti nel Mezzogiorno", dove l'occupazione si é ridotta di 280 unità. E' quanto emerge dal rapporto Istat 2010, in cui si evidenzia però come la recessione abbia colpito fortemente anche le Regioni del Nord, dove si contano 228 mila occupati in meno. "Le Regioni centrali - si legge nel rapporto - sono rimaste invece sostanzialmente indenni dalle ricadute della crisi". Le famiglie italiane, per salvaguardare il livello dei consumi, hanno progressivamente eroso il loro tasso di risparmio, "sceso per la prima volta al di sotto di quello delle altre grandi economie dell'Uem", ovvero dell'eurozona. E' quanto emerge sempre dal rapporto annuale 2010 dell'Istat, dove, inoltre, si sottolinea che lo scorso anno la propensione al risparmio delle famiglie si è attestata al 9,1%, "il valore più basso dal 1990". Circa un quarto degli italiani (il 24,7% della popolazione, più o meno 15 milioni) "sperimenta il rischio di povertà o di esclusione sociale". Si tratta di un valore - rileva l'Istat - superiore alla media Ue che è del 23,1%. Il rischio povertà riguarda circa 7,5 milioni di individui (12,5% della popolazione). Mentre 1,7 milione di persone (2,9%) si trova in condizione di grave deprivazione e 1,8 milione (3%) in un'intensità lavorativa molto bassa. Si trovano in quest'ultima condizione l'8,8% delle persone con meno di 60 anni (6,6% contro il valore medio del 9%). Solo l'1% della popolazione (circa 611 mila individui) vive in una famiglia contemporaneamente a rischio di povertà, deprivata e a intensità di lavoro molto bassa. Nelle regioni meridionali, dove risiede circa un terzo degli italiani, vive il 57% delle persone a rischio povertà (8,5 milioni) e il 77% di quelle che convivono sia col rischio, sia con la deprivazione sia con intensità di lavoro molto bassa (469 mila). Nel 2010 sono poco oltre 2,1 milioni, 134 mila in più rispetto a un anno prima (+6,8%), i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione. Si tratta del 22,1% degli under 30, percentuale in aumento rispetto al 20,5% del 2009. Lo sottolinea l'Istat, in cui esamina il fenomeno dei cosiddetti Neet (Not in education, employment or training). L'incremento riguarda soprattutto i giovani del Nord Est, gli uomini e i diplomati, ma anche gli stranieri. Infatti, nel 2010, sono 310 mila gli stranieri Neet. Sono circa 800 mila le donne licenziate o messe in condizione di doversi dimettere a causa di una gravidanza, in base ad un'indagine condotta tra il 2008 e il 2009 sulla vita lavorativa delle madri. Si tratta dell'8,7% delle madri che lavorano o che hanno lavorato in passato e la percentuale sale al 13,1% per le donne giovani nate dopo il 1973. In generale, sottolinea l'Istat, il 15% delle donne smette di lavorare per la nascita di un figlio.
Commento de La Stampa Che le famiglie stiano erodendo i propri risparmi per salvaguadare il livello dei consumi «non è una novità», osserva Marco Revelli. È vero, il tasso di risparmio degli italiani è sceso a livelli record, per la prima volta al di sotto della media dei Paesi dell’euro, al 9,1 per cento. Per il politologo che ha guidato in passato la Commissione d’indagine per l’esclusione sociale (Cies) è importante tuttavia guardare molto da vicino i dati sui consumi perché mettono invece in evidenza un dato inoppugnabile e per certi versi inquietante. «Se è vero che stiamo consumando i cuscinetti accumulati negli anni buoni, è vero anche che si registra ormai un livello dei consumi voluttuari che sembra diventato indispensabile». Per il politologo dell’Università del Piemonte orientale, la spesa rimane alta perché «c’è il bisogno di confermare l’autostima e il sistema di relazioni e l’appartenenza di status». E l’impossibilità di rinunciare a questi beni non indispensabili, aggiunge, «comporta d’un lato la necessità di intaccare le riserve». Ma c’è di più: «gli italiani stanno rinunciando spesso ai consumi essenziali, al cibo, all’istruzione, magari a qualche rata di affitto, piuttosto che perdere lo status e rinunciare, magari, a comprarsi l’ennesimo cellulare». In Poveri, noi (Einaudi) uscito qualche mese fa Revelli mette in relazione l’impoverimento del Paese cui si è assistito in questi ultimi anni e che anche l’istituto di statistica ha fotografato, con un crescente rancore sociale che si sta esprimendo in una sempre più diffusa «guerra orizzontale», di poveri contro i poveri. «L’impoverimento crea rancore - sottolinea il politologo - e intolleranza, Quindi si moltiplicano gli espisodi di persone, quartieri interi, che si ribellano contro la scolarizzazione dei rom o contro l’arrivo di migranti. È un fenomeno terribile perché è il fondo della scala sociale che si contende le scarse ricchezze che ha». Sarebbe ora, conclude, «di rimettere in cima all’agenda politica il tema della redistribuzione della ricchezza, uscito da anni anche da quella del centro sinistra». Sulle donne, per una volta, vale la pena partire dalla cultura e non dai numeri. «L’Istat ci ha segnalato di nuovo che c’è una forte asimmetria negli incarichi di cura e di tempo dedicato alla famiglia». E siccome se c’è da lavare un piatto, stendere un panno, portare il bambino a scuola o accudire l’anziana madre la scelta ricade quasi sempre sulle donne, Alessandra Casarico fa notare che «esiste ormai un circolo vizioso che ha ripercussioni pesanti anche sul lavoro». L’economista della Bocconi che si occupa spesso in tandem con la collega Paola Profeta del tema delle diseguaglianze di genere - l’ultima fatica a quattro mani si intitola Donne in attesa (Egea/Bocconi) - sintetizza la questione così: «siccome tutti sanno che l’impegno in famiglia delle donne è molto più alto, i datori di lavoro e le imprese si aspettano che siano meno disposte a lavorare e affidano loro incarichi meno qualificati e meno retribuiti. E questo ha poi la conseguenza che le cure in famiglia vengano affidate a loro, perché guadagnano meno, eccetera». I numeri sono chiari: le donne italiane lavorano in casa 80 minuti in più degli uomini: «in Spagna sono 50 e nei paesi nordici come la Norvegia sono zero», ricorda Casarico. Che ci tiene anche a sfatare un luogo comune: «non è affatto vero che le donne che lavorano dedicano meno tempo ai bambini; è spesso vero il contrario» e sarebbe bene scacciare dalla testa di molte persone anche questo pregiudizio. Che le donne lavoratrici sarebbero madri peggiori: i numeri «smentiscono chiaramente questa tesi». E a proposito di numeri, l’economista della Bocconi sottolinea come la crisi abbia interrotto un trend virtuoso. Da un decennio il tasso di occupazione femminile «stava crescendo. Ora quel trend si è interrotto». Non solo: come sottolinea l’Istat «è anche aumentata la presenza di donne nei contratti a tempo e nel part time involontario». Infine, il 40% delle laureate fa un lavoro che non è all’altezza delle sue qualifiche. «Un dato preoccupante», conclude Casarico. Due milioni di giovani che sono inchiodati a casa dei genitori senza fare nulla, i cosiddetti “Neet” (not in employment, educational or in training), «sono ovviamente un dramma», come il fatto «che la crisi abbia mandato a casa soprattutto loro», mezzo milione di under 30 nell’ultimo biennio. Ma Francesco Daveri ricorda che nel passato decennio, mentre l’Italia cresceva a ritmi da prefisso telefonico, c’è stato invece, fino alla crisi, un aumento dell’occupazione giovanile, dovuta ovviamente alla flessibilizzazione del mercato del lavoro. C’è stato «uno scambio - spiega l’economista dell’Università di Parma - e grazie alla possibilità di mantere i redditi bassi, le imprese hanno creato più posti di lavoro». In altre parole, se è vero che la politica è stata «troppo spesso distratta» rispetto alle esigenze di questa trasformazione profonda - «ad esempio mancando di approvare una seria riforma degli ammortizzatori sociali» - per il futuro prossimo Daveri intraevede un nuovo dramma: «potremmo assistere a una nuova emergenza, quella di un forte aumento di disoccupazione tra gli over 50». La crisi sta mettendo in evidenza un difetto ormai strutturale del nostro sistema, osserva l’economista de Lavoce.info. Il fatto, cioè, «che ci sono due mercati del lavoro, uno tutelato e uno, rappresentato soprattutto dai giovani, flessibile». Se la ripresa dovesse confermarsi troppo lenta, ragiona Daveri, è prevedibile «che molte aziende sposteranno la produzione all’estero, che delocalizzeranno». In questo caso perderebbero il lavoro anche i contratti a tempo indeterminato, anche moltissimi lavoratori con più di quaranta o cinquant’anni. «E un conto è che sia un giovane a perdere il lavoro, che ha la possibilità o la spinta, se necessario, ad andare anche in Cina a cercarsi un lavoro». Un conto invece, è se si perde il lavoro a 45 anni, con una famiglia a carico e una rigidità maggiore, nelle scelte. «Io temo moltissimo che se non ci sarà un’accelerazione nella ripresa, questo sarà il prossimo dramma che affronteremo».
Commento di Repubblica C'è insoddisfazione in Italia. Un'insoddisfazione sorda ma non più muta. Trapela da mille segnali, piccoli e grandi. Le proteste sociali che si susseguono, da mesi. In modo ostinato e insistente. Nelle piazze, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. L'abbiamo riconosciuta, da ultimo, nel voto amministrativo. Che ha rivelato cambiamenti profondi. E inattesi. Dietro a tanta insoddisfazione si colgono tanti motivi, di natura diversa. Uno, però, risulta evidente. L'ascensore sociale è in discesa, da troppo tempo. I dati dell'Osservatorio di Demos-Coop, al proposito, sono espliciti. Anzitutto, la classe sociale (percepita dagli italiani). Per la prima volta, da quando conduciamo i sondaggi dell'Osservatorio, la piramide si rovescia completamente. Senza "mediazioni". Infatti, le persone che si collocano nella "classe operaia" oppure fra i "ceti popolari" superano, per estensione, quelle che si sentono "ceto medio". Dalla cetomedizzazione degli anni Ottanta - un neologismo ostico ma suggestivo, coniato da Giuseppe De Rita - si sta scivolando verso una sorta di "operaizzazione". Singolare destino, visto che da tempo si predica l'estinzione della classe operaia. Tuttavia, l'indicazione del sondaggio è esplicita. Il 48% del campione nazionale dice di sentirsi "classe operaia" (39%) oppure "popolare" (9%). Il 43%: "ceto medio". Il 6%, infine, si definisce "borghesia" o "classe dirigente". È l'unico settore sociale stabile. (Le classi privilegiate, d'altronde, sentono la crisi meno delle altre. Anche se la temono.) Invece, il peso del "ceto medio" è sceso di 5 punti negli ultimi tre anni e di 10 negli ultimi cinque. Simmetricamente, l'ampiezza di coloro che si sentono "classe operaia" oppure "popolare" è cresciuta di 3 punti negli ultimi tre anni e di 9 negli ultimi 5. Prima causa: lo slittamento dei lavoratori autonomi (artigiani e commercianti). Metà di essi oggi si posiziona nei ceti popolari. Lo stesso avviene per circa un terzo di impiegati e tecnici. Peraltro, l'insoddisfazione verso l'economia e il mercato del lavoro, secondo il sondaggio Demos-Coop, non è mai stato tanto elevata. Verso l'economia: nel 2004 coinvolgeva il 59% della popolazione, oggi il 71%. Verso il lavoro: nel 2004 era espressa dal 60% della popolazione, oggi inquieta il 75%. La delusione sociale: investe tutti. La novità assoluta è che il senso di declino sociale non riguarda i "soliti noti". Operai, pensionati e disoccupati, su tutti. Ma risucchia altri gruppi, che si è soliti collocare (e fino a qualche anno fa si collocavano) più in alto. Nei ceti medi. Perfino nelle classi dirigenti. Una quota ampia di lavoratori autonomi (20%) ma soprattutto di liberi professionisti (44%) oggi definisce la propria condizione di lavoro "precaria". D'altra parte, basta considerare il lavoro realmente svolto nell'ultimo anno dagli intervistati. Una componente ampia di essi (il 17% sul totale) dichiara di aver lavorato in modo temporaneo, per una parte più o meno ampia dell'anno. Si tratta dei giovani, soprattutto. E degli studenti (28%). Una generazione precaria, si è detto. È, effettivamente, così. Una generazione senza futuro. Il 63% del campione ritiene, infatti, che i giovani avranno un futuro peggiore di quello dei genitori. E il 56% ritiene che i giovani, per avere speranza di carriera, se ne debbano andare via. All'estero. Ne sono convinti, per primi, gli interessati: il 76% di coloro che hanno meno di 25 anni. Tuttavia, la precarietà è un sentimento diffuso. Che attraversa tutti i settori sociali. L'insoddisfazione verso la situazione economica e del mercato del lavoro, infatti, oltre che fra i disoccupati, raggiunge il massimo livello tra i liberi professionisti e i lavoratori autonomi. Ed è alta anche fra i tecnici e gli impiegati. Dal punto di vista della classe sociale: inquieta soprattutto coloro che si sentono "borghesia" oppure "classe dirigente". Non è poi così sorprendente. Il fatto è che non ci sono abituati. Per cui temono di perdere i privilegi di cui dispongono. Si spiega così la perdita di appeal del "lavoro in proprio". Ma anche la parallela ripresa dell'attrazione esercitata dal lavoro pubblico (soprattutto nel Mezzogiorno).

Corte dei Conti: come uscire dalla crisi (24 maggio 2011).
Perdite per 160 miliardi di euro. Tanto ci sarà costata al 2013 la Grande Recessione secondo la Corte dei Conti che nel Rapporto 2011 per il Coordinamento della finanza pubblica indica «una perdita permanente di Prodotto, calcolata a fine 2010 in 140 miliardi e prevista crescere a 160 miliardi nel 2013». L'Italia, dicono i giudici, potrebbe aver bisogno di un forte aggiustamento dei conti, una maxi manovra da 46 miliardi di euro. Per rispettare i vincoli europei l'Italia dovrebbe varare una manovra di correzione dei conti pubblici paragonabile a quella da 46 miliardi di euro realizzata nel 1992, ha detto Luigi Mazzillo, presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei conti, introducendo nella sala Zuccari del Senato il Rapporto 2011. Il ministero dell'Economia ha delineato nel Documento di economia e finanza (Def) il percorso di risanamento per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2014. Alle manovre già varate nel 2008 e nel 2010, il Def aggiunge una nuova correzione da 2,3 punti di Pil tra 2013 e 2014. Secondo Bankitalia il programma del Def è in linea con il nuovo criterio europeo del debito. Il magistrato ha aggiunto che «le simulazioni presentate nel Rapporto segnalano come, con l'ipotizzata continuazione di tassi di crescita molto modesti, il rispetto dei nuovi vincoli europei richieda un aggiustamento di dimensioni paragonabili a quello realizzato nella prima parte degli anni novanta, per l'ingresso nella moneta unica». Secondo Mazzillo « ... a differenza di allora però, gli elevati valori di saldo primario andrebbero conservati nel lungo periodo, rendendo permanente l'aggiustamento sui livelli della spesa, oltre che impraticabile qualsiasi riduzione della pressione fiscale, con la conseguente obbligata rinuncia ad esercitare per questa via un'azione di stimolo sull'economia». La Corte dei conti valuta dunque che per l'Italia la correzione del debito in base ai nuovi vincoli europei sarà pari «a circa 46 miliardi» all'anno come la manovra da 93.000 miliardi di vecchie lire varata nel 1992 da Giuliano Amato per arginare il deficit pubblico. «La fine della recessione economica non comporta il ritorno a una gestione ordinaria del bilancio pubblico, richiedendosi piuttosto sforzi anche maggiori di quelli finora accettati». «Tanto più - spiega la Corte dei Conti - che va tenuto conto delle implicazioni dell'inasprimento dei vincoli europei e in particolare della nuova regola, assistita da apposita sanzione di tipo praticamente automatico, secondo la quale i paesi che registrano un rapporto tra debito pubblico e prodotto superiore al 60% dovranno ridurre lo scarto fra il dato effettivo e questo valore-soglia di un ventesimo all'anno (del 3% all'anno, pari oggi a circa 46 miliardi nel caso dell'Italia)». Per rispettare i vincoli Ue l'Italia dovrà seguire un «percorso impervio» che rende «impraticabile qualsiasi riduzione della pressione fiscale», sostiene la Corte che comunque sottolinea «l'esigenza di accelerare e completare il percorso di ricognizione, riflessione e proposta di recente avviato dal governo in vista di una riforma complessiva del sistema impositivo che tenga conto anche dei condizionamenti così come delle opportunità legati all'attuazione del federalismo fiscale. È in tale quadro - si legge - che si potranno concretamente verificare anche gli spazi di manovra per un incisivo processo di ridimensionamento di esenzioni e agevolazioni, finalizzato all'ampliamento delle basi imponibili». L'Italia è ai primi posti in Europa per l'evasione fiscale, ricorda poi la magistratura contabile. «Per quanto riguarda le dimension le stime richiamate convergono tutte nell'indicare come il fenomeno evasivo raggiunga in Italia un livello di punta nel panorama europeo, con l'eccezione della Grecia e della Spagna». «Va segnalato che gli indicatori utilizzati evidenziano un aumento di compliance a partire dal quarto trimestre del 2009, dopo un riacutizzarsi del fenomeno evasivo negli anni della crisi». Non si fa attendere la replica del ministro dell'Economia Giulio Tremonti agli appunti dei giudici contabili. «Primum vivere deinde crescere» chiosa in latino Tremonti. Forse la crescita non è sufficiente, - sottolinea il responsabile del Tesoro - ma senza la tenuta di bilancio non ci sarebbe stata neanche questa insufficiente crescita». Il ministro spiega però che ora è il momento delle riforme per il quale tuttavia non esiste «una formula istantanea e salvifica». Alla base dell'azione di governo c'è piuttosto la formula ereditata da Cavour che è quella di «camminare sulla via del progresso con energica moderazione evitando gli eccessi degli agitati e le secche dei retrogradi». Il ministro ricorda in tal senso tutte le misure contenute nel decreto sviluppo varato di recente e afferma: «Il ciclo delle riforme è appena iniziato e deve continuare. Tutto è aperto a formule costruttive ma considerando il giusto mezzo e l'energica moderazione». Oltretutto «non si può immaginare che tutto avvenga in un attimo».

