A volte la vita ti colpisce in testa come una tegola caduta da un tetto. Non perdete la fede. Sono convinto che l'unico motivo che mi ha convinto ad andare avanti sia stato l'amore per quello che facevo.
Steve Jobs
L’articolo è il seguito di
Come si è arrivati alla grande crisi del 2008 Parte I,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte II,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte III,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte IV,
I passi della grande crisi 2008 - 2009 Parte V,
I passi della crisi 2008 -2010 - Parte VI
I passi della crisi 2008 - 2010 - Parte VII
I passi della crisi 2008 - 2010 - Parte VIII
I passi della crisi 2008 - 2010 - ParteIX
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte X
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte XI
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte XII
I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte XIII
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XIV
Con riferimento ai succitati articoli, questo prosegue, per il secondo trimestre del 2012, l’analisi delle performance economico-finanziarie degli stati sovrani e delle più importanti imprese del pianeta. Con particolare attenzione è analizzata la situazione italiana. Sono, inoltre, presi in considerazione tutte le più importanti iniziative degli stati e delle organizzazioni internazionali e nazionali, nonché gli andamenti delle economie di vari paesi. L’articolo viene aggiornato quotidianamente.
Né privatizzatori né tagliatori di spesa. Allora, ristrutturazione straordinaria del debito (1 aprile 2012).
Oscar Giannino
“Il peggio deve ancora venire”. Così si è espresso lo scorso 22 marzo, parlando dell’eurocrisi, non proprio l’ultimo degli sprovveduti. E’ infatti l’opinione di Willem Buiter, chief economist di Citigroup. Ma soprattutto economista, visto che per anni ha servito Bank of England nel suo Monetary Commitee, e non proprio un banchiere d’assalto, visto che pochi mesi prima di assumere l’incarico in Citi nel suo blog l’aveva descritto come “un conglomerato dedito alle peggiori pratiche lungo l’intero spettro dell’intermediazione finaziaria”. Perché Buiter ha questa opinione, mentre gli spread sono scesi di centiniaia di punti rispetto al picco della crisi, tre mesi fa? Perché stiamo tirando il fiato illudendoci di esser tornati a guardar le stelle, ma in realtà non stiamo traendo la giusta lezione dalla crisi greca.
Penso che Buiter abbia ragione. E aggiungo: la lezione greca dovrebbe valere proprio per i Paesi non tripla A, ad altissimo debito, bassa crescita, altissima spesa pubblica e tasse. In altre parole: de te Ausonia loquitur. Sono due, le considerazioni essenziali di uno scenario che non va considerato pessimista, ma al contrario prettamente realista. La prima è che risulta evidente proprio in queste settimane post controlled default greco, che le tensioni di finanza pubblica degli euromembri restano forti. Non è escluso che Atene non ce la faccia comunque e abbia bisogno di nuovi aiuti. Si è aggiunta la nuova crisi spagnola, troppo lontana dagli obiettivi di rientro dichiarati, e a serio rischio di diventare assai presto a propria volta un Trojka country. Poi il Portogallo. L’Irlanda. Persino l’Olanda, alle prese con tagli assai superiori alle sue attese, se vuole stare negli obiettivi del fiscal compact.
La seconda è quella strettamente collegata al default controllato greco. Non è saltata nessuna banca né alcun hedge fund. Non c’è stato alcun effetto contagio. Anzi, si è diffuso un eccessivo ottimismo malgrado 160 miliardi di haircut ai detentori di titoli pubblici greci, in grazioso cambio di circa 60 miliardi di carta a bassissimo rendimento e a lunghissima scadenza.
Se però questo effetto si è prodotto, tanto varrebbe approfittarne. Degli oltre 500 miliardi di eurotitoli pubblici in scadenza per Paesi non tripla A nei tre trimestri residui del 2012, oltre 300 miliardi è costituita da titoli italiani. Il 50% dei quasi due trilioni di euro di debito pubblico italiano va in scadenza nei prossimi due anni. Ora è vero che negli ultimi tre mesi il rendimento del Btp decennale è sceso di 250 punti base sino a sotto la soglia del 5%, prima di risalire ora verso quota 320. E che al Tesoro, la direzione preposta al debito pubblico guidata da Maria Cannata sta esaminando tutte le possibili strategie per tornare ad allungare la duration del nostro debito pubblico senza chiamare i bondholders ad alcuna perdita di valore.
Tuttavia, per l’Italia sarebbe il caso di fare di più. La penso in questo come Georges Ugeux, CEO di Galileo Global Advisors, che ne ha scritto il 25 marzo sull’Huffington Post. L’Italia potrebbe – meglio: dovrebbe – pensare a una vera e propria ristrutturazione straordinaria del proprio debito pubblico. Certo, con un haircut assai inferiore al quasi 70% inflitto ai bondholder greci. Ma comunque di una notevole consistenza.
Si comprende al volo che anche solo ventilare la remota ipotesi di una ristrutturazione straordinaria del debito di un Paese sovrano provochi reazioni di immediato e sdegnato rigetto da parte del suo governo. Ne va del prestigio nazionale, inevitabilmente legato alla piena garanzia di solvibilità. Purtuttavia, seguitemi nel ragionamento.
Primo: il governo Monti è quello più adatto a potersi sobbarcare una simile operazione, stante la sua natura tecnica e d’emergenza. So bene che è nato sulla base di un’idea diversa, che bastasse cioè a garantire la piena e ordinaria solvibilità il fare i compiti a casa raccomandatici dall’Europa e da troppi anni smentiti e denegati da una politica inetta e imbelle. Ma nell’emergenza è un governo d’emergenza meglio che politico, a poter trattare le migliori condizioni con mercati e Trojka.
Secondo: il governo Monti sinora si è mosso sulla stessa linea che l’Italia segue da vent’anni a questa parte quando la sua finanza pubblica finisce alle corde e nei guai. Avanzi primari di 5-6 punti di Pil, realizzati per la più gran parte con nuovi aggravi fiscali. Senza nessuna cessione di asset per abbattere più rapidamente e non recessivamente il debito. E senza toccare la spesa corrente che continua inerzialmente a crescere, anche se a un tasso meno rapido dopo le quattro manovre assunte nel 2011 e dopo l’unica vera riforma salvifica – quanto a finanza pubblica – sin qui assunta: quella delle pensioni.
Terzo: la conseguenza è che famiglie e imprese italiane, alla luce del peggioramento del Pil figlio sia dell’eurocrisi sia della quindicennale e pre esistente tendenza italiana alla bassa crescita, continueranno a trovarsi esposti a nuovi aggravi fiscali ulteriori, visto che le ipotesi macro assunte a base del salva-Italia nel dicembre scorso non sono più coerenti con l’azzeramento del deficit, a cui siamo comunque tenuti nel 2013.
Quarto e conclusione: almeno, se ristrutturiamo volontariamente e con la debita assistenza internazionale la montagna di debito pubblico in scadenza, ancoriamo a un beneficio certo e quantificabile il salasso a cui stiamo sottoponendo l’Italia legale e produttiva. Altrimenti, lo Stato si piglierà per sé sempre di più ma il debito continuerà a crescere, l’Europa e i mercati a sospettarci e tenerci nel mirino. Chi la pensa come me farebbe diversamente. Cederebbe i 500 miliardi di mattoni di Stato per l’abbattimento del debito in conto patrimoniale. E in conto economico ridurrebbe perimetro e piante organiche pubbliche a ogni livello, aprendo a colpi d’ariete punti e punti di Pil a meno tasse e più crescita. Ma se fare tutto ciò è davvero così impensabile e impossibile anche a un governo dei tecnici, se è vero come è vero che in consiglio dei ministri Giarda ha accusato Grilli di tenersi la delega fiscale in tasca e Grilli ha replicato di aspettarsi poco o nulla dalla spending review di Giarda, allora almeno si ristrutturi il debito pubblico. Altrimenti, l’Italia legale sarà sempre più condannata all’anossia.
da cicagoblog.it
Disoccupazione in aumento (2 aprile 2012).
