Possiamo essere davvero efficaci solo quando questi due sistemi, il nostro cervello emozionale e il nostro cervello razionale, lavorano insieme.
Daniel Goleman
"Ricerca e innovazione sono fra i più importanti fattori di sviluppo e miglioramento della qualità della vita di una qualsivoglia comunità. Se non si dovesse condividere questa ipotesi tutto quanto qui scritto ha poco senso". Sono le parole che costituiscono l’incipit del volume "L’innovazione vincente" del professor Adriano De Maio. Il Giornale dell’Ingegnere ha incontrato l’autore per alcune riflessioni di più ampio respiro sul tema della ReS e della formazione.
Professor De Maio, a parole non c’è politico, economista, amministratore pubblico, decisore, che non sia disposto a sottoscrivere e caldeggiare quell’ipotesi di base. Eppure la realtà dei fatti sembra andare nella direzione opposta. E l’Italia viene descritta come un Paese dove gli investimenti in ReS sono sempre più rarefatti.
Non credo che sia una lettura del tutto corretta. Anche in Italia si sta facendo innovazione più e meglio di quanto non ci raccontino i giornali e di quanto non dicano le statistiche. Soprattutto in questo momento difficile dell’economia le imprese che stanno vincendo lo fanno sull’innovazione; e chi sta facendo ricerca (finalizzata) sta comunque ottenendo risultati. Questo vale anche per quei settori che alcuni economisti considerano maturi. Di davvero maturo non c’è più nulla perché anche nei settori più tradizionali c’è e ci deve essere margine di innovazione. Altrimenti dobbiamo considerarle attività inevitabilmente destinate a spegnersi.
Perché, allora, i mass media non sembrano rendersene conto?
Perché è più semplice ripetere frasi fatte; e la gente stessa ama sentirsi raccontare alcune cose e non altre.
È forse per questo che lei suggerisce di diffidare dei dati. Solo una provocazione?
Un dato, purché adeguatamente torturato, può dare il risultato che si desidera. Infatti, chi meno crede a certe classifiche di merito sono proprio gli scienziati. Penso, ad esempio, agli scoreboard che mettono in competizione le Università cercando di stilare un elenco di quelle più prestigiose o più qualitative. Alcuni considerano tra i parametri di eccellenza anche gli orari di apertura delle mense o delle sale lettura. E ciò, magari, permette di scalare posizioni a un ateneo solo perché offre il servizio per un maggior numero di ore durante la giornata, a prescindere da qualsiasi altro merito didattico o in termini di ricerca.
Nel suo libro ha concentrato l’attenzione sul ruolo della pubblica amministrazione. Un attore spesso trascurato quando si parla di ReS.
E questo è un errore, soprattutto oggi. Ci sono fasi dell’economia nelle quali si chiede una scarsa presenza del pubblico o questa viene addirittura letta come una intrusione intollerabile. Adesso sta succedendo l’esatto opposto. Al pubblico si chiede di salvare, di intervenire, di farsi carico, di dare le regole (concetto ben diverso dal limitarsi a definire normative spesso eccessivamente dettagliate). A maggior ragione, su un discorso strategico come quello della ricerca non è più fuori dal coro invocare un ruolo più diretto e attivo della pubblica amministrazione e dei governi. L’obiettivo che mi sono posto scrivendo questo libro è proprio quello di analizzare il ruolo delle pubbliche amministrazioni nelle sue varie forme; cosa è stato fatto, cosa no e cosa si potrebbe fare.
Perché a volte la ricerca sembra un concetto così astratto, così lontano dai cittadini e dal nostro vivere quotidiano?
Perché non viene mostrato adeguatamente il collegamento tra la ricerca e i benefici che apporta. Se questo venisse davvero evidenziato, sarebbe maggiore l’attenzione di ciascuno di noi nei confronti della ricerca. Altrimenti la ricerca viene ritenuta un lusso e, soprattutto in presenza di risorse limitate, scivola agli ultimi posti nell’elenco delle priorità.
E anche in questo la pubblica amministrazione dovrebbe avere un ruolo di rilevo, nel tradurre ai cittadini i temi astratti della ricerca in benefici tangibili.
Certamente.
Eppure, oggi la ricerca resta gravata da preconcetti ideologici e, almeno da parte dell’opinione pubblica, si tende a dividere tra soluzioni buone e cattive o a creare schieramenti di favorevoli e contrari. Come superare questo ostacolo?
La risposta è già scritta nelle righe precedenti. Un governo in grado di mostrare i contenuti della ricerca semplicemente in termini di obiettivi che si pone e di risultati che ha già raggiunto o che potrà raggiungere, ha già fatto un primo passo importante per superare la logica del tifo e delle ideologie. Ci vorrà comunque del tempo per vincere i preconcetti che si sono radicati nel tempo, ma è il solo modo – credo – per farlo.