OCSE: Italia crescita lenta (25 maggio 2011).
La crescita è lenta e non ci sono progressi sul fronte dell'occupazione. Tuttavia l'Italia mantiene uno stretto controllo sulla spesa pubblica, controllo che va mantenuto. Bisogna inoltre fare le riforme. Sono questi i suggerimenti che arrivano dall'Ocse per cui l'Italia continua a crescere in maniera lenta con un qualche rafforzamento atteso nel 2012 che vedrà un aumento del Pil di circa l'1,6% dopo l'1,1% del 2011. È quanto stima l'Ocse nel suo Economic outlook secondo cui la domanda mondiale stimolerà le esportazioni e anche la crescita degli investimenti dovrebbe riprendere a crescere. L'organizzazione nota comunque come «la disoccupazione scenderà solo lentamente». L'Italia, sempre secondo l'Ocse, deve mantenere la stretta vigilanza sui conti pubblici dimostrata fino a ora a causa del suo alto debito rispetto al Pil. L'organizzazione parigina, ritiene che «dopo aver raggiunto un deficit inferiore a quello previsto nel 2010», «il governo italiano sta mantenendo i suoi precedenti obiettivi di bilancio per il 2011 e 2012». Ciò richiede, nota l'Ocse, «un mantenimento dello stretto controllo sulla spesa e sugli ulteriori miglioramenti nelle entrate fiscali». Questa vigilanza «è necessaria a causa dell'altro rapporto debito/Pil, seppure questo sia in via di riduzione nel 2012, oltre al probabile aumento nel costo del finanziamento del debito visto che i tassi di interesse sono previsti in salita nel medio termine». L'Ocse ricorda inoltre come il piano nazionale di riforme dell'esecutivo contenga una vasta lista di priorità «che deve essere effettivamente portata a termine in modo da migliorare il potenziale dell'economia e così ridurre il peso del debito attraverso la crescita del Pil».

INPS: picco di pensionamenti nel 2010 (25 maggio 2011).
Picco per le pensioni di anzianità nel 2010: nell'anno - secondo quanto si legge nel Rapporto annuale dell'Istituto - sono stati liquidati 174.729 trattamenti a fronte dei 100.880 registrati nel 2009 (+73%). La crescita haanni di contributi, il numero di pensioni di anzianità era stato molto basso. Nel 2011 con il nuovo «scalino» (da 59 a 60 anni) e l'entrata in vigore della finestra mobile si prevede un nuovo calo. Nel 2010 l'età media per la pensione di anzianità è stata di 58,3 anni per i lavoratori dipendenti e di 59,1 per gli autonomi. Circa un cittadino su tre riceve un trattamento pensionistico dall'Inps si legge ancora nel Rapporto annuale che l'Istituto. Ma oltre la metà delle pensioni erogate dall'Inps, precisamente il 50,8%, non arriva a 500 euro al mese. «Per quanto riguarda i trattamenti pensionistici, l'Istituto eroga una pensione ogni tre cittadini circa e i pensionati Inps rappresentano il 23% della popolazione», si legge nello studio. «Il numero complessivo delle pensioni vigenti al 31 dicembre 2009 è pari a 16.042.360, cui si aggiungono oltre 2,7 milioni di prestazioni erogate agli invalidi civili. Il 78% delle pensioni erogate dall'Istituto è di natura previdenziale, il restante 22% è di tipo assistenziale. Tra le pensioni vigenti, 10.176.818 sono le pensioni ai lavoratori dipendenti, 4.145.300 ai lavoratori autonomi, 245.220 ai lavoratori iscritti alla Gestione separata. In termini di categoria di pensione, il 65,6% è costituito da trattamenti di vecchiaia e anzianità, il 9,2% da pensioni di invalidità e inabilità e il 25,2% da pensioni ai superstiti. Il regime di liquidazione retributivo si applica al 93,4% delle prestazioni pensionistiche vigenti. La spesa per pensioni nel 2010 risulta pari a 177.350 milioni di euro». «Accanto alla necessità di una crescita economica del sistema c'è una necessità che deve essere ribadita ai giovani e ai meno giovani: bisogna lavorare più a lungo». Chiede così l'innalzamento dell'età pensionabile il presidente dell'Inps, Antonio Mastrapasqua, durante la presentazione del rapporto annuale dell'istituto. «La fuga dal lavoro - ha aggiunto Mastrapasqua - è un approccio incompatibile con l'allungamento dell'età anagrafica». Il presidente dell'Inps ha poi evidenziato che «le società con i lavoratori più anziani sono quelle che favoriscono l'accesso dei giovani».

Chrysler rimborsa i debiti (25 maggio 2011). Fiat e Chrysler si fonderanno, anche non a breve, ma dal 2012 in poi. «Non ha senso tenerle separate, ma non è una questione immediata per il 2011. Non è una cosa che faremo a breve» ha detto l'ad del Lingotto Sergio Marchionne proprio sulla possibile fusione tra Fiat e Chrysler. «Gestire due organizzazioni separate - ha affermato - per un costruttore generalista non è razionale. Dobbiamo trovare una soluzione, ma non ho una risposta immediata. Non è un tema cruciale da affrontare subito». La Fiat conquisterà il 51% di Chrysler «nel quarto trimestre» ha poi aggiunto all'indomani del rimborso ai governi di Usa e Canada dei 7,6 miliardi di dollari di debito della casa di Auburn Hills. «Il veicolo deve essere omologato. Lo faremo appena possibile», ha aggiunto l'amministratore delegato del Lingotto alludendo al terzo Performance Event, cioè l'omologazione di un auto in Usa a bassissimo consumo, che permetterà a Fiat di salire di un altro 5% in Chrysler. Alla domanda sui tempi per esercitare l'opzione sulla quota del Tesoro Usa, Marchionne ha detto: «più aspettiamo più costa». E su altre possibili opzioni a pagamento per salire ulteriormente nel capitale della casa di Detroit ha spiegato che «la possibilità c'è sempre». «Dal primo giugno i conti Chrysler saranno consolidati nel bilancio Fiat» ha aggiunto l'amministratore delagato della casa automobilistica torinese. «Non ho cambiato idea su Fabbrica Italia e sugli investimenti per realizzare» il progetto. Ha risposto Marchionne, sugli investimenti da 20 miliardi di euro previsti per il piano Fabbrica Italia.

FINCANTIERI: protesta dei lavoratori (25 maggio 2011).
Esplode la protesta dei lavoratori Fincantieri contro il piano industriale dell'azienda nel quale si prevede, tra l'altro, la chiusura dello storico cantiere navale di Genova, a Sestri Ponente, e dell'impianto stabiese, nel Napoletano, oltre al ridimensionamento di Riva Trigoso. Tesa la situazione nel capoluogo ligure: un gruppo di operai ha trascinato davanti all'ingresso della Prefettura alcuni cassonetti dell'immondizia, con cui i lavoratori hanno cercato di sfondare il cordone di polizia. Scontri si sono registrati tra i manifestanti e le forze dell'ordine in assetto antisommossa. I lavoratori hanno scandito slogan e insulti contro Giuseppe Bono, amministratore delegato dell'azienda, e hanno esposto uno striscione contro l'ad e il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani. Due operai sono rimasti feriti da manganellate nei tafferugli con gli agenti, uno in modo più grave alla testa. «Abbiamo ricevuto l'attenzione dello Stato», è stato il commento ironico di un suo collega. Feriti anche sei poliziotti: il più grave ha riportato un trauma alla mano nel corso del lancio di pietre e altri oggetti contro la facciata del palazzo del governo. Il presidio si è sciolto solo a metà pomeriggio. Il ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani ha convocato, per venerdì 3 giugno, i vertici di Fincantieri e i sindacati nazionali per fare il punto sul piano di riorganizzazione industriale reso noto dalla società. In serata è arrivata la nota dell'azienda, firmata dall'amministratore delegato, Giuseppe Bono: «La situazione del mercato è tale che solo un piano duro ma coraggioso può assicurare un futuro alla nostra impresa e confermarle la leadership che da anni le viene riconosciuta», scrive Bono nella comunicazione ai vertici aziendali in cui viene illustrato il Piano industriale presentato lunedì ai sindacati. Il progetto del Piano, prosegue Bono, «non mira al ridimensionamento dell'azienda, sebbene evidenzi molti esuberi. Mira piuttosto alla salvezza dell'azienda, e con essa al preservare» gli uomini e le donne che vi lavorano. Gli operai, nel frattempo, si erano lamentati per la convocazione arrivata dal ministro Romani: «Vogliamo incontrare il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non ministri finti. Finché non riceveremo una data certa resteremo qui», ha detto Bruno Manganaro, della Fiom ligure, al termine di un primo incontro con il prefetto di Genova, Francesco Musolino, e con i rappresentanti delle istituzioni locali, che ha fatto allentare un po' la tensione davanti alla Prefettura. «Ci hanno dato tutti ragione - ha aggiunto Manganaro - dal prefetto al presidente della regione Claudio Burlando alla sindaco di Genova Marta Vincenzi. Poi ci hanno fatto parlare con il ministro Romani, che ci ha detto "dovete fidarvi, non si chiude niente". Noi invece non ci possiamo fidare, vogliamo la data certa - ha concluso - di un incontro ai massimi livelli». I sindacalisti chiedono che il governo prenda un'iniziativa e promuova un immediato incontro con le organizzazioni sindacali, ha detto il leader Pd Pier Luigi Bersani. Una delegazione degli operai Fincantieri di Castellammare di Stabia ha incontrato il presidente della Regione Campania Stefano Caldoro a Palazzo Santa Lucia per discutere sulla situazione dello stabilimento, a rischio chiusura. Il piano industriale di Fincantieri è «un ulteriore colpo assestato ad un economia nazionale messa in ginocchio dalla crisi». Lo dichiara il segretario confederale della Cgil, Vincenzo Scudiere. Non solo scontri a Genova. Sempre in mattinata un gruppo di operai ha bloccato, in entrambe le direzioni, la strada statale sorrentina. La statale è stata riaperta intorno alle 14,30 per far defluire il traffico ma solo per trenta minuti. E un gruppo di operai di Riva Trigoso ha bloccato anche l'ingresso dell'autostrada A 12 di Sestri Levante. I lavoratori si erano radunati in piazza della Repubblica e si sono poi diretti al casello autostradale. Uomini e mezzi delle forze di polizia sono schierati davanti al casello, i dimostranti bloccano la strada di fronte. Lunedì 23 maggio tre operai hanno fatto irruzione nel Municipio di Castellammare di Stabia, occupando gli uffici del Comune, e costringendo il sindaco Luigi Bobbio, il vice sindaco, Giuseppe Cannavale, il comandante dei vigili urbani, i capigruppo dei partiti ed alcuni consiglieri comunali a rimanere a lungo asserragliati negli uffici. La rabbia dei lavoratori si è trasformata in violenza e gli operai hanno preso di mira vetri, mobili e suppellettili del Comune. Quattro tra sovrintendenti e agenti di polizia feriti, medicati in ospedale e giudicati guaribili con prognosi tra i 6 e i 7 giorni. Alle fasi di estrema tensione si è arrivati già lunedì sera al termine di una giornata difficile e convulsa, cominciata in mattinata con il trasferimento a Roma, con sei autobus, di operai di Fincantieri e di aziende dell'indotto, che nella Capitale hanno effettuato un lungo presidio, sotto la sede di Confindustria, in viale dell'Astronomia, in occasione dell'incontro dell'osservatorio strategico di Fincantieri con le segreterie nazionali di Fim, Fiom e Uilm. La situazione è precipitata quando è arrivata la notizia della decisione di chiudere lo stabilimento di Castellamare, prevista dal piano industriale dell'azienda. La delusione e la rabbia si sono trasferite nella tarda serata di nuovo in Campania. Gli autobus hanno fatto rientro a Castellammare ed i lavoratori si sono accalcati davanti al Municipio. Fino all'irruzione negli uffici del Comune.

Istituto Aspen Italia: L'Italia declinata al futuro (31 maggio 2011)
Il tema dell’incontro ha impegnato i partecipanti ad interpretare le singole sfide dell’Italia attraverso un modello di riferimento più ampio. La proiezione inerziale di lungo periodo rappresenta un Paese che invecchia, con una crescente immigrazione, un allargamento del dualismo Nord-Sud, la permanenza di un penalizzante deficit pubblico, una produttività insufficiente a mantenere il benessere raggiunto. Questo quadro alimenta la storica e diffusa retorica italiana del declino e della sconfitta. A ciò si aggiunga che spesso non abbiamo una lettura chiara della situazione per i limiti delle metriche che adottiamo: dobbiamo saper misurare e analizzare meglio. La conseguenza è un elenco eccessivo di grandi problematiche nazionali, superiore a quello che potrebbe essere rilevato in altri paesi, come ad esempio la Germania. Confrontarsi con troppi temi simultaneamente è velleitario e indebolisce la politica riformista, seppur lodevole. D’altra parte non è realistico sperare che l’Italia possa trovare una soluzione ai propri problemi attraverso un’imprevista discontinuità, uno shock che determini un cambiamento radicale.Il sistema è complesso, corporativo, relativamente bloccato da privilegi che nessuno intende ridurre, con una solida governance distribuita a livello comunitario, nazionale e locale. Le risorse fondamentali per “declinare l’Italia al futuro” possono essere individuate nelle tre caratteristiche che il sociologo americano Daniel Bell auspicava per una società occidentale: liberale in politica, socialdemocratica in economia e conservatrice in cultura. Una società che sia liberale in politica impegna alla revisione del metodo di cooptazione delle élite del Paese. Sostenendo, oltre che il fondamentale riconoscimento del merito, anche la definizione di limiti massimi di età per determinati ruoli di vertice o per l’accesso alla dirigenza. Una società socialdemocratica in economia deve perseguire un’adeguata distribuzione della ricchezza, che nel nostro Paese appare sbilanciata, al fine di accrescere il benessere generale. Nel mercato del lavoro la flessibilità deve essere compensata da un adeguato livello di sicurezza, non solo economica, ma soprattutto per salvaguardare la dignità che consenta a chi è in età di lavoro di essere continuamente parte del corpo sociale. Vi sono giovani cui “non pesa nulla non sentirsi più padroni del proprio destino”, ma ve ne sono altri che hanno un’ambizione per il futuro. Questi giovani devono assumersi una responsabilità collettiva e agire con un approccio etico. Una società conservatrice in cultura deve alimentare questa risorsa fondamentale per la propria identità, coesione, evoluzione e competitività. Una società non è nulla se non ha la consapevolezza del proprio percorso e non ha le chiavi di lettura del mondo. Oggi l’Italia rischia di non avere tali chiavi di lettura e di non conoscere sé stessa a causa della superficialità dei contenuti informativi e culturali. Una élite in senso liberale deve avere una cultura profonda e omogenea. Viene, a tale riguardo, affermata la centralità della nostra scuola secondaria, l’importanza di sostenere l’obiettivo di avere alcune fra le nostre università classificate tra le migliori al mondo, di stabilire un legame più solido fra università e Paese.

BANKITALIA: l'ultima relazione di Draghi (31 maggio 2011)
L'Italia è un Paese con un'economia «insabbiata» ma non è sulla via di un «declino ineluttabile» e per questo deve concentrare gli sforzi per «tornare alla crescita». Nella ripresa bisogna crederci, poiché essa è legata solo in parte a fattori economici e anzi «dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e speranze». È questo il messaggio di Mario Draghi, presidente designato della Bce, alla sua ultima relazione da governatore della Banca d'Italia. «Ciò che può unire è più forte di ciò che divide» è l'esortazione del banchiere centrale che in chiusura delle Considerazioni finali lamenta di sentirsi un po' come il suo «ben più illustre predecessore» Luigi Einaudi. «A distanza di 5 anni, quando si guarda a quanto poco di tutto ciò si sia tradotto in realtà - dice riferendosi alle riforme - viene in mente l'inutilità delle prediche». «Quale Paese lasceremo ai nostri figli?» si chiede Draghi. «E perché la politica non fa propria la frase di Cavour: "Le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l'autorità, la rafforzano"»? Il governatore ricorda che in 150 anni «il nostro Paese ha compiuto grandi progressi nelle condizioni materiali di vita grazie alla laboriosità, all'ingegno, alla capacità di sacrificio» per poi affidarsi di nuovo alle parole del primo presidente del Consiglio: «Il risorgimento politico di una nazione non va mai disgiunto dal suo risorgimento economico». «Occorre sconfiggere gli intrecci di interessi corporativi che in più modi opprimono il Paese. È questa una condizione essenziale per unire solidarietà e merito, equità e concorrenza, per assicurare una prospettiva di crescita al Paese». «La crescita di un'economia non scaturisce solo da fattori economici. Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Gli stessi fattori determinano il progresso di un paese». Appropriati sono l'obiettivo di pareggio del bilancio nel 2014 e l'intenzione di anticipare a giugno la definizione della manovra correttiva per il 2013-14, grazie alle riforme previdenziali avviate dalla metà degli anni Novanta, a un sistema bancario che non ha richiesto salvataggi, a una prudente gestione della spesa durante la crisi, lo sforzo che ci è richiesto è minore che in molti altri paesi avanzati». «Una manovra tempestiva, strutturale, credibile agli occhi degli investitori internazionali, potrebbe sostanzialmente limitare gli effetti negativi sul quadro macroeconomico». Non si possono ridurre gli investimento o aumentare le entrate. Va ridotta allora la spesa che serve alla gestione pubblica «di oltre il 5 per cento in termini reali nel triennio 2012-14, tornando, in rapporto al Pil, sul livello dell'inizio dello scorso decennio». Attenzione però: «non è consigliabile procedere a tagli uniformi in tutte le voci» perchè penalizzerebbe le amministrazioni virtuose e inciderebbe sulla già debole ripresa dell'economia, fino a sottrarle circa due punti di Pil in 3 anni. Serve invece un'accorta articolazione della manovra, basata su un esame di fondo del bilancio degli enti pubblici, voce per voce, commisurando gli stanziamenti agli obiettivi di oggi, indipendentemente dalla spesa del passato. È quello che i tecnici chiamano spending rewiev.» «Occorre proseguire nella riforma del nostro sistema di istruzione, già in parte avviata, con l'obiettivo di innalzare i livelli di apprendimento, che sono tra i più bassi nel mondo occidentale anche a parità di spesa per studente. Secondo valutazioni dell'Ocse, il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali potrebbe implicare a lungo andare un minor tasso di crescita del pil fino a un punto percentuale». I ritardi della giustizia civile, tema che va affrontato «alla radice», fanno perdere al paese fino a un punto di Pil all'anno. La riduzione del peso fiscale sulle imprese e il lavoro è un passaggio fondamentale per favorire la ripresa. «Andrebbero ridotte in misura significativa le aliquote, elevate, sui redditi dei lavoratori e delle imprese, compensando il minor gettito con ulteriori recuperi di evasione fiscale, in aggiunta a quelli, veramente apprezzabili, che l'amministrazione fiscale ha recentemente conseguito. Per incentivare il ricorso al capitale di rischio andrebbe ridotto, nel quadro di una complessiva ricomposizione del bilancio pubblico, il carico fiscale sulla parte dei profitti ascrivibile alla remunerazione del capitale proprio». Le donne trovano più difficilmente lavoro e guadagnano di meno, sottolinea Draghi che torna ancora una volta a dire come la scarsa partecipazione femminile sia «un fattore cruciale di debolezza del sistema». «Oggi il 60% dei laureati è formato da giovani donne, conseguono il titolo in minor tempo dei loro colleghi maschi, con risultati in media migliori, sempre meno nelle tradizionali discipline umanistiche. Eppure in Italia l'occupazione femminile è ferma al 46%, venti punti in meno di quella maschile, è più bassa che in quasi tutti i Paesi europei soprattutto nelle posizioni più elevate e per le donne con figli; e le retribuzioni sono, a parità di istruzione ed esperienza, inferiori del 10% a quella maschili». «La protezione del cliente della banca è un dato di civiltà» e un elemento cruciale per la credibilità e la fiducia nel sistema, ricorda il governatore. «In Italia non vi è stata una crisi bancaria, tuttavia dobbiamo ora rivedere il quadro delle regole in linea con gli orientamenti internazionali lungo due direttrici: ampliare lo spettro delle misure di risoluzione delle crisi; dotare la Vigilanza della possibilità di rimuovere gli esponenti responsabili di condotte nocive alla sana e prudente gestione di una banca». Le Fondazioni, se ben gestite, possono restare nel capitale delle banche. Nell'intervento tradizionalmente svolto dal rappresentante di Intesa Sanpaolo, primo azionista di Banca d'Italia, il presidente del consiglio di gestione Andrea Beltratti aveva sostenuto come «il recente rafforzamento patrimoniale attuato da alcune banche italiane, incoraggiato dalla Banca d'Italia, è un esempio di manovra che previene le difficoltà e crea esternalità positive per l'economia nel suo complesso. Le banche italiane maggiormente capitalizzate - ha sottolineato Beltratti - sono in posizione di forza anche grazie al loro modello particolarmente prudente di business». La realzione di Draghi ricalca in parte le proposte e i concetti sviluppati nella sua ultima relazione anniale da Emma Marcegaglia; penso che siamo tutti convinti della bontà di tali proposte e concetti il problema ora è " dopo la batosta elettorale subita dal centro destra alle recenti elezioni amministrative sarà in grado il governo di assumersi l'onere di quelle proposte? Molte di quelle proposte prevedono tagli mirati ai costi della PA, le tanto attese liberalizzazioni e la riforma del fisco. Il governo avrà la forza di effettuare tali riforme? Nei prossimi mesi il centro destra si gioca le sue ultime possibilità di sopravvivenza!"