Il tasso di disoccupazione a febbraio è al 9,3%, in rialzo di 0,2 punti percentuali su gennaio e di 1,2 punti su base annua. Si tratta del tasso più alto da gennaio 2004 (inizio serie storiche mensili). Mentre, guardando alle serie trimestrali, è il dato iù alto dal IV trimestre 2000. Sempre a febbraio. su base annua, il numero di disoccupati aumenta del 16,6%, ovvero di 335 mila unità. Lo stato dell'occupazione rilevato dall'Istat non lascia spazio all'ottimismo. In crescita anche il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni). A febbraio è al 31,9%, in aumento di 0,9 punti percentuali rispetto a gennaio e di 4,1 punti su base annua. Anche in questo caso si tratta del tasso più alto da gennaio 2004. Nel quarto trimestre del 2011, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è salito al 32,6% dal 29,8% dello stesso periodo del 2010 con un picco del 49,2% per le giovani donne del mezzogiorno. Nella media del 2011, il tasso di disoccupazione è pari all'8,4%, invariato rispetto al 2010. Anche se l'istat ricorda che "la disoccupazione è cresciuta nella seconda parte dell'anno". Per quanto riguarda i giovani, il tasso di disoccupazione è cresciuto di 1,3 punti percentuali, portandosi nella media del 2011, al 29,1%, con un massimo del 44,6% per le giovani donne residenti nel mezzogiorno. A febbraio gli occupati sono 22.918mila, in diminuzione dello 0,1% (-29 mila unità) rispetto a gennaio. Il calo riguarda la sola componente femminile. Nel confronto con lo stesso mese dell'anno precedente l'occupazione segna un aumento dello 0,1% (16 mila unità). Il tasso di occupazione si attesta al 56,9%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e in aumento 0,1 punti in termini tendenziali. Il numero degli inattivi tra 15 e 64 anni rimane sostanzialmente stabile su base annua, a sintesi del calo della componente italiana (-84.000 unità) e dell'ulteriore crescita di quella straniera (+105.000 unità). Tra gli inattivi, cresce il numero di quanti non cercano lavoro ma disponibili (+5,5%, pari a 73.000 unità) e di quanti cercano non attivamente (+4,3%, pari a 63.000 unità) mentre si riduce quello degli inattivi che non cercano e non disponibili a lavorare (-0,8%, pari a -100.000 unità). Il tasso di inattività si attesta al 37,8%, un decimo di punto in meno rispetto a un anno prima. Alla crescita del Centro si contrappone la contenuta flessione del Nord e del Mezzogiorno. In tale area, il tasso di inattività raggiunge nella media 2011 il 34,5% per gli uomini e il 63,2% per le donne. La disoccupazione nell'Eurozona sale al 10,8% a febbraio, il massimo da quasi 15 anni. A gennaio era al 10,7%. Nell'Ue a 27 paesi la disoccupazione avanza dal 10,1% al 102% e in Italia si attesta al 9,3%, contro il 23,6% della Spagna e il 21% della Grecia. Nell'Eurozona la disoccupazione torna ai livelli di maggio-giugno 1997 e sotto al 10.9% di aprile 1997.
Moody's: banche usa sotto osservazione (3 aprile 2012).
Sarà pure tornato un certo ottimismo fra i consumatori statunitensi ma fra le big bank usa del credito non tira buona aria. Tanto che entro metà maggio l'agenzia di rating Moody's potrebbe annunciare una raffica di downgrade. Nel mirino ci sono 17 istituti di credito, fra cui i big Bank of America, Citigroup, Morgan Stanley, Goldman Sachs e Jp Morgan Chase. Segnale che la crisi del credito non è esaurita. Del resto, anche Standard and Poor's non ha usato mezzi termini sulle banche italiane indicando che potrebbero navigare ancora per diverso tempo in regime di bassa redditività, con politiche di dividendo molto prudenziali. Il taglio più consistente potrebbe riguardare Morgan Stanley che rischia una caduta di tre gradini nella scala del rating (da A2 a Baa2). Rischia di uscire dal club delle A anche Citigroup su cui incombe la spada di Damocle di un taglio di due "notch" (da A3 a Baa2). Stesso rating a cui potrebbe essere declassata anche Bank of America, dall'attuale Baa1. Dovrebbero conservare la A, invece, Goldman Sachs e Lehman Brothers nonostante un possibile taglio di due gradini (rispettivamente ad A3 e A2). Insomma, le banche americane – da cui nel 2007 è partita la crisi subprime, poi sfociata nel credit crunch internazionale e a sua volta dilagato nell'attuale crisi dei debiti sovrani dell'Eurozona – non scoppiano di salute. Un'eventuale raffica di downgrade preoccupa gli ambienti vicini a Wall Street. Sia per l'impatto che avrebbe sul costo delle obbligazioni emesse dalle stesse banche (che sarebbero costrette a pagare tassi più alti in cambio della maggiore rischiosità dei loro titoli). Senza considerare l'impatto che avrebbe sul mercato multi-milionario dei derivati. Molti contratti, infatti, contengono come fattori scatenanti proprio il taglio di rating sotto livelli predeterminati. In caso di downgrade prevedono che un cliente possa recedere dal contratto stipulato con l'istituto declassato spostandolo presso un altro che presenta garanzie migliori. Secondo le previsioni degli analisti interpellati dal New York Times i contratti derivati più vulnerabili a un taglio di downgrade sarebbero quelli con un orizzonte temporale superiore ai cinque anni, i più redditizi per una banca che li emette. E poi ci sono i fondi di investimento. Anche in questo caso una bocciatura da parte delle agenzie di rating potrebbe impattare sulle banche colpite. I grandi fondi, infatti, prevedono policy per cui è possibile effettuare operazioni di trading solo su titoli finanziari al di sopra di un certo rating.
UE: problemi in vista per l'Italia (3 aprile 2012)
Per il premier Mario Monti l'Italia è solida e l'Eurozona è uscita dalla crisi???? E pertanto non ha bisogno di nuove austerity. Ma intanto con uno spread a quota 330 e una recessione stimata da più parti per il 2012 i rischi non sono finiti. È quanto emerge da un documento riservato elaborato dalla Commissione Ue e circolato all'ultimo vertice di Copenhagen che è stato rivelato stamane dal Financial Times. Nel rapporto di quattro pagine, intitolato «la situazione di bilancio in Italia» si apprende che l'Italia ha ottenuto risultati «chiaramente di rilievo» con misure di risanamento finanziario che dal maggio 2010 sono ammontate a 100 miliardi di euro, pari al 7% del Pil contribuendo a ristabilire la fiducia dei mercati del Paese che ora è in rotta verso l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013. Ma «l'obiettivo dell'Italia di centrare gli obiettivi di bilancio potrebbe essere messo a rischio dallo scenario di crescita depressa e da tassi d'interesse relativamente alti». Il rapporto affronta inoltre il tema della riforma del mercato del lavoro, avvertendo che «non deve perdere impulso». Giudicando «molto positivo che la proposta di riforma sia basata su un dialogo costruttivo con le parti sociali», il documento sottolinea quanto sia «cruciale che l'obiettivo e il livello di ambizione della riforma resti commisurato alle problematiche da risolvere nel mercato del lavoro italiano, in linea con le raccomandazioni del Consiglio». In mattinata fonti di Palazzo Chigiri hanno però ribadito che l'Europa e l'Italia hanno bisogno di riforme strutturali per avviare e consolidare la crescita ma, come ha rimarcato il premier Monti, non c'è bisogno in Italia di manovre correttive per far fronte alla crisi. «Con l'austerità non si cresce, al contrario, dobbiamo mettere in moto tutte quelle operazioni per fare in modo che dopo aver messo in ordine i conti ci sia anche crescita dell'economia e dell'occupazione». Così il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, ha commenta il rapporto confidenziale del Ft che ipotizza nuove misure di austerity.
Intervista di Monti alla Stampa (4 aprile 2012).
L’Italia deve diventare un Paese «prevedibile». Per Mario Monti, appena rientrato dal lungo viaggio asiatico, questa è la chiave della nostra ripresa e del recupero di credibilità. Essere prevedibili non è solitamente considerato un complimento ma, per l’uomo che ha fatto della normalità una bandiera, proprio di questo abbiamo bisogno per attrarre investimenti e capitali.
La scrivania di Monti a Palazzo Chigi è coperta di dossier economici e da tutte le classifiche esistenti sulla competitività: la sua missione è quella di cambiare la nostra immagine nel mondo. Per questo ripartirà già questo fine settimana, non prima però di aver portato al Quirinale il testo del disegno di legge sul lavoro, che non potrà «discostarsi significativamente» da quello varato. Il premier, che indossa una cravatta rossa, appare sereno e spera di farcela in tempi brevi.
Lei è appena tornato dall’Asia, dopo essere stato negli Stati Uniti e nelle maggiori capitali europee, che percezione ha trovato dei cambiamenti dell’Italia?
«La cosa che mi ha colpito di più è stata proprio l'intensità di questa percezione e la sua diffusione, in qualche modo me l'aspettavo da quando le cose hanno cominciato a girare bene, ma non che interlocutori come il presidente cinese, il primo ministro indiano o quello pakistano fossero così informati sulla nostra azione di contenimento del disavanzo e sulla velocità con cui abbiamo approvato la prima parte delle riforme. C'è la chiara sensazione che l'Italia possa fare la differenza ai fini della salute finanziaria dell’Eurozona».
Ci sono state critiche per la lunghezza del suo viaggio in Asia.
«In Italia ho sentito dire che la Cina è la fonte di tutti i problemi, ma queste reazioni mi sembrano non solo sottovalutare l'importanza che ha oggi, ma anche quanto sia utile per l'Italia. Ho fatto questo viaggio sia perché credo che l'attenzione verso questi Paesi sia nei nostri interessi, sia per abituare gli italiani a considerare questi Paesi cruciali per la crescita economica e a non ragionare più soltanto in ottica di decisioni europee. E' tempo di cambiare i giudizi che diamo un po’ superficialmente e in base ai vecchi tabù. Non mi riferisco qui alla questione dei diritti umani, che è estremamente seria e che ho sollevato con gli interlocutori cinesi, ma al fatto che consideriamo i cinesi dei pubblici disturbatori di un mondo del passato che crediamo esista ancora e del quale siamo convinti di fare tuttora parte».
In questo mondo nuovo e in evoluzione cosa ci manca per essere competitivi e attrarre investimenti stranieri?