Qualche esempio concreto?
Pensiamo alla diagnostica preventiva di alcune gravi malattie. Su un tema importante e che ci tocca tutti direttamente come quello della salute è stata comunicata e percepita chiaramente la connessione tra ricerca e benefici. E la risposta è stata meravigliosa, anche in termini di raccolta fondi da destinare a enti e laboratori. Quindi non si tratta di concetti astratti. Un altro campo è quello della difesa. Si tratta di un ambito – al pari della salute – che ciascuno di noi sente come proprio, poiché è in gioco la mia vita. In questo caso il prezzo del non fare (se non mi attrezzo per difendermi, cosa potrei rischiare?) è considerato talmente elevato che l’investimento non viene neppure valutato secondo i tradizionali parametri costo/beneficio ed è in grado di movimentare enormi risorse. Con ricadute tecnologiche, poi, che vanno ben oltre l’obiettivo iniziale e interessano numerosi altri campi. La telefonia mobile, per esempio, nasce proprio nei reparti difesa delle grandi società di telecomunicazione, con l’obiettivo di rendere le comunicazioni non interrompibili e non decodificabili da parte di potenziali nemici o aggressori. Poi il telefonino ha avuto l’evoluzione che tutti noi sappiamo.
Ma è davvero difficile pensare che l’investimento iniziale che ha portato allo sviluppo di questa tecnologia sarebbe comunque stato fatto... solo per poter mettere in mano (anche) a un bambino di sei anni un telefono mobile?.
Il passaggio delicato della disseminazione. A volte i ricercatori stessi tendono a parlarsi un po’ troppo addosso o a pensare che comunicare con la gente comune sia quasi una debolezza?
Spesso c’è, effettivamente, una certa supponenza da parte del tecnico e dello scienziato, che non ama comunicare con la gente comune: “tanto non capiscono, perché devo mettermi al loro livello?”. Quasi il semplificare il linguaggio e il rendere accessibili a tutti i risultati raggiunti fosse una sorta di diminuzione delle proprie capacità, una banalizzazione del proprio lavoro. E il non farsi capire, al contrario, quasi un attestato di superiorità. Oppure, anche in buona fede, lo scienziato fatica a capire... perché gli altri non capiscono, perché concetti che per lui sono semplici e lineari, non risultano comprensibili ai più. Ma questo succede un po’ in tutto il mondo, non solo in Italia. I pochi volgarizzatori, purtroppo, sono ancora mosche bianche. Penso che anche nella ridefinizione delle modalità di disseminazione e di divulgazione il governo e la pubblica amministrazione debbano avere un ruolo chiave.
Per concludere, veniamo al tema della formazione: così come è strutturata oggi l’Italia è pronta per creare una classe di ricercatori ma anche di decisori in ambito pubblico di ottimo livello?
Mi risulta che già in una tavoletta sumera sia stata trovata una frase del tipo: ma dove andremo a finire con le nuove generazioni! Quindi non mi stupisce che ancora oggi si caschi in questo luogo comune, rimpiangendo come migliori i nostri tempi. Avendo insegnato per oltre 40 anni posso dire che i ragazzi sono sempre gli stessi: fondamentalmente sono belli e bravi. Ma, detto questo, sono anche sempre più ignoranti! E allora, dobbiamo avere il coraggio di dire che la colpa è del manico. Dei professori, dei formatori e in parte anche delle famiglie che riducendo sempre di più nei giovani il senso di responsabilità contribuiscono a farli diventare più ignoranti. Se viene a mancare il senso di responsabilità, è davvero difficile che un ragazzo si ponga come principale obiettivo lo studio sistematico.
Quindi la prospettiva non è rosea.
No, e anche in questo caso la parte pubblica deve assumersi le proprie responsabilità. Parto da un’analogia mutuata dal mondo dell’impresa. Se un’azienda identifica come particolarmente critica una fase produttiva a chi la affiderà? Ai più capaci o ai meno bravi? Premierà o meno chi saprà svolgere al meglio quella mansione? E non moltiplicherà forse i controlli per assicurare che non ci siano intoppi? Allo stesso modo, non si può aspirare a una formazione al top se, poi, dal maestro elementare al docente del liceo non c’è selezione o meritocrazia, i migliori non vengono premiati, gli stipendi non sono all’altezza. E si accetta che, spesso, questo mestiere lo faccia o chi ha una grande passione (non necessariamente pari alle capacità) o chi non ha trovato sbocchi professionali più appetibili!
Davide Canevari
Articolo pubblicato su “Il Giornale dell’Ingegnere” n. 2 – febbraio 2012