Auto in ripresa (2 giugno 2011).
Dopo tredici mesi di cali, il mercato dell'auto torna a crescere. In Italia, a maggio, le nuove immatricolazioni hanno segnato +3,58% con 170.603 unità, contro le 164.704 di un anno fa. Lo comunica il ministero delle Infrastrutture e Trasporti. Ad aprile le vendite di auto in Italia erano risultate in flessione del 2,24%, con 157.309 unità. Bene anche l'usato. Nello stesso periodo, maggio 2011, il Ministero ha registrato 418.371 trasferimenti di proprietà di auto usate, con una variazione di +7,15 per cento rispetto a maggio 2010, durante il quale furono registrati 390.467 trasferimenti di proprietà. Le immatricolazioni rappresentano le risultanze dell'Archivio Nazionale dei Veicoli al 31.05.2011. Il volume globale delle vendite (588.974 autovetture) ha dunque interessato per il 28,97 per cento auto nuove e per il 71,03 per cento auto usate. In ripresa anche le vendite Fiat che vede le immatricolazioni di maggio aumentare del 4,58% a 51.342 nuove vetture vendute contro le 49.091 dello stesso mese del 2010. In ripresa anche la quota di mercato con il 30,1% contro il 29,8% del maggio 2010. Ad aprile 2011 la quota di mercato è stata del 28,7%. Tendenza opposta nel mondo delle due ruote a motore. A maggio sono stati venduti 37.657 pezzi, pari a - 2,6%. Lo rende noto l'Ancma-Associazione nazionale ciclo motociclo accessori. Gli scooter riducono le perdite, con 26.092 veicoli (1,9%), mentre le moto, con 11.565 unità, scontano -4,1%. Il mese di maggio vale circa il 13% del totale venduto annuo, ricorda l'Ancma. Il comparto dei 50cc rimane in territorio negativo con 7.916 registrazioni, pari al - 13%. I primi cinque mesi dell'anno conteggiano un immatricolato pari a 132.490 veicoli che si traduce in un calo del 14,8% rispetto allo stesso periodo del 2010, quando però si erano utilizzati ancora 10 milioni di incentivi. Gli scooter si fermano a 85.651 unità. con un calo pari al -18,2%. Meno penalizzate le moto che nel progressivo annuo segnano 46.839 pezzi e si attestano su un -7,9%. Negli scooter tra 300 e 500cc si registra un calo del 16,6%, a 33.182 unità. I 125cc registrano 26.747 pezzi, pari al -12%. Più marcata la flessione dei 150-200cc con 16.924 unità e - -27,7%. I 250cc, con 7.598 pezzi, registrano un -26,2%. Anche le moto confermano l'andamento di fondo che si concentra sulle maxi cilindrate oltre 1000cc con 14.730 consegne pari al +6,7%, al secondo posto in graduatoria le 800-1000cc con 12.393 pezzi +0,6%.

Chrysler: Fiat al 52% (3 giugno 2011)
Il Tesoro americano ha annunciato di aver raggiunto l`accordo per la vendita a Fiat del 6% del capitale di Chrysler che deteneva, per 500 milioni di dollari. Con questo trasferimento il governo esce definitivamente dalla casa automobilistica controllata da Fiat, che salirà al 52% del capitale. Barack Obama e Sergio Marchionne hanno vinto la scommessa: il primo ha salvato uno storico marchio e posti di lavoro, il secondo ha trasformato il Lingotto in un gruppo più globale e competitivo. Tutto è avvenuto in tempi rapidissimi. Fiat doveva esercitare l'opzione call per l'acquisto entro i dodici mesi successivi al rimborso del prestito concesso dal Tesoro americano nel 2009 a Chrysler nel quadro del piano di salvataggio del gruppo automobilistico. Il prestito è stato rimborsato lo scorso 24 maggio scorso e dopo soli tre giorni, il 27 maggio, la Fiat ha comunicato la decisione di esercitare l'opzione. Bisognava solo accordarsi sul prezzo e anche questo nodo è stato sciolto in meno di una settimana. «L'operazione di oggi non permette solo alla Fiat di rafforzare la propria posizione in Chrysler, ma accelera anche il nostro progetto di integrazione, mirato a creare un costruttore globale, efficiente e competitivo» - ha commentato l'amministratore delegato di Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne. «L'accordo raggiunto oggi, che sancisce l'uscita definitiva del Tesoro statunitense dalla compagine azionaria del Gruppo Chrysler, non attenua il senso di gratitudine che proviamo verso l'amministrazione del Presidente Obama per aver creduto, due anni fa, nella partnership con Fiat». Oltre ai 500 milioni concordati per il 6% del capitale, Fiat pagherà all'amministrazione americana altri 75 milioni per assicurarsi i diritti sull'acquisto del 45,7% di Chrysler controllato dal fondo Veba che fa capo al sindacato metalmeccanico United Auto Workers (Uaw). Di questi 75 milioni, il Tesoro americano ne incasserà 60 e i restanti 15 andranno al governo canadese che detiene il 20% sui diritti di vendita della quota di Veba. «L'acquisizione dei diritti spettanti al Dipartimento del Tesoro sulla valorizzazione delle quote Veba è un'ulteriore dimostrazione - ha commentato Marchionne - di quanto crediamo nel futuro della Chrysler e nelle sue capacità di proseguire lungo il cammino intrapreso per conquistare il posto che le spetta nel panorama dell'industria automobilistica globale». L'annuncio formale sarà fatto dal presidente Barack Obama che visiterà lo stabilimento del gruppo Chrysler a Toledo, in Ohio, insieme all'amministratore delegato di Chrysler e Fiat, Sergio Marchionne. La visita arriva due anni dopo l`uscita di Chrysler dall`amministrazione controllata. Il passaggio del 6% del capitale dovrebbe chiudersi entro due mesi, previa approvazione delle autorita` antitrust.

Accordi Italia, Cina (3 giugno 2011).
In una cerimonia a Villa Pamphili alla presenza del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e del vicepresidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, Italia e Cina hanno siglato 16 accordi, di cui 14 commerciali e due istituzionali con il Ministero dell'Istruzione e la Regione Toscana, per un valore complessivo di 3,2 miliardi di dollari. Le due intese istituzionali riguardano la cooperazione nel campo della ricerca scientifica e innovazione tra il ministero per la Scienza e la tecnologia cinese, il Ministero per l'Istruzione, l'università e la ricerca italiano e la Regione Toscana. Tra gli accordi economici, il più significativo, che dovrebbe sfiorare un terzo del valore complessivo delle intese, è quello fra Telecom Italia e il colosso delle comunicazioni cinese Huawei Technologies per una cooperazione strategica quinquennale nel campo della ricerca sui terminali di rete mobile e rete fissa e per lo sviluppo delle performance delle reti attuali e future. «Un forte rilancio della ricerca a Torino», ha sottolineato, parlando con i cronisti, l'amministratore delegato di Telecom Italia, Franco Bernabè. L'obiettivo dell'accordo, si legge in una nota, è «rafforzare le attività di ricerca congiunte sul territorio per lo sviluppo delle tecnologie innovative e per creare valore per l'Italia». L'accordo è anche volto ad incrementare la collaborazione e gli investimenti già esistenti per i due centri d'innovazione congiunti: il Mobile Innovation Centre ed il Network Innovation Centre di Torino, dove negli scorsi anni sono stati realizzati importanti progetti di ricerca per lo sviluppo di tecnologie e servizi avanzati nell'ambito delle comunicazioni convergenti fisse e mobili. «L'intesa - sottolinea ancora la nota - consolida la forte collaborazione tra Telecom Italia e Huawei, sia in Italia sia in America Latina, riguardante diversi ambiti tecnologici che includono il settore dei terminali, le soluzioni Software e applicative, le soluzioni per il mercato enterprise e la ricerca su nuove tecnologie e servizi». Altre intese riguardano il settore dei dispositivi medici, della moda, dell'energia solare, del gas naturale compresso, dei componenti tecnologici per l'autotrasporto, della cantieristica navale. Tra i gruppi coinvolti Sun Edison (Lettera d'intenti per Colleferro Solar Power Station in Italia con Cecep Solar Energy Technology), Fiat, (Accordo per l'aumento della capacità produttiva del progetto Haveco tra Fiat Powertrain Technologies e Guangzhou automobile group e Hangzhou advance gerabox group), Nuovo Pignone spa, Wind (Lettera d'impegno per un progetto di finanziamento di un network tlc con China development bank corporation), Safe srl Gas, Rizzo-Bottiglieri-De Carlini Armatori (Accordo quadro di finanziamento e cooperazione con China Development Bank corporation), Linkem spa, Miroglio spa, Istituto Marangoni (Accordo con il Beijin Brand management center per un centro di cooperazione sino-italiano per l'industria creativa).

I prestiti a Grecia, Irlanda e Portogallo, un peso in più per il debito nazionale (3 giugno 2011).
Prestiti alla Grecia erogati in cash, e subito registrati nel fabbisogno, e bond dell'European Financial Stability Facility (Efsf) per il sostegno finanziario di Irlanda e Portogallo ma contabilizzati nello stock del debito pubblico degli Stati garanti del veicolo: i famosi bail out (i salvataggi degli Stati europei in crisi di liquidità o di insolvenza) peseranno direttamente (Grecia) e indirettamente (Irlanda e Portogallo) peseranno sui conti pubblici dell'Italia per circa 33 miliardi. Cinque miliardi in più del previsto, se la nuova tranche di aiuti ad Atene dovesse essere confermata attorno ai 40 miliardi di cui 26,5 a carico dei paesi dell'eurozona (Irlanda e Portogallo esclusi) tramite contratti intergovernativi. Un fardello che potrebbe aumentare nel caso in cui i costi di raccolta della Spagna a medio-lungo termine dovessero salire al punto da far escludere Madrid dal gruppo dei soccorritori. Il primo pacchetto di aiuti alla Grecia da 110 miliardi è stato ripartito tra il Fondo monetario internazionale (1/3) e gli stati dell'eurozona (2/3) attraverso la formula dei prestiti pagati in contanti ad Atene. Stando a fonti bene informate, la seconda tranche di aiuti - che dovrebbe essere finalizzata entro il 24 giugno e che andrà ad aggiungersi agli iniziali 110 miliardi - seguirà la stessa identica struttura: prestiti bilaterali, senza il coinvolgimento del veicolo Efsf. I dettagli del nuovo pacchetto non sono definiti e non si possono escludere cambiamenti dell'ultim'ora. Le voci che circolano sul mercato segnalano tuttavia un esborso complessivo di 40 miliardi tra Eurogruppo ed Fmi: ulteriori 20-30 miliardi dovrebbero essere finanziati con privatizzazioni e partecipazione degli investitori privati. Se questo dovesse essere confermato, l'Italia dovrebbe staccare un assegno aggiuntivo di circa 5 miliardi ad Atene. Più complesso è invece il calcolo dell'aumento dello stock del debito pubblico, così come stabilito da Eurostat per via delle emissioni degli Efsf-bond: la percentuale dei singoli stati è equivalente alla quota nelle garanzie concesse al veicolo e alla ripartizione delle quote degli stati aiutati e non partecipanti. La quota italiana è salita dal 18,4% (ripartizione tra tutti gli stati dell'eurozona, Grecia esclusa) al 19,24% (Grecia e Irlanda escluse) al 19,8% (Grecia, Portogallo e Irlanda esclusi). Il veicolo Efsf inizierà la prossima settimana il "beauty contest" per selezionare le banche capofila delle sue due prossime emissioni di bond da chiudersi entro il 15 luglio per un importo totale di circa 8-8,5 miliardi: questa raccolta equivale a 5,8 miliardi di aiuti al Portogallo entro metà luglio mentre 3 miliardi circa resteranno all'Efsf come cash buffer, cuscinetto a garanzia del recupero dei soldi prestati. L'Efsf in totale su tre anni dovrà erogare al Portogallo 26 miliardi, pari al 67% delle emissioni di bond che ammonteranno a 38,8 miliardi. Entro il 2011, il veicolo Efsf emetterà altri bond per ulteriori 11,5 miliardi a favore dell'Irlanda, che sommati ai 5 miliardi già emessi in gennaio (di cui 3,3 versati a Dublino) porteranno il totale di quest'anno a 16,5 miliardi di bond (per sostenere finanziariamente Dublino per 11,5 miliardi oltre a circa 6 miliardi di cash buffer). Nel 2012 sono previsti finanziamenti all'Irlanda dal veicolo Efsf per 6,7 miliardi, equivalenti a 10 miliardi di emissioni di bond. In totale, 26,5 miliardi di Efsf-bond per l'Irlanda collocati nel 2011 e 2012 per erogare 17,7 miliardi. Ogni emissione obbligazionaria targata Efsf pesa contabilmente sul debito pubblico degli stati garanti, come stabilito da Eurostat: la quota italiana nel periodo 2011-2012 per Irlanda e per gli anni 2011-2014 per il Portogallo dovrebbe ammontare complessivamente a circa 13 miliardi. A questi si sommano i circa 20 miliardi ipotizzati dall'Italia alla Grecia, portando il totale dell'impegno italiano nei salvataggi a quota 33 miliardi. Questa impalcatura sta in piedi conteggiando la Spagna tra i soccorritori. La portata delle emissioni di bond dell'Efsf non è tale da poter sostenere un eventuale salvataggio di Madrid, che però è escluso categoricamente da Bruxelles, dalla classe politica spagnola, dal mercato e dalle agenzie di rating. Un'altra incognita però grava su Portogallo e Irlanda: nei piani di salvataggio è previsto il ricorso al mercato dei capitali per collocare titoli di stato a medio-lungo termine e rimborsare così il debito pubblico in scadenza. La stessa previsione che nel primo pacchetto di aiuti alla Grecia è andata clamorosamente disattesa.

La cinese Haier prima produttrice di grandi elettrodomestici (6 giugno 2011)
La Cina è sempre più forte, anche nel settore dei grandi elettrodomestici. Secondo uno studio di Euromonitor International, pubblicato in questi giorni, la società cinese Haier conquista il podio più alto del mercato mondiale degli elettrodomestici di grandi dimensioni, particolarmente frammentato, con una quota del 6,1%, pari a un incremento del 20% circa rispetto al 2009. Il frutto di una strategia che si allunga anche all'Europa, e che si basa su forti investimenti in ricerca e sviluppo (forte, per esempio, l'utilizzo delle tecnologie Led), sulla riduzione dei consumi di energia, e sui servizi a corollario. Haier si posiziona al primo posto anche nelle classifiche per singole categorie di prodotto. Innanzitutto, nella refrigerazione, con una quota di vendite al dettaglio nel 2010 pari al 12.6% e un incremento dello 0,2% rispetto al 2009. Primo marchio anche nel lavaggio, con una quota di vendite al dettaglio nel 2010 pari al 9.1%, pari a un incremento dello 0,7% rispetto al 2009, e nel settore delle cantinette frigo, con vendite al dettaglio del 14.8%.