«Direi che ci manca una coltivazione sistematica e di lungo periodo dell’immagine del Paese. Non tanto in senso superficiale quanto nel fare in modo che i principali Paesi investitori e le loro imprese possano capire come ragiona l'Italia e considerino quindi prevedibile e stabile la sua politica economica nel tempo. Questo richiede un’opera pedagogica sia all’esterno sia all’interno: è importante che le élite economico-politiche internazionali sentano che l'Italia è un’entità comprensibile, prevedibile e che, pur con le sue particolarità, è come uno di loro».
Ma cosa dobbiamo fare nel concreto?
«Per creare un ambiente favorevole agli investimenti ci sono ancora progressi da fare sulla sicurezza e sulla lotta alla criminalità, motivo per cui domani andrò a Napoli e prossimamente a Palermo. Ci sono poi l'alleggerimento della burocrazia, la tempestività della giustizia per le imprese e una carenza di infrastrutture e c’è l’aspetto cruciale della prevedibilità delle regole».
Lei insiste molto su questo concetto di prevedibilità, cosa significa?
«Le confesso che quando alla fine di dicembre abbiamo visto scattare, per un automatismo delle convenzioni, oltre ai tanti aumenti da noi determinati per esigenze di bilancio, anche quello abbastanza cospicuo dei pedaggi autostradali, abbiamo avuto la tentazione di bloccarli o di differirli. Ma quella sarebbe stata una modifica di contratti in essere e sarebbe stato un argomento in più per dire che gli italiani sono quelli che cambiano le carte in tavola. Se vogliamo invece avere investimenti dobbiamo essere prevedibili».
Lei sembra usare i viaggi come termometro della sua azione di governo.
«Oltre all’Asia per me è stato molto significativo il viaggio a Belgrado dove ho incontrato parecchi imprenditori italiani che si sono stabiliti anche in Serbia, come ha fatto da ultimo la Fiat, e mi sono chiesto se la loro sia o no una delocalizzazione perversa. Perché non sia perversa bisogna poterla vedere come una internazionalizzazione di imprese che mantengono il loro baricentro in Italia. Ma se le condizioni di accoglienza in Italia non sono competitive e attraenti allora gli imprenditori non ci penseranno troppo prima di spostarsi del tutto all’estero. Il caso della Serbia mostra che la battaglia per rendere più attraente l'Italia come luogo di produzione è una battaglia importante sia per attrarre investimenti all'estero sia per far sì che una buona parte degli investimenti delle nostre imprese avvenga in Italia. E questo naturalmente ci riporta al mercato del lavoro».
Questo ci riporta al centro del dibattito italiano, Bersani chiede di vedere cambiamenti alla riforma del lavoro, fino a che punto possiamo aspettarceli?
«Io credo che dovremmo cercare tutti di ragionare meno in termini brevi per essere capaci di orientarci al medio-lungo periodo, soprattutto quando si ragiona di politiche pubbliche. Non si può fare la quotazione oraria delle probabilità che una riforma vada in porto, purtroppo o per fortuna la natura, le persone, i documenti, le carte e le idee hanno dei tempi di evoluzione e di maturazione. È curioso che l’altroieri, mentre volavo sui cieli dell’Asia, o forse proprio per quello..., c’era ottimismo sulla possibilità di un accordo sulla riforma del mercato del lavoro e poi invece ieri meno».
Che tipo di modifiche è disposto ad apportare?
«Il disegno di legge che è in corso di finalizzazione da parte del governo non si discosterà significativamente da quanto è stato tratteggiato nel documento che varammo al Consiglio dei ministri».
Quando sarà sottoposto al capo dello Stato?
«Al più presto».
In che tempi pensa possa essere approvato?
«Molto rilevanti per l’impatto complessivo della riforma non sono soltanto i suoi contenuti ma anche la velocità con la quale il Parlamento svolgerà il suo doveroso e attento esame. Se, anche senza il decreto legge, i tempi saranno rapidi allora questo gioverà molto e servirà a mostrare all'Italia e al resto del mondo che il processo di riforme non ha subito un momento di arresto. È importante non perdere il “momentum”».
Cosa chiederà ai leader politici nei suoi incontri?
«Nelle prossime ore cercheremo di avere un alto grado di consenso delle tre principali forze politiche in modo da avere la fondata attesa di un percorso rapido e non tale da mutare la fisionomia del disegno di legge».
Ma come è possibile conciliare l’alto grado di consenso con la scelta di non modificare significativamente il disegno di legge?
«Noi consideriamo esaurita la fase di consultazione con le parti sociali, sappiamo che ogni partito ha il suo retroterra in termini di parti sociali e di culture, ma penso che ogni leader dovrà esercitare capacità di leadership, senza aspettare che il cento per cento del suo mondo di riferimento sia d'accordo con lui. Ma quando parlo di alto grado di consenso mi riferisco al rapporto tra i tre partiti e il governo, un accordo per dare una fiduciosa speranza che il percorso sia abbastanza scorrevole, pur tenendo conto che di mezzo ci sono le elezioni amministrative e che questo non semplifica né il calendario né la serenità dei lavori».
Pensa che questo obiettivo potrà essere raggiunto?
«Se riusciremo in questo, facendo appello ancora una volta a quel notevole grado di responsabilità di cui hanno dato prova i partiti che ci sostengono, allora non solo avremo portato a casa in tempi ragionevoli la quarta e cruciale riforma ma lanceremo un ulteriore segnale di fiducia anche all’estero. E questo significherebbe che l'Italia sta davvero cambiando, al di là di questo particolare e breve governo».
E’ necessario un nuovo vertice con i partiti di maggioranza su questi temi?
«Vertici ce ne sono stati e ce ne saranno, il fatto che mi incontri con i tre leader di partito non deve essere considerato un segnale di emergenza, è assolutamente naturale».
In questa intervista ha sottolineato come il mondo chieda all’Italia di essere «prevedibile» e insieme ha parlato di governo breve, anche lei sa che il grande interrogativo è proprio legato a questa incertezza su cosa succederà tra un anno. Chi garantisce che questi comportamenti virtuosi non verranno abbandonati?
«La garanzia non la può dare nessuno. Io però sono fiducioso che questo avverrà perché se questi partiti hanno avuto la capacità di intesa e di trovare un terreno comune pur senza avere il beneficio del protagonismo diretto, allora anche in una nuova fase di governi politici, in cui si assumeranno in prima persona la responsabilità di governare con i loro leader, l'interesse al buon esito sarà ancora maggiore».
Ma in che quadro politico immagina tutto ciò?
«Se la situazione del Paese lo richiederà ancora, allora immagino che saranno anche disposti a mettere a frutto l’acquisita capacità di dialogo tra loro per pensare a soluzioni larghe, a grandi coalizioni. Penso a quelle formule che in passato venivano auspicate ma subito fatte oggetto di sorriso benevolo, in quanto dichiaratamente impossibili, ma che proprio l'esperienza attuale mostra come possibili. Già in un’intervista a La Stampa nel 2005 avevo detto che ci sarebbe voluta una grande coalizione per fare le riforme: mi attirai solo critiche o giudizi di irrealizzabilità ma alla fine mi pare che proprio questo sia successo».
Lei insiste anche sulla necessità di cambi culturali nel Paese.
«In questa fase abbiamo visto come reagiscono gli italiani a sentirsi dire, anche con linguaggio schietto, che occorre fare certe cose che pesano. Per cui ogni volta che penso ai cambiamenti nella società e nella politica mi convinco ancor di più che i comportamenti virtuosi non saranno abbandonati. E sarà bello guardare tutto questo dal di fuori».
La Commissione europea, in un documento circolato a margine dell’Eurogruppo riportato ieri da «La Stampa» e dal «Financial Times», sostiene anche che gli sforzi dell’Italia «potrebbero essere minacciati da un profilo di bassa crescita e tassi di interesse relativamente alti» tanto che il suo governo «deve essere pronto a prendere eventuali altre iniziative di bilancio».
«Abbiamo assunto tutte le misure per centrare gli obiettivi e ci siamo anche presi dei margini di sicurezza che consentirebbero il risultato del bilancio in pareggio anche con ipotesi più sfavorevoli di quelle previste a dicembre. Prima di tutto non abbiamo calcolato nessun provento dalla lotta all’evasione, che pure abbiamo molto potenziato, e poi abbiamo tenuto un'ipotesi di tassi di interesse sul debito pubblico per tutto il 2012 al livello di fine novembre (il 7 per cento sui titolo decennali), un'ipotesi che si è rivelata, almeno per ora, effettivamente pessimistica.
«Abbiamo un obiettivo molto ambizioso ma ci siamo lasciati dei margini e per questo non crediamo proprio che un eventuale andamento più negativo dell’economia reale imponga una nuova manovra».
Ma perché l’Italia deve avere un obiettivo così impegnativo?
«Non ho scelto io l'obiettivo del bilancio in pareggio nel 2013 ma è stato stabilito dal presidente Berlusconi, durante la scorsa tumultuosa estate, per dare il senso dell’intensità dell’impegno dell’Italia. Quando sono arrivato qui ero ben consapevole che era un obiettivo più ambizioso di quello di gran parte dei Paesi europei, ma abbiamo valutato che non sarebbe stato opportuno rimetterlo in discussione, pena una perdita di credibilità».
Lo spread lo guarda spesso?
«Sì, sì, ma meno di altri. Nei vari incontri avuti con la signora Merkel mi sono sentito dire che negli ultimi dieci minuti c'era stato un miglioramento…».
Sotto che soglia siamo al sicuro?
«Si potrebbe dire zero, ma è meglio guardarsi dalle affermazioni temerarie. Sono giudizi relativi, l'importante è che lo spread con il bund continui a scendere».
Non la preoccupa un Paese che non cresce?
«Abbiamo lavorato per evitare la soluzione peggiore: le misure prese stanno avendo e avranno un effetto recessivo ma che va comparato con lo scenario greco, non con uno scenario di crescita che non era dato. Abbiamo evitato di finire come la Grecia, ora i provvedimenti di crescita richiedono più tempo. Mi rendo conto che sarebbe bello avere un maggiore tasso di crescita economica, non solo per il benessere dei cittadini italiani e per avere più occupazione ma anche perché questo renderebbe il nostro mercato interno più appetibile per le imprese straniere. Questo siamo convinti che verrà, grazie alle riforme, ma non è purtroppo una cosa realizzabile nel brevissimo periodo, dove semmai avremo effetti opposti dovuti alle misure di contenimento del disavanzo».
La disoccupazione aumenta, soprattutto quella giovanile, e c’è un effetto di calo dei consumi dettato dall’aumento delle tasse e dall’inflazione, quando si vedranno gli effetti positivi delle manovre?
«La crescita in Italia è da 12 anni almeno pari alla metà di quella dell’eurozona: ho spesso elogiato l’attenzione prestata dal governo precedente alla tutela dei conti pubblici ma ho anche criticato la tardiva presa di consapevolezza, dopo una lunga sottovalutazione del problema, dell’inadeguatezza della crescita italiana. Per lungo tempo non sono state fatte le riforme strutturali necessarie e tutto quello che riguardava le liberalizzazioni veniva ritenuto impossibile o poco realistico a meno che si modificasse l'articolo 41 della Costituzione. Per inciso, noi ne abbiamo fatte molte ma la Costituzione non l'abbiamo toccata. Ciò che abbiamo cercato di fare è stato conseguire gli obiettivi di consolidamento mettendo però dosi di rispetto della crescita e con la riforma delle pensioni abbiamo tolto un elemento di squilibrio grave e di lungo termine».
Non c'è niente che si può fare nel breve periodo?
«Certo non possiamo disinteressarci degli aspetti sociali di sofferenza e per questo stiamo pensando a degli interventi, ma i margini sono effettivamente ristretti e saranno molto selettivi perché non sono più possibili iniezioni di spesa pubblica in disavanzo. È però vero che la riduzione dei tassi di interesse sul debito pubblico dà un po’ di respiro e che se riprendono afflussi di capitali finanziari e investimenti industriali dall’estero tutto questo comincerà a avere effetti e cambierà non solo la situazione ma anche il vissuto psicologico».
Intanto assistiamo anche a fatti terribili come i suicidi di imprenditori e artigiani.
«Sono cose drammatiche, anche in Grecia i suicidi sono molto aumentati, l’unica risposta adeguata e seria che possiamo dare è quella di risanare e rilanciare il Paese».
Da chi si sente più sostenuto nell’azione di governo?
«Sinceramente molto più di quanto immaginassi dai governi esteri, ma sostanzialmente dai due estremi: dall’opinione internazionale e da coloro che sulla carta avrebbero dovuto essere i più sofferenti, cioè i tre leader della maggioranza».
Com'è il rapporto con Silvio Berlusconi?
«Superata una fase iniziale di normale adattamento a una situazione nuova, il mio predecessore ha manifestato un importante e continuo sostegno. Sulle grandi questioni internazionali lo tengo informato e partecipe e gli chiedo suggerimenti».
Qual è stato il momento personale più positivo di questi mesi?
«È stato un momento non negativo: quando sono andato in Parlamento per la prima volta a presentare il programma e ho visto che reggevo a questa situazione per me totalmente nuova, allora ho capito che, pur da estraneo, avrei potuto cercare di operare in questo mondo, pro tempore».
da lastampa.it
Il commento di Oscar Giannino. Spiace, che l’intervista a Mario Monti della Stampa di oggi non dedichi una sola domanda al punto di fondo. Quello sollevato ieri dal Financial Times , che ha svelato che cosa provocherà un calo del Pil italiano tale da compromettere con meno entrate l’obiettivo di azzerare il deficit pubblico al 2013: un’altra snatgata fiscale entro il 2012. E quello su cui apre a titoli di scatola stamane il Wall Street Journal in edizione europea. O l’Italia cambia marcia con meno spesa e meno tasse subito, o la sua recessione come terza economia europea è un guaio per tutti. Oltre che, naturalmente, per noi. menospesa-menotasse: quel che non si è visto, col governo Monti. Né con la sinistra. Né con la destra. Eppure i media su questo muti e zitti, tranne pochissime voci. Luca Ricolfi, Angelo Panebianco, naturalmente noi, pochissimi altri. Il mutismo su questo deriva da cambiamenti indotti alla politica italiana. E’ ovvio innanzitutto che sia un’amara vita, quella di chi, dati alla mano, tenta di battersi da anni contro le crescenti pretese fiscali dello Stato, a danno della spina dorsale che tenta comunque di tenere in piedi l’Italia. L’accusa ricorrente è quella di difendere l’evasione, dipinta in maniera sempre più ossessiva e sistematica come il cancro numero uno dell’Italia, l’espressione più diretta della sua anomia atavica, dell’incapacità di vaste masse di italiani di aderire al patto costitutivo della Repubblica oggi, come di ogni Stato pre esistente all’Unità. Al contrario, non è il DNA civico degli italiani il male economico nazionale. E’ il DNA sempre più incivile delle amministrazioni pubbliche, sempre più degenerato nei decenni di crescita galoppante della spesa corrente, seguita negli ultimi vent’anni da un aumento altrettanto forte della pretesa tributaria e contributiva. Il sostegno tanto vasto alle martellanti campagne di Stato sulla “colpa dei furbetti italiani” ha determinato nel tempo paradossali conseguenze. Largamente inintenzionali, perché nemmeno il più consumato stratega di comunicazione pubblico avrebbe immaginato vent’anni fa di poter determinare simili trasformazioni, nell’attitudine politica verso il tema da parte tanto della sinistra quanto della destra. La sinistra, per storia e convinzioni impregnata di maggior fiducia nei confronti delle politiche pubbliche e della redistribuzione dei redditi, ha finito per invocare e difendere ogni aumento della pressione fiscale “marginale”. Avanti con le aliquote più alte, “di solidarietà”, sui redditi più elevati delle persone fisiche. Plauso all’innalzamento progressivo delle aliquote contributive di tutte le figure professionali e fattispecie contrattuali diverse dal lavoro dipendente. L’effetto paradossale è triplice. Primo: alzare le aliquote marginali sulle persone fisihe fa ulteriormente assottigliare la risicatissima percentuale dell’1% di contribuenti oltre i 100mila euro di reddito lordo, lo 0,4% oltre i 200mila, lo 0,07% oltre i 300mila. I ricchi si dematerializzano, perché meglio degli altri possono arbitrare l’aliquota imputando reddito a società italiane ed estere, controllate o partecipate. Secondo: nel frattempo poiché la spesa corrente aumenta sempre – solo in tre anni nella storia della Repubblica è scesa in termini reali, con Ciampi una volta, poi nel 2010 e 2011 – ecco che gli alleggerimenti tributari e contributivi ai decìli di reddito più basso, quelli cari alla sin istra, non sono avvenuti mai o quasi, per importi risibili. Terzo: nel tessuto d’impresa, è bastonata assai più la piccola e piccolissima, artigiani e commercianti, rispetto alla media impresa, alle grandi e alle banche che la vecchia sinistra attaccava. E’ la sinistra stessa – nella storia e nell’evoluzione dell’ordinamento italiano – ad aver congegnato un sistema del prelievo sulle persone giuridiche che ribalta il principio della progressività fiscale stabilito dall’articolo 53 della Costituzione, ed è di qui che discende il fatto che il tax rate reale dei “piccoli” sia anche di 30 punti superiore a quello del grande capitale. La sinistra vischiana aveva pensato a un grande compromesso con grande industria e banche, oltre che a un premio incentivante alla crescita della dimensione d’impresa, che è generalmente troppo piccola per poter adeguatamente esser patrimonializzata e per investire su crescita innovativa. Ma, mentre il credit crunch è più duro per i piccoli e lo Stato li mette nel mirino – l’intero e pesante aggravamento della rigidità all’entrata nel mercato del lavoro proposto dal ministro Fornero, per esempio, è a loro carico, non della grande industria – l’odio sociale crescente che li addita come evasori è un ulteriore autogol della sinistra. Respingere l’idea che un’impresa artigiana in contabilità ordinaria dichiari 22mila euro l’anno mentre il dipendente sta a 17mila, come si è letto la settimana scorsa a proposito dei dati fuorvianti proposti anche quest’anno dal ministero delle Finanze (tanto fuorvianti che anche lo stesso Attilio Befera ha dovuto riconoscerlo, l’indomani, con la comprensibile cautela visto che il ministero è il suo controllante in Agenzia delle Entrate ed Equitalia), per la sinistra è come tagliarsi l’erba sotto i piedi: i sette milioni di dipendenti di Rete Imprese Italia sono a basso reddito e sempre più piagati da una domanda domestica in regresso, ricorderanno che Stato e sinistra li additano come colpevoli invece che vittime. Ma anche per la destra, o meglio per quel che ne resta tra divisioni, smarrimenti, inabissamenti e indagini giudiziarie, la campagna mediatica dello Stato assetato ha comportato tre conseguenze singolari. Primo: poiché ha indecorosamente fallito nei tagli alla spesa pubblica, e ha più responsabilità della stessa sinistra nell’aver dilapidato i sette punti di Pil di minor oneri sul debito pubblico regalatici ogni anno dall’euro, ecco che la destra ha finito per dover praticare e assecondare ciò che aveva sempre spergiurato di non fare, cioè mettere ancora più pesantemente le mani nelle tasche degli italiani. Secondo: a differenza di quanto avviene in tutti i paesi avanzati di fronte all’esplosione del debito pubblico, la destra italiana o quel che ne resta ormai non ha più alcuna credibile proposta di tagli fiscali equilibrati da minor spesa, nell’ambito di quei 5-7 punti di Pil in meno in 3-4 anni che sono l’orizzonte delle grandi riforme perseguite nel precrisi da Paesi come la Germania, che grazie a questo si sono vigorosamente rimessi in piedi. Terzo: la destra in questo ha deluso sia le grandi imprese, sia soprattutto le piccole e piccolissime. E’ inconcepibile che non ne paghi il conto elettorale. Conclusione. E’ un dovere civile, battersi e sostenere che artigiani e commercianti, imprese piccole e piccolissime hanno sacrosantamente ragione a chiedere meno tasse e contributi, spiegare ogni giorno che è giusto tentino di arrangiarsi approfittando di ogni piega dell’ordinamento per diminuire il loro carico fiscale, urlare che è uno schifo che nessuno si muova di fronte ai piccoli che si suicidano e si danno fuoco davanti all’Agenzia delle Entrate. Anche il governo tecnico prende e tassa, ma non taglia. Che cosa la politica riuscirà a fare, si vedrà più avanti. Ma nel frattempo bisogna assolutamente far sentire meno sola l’Italia che tenta di stare in piedi. Un’Italia a cui lo Stato è nemico. Che debba aprirci la sua edizione il Wall Strett Journal, mentre noi pensiamo ad altro, è solo riprova dell’ipocrisia italiana.