Scontro Marchionne Camusso (8 giugno 2011).
«L'impegno della Fiat in Italia è chiaro, non abbiamo cambiato idea. Stiamo cercando di fare il nostro meglio». Così Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat e Chrysler ha replicato a Susanna Camusso, la leader della Cgil che domenica dal Festival dell' Economia di Trento aveva sottolineato come del progetto Fabbrica Italia non fossero ancora stati resi noti elementi importanti. Il segretario del primo sindacato italiano ha anche ribadito la necessità di tenere aperto il confronto. «Se si tratta di risolvere problemi e andare avanti - ha detto Marchionne - gli obiettivi sono totalmente in linea. Altri tipi di apertura non mi interessano. Faccio il metalmeccanico, non chiedo di più. Gli investimenti di Fabbrica Italiana, il rilancio di Mirafiori e della ex Bertone, saranno al centro dell'incontro con il neo sindaco di Torino, Piero Fassino. Marchionne ha tagliato corto invece sull' ipotesi di rcapitalizzazione avanzata da Massimo Mucchetti in un'analisi sul Corriere della Sera per far fronte a un debito che viaggia verso i 30 miliardi. «Sono giochi di fantascienza, non ne parlo», ha detto limitandosi ad aggiungere che «anche l'Ipo è un aumento di capitale». Non è per ora in agenda una decisione su dove sarà insediato il quartier generale del nuovo gruppo italoamericano Fiat-Chrysler. «Non è sul tavolo. Tutto questo è da risolvere nel futuro. Ora è importante partire con l'integrazione industriale e commerciale, cercare di fare una squadra che riesca a gestire il tutto». Quanto al rapporto con il fondo Veba, che detiene il 41% di Chrysler, Marchionne ha detto che «con Veba il dialogo è sempre aperto. Non siamo obbligati a comprare niente. Abbiamo diritto ad acquistare una parte della loro quota. Cominceremo a aprlarne dalla seconda metà del 2012».

Riprende a salire la ricchezza degli italiani (9 giugno 2011).
Nel 2011, secondo i dati elaborati da Unioncamere e Prometeia, ogni italiano produrrà 23.500 euro di valore aggiunto: al lordo dell'inflazione 570 euro in più rispetto al 2010. «È un elemento in più dopo l'andamento positivo di fatturato e ordini nei primi tre mesi dell'anno» osserva Ferruccio Dardanello, presidente Unioncamere aprendo la 133esima assemblea delle camere di commercio. E tra aprile e giugno le imprese italiane contano di realizzare 60mila assunzioni in più rispetto allo stesso periodo del 2010». Una fotografia che conferma come il sistema italiano abbia retto, commenta il ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani, ammettendo però che persistono punti deboli. «Lo scorso marzo il fatturato dell'industria è cresciuto del 12% rispetto allo stesso mese del 2010 - ricorda -e gli ordinativi addirittura del 21%. Ma stenta a ripartire la domanda domestica, con ricadute sul commercio, sulle costruzioni e in parte anche sul turismo interno». Il Sud, primeggia nelle previsioni di assunzioni mentre perde ancora il confronto con le altre aree del Paese in termini di valore aggiunto pro capite. Considerato 100 il valore aggiunto per abitante previsto a livello nazionale per il 2011, il Nord-Ovest registrerà 120,2, il Nord-Est 119, il Centro 111,7, mentre il Mezzogiorno resta staccato a 67,1. A guidare la classifica delle 103 province è Milano con con 35mila euro e una crescita rispetto al 2010 di 1.360 euro, seguita da Bologna (31.600 euro e 1.140 euro di incremento). Alle loro spalle Roma, Modena, Trieste, Firenze, Parma, Mantova, Trento. Sono occupate invece da province meridionali le posizioni di coda: Crotone (13.200 euro), Caserta (13.500), Agrigento (13.600), Foggia ed Enna (14.100). Non mancano però casi di province più dinamiche seppure con incrementi inferiori alla media del Centro-Nord: su tutti Bari (79esima con un incremento di 570 euro a 16.400) e Chieti (68esima con aumento di 640 euro a 19.400 euro). Più uniforme, tra le diverse macroaree del Paese, la mappa delle province meno dinamiche, che a fine anno non faranno registrare significativi cambiamenti rispetto al 2010: si va da Imperia, Asti e Rimini a Grosseto a Lecce, Nuoro e Caserta. Unioncamere, sulla base del sistema informativo Excelsior, stima che saranno quasi 317mila le assunzioni che verranno effettuate dalle imprese italiane entro la fine di giugno (+58.500 su base annua), delle quali 220mila a carattere non stagionale. A fare da traino il settore dei servizi, 220mila di cui 135mila a carattere non stagionale, con un contributo più spinto da logistica, servizi alle imprese e informatica, mentre commercio al dettaglio e turismo calano. Riprendono quota le assunzioni nel Mezzogiorno: poco meno di 100mila quelle previste nel secondo trimestre 2011, 18.580 in più del 2010. In valore assoluto è il dato più alto, anche se va letto con cautela perché già tra aprile e giugno sono state contabilizzate assunzioni temporanee per la stagione estiva.

Federalismo: risparmi nella sanità (9 giugno 2011).
La speranza di mettere in ordine i conti di asl e ospedali e produrre consistenti risparmi di spesa sanitaria, è affidata a due parole magiche: efficienza e qualità. Che dovranno portare con sé, senza sconti, la lotta agli sprechi. Snodo cruciale saranno i costi standard, che dovrebbero garantire tra i 4 e i 5 miliardi di risparmi. Accompagnando il tutto con altri interventi già in cantiere: dalla stretta sull'acquisto di beni e servizi ai farmaci, dal personale ai ricoveri. Senza tralasciare l'impulso sempre più deciso che sarà dato in prospettiva alla sanità integrativa, verso la quale indirizzare maggiori spese, a cominciare da odontoiatria e long term care.Nella manovra che ci chiede la Ue, la spesa sanitaria farà senz'altro la sua parte. Soprattutto quando i costi standard cominceranno ad essere applicati. E la prospettiva è ormai a portata di mano: questione di un anno e mezzo, ormai. Perché tutto avverrà all'incrocio astrale che sicuramente non a caso è stato fissato per legge tra il 2012 e il 2013: a fine 2012 scadrà il «Patto» per la salute, nel 2013 partiranno i costi standard sanitari sulla base dei bilanci 2011 (quelli di quest'anno) di asl e ospedali, con tanto di benckhmark tra le 3 regioni migliori, o almeno di quelle scelte in una rosa di 5 con i governatori: una del nord (la Lombardia), una del centro (forse la Toscana), una del sud (oggi come oggi la Basilicata). Scelta anche politica, è chiaro, che servirà a ciascuna regione per aggiustare le medie e trovarsi il più possibile meno spiazzata all'atto del riparto dei fondi. Intanto però le ipotesi di risparmio dovrebbero essere contabilizzate come minor spesa anche tendenziale per il Ssn. Tanto più che proprio l'anno prima scadrà il «Patto» con le Regioni e con i governatori si negozierà su nuove basi. Appostare queste previsioni di minore spesa nella manovra in arrivo, non è così un semplice esercizio di stile da parte del Governo e dei tecnici che ci stanno lavorando da tempo. Anche se naturalmente non mancano le contro indicazioni: i governatori invocheranno certezze di finanziamento e tireranno la corda, lamentando tra l'altro il mancato varo dei nuovi livelli essenziali di assistenza (i Lea), da tempo nei cassetti dell'Economia. Il rischio di tagli alle prestazioni, insomma, è dietro l'angolo. Ma di tagli il Governo non vorrà sentir parlare. Perché l'applicazione dei costi standard, è la tesi, porterà con sé efficienza, qualità e, dunque, risparmi. Mettendo ordine nelle differenze abissali tra Regioni: dalla durata di un ricovero prima dell'operazione (in Molise dura il 50% più che in Lombardia ed Emilia) ai ricoveri inappropriati (tutto il sud è in fondo alle classifiche) fino ai parti cesarei (62% in Campania contro il 23% a Bolzano). Per non dire degli acquisti fuori ordinanza di attrezzature: una tac identica è costata 1.554 o 999 euro, sempre in Campania; una siringa da 5ml assolutamente uguale 5 centesimi in Sicilia e solo 3 in Toscana. Non è un caso che nel decreto su premi e sanzioni legato al federalismo fiscale, si preveda dal 2012 un bonus per chi istituisce una centrale acquisti e gare per importi di alto valore. Per risparmiare, naturalmente. Anche in vista dell'elaborazione dei prezzi di riferimento per l'acquisto di prestazioni e servizi sanitari e non: chi spenderà di più dovrà segnalarlo alla Corte dei conti, con tutte le (eventuali) conseguenze del caso.

Confindustria: Rapporto del CsC (9 giugno 2011).
Dopo il primo semestre 2010, la fase di recupero post-crisi in Italia ha subito una frenata. «La produzione industriale italiana è quasi ferma ai livelli dell'estate 2010», con un +0,1% di crescita media mensile da luglio 2010 a marzo 2011, «e dista dal massimo pre-crisi (-26,1%) ancora molto, -17,5%». È quanto rileva il rapporto sugli scenari industriali del Centro Studi di Confindustria. Il quadro tracciato nel rapporto è quello di un Paese «schiacciato tra recessione violenta e ripresa lenta». Per forza industriale «L'Italia è scalata dalla quinta alla settima posizione, superata da India e Corea del Sud, avendo perduto 1,1 punti di quota», rileva il Centro Studi, che avverte: con una quota del 3,4% della produzione manifatturiera globale, l'Italia «è ora a solo due incollature sopra il Brasile, che viaggia ad una velocità molto più sostenuta». L'Italia resta sì «ad alta vocazione industriale ma spicca per la flessione dell'attività registrata nell'ultimo triennio (-17% cumulato), doppia o tripla di quelle delle maggiori concorrenti (peggio ha fatto solo la Spagna)», spiega viale dell'Astronomia. I nostri imprenditori «devono essere tre volte più bravi degli altri» per sopravvivere «in un contesto competitivo così carente», è il commento del direttore del centro studi, Luca Paolazzi. Il centro Studi di Confindustria sottolinea, con il rapporto sugli scenari industriali, «la scalata» dei Paesi emergenti per quota di produzione manifatturiera. L'Italia, che nel 2010 scivola dal quinto al settimo posto, resta il secondo Paese in Europa dopo la Germania (che resta al quarto posto ma, al 6%, perde 1,5 punti di quota). La Cina che «ha guadagnato 7,6 punti», con una quota del 21,7% conquista la prima posizione (era seconda) scalzando gli Stati Uniti (15,6%). Con la crisi, «tre soli paesi avanzati sono riusciti a reggere allo scossone: Giappone, che ha conservato la terza posizione e ha addirittura migliorato la quota al 9,1%; Corea del Sud, che ha scavalcato l'Italia e si è portata al sesto posto ma con una quota calante dal 3,9% al 3,5%, e Australia, diciottesima, più tre scalini all'1%». «Solo il tempo», indicano gli economisti di Confindustria, ci dirà quali effetti avrà il terremoto di marzo 2011 sulle produzioni in Giappone. L'India ora incalza la Germania, forte di «una veloce espansione economica». Confindustria evidenza anche le «rilevanti» perdite di quota di Stati Uniti (-2,6 punti), Francia (-0,9), Regno Unito (-1,0), Spagna (-0,7), Canada (-0,5). Mentre «tiene l'Olanda (-0,1)». E «nel complesso l'Ue-15 scende dal 27,6% al 21,2% (-6,4 punti)». Giova notare che questi sono dati del consuntivo 2010; essi arrivano un po' in ritardo rispetto alle dinamiche che esprime oggi il pianeta in tutte le sue componenti. Se per conoscere lo stato dell'arte della nostra economia dobbiamo aspettare i rapporti del CsC o dell'Istat siamo messi proprio male.

Moncler: l'Italia perde un altro marchio (10 giugno 2011).
Pensavano che la Borsa fosse la strada migliore. Ma la telefonata da Parigi li ha convinti del contrario. E così il 5 giugno, gli azionisti di Moncler, invece di rilanciare su Piazza Affari, hanno deciso di aprire le porte a Eurazeo, società di investimento quotata a Parigi, intenzionata a entrare nell'azionariato del gruppo dei piumini. Che in parallelo al percorso dell'offerta pubblica di vendita andassero in onda anche trattative private, era noto: girava voce che Moncler fosse nel mirino di Ppr, il colosso del lusso di François-Henri Pinault che in Italia già controlla Gucci. Da quando la quotazione è di dominio pubblico «abbiamo ricevuto diverse espressioni di interesse» aveva detto in precedenza Marco De Benedetti, capo di Carlyle in Italia e azionista di riferimento del marchio. Che comunque ha proseguito nel suo progetto di quotazione. Fino all'altro ieri. Quando gli azionisti del gruppo della moda hanno percepito che dal mercato avevano poche probabilità di ottenere la stessa valorizzazione della società proposta da Eurazeo (1,2 miliardi di euro di enterprise value, un multiplo di oltre 12 volte l'Ebitda 2010 contro quella dell'Ipo che secondo indiscrezioni dava il brand tra i 900 milioni e 1 miliardo): il fondo che con un investimento di 418 milioni (il 45%), è diventato il primo azionista dei piumini. Si allunga così, dopo Bulgari, Parmalat, Gucci e Bottega Veneta la lista del made in Italy finita in mano ai francesi. In realtà Moncler era nata Oltralpe, nel 1952, a Monastier de Clermont, villaggio sulle montagne vicino a Grenoble dove il marchio viene alla luce. Capo cult dei Paninari, della Burger generation, negli anni Ottanta, la griffe dal '92 era diventata italiana, grazie ai veneti di Pepper Industries che poi la cedono a Finpart. E dal 2003, italianissima, da quando cioè Remo Ruffini, acquisito il marchio da Finpart, società quotata e poi fallita, insieme con Mittel e con il socio Guido De Vivo, rilancia non solo i piumini ma anche gli altri brand del gruppo: Henry Cotton's, Marina Yachting, il marchio di Como Coast Weber and Ahaus e la licenza 18CRR81 Cerruti. Nel 2008 l'arrivo di Marco De Benedetti e del fondo Carlyle completano la ripresa, che ha portato il fatturato dai 180 milioni del 2005 ai 429 milioni dello scorso anno e dai cinque negozi iniziali ai 55 attuali. Ora è la volta di Eurazeo, boutique della finanza parigina (assistita da Lazard) e che figura tra i principali soci di Banca Leonardo. L'obiettivo di tutti è quello di accelerare la crescita all'estero (America e Cina incluse) e di costruire un marchio globale del lusso attraverso l'apertura di nuovi negozi. E anche la strada della Borsa non è chiusa per sempre. «La quotazione - ha precisato in una nota congiunta con Eurazeo il presidente di Moncler Remo Ruffini - resta un obiettivo strategico e manteniamo una sorveglianza attiva dei mercati», ma lo sbarco in Borsa non avverrà nei prossimi mesi né entro l'anno, precisa il numero uno di Parigi, Patrick Sayer, perché il clima del mercato è in questo momento molto complicato. Ma sarà a Milano o a Parigi?

Produzione industriale: sale anche in aprile (13 giugno 2011).
La produzione industriale ha registrato ad aprile un aumento destagionalizzato dell'1% rispetto al precedente mese di marzo. Lo rende noto l'Istat. L'indice della produzione corretto per gli effetti del calendario ha segnato, sempre ad aprile, un rialzo su base tendenziale dell'3,7% mentre nella media dei primi quattro mesi dell'anno la variazione rispetto allo stesso periodo del 2010 é stata pari al +2,5%. L'indice grezzo della produzione, continua l'Istat, ha registrato un calo dello 0,1% rispetto ad aprile 2010 mentre su base annua, rispetto al primo quadrimestre del 2010, l'aumento é stato dell'1,7%. Rivisto al rialzo il dato di marzo, con il dato destagionalizzato che segna un +0,7% congiunturale (+0,4%) e +3,4% tendenziale per il dato corretto per gli effetti di calendario (+3,1%). La produzione industriale di autoveicoli ha segnato un calo tendenziale del 13,6% (dato corretto per gli effetti di calendario). Nei primi quattro mesi del 2011 c'é stato un incremento tendenziale dell'8 per cento.

Marcegaglia accelera sui contratti (14 giugno 2011).
La strada l'aveva già indicata nel suo discorso all'assemblea di Assolombarda. E anche oggi la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ribadisce il percorso per arrivare a una rivisitazione del sistema contrattuale. «L'idea per noi è abbastanza chiara: vorremmo completare l'accordo del 2009 e rendere esigibili i contratti aziendali. Cercheremo di farlo con un accordo Sindacati-Confindustria: se non ci riusciremo ragioneremo anche su una legge». Il primo obiettivo, però, e questo Emma Marcegaglia lo dice senza indugi, «è lavorare a un accordo con i sindacati. Con loro ci incontreremo nei prossimi giorni». Insomma, la strada sembra ormai chiara. Così come lo è la volontà delle imprese sul fronte caldo delle tasse. Per questo la numero uno di Confindustria ribadisce la necessità di un intervento che ridia ossigeno al Paese. «Accettiamo che ci possa essere una riforma fiscale anche a invarianza di pressione fiscale generale», a patto però, spiega la presidente degli industriali, che si abbassino «veramente le tasse su chi tiene in piedi il Paese, cioè lavoratori dipendenti e imprese, e che ci sia certezza del diritto, ovvero non si cambino continuamente le leggi fiscali». La presidente ascolta poi con attenzione l'intervento del ministro Tremonti - che davanti alla platea di Confartigianato indica un percorso di riassetto con 5 imposte e 3 aliquote - e si mostra soddisfatta. «Le riflessioni del minitro mi sembrano interessanti. Credo che ci siano degli spunti per un dibattito insieme». Intanto, però, la presidente accelera sui contratti e oggi ha incontrato il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. Un incontro informale per cominciare a esaminare i temi della rappresentanza e del sistema contrattuale. Ieri, Marcegaglia aveva inviato una lettera ai segretari generali di Cgil, Cisl e Uil indicando una serie di date per avviare il tavolo su contratti e rappresentanza.