da chicago-blog.
BANKITALIA: crollano i redduiti delle famiglie (4 aprile 2012).
Crollano i redditi delle famiglie italiane che, di fronte alla crisi, restano l'ammortizzatore sociale per eccellenza, sostenendo i figli rimasti senza lavoro. E' quanto messo in evidenza dal vice direttore generale della Banca d'Italia, Anna Maria Tarantola, che al convegno genovese 'La famiglia un pilastro per l'economia del Paese' ha sottolineato come "durante la fase acuta della recessione, nel 2008-09, la caduta dei redditi familiari ha raggiunto in Italia il 4%, a fronte di una riduzione del Pil del 6%". Non solo, ma "nella tarda primavera del 2009, circa 480 mila famiglie hanno sostenuto almeno un figlio convivente che aveva perso il lavoro nei dodici mesi precedenti", ha aggiunto la Tarantola. La crisi, ha spiegato il vice direttore generale di Bankitalia, "ha gravemente inciso sui redditi delle famiglie italiane riducendone la capacita' di risparmio", con una parte della ricchezza accumulata, finanziaria e reale, utilizzata per far fronte alle difficolta' economiche. In questa situazione, ha aggiunto Tarantola, "si sono ampliati i divari: considerando anche la ricchezza, il numero di famiglie in condizione di poverta', e' aumentato". Allo stesso modo si e' ampliato il divario "tra la condizione economica e finanziaria dei giovani e quella del resto della popolazione: tra il 2008 e il 2010 la quota di famiglie povere in base al reddito e alla ricchezza e' cresciuta di circa 1 punto percentuale per il campione nel suo complesso e di circa 5 punti per le famiglie dei giovani", ha specificato il vice direttore generale di Bankitalia. Intanto, l'Istat rivela che nel IV trimestre del 2011, l'indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche (dati grezzi) e' stato pari al 2,8% del Pil, valore inferiore di 1,4 punti percentuali rispetto a quello registrato nel corrispondente trimestre del 2010. Complessivamente nel 2011 si e' registrato un rapporto tra indebitamento netto e Pil pari al 3,8%, inferiore di 0,7 punti percentuali rispetto a quello del 2010. Nel 2011, rileva ancora l'Istat, le entrate totali sono aumentate dell'1,9%, mentre le uscite totali sono aumentate dello 0,5%.
Riforma del lavoro: ritorna il reintegro (5 aprile 2012).
«Una riforma di rilievo storico» per la creazione di «un mercato del lavoro inclusivo e dinamico in grado di contribuire alla creazione dell'occupazione»: così il premier Mario Monti ha definito la riforma del mercato del lavoro, presentata alla stampa assieme al ministro del Lavoro Elsa Fornero dopo il vertice risolutivo con i leader di maggioranza. Il testo, dopo il confronto con Alfano, Bersani e Casini, sarà presentato alle Camere, «essendo state raggiunte, dentro il governo, quelle intese tipiche di un ddl approvato "salvo intese". Ci siamo assicurati della condivisione delle linee del progetto e anche delle linee dettagliate. Ora guardiamo con rispetto e speranza all'iter parlamentare», possibilmente «approfondito ma spedito», ha aggiunto Monti. L'Italia, è in «una fase acuta di sofferenza» e se non ci fossero stati i provvedimenti di sacrificio già chiesti dal governo agli italiani, «ora la sofferenza sarebbe stata più acuta», ha voluto sottolineare il premier.
Il mercato del lavoro italiano ha un «dualismo perverso» con una parte dei lavoratori che hanno tutte le protezioni e un'altra parte senza alcuna protezione. Lo ha detto Monti, citando il presidente della Bce Mario Draghi, aggiungendo che ci vuole una «riforma che liberi energia e distribuisca equamente il peso della flessibilità» con obiettivi di efficienza e equità.
Il Governo ritiene di aver raggiunto un «punto di equilibrio» sulla riforma, anche se è «ovvio» che ci siano anche «aspetti di contrasto», ha sottolineato Monti, dicendosi convinto della necessità che l'Italia esca da una fase in cui il Paese è cresciuto la metà dell'Eurozona. «C'è rispetto per tutti i lavoratori ma devo ricordare che il governo lavora per l'interesse generale del paese in una prospettiva di lungo periodo», ha detto Monti, riferendosi alle critiche ricevute da più parti sulla riforma. La flessibilità, uno dei punti di maggiore contrasto, esce dalla riforma del lavoro «in modo molto equilibrato e sereno». È stata «accresciuta in modo piuttosto rilevante in uscita» con «garanzie che rispettano la necessità che i giudici del lavoro non entrino troppo in decisioni che spettano ai datori di lavoro e dall'altra parte tutelino i lavoratori».
«La riforma delle pensioni introdotta in Italia oggi viene senza discussione alcuna considerata un punto di avanguardia nella società italiana. Ringrazio il ministro Fornero per l'impegno grande con cui ha prodotto come responsabile questa sua seconda riforma, dopo quella presentata lo scorso 4 dicembre 2011», ha ricordato il Presidente del Consiglio. «Sulla base della Costituzione vigente della Repubblica italiana, una persona che presiede questo governo di cui il ministro Fornero fa parte, potrebbe neppure se preso da follia licenziarla», ha concluso Monti con ironia, riferendosi alle critiche del segretario Uil al ministro.
«C'è stato un dialogo sincero con le parti sociali. Abbiamo scelto la via del dialogo e della consultazione, non della concertazione. Qualche volta il confronto è stato aspro ma abbiamo sempre cercato la prospettiva nell'interesse di tutto il Paese», ha detto il ministro del welfare Elsa Fornero. «La riforma coinvolge tutti i cittadini - ha aggiunto - e tutti hanno diritto di dire qualcosa al riguardo». Nella riforma del lavoro «i vantaggi sono molto di più che gli svantaggi» e chi «ci guadagna è la collettivita», ha aggiunto Fornero, che spiega come le nuove norme mirino «a più occupazione strutturale e di qualità e più partecipazione».
«Gli italiani vedranno se questo ministro merita il licenziamento per giusta causa...», ha detto il ministro Fornero replicando a Luigi Angeletti, che ieri aveva parlato di licenziamento per la titolare del Welfare. «Noi abbiamo realizzato una propopsta di riforma con l'assenso di tutte parti salvo una», dice il ministro, ribadendo il «rammarico» per quell'esito. «È vero -prosegue- che poi alcune parti sociali hanno cambiato idea rispetto ad un accordo raggiunto con un verbale. Nessuna accusa ma noi pensamo che le parti sociali riusciranno a vedere ciò che di buono c'è in questa riforma e trovare la forza di spiegarla a tutti gli italiani».
La riforma è divisa in 3 parti: ammortizzatori sociali; tutele in costanza di rapporto di lavoro («la cassa integrazione») e interventi a favore degli anziani e ad incentivare l'occupazione. La parte delle riforma del lavoro riguardante gli ammortizzatori sociali «è importante e innovativa». Per queste misure saranno stanziati 1,8 miliardi e le risorse per gli ammortizzatori sociali in deroga saranno rese «strutturali». Un'altra delle misure del ddl «contrasta la pratica barbara delle dimissioni in bianco». La riforma del lavoro non contiene la delega sui dipendenti della Pubblica Amministrazione, che verrà inserita in seguito, secondo quanto dichiarato dal ministro. «Il ministro della P. A. Patroni Griffi ha richiesto un periodo di confronto con i sindacati prima di inserirla al posto dell'attuale art.2 del testo».
Il Governo, ha aggiunto Fornero, punta a rafforzare il contratto a tempo indeterminato come modalità standard di lavoro senza «blindarlo» perché non si può «inchiodare il lavoratore» al suo posto di lavoro. Il contratto standard potrà partire con un contratto di apprendistato nel quale però si dovrà fare vera formazione, certificata e spendibile nel mercato del lavoro, ha sottolineato il ministro.
Il giudice potrà decidere in caso di licenziamento disciplinare illegittimo la reintegrazione nel posto di lavoro o un indennizzo variabile tra le 12 e le 24 mensilità. Nella prima versione del ddl, ha spiegato Fornero, l'indennizzo era stato previsto in 15-27 mensilità. In sostanza, quando è manifestatamente insussistente il motivo del licenziamento il giudice potrà decidere la reintegrazione nel posto di lavoro, nel caso il lavoratore ritenesse di essere discriminato. Se c'è una discriminazione il giudice reintegra. Se individua un licenziamento disciplinare può decidere se reintegrare o condannare il datore di lavoro a un indennizzo. «L'articolo 18 è stato una grande conquista ma il mondo è cambiato - ha aggiunto -. Bisogna adeguarsi traendone vantaggio, senza chiuderci». In caso di «manifesta insussistenza» del licenziamento per motivi economici «il giudice può decidere il reintegro». «Ora le imprese sono senza alibi» per non investire, ha concluso Fornero.
«Quell'articolo non è scritto con la mia penna ma è un passo avanti importantissimo e risponde alle ansie che si stava diffondendo in milioni di lavoratori», è stato il commento di Pier Luigi Bersani, che auspica «ora un percorso celere in Parlamento con perfezionamenti».
«Il governo ha lavorato bene in una materia difficile come quella del lavoro. Ha ascoltato le parti sociali, si è consultato con i partiti della maggioranza e poi ha deciso come è giusto che sia. Adesso ci apprestiamo al confronto parlamentare con costruttiva serenità», ha affermato il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini.
«Quando ci sarà un testo scritto della riforma del lavoro, vi diremo se c'è un passo avanti. Non vorremmo ritrovarci sorprese, come in altre occasioni». Questo quanto Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, si è limitata a dire sul ddl Lavoro a margine della proiezione di un documentario a Bologna.
«Se noi fossimo il partito unico di maggioranza di governo avremmo fatto un altro ddl, ma abbiamo avuto ragione su alcune questioni, non su tutto. Crediamo che in Parlamento ci siano ancora i margini per migliarlo», ha detto il segretario del Pdl Angelino Alfano.
Riforma del lavoro: non la voterei di Oscar Giannino (7 aprile 2012).
Ho appena appreso con soddisfazione che domani il senatore Nicola Rossi, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, annuncerà motivando in un’intervista al Sole il suo no alla riforma del mercato del lavoro. Per come essa ha preso forma definitiva ieri, io non la voterei. Resta tutto il giro di vite alla flessibilità in entrata, mentre il giudice con la sua piena discrezionalità domina in ogni forma di licenziamento. Il finanziamento al sussidio universale di disoccupazione resta largamente inadeguato a renderlo appunto universale. I contributi salgono, invece di scendere per il lavoro e per l’impresa. In più, si aggiunge come pessima trovata dell’ultimora la nuova sberla di due euro di tassa aggiuntiva per ogni passeggero aereo, e di dieci punti in più per i proprietari di casa che non affittino a cedolare secca: nuove sberle fiscali per prendere dove si può, uno schifo vero! Non credo che ne verrà più occupazione, e spero di sbagliarmi perché Dio solo sa se ce ne sarebbe bisogno. I toni di Monti anche stamane mi sembrano sempre più enfaticamente simili a quelli berlusconiani. Questo in sintesi il mio giudizio. Vengo a un altro punto, per rispondere ai molti che mi obiettano quando continuo a ripetere che anche coi tecnici al governo purtroppo a mancare è la svolta vera: meno spese per meno tasse. Facci vedere dove taglieresti tu, caro saputello mai contento! Ma non lo sai che tagliare è pressoché impossibile? Non ci è riuscito nessuno, non riescono a dire dove farlo luminari come Giavazzi e Alesina che pure hanno miglior titolo di te per parlare, e allora come puoi pensare che si possa dar retta a te, eccentrico sparacazzate? Bene, all’obiezione replico con un esercizietto a mero titolo indicativo. Per expertise tecniche serie, sono a disposizione di qualunque governo anche per 48 ore al giorno gratis, pur di dimostrare che è possibile eccome, tagliare molta spesa e abbassare di parecchio la pressione fiscale. Nel budget presentato il 21 marzo dal governo Cameron, la spesa pubblica complessiva passa dal 45,8% del Pil UK 2011 al 40,3% nel 2015, e i dipendenti pubblici diminuiranno non di 480mila unità come previsto ma di 730mila! Sono pazzi loro, o racconta comode frottole a noi, chi dice che in Italia è impossibile? Da circa 30 anni in Italia si effettuano ogni anno manovre di tagli della spesa pubblica. Prima di decine di migliaia di miliardi di lire. Poi di decine di miliardi di euro. Tagli veri? No, finti. Anche i severi tagli ai trasferimenti alle Autonomie non hanno fatto diminuire nel complesso l’andamento accrescitivo della spesa pubblica. Si è trattato sempre di meri contenimenti dell’andamento aggiuntivo della spesa, mai tali da impedire che essa continuasse comunque a crescere. Da decenni, la mistificazione dei finti tagli alimenta polemiche al napalm. Ma la spesa pubblica è passata dai 373 miliardi di euro del 1990 agli oltre 800 miliardi attuali, rimanendo attestata a oltre il 50% del Pil. La pressione fiscale sta aumentando di 7 punti di Pil, dal 38% del 1990 andremo al 45% con le manovre Berlusconi-Monti. Le entrate pubbliche sono passate dal 41,8% del Pil nel 1990 al 47% e oltre. E il debito pubblico è triplicato, da 663 miliardi di euro nel 1990 agli attuali 1.930 miliard.
Dal governo tecnico e di emergenza, era ovvio attendersi non solo la strabenedetta riforma delle pensioni, troppo a lungo rinviata da destra e sinistra e che resta la vera mossa che ci ha evitato il baratro, portandoci al vertice delle classifiche di sostenibilità previdenziale comparata (anche se la figuraccia pazzesca dei 350mila esodati dimenticati poteva e doveva essere evitata, e ora si produrrù un bel buco aggiuntivo ai costi pubblici). Ma occorreva a maggior ragione anche la svolta sui tagli veri alla spesa pubblica, nell’ambito di 6-7 punti di Pil in un orizzonte tri- o quadriennale. Da riversare integralmente in abbattimento della pressione fiscale, che concentrata com’è su lavoro e impresa ammazza la crescita e avvantaggia illegalità e criminalità invece di contrastarle, come predicano gli untuosi statolatri che vanno per la maggiore. Il governo Monti aveva ed ha due strumenti potenti a disposizione, a questo fine. Ma purtroppo la spending review affidata a Piero Giarda si è persa nelle nebbie. Come la delega fiscale, affidata a Vittorio Grilli e Vieri Ceriani. Due venerdì fa i due fronti hanno litigato in Consiglio dei Ministri, appena Monti è partito per l’Asia, rinfacciandosi di tenersi nascoste l’un l’altro le bozze. Cattivo segnale. Grilli, l’indomani a Cernobbio, ha detto di non attendersi molto dal contenimento della spesa.Pessimo segnale. Che si debba ancora studiare su dove tagliare, è una balla che la politica racconta da anni. Per non farlo. Non me lo aspettavo, da professori che negano di nutrire ambizioni politiche. Alcuni esempi praticabili, allora. Trascurando volutamente tagli alle Regioni e ai Comuni, che pure sono possibili perché di grasso anche lì ce n’è eccome, ma dopo gli ultimi anni di tagli lineari loro riservati sono oggi ulteriormente praticabili solo aprendo tavoli esasperanti e complessi, e non attraverso mere decisioni “centrali”. Cominciamo dalle forniture sanitarie, passate da 37 a 77 miliardi di euro nei 5 anni precrisi, oltre il 50% del totale integrale di tutte le forniture delle PA italiane, che superano i 140 miliardi. Decisione secca: fine dell’autonomia degli acquisti per ogni imoresa sanitaria e ospedaliera, unica piattaforma Consip per tutti dal prossimo esercizio. Riduzione costi: il 25% in tre anni. Ma non comprendendo gli incrementi tendenziali anno per anno, come fa la Ragioneria Generale dello Stato, bensì budget zero base come in ogni impresa che debba ristrutturare. Si scende da 80 miliardi a 60. Una riduzione di tali proporzioni, vista la frammentazione attuale, opaca e fonte di innumerevoli illeciti, è assolutamente a portata reale. A patto di non ammettere deroghe. Cioè di fronteggiare con dighe altissime di solido cemento l’onda-tsunami che si scatenerebbe, per il taglio della discrezionalità alla politica e ai suoi manager in ogni impresa sanitaria, nonché la pressione di un bel po’ di imprese che di discrezionalità sanitaria campano. Secondo capitolo: la massa salariale pubblica, stabilizzata in questi anni grazie al blocco del turnover intorno a 