Draghi all'Europarlamento (14 giugno 2011).
«Sappiamo che ci sono molti investitori che non aspettano altro che sfruttare la contingenza, ci sono molti operatori di mercato che sarebbero lietissimi di sfruttare una situazione in cui ci sia un default gestito male o non gestito» di un paese dell'Ue. Lo ha affermato il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, davanti alla commissione affari monetari dell'Europarlamento durante l'audizione come presidente designato della Bce. «Questa è la lezione di Lehman Brothers - ha aggiunto - che è stato il fallimento più caro di tutta la storia e non vogliamo ripeterlo». L'Unione monetaria europea e l'euro sono stati un «successo», ha sottolineato Draghi, che neanche «la crisi può mettere in discussione». La valuta unica «funziona nonostante la crisi finanziaria e l'aumento del prezzo del petrolio» ha aggiunto Draghi, sottolineando che «senza l'unione monetaria non sarebbe stata possibile una rapida risposta alla crisi». Secondo il governatore della Banca d'Italia la crisi dei debiti sovrani dell'Eurozona rimane comunque «il vero test della solidità della moneta unica». «La Bce - ha risposto a una europarlamentare - ha espresso una posizione chiara che condivido. Non è favorevole alla ristrutturazione e esclude tutto quello che non sia volontario». Draghi ha rilevato come inoltre l'operazione «costerebbe di più» e ci sarebbe inoltre il rischio di contagio. «Ho agito con integritá, non ci sono stati favoritismi», ha sottolineato Mario Draghi respingendo le accuse di conflitto di interesse per il suo passato alla banca d'affari Goldman Sachs. Il governatore di Bankitalia ha ribadito di non aver avuto alcun coinvolgimento nelle controverse operazioni di swap fatte dalla banca per conto della Grecia per dissimulare la sua reale situazione di bilancio. Draghi - per corroborare la sua rivendicazione di non essere mai stato "gentile" successivamente con le banche private, e di non aver mai dato loro alcun vantaggio - ha poi ricordato la sua esperienza in Bankitalia nell'attività di vigilanza: anche grazie a questa "nessuna banca in Italia ha avuto un problema durante la crisi", ha sottolineato. Una europarlamentare dell'Alde chiede a Draghi cosa pensa della campagna della stampa tedesca nei suoi confronti, dicendosi felice che la candidatura ha superato le resistenze di Berlino e la frattura fra Nord e sud Europa. Draghi ringrazia per la domanda e ricorda: «Molti giornali tedeschi fino a tre mesi fa mi rappresentavano con gli stereotipi del piatto di pasta o la pizza. Ma in questi mesi io, che non parlo spesso in pubblico, ho ripetuto quello che ho ripetuto per tutta la mia vita: l'importanza della stabilizzazione dei prezzi, argomento verso cui sono sensibile proprio perché da italiano conosco bene certe situazioni: in Italia negli anni Settanta l'inflazione era al 20%. La mia attenzione al bilancio nasce dal fatto che ricordo e conosco la situazione degli anni Novanta in Italia». Sottolinea: «Il mandato della Bce è la stabilità dei prezzi a medio termine in tutta l'area, non è questione di priorità o preferenze nazionali». Draghi si è poi soffermato sulla riforma delle regole della finanza, sottolineando che è necessario attuare Basilea 3 e varare le regole per le istituzioni sistemiche (Sifis) in modo che abbiano più capitale rispetto alle altre ma soprattutto che per loro «sia creato un sistema che riesca a gestire un grande fallimento senza che debba pagare il contribuente e sconvolgere i mercati». Il governatore di Bankitalia ha infine ricordato il tema dello shadow banking: «bisognerà considerare come banca qualsiasi entità che fa mediazione del credito qualsiasi sia il suo nome».

Il Sole 24 Ore: analisi dei rischi in Europa (16 giugno 2011).
""Disse il Fondo monetario: le banche irlandesi «hanno prospettive positive». Era il 2006. Scrisse Standard and Poor's: Anglo Irish Bank è «un'istituzione sicura e solida». Era il 2007. E la società di consulenza Oliver Wyman, nello stesso anno, indicò la banca irlandese come istituzione finanziaria «con le migliori performance» al mondo. Sono passati pochi anni, ma Anglo Irish Bank dopo due salvataggi da parte dello stato è sull'orlo del crack. E l'intero sistema bancario irlandese è praticamente al collasso. Il 'baco' stava proprio in quelle grandiose performance delle banche: era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo vedeva. Il problema è che lo stesso 'baco' ha trovato terreno fertile anche in altri Paesi europei. Il Portogallo sembra la fotocopia dell'Irlanda, anche se ancora non ha vissuto una crisi bancaria vera. La Spagna è un po' meglio, ma non più di tanto. Anche Danimarca e Gran Bretagna hanno settori bancari gonfiati. Per capire dove stiano i maggiori rischi, «Il Sole 24 Ore» ha avuto accesso in esclusiva ad alcuni dei dati elaborati da Bain and Company. Non si tratta di dati teorici, ma operativi: la società di consulenza ha infatti lavorato per il salvataggio di Anglo Irish Bank, di Northern Rock e di Dexia, per cui ha toccato con mano i veri problemi delle banche e degli Stati in crisi. È riuscita dunque a capire quali siano i fattori di rischio e, andando in giro per l'Europa, ha paragonato l'Irlanda ad altri Paesi. Questi stessi dati, che parzialmente «Il Sole 24 Ore» può pubblicare, ora sono in mano a governi e banche centrali di molti Stati, a partire dal Portogallo. Governi che ora si trovano di fronte a un dilemma: salvare ancora le banche, oppure salvare i conti pubblici? La coperta, ormai, è corta. È il caso dell'Irlanda. Qui il problema è nato dal mercato immobiliare, cresciuto dal 2000 al 2007 ben 2,1 volte più velocemente del Pil. Nello stesso periodo le banche hanno raddoppiato l'esposizione sul settore immobiliare: il credito al settore privato è passato dal 111% del Pil del 2001 al 217% del 2008. È questo che ha ingigantito la leva: il rapporto tra portafoglio crediti e i depositi, per l'intero sistema bancario, è infatti arrivato al 215%. Troppo: si pensi che il Fondo monetario considera come limite massimo sostenibile il 110%. Dall'altra parte della medaglia, mentre le banche gonfiavano i bilanci, le famiglie gonfiavano i debiti: nel 2008 il valore delle case era così 11 volte più elevato del reddito disponibile.""

BCE: stabilità ancora a rischio (16 giugni 2011).
L'Unione europea non è ancora uscita dalla crisi. Il quadro della stabilità finanziaria nell'area euro infatti «è rimasto molto impegnativo» e per il terzo anno consecutivo dopo la crisi del 2008 «i rischi sono ancora prevalenti». L'allarme è della Banca centrale europea, che nella sua Financial Stability Review nota come le difficoltà per il programma di consolidamento della Grecia «sono cresciute» rispetto al rapporto dello scorso dicembre. La stretta interconnessione fra i il settore pubblico e le banche, che hanno ampie fette di titoli di Stato periferici in portafoglio, è il rischio principale per la stabilità finanziaria nell'area euro e ha «il potenziale per creare effetti di contagio» spiega ancora la Bce. Per l'Eurotower inoltre le difficoltà per la messa in pratica del risanamento della Grecia sono aumentate rispetto all'ultima Financial Stability Review dello scorso dicembre. Secondo la Bce, alla luce delle implicazioni potenzialmente molto pericolose per il paese debitore e per il suo sistema bancario di un'eventuale ristrutturazione del debito sovrano, è ora richiesta e peraltro possibile una maggiore attenzione sul miglioramento dei fondamentali sia attraverso riforme politiche macroeconomiche che strutturali nei paesi a rischio. Per questo devono essere applicati con il massimo rigore i programmi di risanamento negoziati dai singoli paesi con la Ue e il Fmi. Tuttavia c'è anche uno sviluppo positivo dato dal rafforzamento della fiducia in «altri Paesi dell'area euro che avevano mostrato alti rendimenti dei titoli governativi», grazie non solo agli sforzi di risanamento bancario ma anche al rafforzamento dei fondamentali economici e di bilancio. Fra gli elementi di maggiore «vulnerabilità» dei sistemi bancari la Bce cita l'accesso alla liquidità, che nonostante la minore dipendenza dai mercati monetari «continua ad essere un tallone d'Achille per molte banche europee» e, soprattutto, per quelle dei Paesi con maggiori difficoltà di bilancio. Nel complesso - spiega la Bce - c'è un «diffuso miglioramento nella capacità di resistenza del settore bancario» rispetto allo scorso dicembre, come indicato anche dagli indicatori di redditività e di solvibilità delle banche e grazie anche agli stress test. Tuttavia «restano diverse aree di rischio per la stabilità finanziaria dell'area euro. Prima fra tutti, appunto, la forte indipendenza fra i sistemi bancari e le finanze pubbliche; ma anche le vulnerabilità nell'accesso alle fonti di finanziamento; l'andamento dei prezzi immobiliari che probabilmente - avverte la Bce - resteranno al di sotto dei massimi degli anni pre-crisi; la possibilità di uno shock dovuto a un improvviso balzo dei tassi a lungo termine; e infine l'ipotesi di un improvviso aggiustamento degli squilibri globali. Giova ricordare che le banche tedesche e quelle francesi hanno titoli del tesoro greco per un ammontare superiore ai venti miliardi di euro. Sciopero generale in Gracia. La polizia greca ha sparato gas lacrimogeni contro i manifestanti all'esterno del parlamento, dove i deputati si preparano al dibattito sulle nuove misure di austerity richieste dal pacchetto di salvataggio dell'Unione Europea e del Fondo monetario internazionale. Il primo ministro greco, il socialista George Papandreu, ha offerto le proprie dimissioni per agevolare la formazione di un governo di unità nazionale che realizzi il piano di austerità imposto da Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale: a tale piano, ha puntualizzato Papandreu, l'eventuale esecutivo unitario dovrà garantire pieno appoggio, senza tentare di aggirarlo o di modificarlo. In serata Papandreou ha detto che non lascerà annunciando un rimpasto di governo e precisando che chiederà giovedì la fiducia al Parlamento. Sono migliaia le persone che hanno partecipato allo sciopero generale, il terzo indetto quest'anno in Grecia. I manifestanti intorno a piazza Syntagma ad Atene hanno risposto lanciando pietre. La polizia ha bloccato le strade creando un «cordone di sicurezza» per i parlamentari. I manifestanti greci si sono autoproclamati «indignados», legando la loro protesta a quella dei manifestanti spagnoli che hanno allestito tendopoli a Madrid e Barcellona, prima di essere sgomberati dalla polizia. Ci sono gravi disagi nei porti, nelle banche e nel settore del trasporto pubblico, dal momento che le principali associazioni di categoria pubbliche e private hanno aderito all'agitazione. Il primo ministro George Papandreou sta cercando di radunare il consenso intorno a un nuovo programma di austerity che prevede tagli per 28 miliardi di euro dal 2012 al 2015. Anche le società statali sono entrate in sciopero, mentre gli ospedali coprono soltanto le emergenze. Funzionano invece normalmente gli aeroporti, dopo che i controllori del traffico aereo hanno revocato la loro agitazione. La cicala non ha alcuna voglia di diventare formica.

Rottami auto: Italia in difetto (16 giugno 2011).
Nuova mancanza per l'Italia: la Commissione europea ha appena richiama formalmente il nostro Paese per la mancata applicazione delle norme europee in materia di rottamazione di veicoli e minaccia multe salate in caso di mancato adeguamento. "L'Italia ha due mesi per rispondere - spiega il commissario europeo all'Ambiente, Janez Potocnik - e in caso di mancato adempimento, la Commissione potrebbe decidere di deferire l'Italia alla Corte di Giustizia europea e chiedere sanzioni finanziarie". Una direttiva approvata nel 2000 stabilisce le procedure per la raccolta, il trattamento e l'eventuale riciclaggio degli autoveicoli e delle loro parti al termine del loro ciclo di vita. L'Italia non si è mai adeguata pienamente a tali normative, secondo la Commissione europea. Una prima procedura di infrazione al riguardo è stata lanciata dalla Commissione europea negli anni passati e ha portato a una sentenza di condanna per l'Italia da parte della Corte europea di Giustizia nel 2007. Da allora l'Italia ha apportato diverse modifiche alle normative in materia di rottamazione, ma Bruxelles ritiene che "alcune incoerenze rimangono," secondo la nota. La Commissione lamenta in particolare il fatto che la legislazione italiana non preveda un obbligo chiaro per le officine di riciclare le parti dei veicoli sostituite durante eventuali riparazioni. Per spingere l'Italia ad applicare correttamente la normativa europea, la Commissione aveva inviato una lettera di avviso motivato nel marzo del 2009, aprendo la seconda fase della procedura di infrazione, quella cioè che può portare al suo termine all'imposizione di sanzioni finanziarie per i paesi inadempienti. In virtù del fatto che l'Italia ha apportato modifiche legislative a seguito del richiamo del 2009, seppur non sufficienti, Bruxelles ha deciso di inviare una seconda lettera di avviso motivato invece di passare alla lettera di messa in mora che precede il deferimento alla Corte di Giustizia Ue. Se questo procedimento dovesse sfociare in una nuova condanna della Corte Ue, l'Italia dovrebbe pagare multe salate per ogni giorno di mancato adeguamento alla normativa. Bruxelles non si preoccupi; ora l'Italia è impegnata in un nuovo giochino chic, quello dei referendum. E' di oggi la notizia che un gruppetto di intellettuali (il solito gruppetto di Repubblica) ha iniziato la raccolta delle firme per alcuni referendum volti a modificare l'attuale legge elettorale. Per il problema dei rifiuti c'è tempo e De Magistris.

Mediobanca: rapporto sulle banche europee (17 giugno 2011).
La crisi grca tiene in fibrillazione il sistema finanziario mondiale. Ma esiste anche il rischio del 'too big to fail' che interessa da vicino il cuore del vecchio continente e, cifre alla mano, spiega perché nel dopo Lehman i Governi europei si siano tanto prodigati per aiutare, se non addirittura 'salvare' le grandi banche nazionali. Dall'indagine ReS-Mediobanca sulle principali banche internazionali emerge infatti che nei Paesi dell'Unione gli attivi delle prime due banche valgono più del Pil dei rispettivi paesi. Un multiplo in parecchi casi. Si va dal top della Svizzera dove Ubs e Credit Suisse contano 4,7 volte il prodotto interno lordo elvetico, al 'minimo' rappresentato dall'Italia dove il totale dell'attivo di UniCredit e Intesa-Sanpaolo vale più o meno quanto il Pil della Penisola. In mezzo ci sono Paesi piccoli come l'Olanda che vede le prime due banche pesare 3,2 volte il Pil e Paesi più grandi come Francia e Regno unito dove la coppia dei maggiori istituti vale circa il doppio del Pil. Comunque un'enormità. Tutto bene, se le banche sono 'tranquille'. Ma se invece in pancia hanno qualche elemento di rischio in più, allora la cosa è diversa. Per esempio, dovessero girare storti i derivati nei portafogli delle due big elvetiche si rischierebbe di bruciare un anno di ricchezza nazionale. Ma anche la Germania, che è vicina ai numeri dell'Italia, ha una componente relativamente alta di derivati - per le prime due banche pari al 31,5% del Pil - poco sotto il 40,3% della Gran Bretagna. Oltretutto il contesto del settore è ancora incerto. L'andamento del primo trimestre di quest'anno (-1,1% i ricavi, -11,5% gli utili netti nell'aggregato del credito continentale) sembra infatti mettere in dubbio il ritmo di recupero della 'normalità'. I livelli pre-crisi sono ancora lontani: alla fine dello scorso anno il risultato corrente del paniere europeo era ancora sotto del 9,6% alla media degli anni 2000-2007, mentre le banche Usa erano sotto del 12%. In compenso le svalutazioni crediti erano del 10% superiori per le europee, del 13,7% per le americane. Ma qual è il metro del rischio di una banca? L'esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che non basta guardare ai parametri di vigilanza tradizionali. Le banche fanno anche altro che non il semplice dare/avere del denaro. La classifica europea del core tier 1, per esempio, vede in testa nel 2010 l'Ubs, che vanta un ratio del 15,3%. Ma se si va a vedere la 'leva' (il rapporto tra attivo tangibile e capitale netto tangibile) (che non a caso Basilea 3 prenderà in considerazione) si scopre che il numero 1 del credito svizzero, con un valore superiore a 31, si colloca sopra la media: 27,4 per le banche europee considerate nello studio. Al contrario, Intesa-Sanpaolo, che a fine dicembre, prima dell'aumento di capitale, aveva un core tier 1 del 7,9%, presentava però in compenso una leva limitata a 22,1 volte, poco sopra il livello di UniCredit (21,5). Profilo di rischio, per le italiane, che si ridimensiona ulteriormente se si introduce nel mix degli ingredienti anche il peso dei derivati sul totale dell'attivo: Intesa è al 7%, UniCredit al 9,3%. Distanza siderale rispetto a Deutsche Bank, che guida la classifica delle banche più esposte ai derivati con una percentuale dell'attivo del 34,5%, e a Ubs (33,3%) e Royal Bank of Scotland (29,4%). Oltretutto, buttarsi sulle attività più rischiose 'paga' in termini estetici. Mediamente chi ha la leva alta, finanzia poco l'economia. Assume dunque meno rischi per l'attività creditizia tradizionale e fa meno fatica a mantenere pingui i ratio di vigilanza. Caso-tipo quello di Deutsche Bank che ha una leva molto elevata, pari a 54,3 volte, la minima esposizione del campione verso il credito tradizionale (con gli impieghi verso clientela che rappresentano solo il 24% dell'attivo) e risk weighted assets (Rwa, portafoglio ponderato per il rischio, come calcolato ai fini dei parametri di vigilanza) che sono solo il 18% degli attivi totali. Vale a dire: per quanto riguarda la banca tedesca l'82% degli asset 'sfugge' alla misurazione dei rischi. Ciononostante, le attività classificabili come 'illiquide', che comportano perciò un'elevata esposizione ai 'pericoli' di mercato, superano abbondantemente il patrimonio netto tangibile (133% il rapporto tra asset di livello 3 e il capitale netto tangibile). Nel campione di banche considerate da ReS-Mediobanca è Dexia in realtà a presentare la leva più alta (66,8) e il maggior livello di attività illiquide (619% del patrimonio netto tangibile): la banca belga però ha anche un'esposizione elevata sull'economia, con il 62% del totale dell'attivo spiegato dai crediti alla clientela. Le banche italiane sono invece allineate alla media delle tradizionali: leva intorno a 22 volte, Rwa pari a circa la metà degli attivi, attività illiquide relativamente contenute (12% del patrimonio netto tangibile per Intesa, 25% per UniCredit). La riforma dei parametri di vigilanza (Basilea 3, che andrà a regime a fine decennio) fa tesoro delle criticità emerse finora: introdurrà infatti criteri per tener conto della leva e renderà la ponderazione degli asset a rischio più sensibile alle attività finanziarie oggi sottostimate. Fuori dall'eurozona, il concetto della leva è già stato introdotto nelle 'misurazioni' di alcune banche centrali. Con risultati, tuttavia, non sempre all'altezza delle attese. In Canada (dove, semplificando, si può dire che il tetto alla leva è di 20 volte) il sistema ha tenuto. In Svizzera e Stati Uniti (leva massima 33, in entrambi i casi), un po' meno. C'è da dire che l'approccio della Confederazione elevetica è singolare: dall'attivo a rischio si detraggono infatti tutti i prestiti concessi ai residenti.