175 miliardi di euro l’anno. Dopo la stabilizzazione, occorre la riduzione. Senza buttare nessuno per strada. Con Cameron, il Regno Unito nell’attuale legislatura passa dall’obiettivo iniziale di 480 mila dipendenti pubblici in meno, a ben 730 mila. Sui 3,8 milioni attuali in Italia, un taglio inferiore a quello britannico, cioè del 15%, comporta in 3 anni un taglio alla spesa di 35 miliardi di euro rispetto ai valori a bilancio 2011. Il risparmio è superiore al valore percentuale dei lavoratori che escono dal perimetro perché i dirigenti pubblici costano molto di più dei loro dipendenti. Dalle Poste ai servizi pubblici locali, ai circa 160 mila dipendenti di società controllate ancora da enti collegati alla PA centrale, la cessione al privato avviene con gare impostate sul lock up pluriennale del più delle piante organiche attuali dei dipendenti: l’esperienza internazionale è piena di esempi.Chi si aggiudica il servizio, è tenuto per alcuni anni a offrirlo innovando in profondità a suo modello il modellom roganizzativo, ma tenendo il 60% degli organici precedenti. Per gli altri non riallocabili in PA, la mobilità è già pevista nel nostro ordinamento. anche se MAI attuata. Si può ridurre il pubblico impiego alzando la produttività complessiva del Paese e senza gettare nessuno sul lastrico e alla disperazione. Ma la mobilità deve valere anche per i pubblici dipendenti. Da noi è così sulla carta, perché i vertici amministrativi – loro, non solo i politici – sono i primi a difendere l’intoccabilità del pubblico impiego, come sta facendo il signor ministro tecnico Patroni Griffi, arrampicandosi sugli specchi per l’articolo 18. In Spagna hanno stabilito che i dipendenti pubblici non funzionari siano licenziabili, se solo la loro amministrazione è in perdita da più di 9 mesi. Avete presente, che cosa capiterebbe in Italia? Terzo esempio. I trasferimenti alle imprese. Dei 43 miliardi annuali rendicontati dall’Economia, 15 sono in conto corrente alle imprese pubbliche, Ferrovie, Poste e trasporto locale, il resto va a settori dell’economia privata. Confindustria dice di no, ma stiamo alle cifre dell’Economia, è sui suoi conti che bisogna risparmiare. Ammesso che vogliate tenere quasi tutti i sussidi annuali al pubblico – è sbagliato – i 28 miliardi di trasferimenti alle imprese possono diventare 7 miliardi di credito d’imposta per l’innovazione (cioè 5 volte di più di quanto annualmente riservato dai precedenti e dall’attuale governo), il resto sparire. Così facendo, 25 miliardi di euro tra meno sussidi a imprese pubbliche e private sparirscono dalla spesa pubblica. Sommando queste sole prime tre enormi poste, siamo a 80 miliardi in meno di spesa pubblica in tre anni, come ordine di grandezza. Più di 5 punti di Pil. Andiamo alla liberazione di risorse da riallocare sulle vere priorità, rispetto all’attuale configurazione del versante fiscale. Sono ricavabili sino a 40 miliardi. Da una rimodulazione delle due aliquote agevolate IVA, al 4% e al 10%, una prima metà. E in aggiunta, dai circa 180 miliardi di tax expenditures prodotti dalle molteplici deduzioni e detrazioni e abbattimenti d’imposta vigenti, 20 miliardi possono essere distolti dai beneficiari attuali. Sono pronto a dire a chi, ma qui non la faccio lunga. La somma è di quasi altri 3 punti di Pil. Tutto – i tagli alla spesa, le traslazioni fiscali – va riconcentrato ad abbattimento delle aliquote su famiglia, lavoro e impresa. Solo in quel quadro, ha senso alzare l’imposizione indiretta: abbassando quella diretta. E abbandondando la via suicidaria che stiamo invece seguendo, che prevede l’aumento contestuale e contemporaneo di imposte dirette mediante addizionali locali, di contributi, imposte indirette e patrimoniali. È una via ultrarecessiva, che sfama lo Stato ma affama l’Italia. Ma l’alternativa è possibile, oltre che necessaria. È solo una serie di meri esempi, per favore evitate di darvi a stroncature cattedratiche. Ma siamo già a 80 miliardi di euro di meno spese, e a circa 40 di traslazioni di attuale peso fiscale a vantaggio di famiglie e impresa. No, il problema non è studiare ancora le cifre. È fare, fare, fare. Sapendo che sono in milioni, i beneficiari dell’attuale sistema statolatrico. Ma ancora di più sono le sue vittime. Ed è a queste ultime, che bisogna dare una volta per tutte l’idea che ci si può riuscire, in una svolta vera. da chicago-blog.it
Confcommercio: allarme per il credito alle PMI (23 aprile 2012).
Per la prima volta dal 2008, sono più numerose le imprese che ottengono meno credito di quello richiesto (o non lo ottengono affatto) rispetto a quelle che si sono viste accordare il finanziamento. È quanto emerge da una ricerca dell'Osservatorio sul credito per le imprese del commercio, del turismo e dei servizi nel primo trimestre del 2012 realizzato da Confcommercio-Imprese per l'Italia. Secondo lo studio, risultano in calo le imprese in grado di fronteggiare il proprio fabbisogno finanziario senza alcuna difficoltà (sono il 36,1% contro il 41,8% del trimestre precedente) e, per la prima volta dal 2008, sono più numerose le imprese che ottengono meno credito di quello richiesto o non lo ottengono affatto (quasi il 37%) rispetto a quelle che si sono viste accordare il finanziamento (34,2 per cento). Nel Mezzogiorno, in particolare, questa percentuale raggiunge la punta massima del 44,4%; in ogni caso, complessivamente solo il 18,7% delle imprese ha fatto richiesta di credito e, di queste quasi una su cinque è ancora in attesa di conoscere l'esito della propria domanda, una quota molto alta dovuta, forse, alla cautela con la quale le banche si stanno muovendo in questo periodo nei confronti delle imprese. Peggiora, infine, il giudizio delle imprese per quanto concerne il costo dei finanziamenti, il costo delle cosiddette «altre condizioni» e il costo dei servizi bancari; ma è negativa anche la percezione riguardo alla durata temporale del credito e alle garanzie richieste da parte delle banche a copertura dei finanziamenti concessi.
In particolare, sul fronte del costo dei servizi bancari, le imprese avvertono un «sensibile peggioramento» nel primo trimestre del 2012: a segnalarlo è, infatti, il 42,8% del campione, una quota in aumento rispetto al trimestre precedente (erano il 30,4 per cento). Il peggioramento è stato rilevato ovunque in Italia con una prevalenza presso le imprese delle regioni nel Nord-Ovest e del Nord-Est, così come del resto era già stato registrato nel corso del trimestre precedente. Ad avvertire maggiormente il peso del peggioramento del costo dei servizi bancari sono state in prevalenza le microimprese del commercio.
Divario salari, prezzi (24 aprile 2012).
Le retribuzioni contrattuali orarie a marzo restano ferme su febbraio e salgono dell'1,2% su base annua. Lo rileva l'Istat, aggiungendo che la crescita tendenziale è la più bassa almeno dal 1983, ovvero dall'inizio delle serie storiche ricostruite, 29 anni fa. Nel mese scorso, poi, la forbice tra l'aumento delle retribuzioni contrattuali orarie (+1,2%) e il livello d'inflazione (+3,3%), su base annua, tocca una differenza di 2,1 punti percentuali, che rappresenta il divario più alto dall'agosto del 1995. A marzo, rileva l'Istat, l'indice delle retribuzioni contrattuali orarie registra una variazione nulla rispetto al mese precedente e un incremento dell'1,2% rispetto a marzo 2011. Nel primo trimestre del 2012 la retribuzione è cresciuta dell'1,3% rispetto al corrispondente periodo del 2011. I settori che a marzo presentano gli incrementi tendenziali maggiori sono quello tessile, abbigliamento e lavorazione pelli (2,9%). Seguono quello chimico, comparto di gomma, plastica e lavorazioni minerali non metalliferi e quello delle telecomunicazioni (2,7% per tutti i comparti). Si registrano, invece, variazioni nulle nell'agricoltura, nel credito e assicurazione e in tutti i comparti appartenenti alla pubblica amministrazione. Corte dei Conti. Arriva un altro schiaffo alla politica recessiva del governo: dalla Corte dei conti e dal suo presidente, Luigi Giampaolino: «Il pericolo di un corto circuito rigore-crescita non è dissipato nell’impianto del Documento di economia e finanza 2012-2015», ha detto il magistrato contabile. E poi i tempi per raggiungere il pareggio di bilancio sono troppo brevi: «La ristrettezza dei margini temporali, imposti dalle intese europee, complica la realizzabilità di una strategia di politica economica nella quale si compongano le esigenze di riequilibrio del bilancio con quelle della ripresa economica». Dati alla mano, «prendendo a riferimento il 2013, l’effetto recessivo indotto dagli interventi correttivi dissolverebbe circa la metà dei 75 miliardi di correzione netta attribuiti alla manovra di riequilibrio». Quindi, è allarme tasse: «La pressione fiscale salirà dal 42,5 per cento del 2011 al oltre il 45 per cento per l’intero triennio successivo» (senza contare il differenziale tra tassazione virtuale e tassazione reale).