La classifica dell'Irpef per i comuni d'Italia (20 giugmo 2011).
Nella classifica che si ricava dai dati elaborati dall'Ifel, il centro studi dell'Anci, sull'Irpef pagata allo Stato, dagli abitanti degli 8.094 comuni italiani, in testa alla graduatoria, inarrivabile, figura un comune della provincia di Milano, Basiglio. Il quale, alla pari di Cusago, deve quella posizione a Berlusconi. Perché molti dei suoi 8 mila concittadini (un numero decuplicato fra il 1981 e il 2001) abitano a Milano 3, quartiere costruito proprio da Berlusconi. E non è un caso che Il Sole 24 Ore lo abbia classificato, sulla base dei dati delle Finanze sulle addizionali locali, come il Comune più ricco d'Italia, con 51.803 euro l'anno. Al terzo posto c'é Cusago dove la ricchezza è arrivata qando la Edilnord dei Berlusconi ha costruito "Milano Visconti", fotocopia ridotta di Milano 2 e Milano 3 che dà rifugio ai paperoni d'Italia. Sporting privato, servizio di vigilanza, giardini curatissimi e tanto verde». Ecco il segreto che ha spinto la piccola Cusago ai vertici dei Comuni italiani i cui residenti pagano più tasse.. Ma sono i numeri sull'Irpef statale pagata nei capoluoghi di provincia a rivelare molte sorprese. Nella classifica ottenuta con i dati Ifel, Milano è al dodicesimo posto assoluto fra tutti i comuni italiani. Prima dei capoluoghi, con 6.357 euro pro capite. E precede altre tre città lombarde: Bergamo (5.202), Monza (5.172) e Pavia (5.065). Più indietro c'è Roma, con 4.350 euro a residente. Ogni romano paga allo Stato il 68,5% dell'Irpef versata da ciascun milanese. Però è una cifra analoga a quella che pagano gli abitanti di Varese Superiore anche al dato di Bolzano (4.263 euro). E, ancora più nettamente, a quello di Gallarate (3.943). Meno Irpef statale rispetto agli abitanti della capitale viene pagata anche in altri capoluoghi del Nord. Per esempio Mantova (4.262), Lecco (4.235), Lodi (4.223). Ma anche Modena (4.176), Brescia (4.131), Como (4.003), Piacenza (3.862), Sondrio (3.842), Verona (3.810), Cremona (3.764). In questa graduatoria la prima città non appartenente al Centro Nord si incontra in posizione 29: è Cagliari, con 3.738 euro. Interessante notare che in capoluoghi come Alessandria, Forlì o Ravenna, l'Irpef pro capite pagata allo Stato è metà di quella di Milano. Più o meno come a Caserta, che con 3.100 euro è il grosso centro del Mezzogiorno continentale i cui cittadini versano più tasse. Anche se nella Provincia casertana, dove lavorano in nero nell'agricoltura e nell'edilizia decine di migliaia di immigrati, la situazione è completamente diversa. Qualche esempio? A Marcianise l'Irpef procapite è di 1.295 euro. A Castel Volturno, 958. A Villa Literno, appena 706. Per non parlare di Casal di Principe, paese della sanguinaria cosca camorrista dei casalesi, dove orribili palazzine spuntano come i funghi e ogni abitante paga ancor meno: 688 euro. Quasi un decimo di Milano. C'è da dire che ci sono capoluoghi di provincia non molto distanti da quei livelli. Colpiscono i dati della Bat, acronimo che sta per Barletta, Andria e Trani. Tre città di una Provincia nuova di zecca, nessuna delle quali ha voluto cedere alle sue concorrenti nemmeno la sigla. Nonostante il territorio provinciale inventato di sana pianta non conti in tutto che dieci Comuni. Ebbene, Andria è fra i capoluoghi di Provincia italiani quello che versa allo Stato l'Irpef procapite più modesta in assoluto: 1.081 euro, contro i 1.268 di Barletta e i 1.671 di Trani. Al di sotto anche delle più «povere« città della Sardegna elette recentemente a Provincia, come Tortolì, Lanusei e Iglesias. E tre volte meno del Comune meridionale con l'Irpef statale più elevata. È San Gregorio di Catania, centro che al pari di Basiglio ha registrato una crescita demografica pazzesca (fra il 1971 e il 2001 è passato da 3.860 a 10.386 residenti) i cui abitanti pagano ciascuno 3.567 euro. Paese, lo definisce l'enciclopedia online Wikipedia, «ricco di attività commerciali e professionali». Al punto da collocarlo nella graduatoria delle tasse statali sulle persone fisiche, nettamente davanti al suo capoluogo Catania (2.116 euro), un tempo battezzata «Milano del sud». Com'era prevedibile, la classifica degli 8.094 comuni è divisa a metà: quella superiore è dominata dal Nord, quella inferiore dal Sud. Se fosse necessaria una dimostrazione ulteriore di come il Paese sia economicamente spaccato in due (gli ultimi dati dell'Istat dicono che nel 2010 il Mezzogiorno è rimasto praticamente fermo, mentre il Nord Est cresceva a un ritmo superiore al 2%), eccola. Anche se le ultime due posizioni sono paradossalmente occupate da due paesini della Provincia di Como. Si tratta di Val Rezzo, dove nel 2009 si sono pagati soltanto 190 euro procapite di Irpef statale, e Cavargna: 329 euro.

Catricalà: liberalizzazioni al palo (21 giugno 2011).
Le riforme sono bloccate e le liberalizzazioni sono «scivolate via dalle priorità dell'agenda politica». Suona l'allarme il presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà, che nella sua relazione annuale alla Camera torna ad avvertire il governo «a chiare lettere che senza concorrenza è a rischio la vitalità, già compromessa, del sistema economico». L'Autorita, ha detto Catricalà, «ha dovuto denunciare pericolosi tentativi di chiusura dei mercati dettati dagli interessi particolari in settori come le farmacie, le assicurazioni, alcune professioni, i trasporti». Inoltre, «il primo disegno di legge sulla concorrenza non ha mai visto la luce». Questo ritardo, ha insistito il Garante, «è grave; rallenta il processo di ammodernamento del Paese; fa perdere fiducia agli imprenditori che vogliono sfidare i monopolisti e agli stessi controllori. Deve essere recuperato il tempo perduto». Ferrovie, gestioni autostradali e aeroportuali, governance bancaria e assicurativa «restano i settori sui quali è prioritario introdurre assetti di mercato realmente competitivi che possano agevolare la ripresa della crescita». Troppo spesso, è la requisitoria di Catricalà, «le nostre richieste di intervento legislativo vengono ignorate, come è accaduto in sei anni di applicazione della legge sul conflitto di interessi». «Abbiamo contrastato le lusinghe del neostatalismo rinvigorite in Europa dalle recenti crisi: non crediamo che si possa attribuire a una burocrazia illuminata il potere di guidare le sorti dell'economia». L' Autorità, ha detto Catricalà, ha svolto con rigore il ruolo di pungolo della politica affinchè i ritardi venissero recuperati e ha attivato tutte le leve a disposizione per favorire l'apertura dei singoli mercati; ha agito nella convinzione che la concorrenza non sia un lusso da concedersi solo durante i cicli economici espansivi ma diventi strumento indispensabile nei periodi difficili per sostenere la ripresa e difendere i consumatori». Giova ricordare che con i referendum del 12 e 13 giugno 2011 gli italiani, spensieratamente, hanno votato Sì, perpetuando il monopolio della Pa sulla gestione dell'acqua, e il triste rito delle spartizioni tra i partiti delle poltrone che ciascuna municipalizzata consente. Niente liberalizzazione del settore e quindi: costi e canoni più alti, inefficienze, impossibilità di effettuare investimenti significativi e difesa del record europeo del Paese con le più alte perdite delle reti di distribuzione dell'acqua.

Tremonti: tagli ai ministeri (21 giugno 2011).
La parola magica è «costi e fabbisogni standard», il principio introdotto con il federalismo fiscale per gli enti locali. Il meccanismo è semplice: un soggetto terzo analizza le spese delle amministrazioni (nel caso dei Comuni sarà la Sogei), stabilisce i criteri in base ai quali definire dei tetti, quindi applica quei limiti di spesa a tutti gli uffici. La manovra che il governo approverà alla fine del mese allargherà il principio a tutte le amministrazioni, compresi i ministeri. «Credo che nella manovra verrà inserita una disposizione che ricalchi l’idea dei fabbisogni standard», spiegava ieri il presidente della Commissione di attuazione per il federalismo fiscale, Luca Antonini. L’obiettivo è superare i cosiddetti «tagli lineari», vale a dire le riduzioni di spesa che colpiscono in modo indiscriminato. Nel caso dei ministeri, la definizione dei criteri sarà demandato a un «nucleo di valutazione» presso la Ragioneria. Il lavoro non sarà semplice ma promette risparmi importanti: nella bozza di manovra che circola al Tesoro, la misura garantirebbe cinque miliardi di euro di risparmi nel biennio 2013-2014. L’avvertimento di Moody’s, e la minaccia di tagliare il rating italiano, ha fatto accelerare il lavoro di messa a punto del decreto. Per evitare contraccolpi sui mercati, innervositi dalla crisi greca, Giulio Tremonti porterà il provvedimento in consiglio dei ministri il prima possibile. L’unica certezza è la correzione necessaria ad azzerare il disavanzo nel 2014: tre miliardi per finanziare spese obbligatorie quest’anno (fra queste le missioni all’estero), altri 6-7 miliardi nel 2012, almeno 30 miliardi nel biennio 2013-2014. Se le previsioni di crescita saranno rispettate, questa tabella di marcia dovrebbe permettere all’Italia di raggiungere entro la fine di quest’anno il deficit al 3,9%, al 2,7% nel 2012 e così via fino al «close to balance» (il quasi pareggio di bilancio) a fine 2014. Per nostra fortuna, prima di formulare un giudizio definitivo su un Paese in «warning» («avvertito») le agenzie di rating concedono un comodo lasso di tempo. Nel caso di Moody’s il tempo a disposizione è novanta giorni. Se c’è un monito da temere è quello delle agenzie di rating: il minimo declassamento dei titoli italiani costerebbe al Tesoro un aumento vertiginoso degli spread, e di conseguenza del costo necessario a finanziare il debito pubblico. Non sentono ragione i Comuni i quali, riuniti ieri a Ischia, hanno chiesto di evitare nuovi tagli: l’Anci ne ha stimati per altri due miliardi di euro. Più cauti i vertici di Cisl e Uil: ieri i leader Bonanni e Angeletti hanno lanciato una proposta di riduzione delle imposte a costo zero ed hanno glissato sul no all’aumento dell’età pensionabile delle donne del settore privato a 65 anni. Non è chiaro se quel giudizio cambierà: di certo, a fronte di nuove misure anti-evasione o un taglio drastico dei costi della politica, il loro atteggiamento potrebbe mutare. Quali che siano le questioni sulle quali trattare, per Tremonti a questo punto quel che conta è procedere rapidamente. Se si materializzasse il default della Grecia, il prezzo che rischiamo di pagare è alto. Intervento di Marcegaglia a Torino. Bisogna approvare il prima possibile» la manovra da 40 miliardi e «contemporaneamente andare avanti su una serie di provvedimenti per aiutare la crescita, tra cui la manovra fiscale che pensiamo debba essere a parità di pressione fiscale complessiva». Lo ha affermato la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, all’Unione Industriale di Torino dove si svolge l’assemblea degli imprenditori subalpini. «In questo momento molto delicato dove è in discussione il piano di salvataggio della Grecia, Moody’s ha dato un avvertimento all’Italia. Diventa essenziale approvare il prima possibile la manovra da 40 miliardi che è nel piano nazionale delle riforme ed è stata approvata dal Parlamento e dalla Commissione Europea. Contemporaneamente deve andare avanti una serie di provvedimenti che possono aiutare la crescita, tra cui la manovra fiscale, e bisogna abbassare le tasse su imprese e lavoro dipendente, magari rialzando la tassazione sulle rendite finanziarie, lavorando sull’assistenza e su qualche lieve aumento delle aliquote Iva. Sono cose che devono andare di pari passo». Marcegaglia ha ribadito che «noi abbiamo sempre chiesto la contemporaneità delle due cose: rigore e crescita». E proprio su quest’ultimo punto, ha parlato della necessità di «andare avanti anche su una serie di provvedimenti che possono aiutare la crescita».

Considerazioni sulla crisi greca (21 giugno 2011).
La Merkel e Sarkozy, all’esplosione della crisi greca, si trovavano con le maggiori banche tedesche e francesi piene di titoli greci, ad alto rendimento e dunque a guadagno facile. I due terzi dell’esposizione pubblica greca era nei loro confronti, mentre le banche italiane erano state giustamente assai più prudenti. Tra novembre 2009 e febbraio 2010, sarebbe stato possibile e anzi necessario avviare la Grecia, d’intesa con il Fondo Monetario, a una ristrutturazione del proprio debito, delle sue scadenze e anche delle sue rate, con una perdita di capitale per le banche prestatrici nell’ordine del 15-20%. Berlino e Parigi hanno rifiutato. In cambio di 105 miliardi di euro prestati dagli euromembri e dal FMI, la Grecia è stata obbligata a una manovra durissima di rigore che l’ha spinta a perdere quasi 6 punti di Pil. Il tasso d’interesse degli aiuti avrebbe dovuto essere compatibile col tasso di crescita del Pil greco, ma per non rimetterci un euro né dei titoli precedenti acquistati da francesi e tedeschi né delle somme prestate, il suo rendimento reale è invece del 5% in più rispetto ai tassi europei. Anche un bambino capisce che, in queste condizioni, comunque la Grecia in recessione non avrebbe potuto onorare né il nuovo debito in scadenza – sono circa altri 145 miliardi di euro entro il 2014 – il cui prezzo sarebbe schizzato alle stelle, né tanto meno gli interessi sugli aiuti ricevuti. E’ puntualmente avvenuto. La Grecia ha subito in questi mesi ben tredici abbassamenti successivi del suo rating, e ormai i suoi titoli decennali pagano il 15% in più rispetto ai Bund tedeschi. Alla Grecia servono oggi altri 110 miliardi, di cui 25-30 da una nuova manovra di rigore che ha fatto saltare il governo Papandreou, e il resto suddiviso tra Europa e Fmi. La crisi ha fatto schizzare verso l’alto anche i rendimenti pubblici dei titoli irlandesi e portoghesi. Perché il mercato scommette che in nessun modo possa funzionare la strategia franco-tedesca, non rimetterci un euro consentendo alle banche rispettive di disintermediare i titoli greci e rinviare la soluzione finale al 2013, cioè dopo le elezioni tedesche alle quali raccontare che Berlino non paga per gli errori degli altri, e quando finalmente nascerà il nuovo veicolo europeo Esm per fronteggiare con capitali comuni crisi simili.

Moody's: possibili tagli dei rating all'Italia (21 giugno 2011).
Tutti gli osservatori l'avevno previsto: la crisi greca avrà ripercussioni sull'Italia. E forse c'è una prima conseguenza. Moody’s ha messo sotto osservazione il rating di 23 fra regioni, province e città italiane, dopo aver assunto la stessa decisione per alcune delle principali società pubbliche italiane: Enel, Eni, Finmeccanica, Poste e Terna. Anche in questo caso il significato è il possibile downgrade. La decisione è una diretta conseguenza della messa sotto osservazione del rating sovrano dell’Italia il 17 giugno. L’azione di mettere sotto osservazione il rating di regioni, province e città, fa seguito a quella di «mettere sotto osservazione il rating Aa2 dell’Italia per un possibile downgrade il 17 giugno 2011. I motivi che hanno portato alla revisione sono: le sfide per la crescita, date le debolezze macroeconomiche strutturali e il possibile aumento nel tempo dei tassi di interesse; i rischi nell’attuazione dei piani di risanamento che sono richiesti per ridurre lo stock del debito italiano; e i rischi posti dal cambiamento delle condizioni di finanziamento per i paesi europei con alti livelli di debito». Le Regioni coinvolte nella messa sotto osservazione sono: Basilicata, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Marche, Sicilia, Toscana Umbria e Veneto. Le province sono: le autonome Trento e Bolzano, Arezzo, Bologna, Firenze, Genova, Milano e Torino. Le città sono: Bologna, Milano, Siena e Venezia. A essere interessate alla revisone sono anche la Cassa del Trentino e Finlombarda. «Per le province autonome di Trento e Bolzano e per la regione Lombardia, la revisione si focalizzerà sui fattori istituzionali che hanno consentito ai loro rating di restare sopra al livello nazionale» mette in evidenza Moody’s, ricordando che Trento e Bolzano hanno un rating Aaa e la regione Lombardia Aa1. «Per Trento e Bolzano questo include lo status costituzionale unico che consente loro un grado di isolamento dai fattori macroeconomici e finanziari che impattano sul rating sovrano». «La Lombardia non ha uno status costituzionale speciale di provincia autonoma, è la maggiore regione italiana e rappresenta il 20% della produzione economica nazionale. Ha mantenuto una perfomance finanziaria molto forte negli ultimi anni». «La nostra azione riconosce i legami fra lo stato e i governi regionali e locali. In Italia, il settore pubblico locale rappresenta il 30% delle spese del governo e dovrà contribuire agli sforzi per raggiungere gli obiettivi di bilancio». Moody’s osserva che i governi regionali e locali hanno navigato «la crisi senza un significativo deterioramento dei conti. Comunque non sono immuni dalle condizioni del credito sovrano e potrebbero essere esposti, a vari gradi, alle condizioni macroeconomiche del paese».

Confindustria: vede al ribasso la crescita (23 giugno 2011).
Il Centro studi di Confindustria rivede al ribasso la stima di crescita per il 2011 allo 0,9% (dall'1,1% di dicembre) e avverte che, senza riforme strutturali, nel 2012 il Pil accuserebbe un'ulteriore frenata, portandosi a +0,6% rispetto alla stima dell'1,1%. Per coniugare un incremento del Pil solo di poco superiore all'1% - dice il direttore del CsC Luca Paolazzi - e il totale rispetto degli impegni assunti in sede europea sui conti pubblici, sono indispensabili subito riforme capaci di rafforzare la fiducia di famiglie e imprese e innalzare le rispettive propensioni a consumare e investire". Quelli che Confindustria chiama i "campi da dissodare" sono: semplificazione e sburocratizzazione, accelerazione delle realizzazione di opere pubbliche, liberalizzazioni e apertura del mercato in molti servizi, formazione, efficienza della pubblica amministrazione, contrasto all'evasione, riforma fiscale che alleggerisca il carico sui redditi da lavoro e impresa e lo sposti su altri guadagni e consumi. L'alternativa non é difficile da immaginare: diverebbero necessarie manovre aggiuntive che il Governo stesso - ha ricordato Paolazzi - calcola cumulativamente nell'1% del Pil al 2014, cioé altri 18 miliardi oltre ai 39 scritti nei documenti ufficiali. Il CsC - ha concluso Paolazzi- confida che verrà effettuato tutto quanto serve e perciò stima per l'anno venturo contemporaneamente un aumento del Pil dell'1,1% e un deficit pubblico ricondotto al 2,8%, a sancire il sostanziale raggiungimento dei target di finanza pubblica". L'indebitamento quest'anno é atteso al 3,9% del Pil, mentre il debito salirebbe al 120,1% per attenuarsi al 119,8% l'anno venturo. Nella tabella che segue sono esposte le previsioni formulate dal Centro studi di Confindustria sull'economia italiana (variazioni percentuali)
.................................2009 2010 2011 2012
Prodotto interno lordo ..........-5,2 1,3 0,9 1,1
Consumi delle famiglie residenti -1,8 1,0 0,8 1,0
Investimenti fissi lordi ........-11,9 2,5 1,6 2,5
Esportazioni di beni e servizi ..-18,4 9,1 5,7 5,0
Importazioni di beni e servizi ..-13,7 10,5 6,0 4,7
Saldo commerciale (1) 0,1 -1,3 -1,8 -1,6
Occupazione totale (ULA) ........-2,9 -0,7 -0,2 0,6
Tasso di disoccupazione (2) 7,8 8,4 8,4 8,3
Prezzi al consumo .................0,8 1,5 2,6 2,0
Retribuzioni totale economia (3) 1,8 2,1 1,7 1,8
Saldo primario della PA (4) -0,7 -0,1 0,8 2,2
Indebitamento della PA (4) 5,4 4,6 3,9 2,8
Debito della PA (4) 116,1 119,0 120,1 119,8
(1) Fob-fob, valori in percentuale del Pil (2) Valori percentuali (3) Per addetto (4) Valori in percentuale del Pil
L'inflazione è attesa al 2,6% quest'anno, dice il Centro Studi di Confindustria, rivedendo al rialzo la stima rispetto a dicembre (1,8%) per via dei rincari energetici e dei beni alimentari. I prezzi al consumo, che erano all'1,5% nel 2010, dovrebbero portarsi al 2% l'anno venturo. Contemporaneamente i consumi "continueranno a incedere lentamente: +0,8% nel 2011 e +1% nel 2012. Anche perché le famiglie hanno scarsi mezzi a cui attingere, giacché in questi anni - rileva il direttore del CsC Luca Paolazzi - hanno smentito la loro proverbiale parsimonia, pur di difendere gli standard di vita. Il tasso di risparmio netto é sceso al 6,1% nel 2010; era superiore al 20% all'inizio degli anni '90". "Se la Bce porterà al 2,25% i tassi entro fine 2012, gli oneri per interessi pagati dalle famiglie sui mutui risulteranno aumentati di 4,2 miliardi, 1.945 euro a nucleo". Lo indica il Centro Studi di Confindustria nei nuovi "Scenari economici" presentati oggi. "Quelli sostenuti dalle imprese - aggiunge il CsC - saranno di 16,7 miliardi più elevati, una volta completato il rinnovo di tutti i prestiti, di cui 6,3 entro l'anno venturo". Sono 582mila le persone che con la crisi, dal primo trimestre 2008 al primo trimestre 2011, hanno perso il posto di lavoro. Lo dice il Centro studi di Confindustria, secondo il quale il tasso di disoccupazione quest'anno si attesterà all'8,4% e nel 2012 sarà all'8,3%. "La prognosi sulla salute del mercato del lavoro non può essere sciolta - dice il CsC - e questa non è una peculiarità italiana". La Cig, rileva il CsC, "insieme agli strumenti di flessibilità dell'orario lavorativo, ha molto attenutato la perdita di posti di lavoro": la diminuzione della domanda di lavoro avrebbe coinvolto 1,1 milioni di persone. Alla fine dell'anno prossimo, spiegano gli economisti del CsC, la domanda di lavoro "sarà ancora inferiore di 840mila unità rispetto all'avvio della caduta e i posti mancanti risulteranno pari a 453mila. Parte della differenza sarà costituita da 190mila unità assorbite dalla Cig, da cui é più difficile tornare all'impiego se si è over-50 o residenti al Sud. Non può essere diversamente con una produttività che dovrà recuperare ancora il 2,7% rispetto al picco pre-crisi e un clup che é del 6,3% più alto". L'occupazione, per il CsC, "potrà aumentare solo con crescita forte, altra valida ragione per varare presto le riforme già chiamate in causa dal binomio inscindibile risanamento-crescita".

Confcommercio e le tasse (23 giugno 2011).
Chi evade, e chiunque aiuti a evadere, mina le fondamenta del patto di stabilità e agisce contro la crescita, ma va ascoltato e capito. A chiederlo il presidente della Confcommercio Carlo Sangalli nella relazione all'assemblea annuale. Occorre «ascoltare e capire le ragioni - dice - di chi davvero non ce la fa più a pagare troppe tasse. È gente che non conosce l'indirizzo dei paradisi fiscali, ma che sente sulla propria pelle il morso della crisi. Non meritano di essere tutti bollati come evasori e di essere condannati alla chiusura delle loro imprese». Per Sangalli, si deve procedere con determinazione sulla strada del contrasto e del recupero dell'evasione: «Un imponibile evaso per almeno 255 miliardi è una tremenda ipoteca per la crescita del Paese». L'obiettivo del governo di deficit zero, nel 2014, è «giusto e giustamente ambizioso», ma «richiederà, tra l'altro, una manovra correttiva dell'andamento dei conti pubblici pari, nel biennio 2013-2014, a circa 2,3 punti di Pil». Durante la sua relazione all'Assemblea annuale di Confcommercio, Sangalli apprezza poi che il programma di riforma muova dal «presupposto dell' inderogabilità della stabilità finanziaria per delineare, poi, il quadro delle azioni che, in coerenza con gli obiettivi dell'agenda di Europa 2020, dovrebbero rimuovere i i colli di bottiglia che frenano la crescita dell'Italia». In tema di riforma fiscale, però, «se si ipotizza una sorta di scambio, per esempio, tra la riduzione delle aliquote Irpef e l'innalzamento delle aliquote Iva, siamo assolutamente contrari», ha detto Sangalli. Tra i principi della annunciata riforma vi è il «graduale spostamento dell'asse del prelievo fiscale, dalle imposte dirette alle imposte indirette. Se con ciò si vuol dire che occorre concentrarsi sul recupero di un'evasione Iva pari a circa 2,5 punti di Pil, siamo assolutamente d'accordo». Secco no, invece, a misure che alimenterebbero l'inflazione e colpirebbero i consumi delle famiglie. Sangalli propone invece di avanzare «lungo la strada della riduzione dell'evasione e della spesa pubblica, di affrontare anche la questione di una tassazione delle rendite finanziarie di standard europeo e fissare intanto, annualmente e per legge, la frazione di gettito derivante dalla lotta all'evasione e all'elusione da destinare, nell'esercizio fiscale successivo, a riduzione delle aliquote legali». «Non è assolutamente intenzione del Governo costruire la riforma fiscale su un incremento dell'Iva. Sarebbe uno strumento che frena la crescita mentre serve un forte stimolo alla domanda interna» ha assicurato in tutta risposta il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, parlando all'assemblea. «Comprendo la vostra preoccupazione sulla riforma fiscale», ha spiegato Romani, riferendo che su questo impegno c'è «la testimonianza diretta del presidente del Consiglio». Sangalli ha chiesto anche di essere più espliciti e più impegnativi sul federalismo fiscale che «è rimasta un'occasione storica per raddrizzare "l'albero storto" della finanza pubblica» e per il quale bisogna rendere più chiaro come e in che misura concorrerà al controllo e alla riduzione tanto della spesa pubblica, quanto della pressione fiscale, perchè, altrimenti, quel che resta chiaro è il costo - giusto per fare qualche esempio - delle maggiori addizionali Irpef, delle imposte di scopo e della reintroduzione della tassa di soggiorno, dell'impatto dell'Imu sugli immobili strumentali delle imprese, dell'aumento dell'Imposta Provinciale di Trascrizione per i veicoli. Per il presidente di Confcommercio, inoltre, la realizzazione del federalismo fiscale deve sempre più connettersi con la «madre di tutte le riforme», quella fiscale.

L'opinione di Soros sull'Euro (27 giugno 2011).
L'Europa dovrà introdurre presto un meccanismo che consenta alle economie più deboli a uscire dall'euro. Lo ha detto il finanziere George Soros ieri a un panel a Vienna dove ha definito questa prospettiva «nelle attuali circostanze, probabilmente inevitabile», come riporta l'agenzia Bloomberg. Per Soros, 80 anni, creatore e presidente del Soros Fund Management con oltre 28 miliardi di dollari di asset, «siamo vicini a un disastro economico che dovrebbe iniziare, possiamo dirlo, in Grecia, ma che potrebbe facilmente espandersi. Il sistema finanziario rimane estremamente vulnerabile» Sui mercati pesano i timori che la Grecia (terzo paese a ricevere gli aiuti internazionali oltre a Irlanda e Portogallo) non approvi il nuovo piano di austerità, necessario per ottenere nuovi fondi ed evitare il default. Una preoccupazione che ha spinto l'euro ai minimi storici contro il franco svizzero nella settimana appena trascorsa. «Credo che la maggior parte di noi sia concorde nel vedere nell'euro la crisi dell'Europa», ha precisato Soros. «È un tipo di crisi finanziaria in continua evoluzione. Una crisi attesa. Molti se ne sono accorti. Le autorità stanno cercando di prendere tempo, ma questo giocherà a loro sfavore». Soros è diventato famoso oltre che ricchissimo per avere scommesso nel 1992 un miliardo di dollari contro la sterlina che in effetti, prima dell'arrivo ell'euro, ha dovuto uscire dall'allora sistema di cambi europeo. Quello di ieri non è stato il suo primo allarme. Già lo scorso gennaio al World Economic Forum di Davos in Svizzera, Soros aveva manifestato preoccupazione per la tenuta della moneta unica sollecitando le autorità europee ad affrontare il problema della loro economia a due velocità, pena il collasso dell'euro. Il piano B - Se la Grecia non dovesse approvare il piano di austerità da 78 miliardi di euro, il rischio default con contagio a Irlanda, Spagna e Portogallo diventerebbe molto concreto. Ma siccome la sopravvivenza dell'euro, secondo Soros, «è vitale per tutti noi» per affrontare la crisi «è necessario un piano B alternativo che al momento non esiste» e che potrebbe richiedere «più tasse e garanzie per il sistema bancario da parte delle istituzioni europee». Evidentemente Soros non la pensa in modo molto diverso dal nostro Tremonti.

Riprende la vergogna dei NO TAV (27 giugno 2011).
Chi abbiamo visto per l’ennesima volta con caschi, mazze e pietre opporsi alle forze dell’ordine in località La Maddalena a Chiomonte, nulla che abbia a che vedere con la serietà e la pacatezza che andrebbero riservate alla decisione di aprire un primo cantiere per un’opera di questa importanza. La TAV Torino-Lione ha finito per rappresentare da anni l’ennesima trincea del no pregiudiziale a opere e infrastrutture, investimenti e scommesse di grande respiro su direttrici di svilupo che impegnino grandi capitali e scelte hard invece che soft, in termini tecnologici, architettonici e di impatto ambientale governabile. Bisogna uscire da questo blocco avanzato non più per modificare il tracciato e l’impatto della TAV, perché nel frattempo siamo alla terze versione del progetto e quello attuale risparmia ben 4 miliardi di euro sul precedente, ci consente di tornare a un bilanciamento 50 e 50 dei costi coi francesi, riduce a meno di un terzo gli 81 chilometri di scavo originariamente previsti. Tutto questo rispetto al secondo progetto, definito tra 2005 e 2008 in un lunghissimo confronto con tutte le realtà locali e associative realizzato dall’Osservatorio tecnico guidato dal pazientissimo commissario di Governo Mario Virano. Quel progetto indusse comunque a proteste violente riprese nel 2010, e oggi siamo alla ripresa in grande stile dell’antagonismo di fronte alla terza variante. Si mira a perdere per sempre la prima quota di finanziamento europea, di 671 milioni, in modo da far cadere per sempre la possibilità che il Corridoio 5 colleghi Lione e Torino sull’asse ovest-est. Nel mentre un’alternativa possibile – quella Nizza-Genova-Milano – è anch’essa bloccata dallo stallo sul Terzo valico dei Giovi, senza del quale le prospettive del porto di Genova sono una lunga morte per anoressia. Significa rinunciare al collegamento diretto dello scalo merci di Torino Orbassano al corridoio europeo, significa rinunciare a inserire la gronda merci di Torino Nord nell’Alta velocità con Milano attraverso l’inserimento con l’innesto di Settimo Torinese. Pr il solo indotto automotive torinese, significa escludersi da una grande possibilità di abbattimento dei costi per gli anni a venire, proprio mentre ci interroghiamo tutti sulle scelte di Fiat e sui no della Cgil, tanto per cambiare. Da decenni realizzare grandi opere in Italia è diventato sempre più proibitivo. Il Titolo V della Costituzione ci ha aggiunto del suo. Perché oltre a una disciplina insensata delle conferenze di servizio il testo della Costituzione fa codecidere alle Autonomie le opere, in assenza di quella “clausola di supremazia” per le opere di interesse nazionale che esiste invece in ogni ordinamento, anche in quelli più federalisti, dagli Stati Uniti alla Germania. Capita così che i no-Tav si sentano investiti di una missione in nome di uno sviluppo “altro e diverso”, e che i giudici amministrativi diano loro una mano come a Porto Tolle, e che Regioni sprovviste di competenze tecniche mettano l’intero Mezzogiorno in condizioni di aver impegnato al febbraio scorso solo il 9% delle decine di miliardi di euro riservate per opere infrastrutturali e sviluppo al Sud entro il 2013. Tutto ciò merita un solo sostantivo: pazzia. Un Paese incapace di avere norme in linea con i tempi dei concorrenti, è un Paese perduto. Un Paese le cui norme sono perdute, perde anche la testa e il cuore dei suoi cittadini, che sempre più spesso nella più perfetta buonafede pensano che non fare nulla sia meglio di qualunque cosa, perché dietro chissà quali innominabili interessi vi si celano. Nella fiducia pubblica azzerata, ragliano gli asini.

CINA: pronta a sostenere l'Europa (28 giugno 2011).
«Se l'Europa é in difficoltà la aiuteremo. La Cina é disposta ad aiutare i Paesi a seconda delle loro necessità acquistando una certa quantità del loro debito pubblico». Così il premier cinese Wen Jiabao nel corso della sua visita in Germania. «L'obiettivo é aiutare la ripresa dell'economia europea», ha proseguito Wen Jiabao, che ha ribadito: «Le attuali difficoltà dell'Europa hanno una natura temporanea e possono essere superate gradualmente se verranno realizzate le riforme». Il premier cinese ha inoltre messo in guardia dall'aumento dell'inflazione nei Paesi industrializzati. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha accolto «con molto favore» il fatto che la Cina «sia molto interessata a un euro stabile. La Germania farà tutto il possibile perché aumenti la concorrenza di tutti i Paesi membri dell'euro, ma al tempo stesso rileva l'importanza di una adeguata solidarietà tra i Paesi membri». La Germania ha siglato con la Cina accordi per un valore di oltre 15 miliardi di dollari. Lo ha annunciato il premier cinese Wen Jiabao nel corso di una conferenza stampa congiunta con la cancelliera Angela Merkel. «I contratti firmati oggi rappresentano più di 15 miliardi di dollari», ha detto Jiabao. In totale sono stati sottoscritti 14 accordi, di cui 4 puramente commerciali, uno relativo a una collaborazione industriale tra Siemens e il Governo cinese e il resto su nuove collaborazioni tra i due Paesi. Gli scambi commerciali tra Cina e Germania si sono attestati a 130 miliardi di euro nel 2010 e puntano a raggiungere 200 miliardi nel 2015. Nell'ambito delle prime consultazioni tra Jiabao e Merkel, la Cina ha anche ordinato 62 apparecchi della famiglia A320 al costruttore europeo Airbus. Una commessa che secondo la stampa tedesca ha un valore superiore a 7 miliardi di euro. Inoltre Volkswagen si é impegnata a costruire un nuovo impianto in Cina con il suo partner locale Faw e intende realizzare un progetto per costruire una vettura elettrica con un partner cinese. La cancelliera Merkel ha dichiarato: «Sono d'accordo con Wen di approfondire sensibilmente i rapporti di investimento» tra Germania e Cina. L'economia tedesca ricopre già adesso un importante ruolo nel Paese asiatico con investimenti pari a oltre 20 miliardi. Merkel ha rilevato anche l'importanza di condizioni concorrenziali giuste tra i due Paesi, per esempio quanto alla tutela della proprietà intellettuale, gli aiuti pubblici ai crediti all'export e un libero e responsabile accesso alle materie prime: «Spero che approfondiremo ulteriormente la nostra stretta collaborazione su questi temi», ha affermato Merkel, esortando le imprese cinesi ad aumentare i loro investimenti in Germania. «Vorrei incoraggiare espressamente l'economia cinese ad impegnarsi in Germania ancora più di quanto fatto finora», ha aggiunto la cancelliera. Jiabao ha aggiunto che «Cina e Germania sono partner stretti» e ha espresso fiducia nella capacità dell'Europa di superare le attuali sfide, che ha definito "temporanee", poste dal problema Grecia. Jiabao si é anche soffermato sulla cruciale questione dei diritti umani. «Ci aspettiamo il rispetto della nostra sovranità, della nostra integrità territoriale e delle scelte autonome del popolo cinese», ha detto. Qualche decina di manifestanti ha anche protestato davanti alla cancelleria a Berlino chiedendo 'Libertà per il Tibet', mentre sono stati lanciati in cielo 300 palloncini neri in omaggio ai 300 monaci buddisti detenuti nella provincia cinese di Sichuan.

CORTE DEI CONTI: pareri sulla manovra economica (28 giugno 2011).
L'evoluzione dei conti pubblici italiani appare "positiva" rispetto ad altri paesi europei . Ma gli effetti della crisi ancora si fanno sentire. Il presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, ha lanciato un monito sulla manovra in occasione della presentazione della Relazione sul Rendiconto generale dello Stato per il 2010: «I tagli alla spesa pubblica per ridurre il debito non devono penalizzare la ripresa economica, e bisogna quindi cercare un «difficile punto di equilibrio» tra la riduzione del debito pubblico e il riordino della crescita economica. Sul fronte del personale dei ministeri la spesa complessiva risulta in riduzione tra il 2010 e il 2009 di circa un punto per cento. «La realizzazione del necessario contenimento della spesa corrente propone scenari quantitativamente ai limiti della sostenibilità. I tagli necessari per raggiungere il pareggio di bilancio sarebbero di dimensioni inconsuete: tra il 2012 e il 2014 la riduzione in termini reali sarebbe dell'8%, al netto degli interessi», ha detto il presidente di Sezione della Corte dei Conti, Luigi Mazzillo. «La sostenibilità di un percorso così impervio richiede la ricerca di strumenti in grado di recuperare condizioni per una crescita più sostenuta». La Corte critica i tagli non selettivi e il crollo della spesa per investimenti, che «nel 2012 toccherebbe il valore più basso degli ultimi decenni». La tempestività con la quale viene in questi giorni «proposta una nuova impegnativa manovra di finanza pubblica - ha sottolineato Mazzillo - dimostra che il Governo è ben consapevole di quanto, nel complesso, il percorso di aggiustamento strutturale dei conti pubblici si presenti gravoso e di grande complessità». «Improrogabile» la necessità di un intervento in materia fiscale «che riduca in misura significativa le aliquote sui redditi dei lavoratori dipendenti e pensionati», ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, Maria Teresa Arganelli, spiegando che «l'incremento del tasso d'inflazione potrebbe comportare ulteriori erosioni del potere d'acquisto con conseguente diminuzione del reddito reale delle famiglie e ulteriore contrazione del mercato interno». Il federalismo fiscale, ha rilevato il procuratore generale, si basa sul presupposto che «la sua attuazione avvenga a pressione fiscale invariata. Va però notato subito che sin da quest'anno é stata concessa la possibilità ai Comuni di elevare l'addizionale Irpef e istituire l'imposta di soggiorno». Dunque, ha spiegato Maria Teresa Arganelli, «in tal modo si aumenta, almeno nei Comuni che esercitano la facoltà», la pressione fiscale senza che vi sia a fronte un incremento dei servizi pubblici. In sintesi: improrogabile il taglio delle aliquote per dipendenti e pensionati, rigore nella manovra, ma stop ai tagli lineari, con l'obiettivo di recuperare una crescita più sostenuta, disboscamento di esenzioni e agevolazioni fiscali, allo studio del governo nell'ambito della riforma fiscale, non condivisibili i vincoli di bilancio per gli enti virtuosi che pagano le inefficienze degli enti che non hanno rispettato le regole.

Bozza di riforma fiscale (28 giugno 2011).
Il 2014 è l'anno in cui, oltre a raggiungere il pareggio di bilancio, dovrebbe intervenire un'altra sostanziale novità per il nostro paese: l'abolizione dell'Irap, imposta introdotta nel 1998 in sostituzione di sette imposte e contributi, e da allora oggetto di critiche e di pronunce della magistratura. Anche la Corte Costituzionale è stata investita della questione che ora, in seguito alla decisione del governo di stabilire una prima deducibilità del 10% del tributo, è di fatto sospesa. Di abolizione dell'Irap si parla da tempo, è prevista anche dal programma elettorale con cui l'attuale governo ha vinto le elezioni nel 2008, ma finora non se ne è fatto nulla per evidenti motivi di gettito: l'imposta vale ben 33,5 miliardi. Per 23,3 miliardi pesa sui privati, per 10,2 sulle amministrazioni pubbliche. Dunque una sua anche parziale abolizione impone di individuare le misure compensative, considerato che il gettito dell'Irap serve a finanziare la sanità. Ora l'intenzione programmatica di rimettere mano all'Irap torna nella bozza del disegno di legge delega, che sarà all'esame del Consiglio dei ministri insieme alla manovra da 45 miliardi. L'indicazione del 2014 quale data presunta per la soppressione del tributo non è casuale, poiché l'intenzione del governo è di collegare strettamente l'operazione al percorso di attuazione del federalismo fiscale. Dal 2013 cominceranno ad essere contabilizzati i risparmi (tra 4 e 6 miliardi) per effetto dell'applicazione dei costi standard nella sanità e della regola aurea del benchmark tra le Regioni migliori per spesa ed efficienza. A quel punto potrà cominciare a delinearsi il nuovo meccanismo di finanziamento a regime delle regioni. come previsto dal decreto legislativo sul fisco regionale. L'eventuale abolizione dell'Irap - confermano i tecnici dell'Economia - rientra in questo percorso. Il fisco immaginato nella delega si baserà su cinque tributi (Irpef, Ires, Iva, Imposta sui servizi e l'accisa). Per quel che riguarda l'Irpef si va verso una struttura del prelievo basata su tre aliquote: 20%, 30% e 40%, al posto delle attuali cinque (23% fino a 15mila euro, 27% da 15 a 28mila euro, 38% da 28 a 55mila euro, 41% da 55 a 75mila euro, 43% per i redditi superiori a 75mila euro). Decisiva sarà l'indicazione dei nuovi scaglioni cui applicare le tre aliquote, ma la questione sarà oggetto dei successivi decreti legislativi, attuativi della delega, calibrati in funzione delle risorse effettivamente disponibili. Nella bozza di ddl, ovviamente suscettibile di ulteriori modifiche e integrazioni, è previsto altresì l'incremento di un punto delle aliquote Iva del 10 e 20%, quale modalità di finanziamento della manovra sull'Irpef da affiancare al gettito atteso dal riordino e accorparmento delle attuali agevolazioni. Non è detto però che alla fine l'intervento sull'Iva verrà direttamente esplicitato nel ddl. Lo scambio Iva-Irpef vale attorno ai 10 miliardi, se ci si limita al taglio di tre punti dell'aliquota Irpef del 23%: intervento che dovrebbe costituire il primo step di una riforma immaginata per "moduli" successivi, sulla falsariga della vecchia delega del 2003. A regime, l'intera riforma dovrebbe comportare una manovra sul fisco attorno a 18-20 miliardi, a invarianza sostanziale di gettito. Secondo la Cgia di Mestre, le tre aliquote Irpef e l'aumento di un punto dell'Iva per le aliquote più alte, comporterebbe risparmi medi di imposta tra i 435 e i 573 euro. Il carnet del disegno di legge delega prevede – secondo i tecnici dell'Economia – oltre al bonus figli l'istituzione di un'imposta unica sui servizi, che nell'intento del ministro Giulio Tremonti dovrebbe sostituire un nutrito drappello di imposte: dal registro alle ipotecarie e catastali, dall'imposta di bollo alla tassa sulle concessioni governative, per finire con i contratti di borsa e le assicurazioni. L'aliquota unica del 20% sulle rendite finanziarie, con esclusione dei titoli di stato, compare tra le misure allo studio. Potrebbe essere inserita in manovra, oppure confluire nel testo del ddl delega, salvo poi essere anticipata a fine anno così da entrare in vigore a partire dal prossimo anno.

La manovra da 47 miliardi (28 giugno 2011)
Non più tagli lineari, ma dal 2012 un avvio di «spending review» per definire i «fabbisogni standard» di tutte le amministrazioni dello Stato. Se tuttavia si verificheranno scostamenti rilevanti degli obiettivi sarà il ministro dell'Economia a intervenire direttamente sugli impegni di spesa dei singoli ministeri «entro limiti percentuali determinati in misura uniforme rispetto a tutte le dotazioni di bilancio», oppure selezionando e ricalibrando le singole dotazioni. Tremonti però non avrà mano libera, visto che prima di intervenire con i tagli dovrà incassare una delibera formale del Consiglio dei ministri. Partirà in contemporanea una vera e propria stretta sull'utilizzo dei residui passivi: in particolare verrà soppressa la possibilità di conservare nel conto residui somme non utilizzate, perché vengano spese nell'esercizio successivo. Sono alcune delle novità della manovra per complessivi 47 miliardi, limitata a 1,8 miliardi per il 2011 e a 5,5 miliardi per il 2012, e dunque concentrata per gran parte nel biennio 2013-2014 così da raggiungere tra tre anni un deficit vicino al pareggio. Le consultazioni politiche preliminari di ieri a livello di maggioranza e di Governo confermano l'impianto della manovra che, dopo gli ulteriori ritocchi che saranno apportati nella giornata di oggi, sarà domani mattina all'esame del Consiglio dei ministri insieme alla delega fiscale. Intanto, nel confronto a Palazzo Chigi, il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti ha indicato ai colleghi dell'Esecutivo i tagli dei vari dicasteri per il piano triennale: per il 2011 la riduzione delle spese si assesterebbe sui 262 milioni, per il 2012 toccherebbe 1,4 miliardi, due miliardi e mezzo per il 2013 e quasi cinque miliardi per il 2014. Il grande assente della bozza fatta circolare ieri è l'intero capitolo della riduzione dei costi della politica, che comunque dovrebbe aprire il testo del nuovo provvedimento d'urgenza che sarà varato nelle prossime ore. Il quadro delle «spese indifferibili» per il inserite nella bozza del decreto legge mobilita nel totale 1,8 miliardi. In primo piano la proroga della partecipazione italiana alle missioni militari internazionali: vengono stanziati 700 milioni che integrano il finanziamento del primo semestre. Ulteriori 36,4 milioni vengono stanziati per assicurare anche nella seconda parte dell'anno il concorso delle forze armate alle attività di controllo del territorio, mentre 314 milioni vengono dirottati alle regioni «per le esigenze del trasporto pubblico locale». In questo stesso capitolo del decreto è inserita la norma che dispone l'introduzione di un sovrapprezzo al canone per l'alta velocità, così da consentire «uno sviluppo dei processi concorrenziali nel settore dei trasporti ferroviari». Ulteriori 200 milioni sono diretti al consentire l'adempimento degli impegni dello Stato italiano che derivano dalla partecipazione a banche e fondi internazionali. Infine, sono in arrivo 64 milioni per la gestione dei mezzi della flotta area della Protezione civile. Le analisi che dal 2012 dovranno portare l'Economia e la Ragioneria a individuare i fabbisogni standard per le singole amministrazioni centrali, serviranno ad evitare la duplicazione di strutture e allo stesso dovranno individuare le best practices da esportare. Fabbisogni che dall'anno successivo dovranno essere rispettati sulle base di piani triennali per il superamento della spesa storica sulla base di valori peredeterminati secondo una tabella allegata al decreto (la bozza non la prevede ancora). Per chi non lo farà, scatterà ancora una volta la scure dei tagli lineari. A fare eccezione saranno i fondi per il finanziamento ordinario delle università, nonché le risorse destinate alla ricerca, all'istruzione scolastica e al finanziamento del 5 per mille dell'Irpef. Nel processo di razionalizazione della spesa pubblica un ruolo strategico, secondo i tecnici di via XX Settembre, sarà affidato alla centralizzazione degli acquisti. Aziendalizzazione della Croce rossa italiana, federalizzazione dell'Anas, commissariamento dell'Istituto sul credito sportivo e accorpamento dell'istituto Luce e Cinecittà. Ancora tutta da scrivere, invece, la norma sull'Istituto per il commercio estero di cui nei giorni scorsi si ipotizzava la soppressione. La razionalizzazione degli enti pubblici partirà, dunque, dalla Croce rossa: dal 1° gennaio 2012 la Cri svolgerà la sua attività in regime di diritto privato come associazione umanitaria a carattere volontario. Dal 1° gennaio 2012, infine, dalle ceneri di Anas Spa sarà costituita Anas Holding Spa la quale parteciperà alla costituzione di società per lo svolgimento all'estero di attività infrastrutturali, nonché alla gestione delle partecipazioni in società concessionarie autostradali, anche regionali. La riforma in pillole.

La Lagarde a capo del Fmi (30 giugno 2011).
Tutto come previsto. Il ministro delle Finanze francese Christine Lagarde, 55 anni, è stata nominata nuovo direttore generale del Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Lo ha deciso il board dell'organizzazione internazionale. La Lagarde sostituisce un altro francese, Dominique Strauss-Khan, costretto alle dimissioni dopo essere stato incriminato per stupro dalla procura di New York. «E' una vittoria per la Francia» ha commentato la presidenza della repubblica francese. Il fatto che una francese sostituisse un francese alla guida del Fmi era stato messo in discussione da alcuni Paesi emergenti, anche se poi a dire il vero il consenso della maggior parte degli Stati che controllano il Fmi era poi confluito sulla Lagarde. La scelta della Lagarde è diventata certa solo quando anche l'amministrazione Obama ha mostrato il suo appoggio tramite il segretario del Tesoro Timothy Geithner. Poche ore dopo è arrivata la nomina del Consiglio esecutivo. La nuova direttrice era stata appoggiata anche da Europa, Cina e Russia. Si tratta della prima donna a capo dell'organizzazione. La Lagarde prende le redini del Fondo in un momento difficile, con la crisi del debito in Europa che si sta intensificando e le nazioni emergenti che chiedono di avere maggiore partecipazione nell'Istituto. «Essere stata designata alla direzione generale del Fondo monetario internazionale (Fmi) è «un onore e una gioia»: è questo il primo commento della Lagarde che entrerà in carica il prossimo 5 luglio. «Cari amici, è un onore e una gioia annunciarvi che il consiglio d'amministrazione dell'Fmi mi ha appena designato direttore generale!» ha dichiarato su Twitter il ministro francese delle Finanze.

BCE: no alla Tobin tax (30 giugno 2011)
L'introduzione di una Tobin tax solo in Europa potrebbe portare a «risultati veramente temibili». Lo ha detto il presidente della Bce intervenendo al Parlamento europeo in relazione alla proposta avanzata ieri dalla Commissione europea per introdurre un'imposta speciale sulle transazioni finanziarie. La Tobin tax (che prende il nome dal premio Nobel per l'economia James Tobin, che la propose per la prima volta nel 1972) è una proposta da lungo tempo caldeggiata da Francia e Germania che ha sempre avuto l'opposizione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, la principale piazza finanziaria europea, che teme un esodo delle banche verso i mercati di Asia e Usa. L'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie è stata decisa per finanziare il bilancio da oltre 1000 miliardi di euro approvato dalla Commissione europea. Anche su questo peraltro non mancano le contestazioni. Il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle ha detto che il volume del bilancio dell'Unione europea, proposto da Bruxelles per il periodo 2014-2020, è andato «ben oltre di quanto il governo tedesco ritenga tollerabile». Berlino stima che uno stanziamento dell'1% del prodotto interno lordo dell'Unione europea, ossia circa mille miliardi di euro, «dovrebbe essere sufficiente», mentre Bruxelles ha proposto di mettere il limite di spesa all'1,05% del Pil della Ue. «La Germania e la maggior parte dei Paesi dalla Ue rifiutano una tassa europea, come quella proposta dalla Commissione» ha detto ancora Westerwelle, il cui ministero è responsabile dei negoziati su questo tema. «Non abbiamo bisogno di una simile tassa, l'Ue non ha alcun problema di finanziamento», ha detto. La Germania, la più grande economia della zona euro, è il principale contribuente al bilancio dell'Ue con pagamenti per 20 miliardi di euro all'anno. Sottraendo quello che percepisce dal bilancio dell'Unione europea, il contributo netto tedesco è di 8 miliardi di euro all'anno. La Germania si compiace dell'impegno della Commissione di investire di più nella ricerca, istruzione e innovazione, «che rendono l'Europa più competitiva», ma ritiene che «questo debba essere finanziato da una ridistribuzione» dei fondi. Anche Londra ha fortemente criticato le proposte che Bruxelles ha presentato mercoledì sera, giudicandole «totalmente irrealistiche».

Delega sulla riforma fiscale. L'Irap (5 luglio 2011)
La delega alla riforma fiscale, presentata dal ministero dell'Economia, contiene l'impegno alla «graduale eliminazione» dell'Irap. Intanto il Governo ha deciso di aumentarla nell'immediato. Il testo definitivo delle «disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria» contiene un incremento dell'aliquota dell'imposta regionale sull'attività produttive per banche e assicurazioni a partire dall'esercizio in corso. L'incremento, più contenuto per il mondo del credito (+0,75 a 4,65%), sarà di due punti percentuali per l'industria delle polizze dove l'aliquota giungerà al 5,90 per cento. Oggi gli assicuratori daranno probabilmente sfogo alla protesta nel corso dell'assemblea annuale della loro associazione, l'Ania. Fonti vicine all'associazione delle compagnie, fanno sapere che le decisioni contenute nella manovra rappresentano certamente «un aggravio» che le imprese assicuratrici ritengono «inaccettabile», ma non «non metteranno in ginocchio» il settore. Fatti i conti, sempre l'Ania stima che il nuovo onere peserebbe, in una situazione di normalità, per circa 100-120 milioni sulle tasche delle compagnie (50-60 milioni per punto percentuale). Poiché l'imposta è calcolata sui costi aziendali - quello del lavoro, gli interessi passivi e gli utili - lo scorso anno avrebbe prodotto un gettito inferiore considerando che nel 2010 il mercato assicurativo ha, nel complesso, chiuso i bilanci con un risultato negativo per circa 700 milioni. Un dato, quest'ultimo, influenzato grandemente dalla perdita record di un miliardo del gruppo Fondiaria-Sai. Ma costo del lavoro ed interessi sui debiti gravano sulle società anche nelle annate sfavorevoli e pertanto l'Irap, anche se in forma più lieve, avrebbe ugualmente avuto un impatto sui conti. Piuttosto, nello spiegare il differente incremento dell'aliquota su banche e assicurazioni concorre la diversa struttura dei due settori. Nell'industria delle polizze il costo del lavoro ha strutturalmente un'incidenza inferiore perché le tradizionali reti di distribuzione assicurative poggiano sugli agenti che non sono dipendenti delle compagnie ma imprenditori autonomi legati alla fabbrica-prodotto da un mandato, in esclusiva o meno, per il collocamento delle polizze. Proprio per questo, pur essendo in termini percentuali più contenuto, l'incremento per l'Irap sugli istituti di credito finirà presumibilmente per apportare alle casse dello Stato maggiori benefici: tenendo presente che nel 2010 il costo del personale sostenuto dal sistema bancario era stato complessivamente pari a 32,9 miliardi di euro, si può stimare che la maggiorazione con la novità contenuta nella bozza di manovra possa aggirarsi sui 250 milioni annui. Un conto piuttosto salato per il settore del credito, che nei giorni scorsi era riuscito a schivare l'insidia del ritorno del fissato-bollato dell'1,5 per mille sulle transazioni di Borsa e soprattutto l'incremento al 35% dell'aliquota (o l'addizionale del 7%) sulle attività da trading e che adesso si vede recapitare una forma di imposizione che non fa distinzione fra gli istituti. Dai quartieri generali delle banche, finora, non sono giunti particolari commenti, se si eccettua un'indicazione generica di Federico Ghizzoni: «Anche le banche devono fare la loro parte», ha detto l'amministratore delegato di UniCredit, che sulla questione dell'Irap si riserva una valutazione più approfondita in futuro. Bocche cucite anche all'Abi, che attende probabilmente il Comitato esecutivo in programma domani a Roma per far sentire la sua voce.

Eugenio Caruso

Aprile - giugno 2011


Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda al successo editoriale
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.

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