La spesa pubblica in Italia. Confronti (24 aprile 2012).
È l’Italia il “Paese della spesa pubblica” e tale livello è molto superiore sia a quello svedese che a quello spagnolo. Come ricorda giustamente e tristemente il prof. Ugo Arrigo la spesa pubblica italiana ha raggiunto il 50 per cento del prodotto interno lordo, ma quest’ultima variabile tiene conto anche dell’economia sommersa. Al netto dell’economia sommersa, circa il 20 per cento del totale, la spesa pubblica italiana ormai supera abbondantemente il 60 per cento. Un triste primato, perché la Svezia, che per lungo tempo è stata presa come “scusa” o testimonianza ha ormai un livello di spesa molto inferiore a quella italiana. Siamo ormai nell’ordine di 10 punti percentuali di differenza, ma il livello dei servizi è totalmente di un altro “pianeta”. Cosa si è fatto a metà anni novanta nel paese scandinavo per raggiungere tale obiettivo? Semplice, si è andato verso una riforma della pubblica amministrazione e si è spinto sull’acceleratore delle liberalizzazioni. Ad esempio si decise per una separazione della rete ferroviaria dall’incumbent, ma si introdusse anche il principio della licenziabilità dei dipendenti pubblici. L’articolo 18 è una specificità molto italiana e in Svezia, ad esempio, nel settore educativo si è arrivati ad una riforma che potrebbe sconvolgere in molti. Il manager della scuola secondaria svedese è responsabile dell’andamento dei risultati dei propri studenti e per questo è anche licenziabile. Ogni singolo professore è valutato in funzione dei risultati degli studenti e se tale professore non raggiunge gli obiettivi o semplicemente è un “fannullone”, il direttore-manager lo licenzia. Ogni singola scuola cerca i migliori professori e li premia, mentre licenzia chi non lavora bene. Un principio distante anni luce dall’Italia della Camusso e della riforma Fornero del mercato del lavoro. Passiamo ora alla Spagna. Storicamente nel paese iberico si è avuta una spesa pubblica relativamente bassa, ma negli ultimi anni sotto il peso dei sussidi di disoccupazione, questa è cresciuta troppo. Risultato? La Spagna è sotto pressione dei mercati. Per onor di cronaca bisogna ricordare che non è solo la spesa pubblica e il deficit elevato a preoccupare i mercati, quanto il peso degli asset tossici delle cajas. Detto questo, il nuovo Governo Rajoy ha agito immediatamente con una riduzione delle spese per 40 miliardi di euro. Non ha invece aumentato l’IVA che rimane con l’aliquota massima al 18 per cento. Ha aumentato le tariffe nei servizi pubblici, trasporto pubblico locale, treni ed ha introdotto il sistema del co-pagamento nella sanità per cercare di avvicinare la tariffa al costo del servizio. È finita l’era della gratuità del sistema sanitario spagnolo che ha visto un’esplosione della spesa da 75 a 100 miliardi di euro tra il 2005 e il 2009. C’è da dire anche che il premier uscente Zapatero non si era tirato indietro dalle responsabilità e poco prima di annunciare le dimissioni anticipate aveva ridotto gli stipendi pubblici anche del 10 per cento per cercare di contenere le spese pubbliche. I socialisti che riducono gli stipendi pubblici. Vi immaginate una decisione simile dal Governo Monti o da un qualunque partito italiano? Svezia e Spagna sono distanti dall’Italia che rimane un paese congelato nella convinzione di potere sopportare ancora a lungo una tassazione che distrugge imprese e famiglie. Andrea Giuricin da CHICAGO-BLOG.
Draghi e le banche a rischio (26 aprile 2012).
L'Europa deve dotarsi di un meccanismo per la risoluzione delle banche in difficoltà, vale a dire per una ristrutturazione delle banche in difficoltà fatta in maniera coordinata. Per il presidente della Bce, Mario Draghi è "importantissimo" affrontare questo nodo. Stando all'edizione odierna del Sueddeutsche Zeitung, che però non cita alcuna fonte, la Banca centrale europea e un gruppo di Paesi della zona euro stanno lavorando alla possibile iniziativa di concedere alle banche colpite dalla crisi un accesso diretto al fondo permanente di salvataggio. Secondo quanto risulta al quotidiano, un gruppo di Paesi della zona euro verificheranno nelle prossime settimane l'ipotesi di trasferire direttamente il credito del fondo alle banche con problemi di liquidità ma in grado di sopravvivere. Berlino sarebbe comunque fortemente contraria all'idea. L'urgenza è motivata dalla crisi delle banche spagnole e dal timore che si possa diffondere un contagio ad altri Paesi della zona euro. Secondo gli attuali accordi, sono i Paesi e non gli istituti di credito della zona euro ad avere accesso ai fondi. Draghi ha anche osservato che prima della crisi c'era una sistematica sottovalutazione dei rischi di credito nazionali di alcuni Paesi. Con la crisi si è "fermata" l'integrazione finanziaria e in alcuni casi è persino arretrata. Mentre l'integrazione finanziaria all'interno dell'area euro è un fattore fondamentale di stabilità. Il numero uno dell'Istituto centrale ha riconosciuto che i mercati finanziari hanno subito una profonda riforma, ma è "fondamentale" che tali riforme vengano attuate e anche una maggiore sorveglianza sulle banche è un "chiaro" obiettivo da perseguire.
La "spending review" secondo Oscar Giannino (30 aprile 2012).
Come è apparso chiaro dalle dichiarazioni di Piero Giarda, indispettito dagli attacchi che iniziava a a ricevere per il ritardo di una spending review affidatagli in splendida solitudine, il governo di emergenza ha creduto che il problema della spesa pubblica si identificasse in una sua manutenzione. Cioè nel confermare con nuovi provvedimenti la sua stabilizzazione sul Pil, all’attuale quota ben superiore al 50% (naturalmente la stabilizzazione riguarda la spesa corrente, quella per interessi la decide il mercato). La stabilizzazione, di fatto, non è conseguita. E’ solo grazie alle reiterate manovre di Tremonti, che la spesa pubblica nel 2010 e 2011 ha cessato di crescere come in tutto il dopoguerra (unica altra eccezione, un anno sotto Ciampi). Ma il più dei tagli 2011-14 non è ancora conseguito, occorre cioè presidiare con decisione affinché avvengano sul serio, e in loro assenza checché dica Giarda la spesa pubblica è inerzialmente ancora in crescita. Il secondo errore è che una spesa superiore al 50% del Pil ufficiale, è in realtà una spesa pubblica ben superiore al 60% del Pil “legale”, depurandone il dato “in nero” che l’Istat vi ingloba. E’ cioè una spesa da record negativo tra i Paesi avanzati! Dunque essa non va affatto stabilizzata: ne va invertito il segno, assicurandone un’energica discesa, di 5 o 6 punti di Pil in 3 o al più 4 anni. Come hanno fatto Germania e Svezia, resisi conto che una spesa pubblica tanto ingente uccideva l’economia. E’ tanto più vero per l’Italia, con un debito pubblico che dal 120% risale verso il 123% grazie alla recessione in corso. Infine, dover provare ad azzerare il deficit pubblico a breve senza incidere in profondità la spesa pubblica significa non solo alzare un prelievo fiscale a sua volta da record, il 54% sull’Italia “legale”, ma un doppio errore se inoltre l’obiettivo è di raggiungere avanzi primari stabili nell’ordine di 5-6 punti di Pil l’anno, ottenuti per quattro quinti solo con maggiori imposte. Di qui gli 87 miliardi di più tasse in 3 anni calcolate dalla Cgia di Mestre. Gli errori vengono però al pettine, in un’Europa in cui la Francia di Hollande rilancia gli spread, mentre la sin qui eurovirtuosa Olanda molla la Germania entrando in crisi di governo proprio sui tagli al deficit, e quando gli USA al G20 hanno negato un solo dollaro in più a un’Europa indifferente al sospingere così Spagna e Italia a esiti greci. Giarda che chiede una task force a Monti per la spending review è una prima – parziale – ammissione di consapevolezza. Così proseguendo si arriva a rivolte fiscali e al deprezzamento degli immobili che sin qui avevano retto il portafoglio patrimoniale delle famiglie. Vieri Ceriani che s’intesta nella delega fiscale l’aumento dell’Iva previsto a ottobre, e aggiunge che non ci sarà un solo euro di tasse in meno, mostra invece che la consapevolezza nel governo ancora manca. Quando dico “manca” lo affermo in maniera sgomenta: con questo governo non si può – a differenza di molti precedenti, di ambo i colori – partire dal presupposto che non capisca che cosa avviene nella realtà economica del Paese e sui mercati mondiali. Ergo, l’apparente inconsapevolezza del governo tecnico e il suo puntare a tutta birra con barra ferma su nuove tasse e basta, è una scelta suicida che lascia senza parole. Monti non è solo, nel non voler tagliare spesa pubblica per meno imposte. Nessun partito, a sinistra a destra e al centro, al di là di chiacchiere ha il fegato di chiedere tagli di spesa per 5 o 6 punti di Pil. Si ripete che tagli alla spesa sono tagli ai servizi ai cittadini: penosa menzogna, visto che la spesa per welfare è meno della metà degli oltre 50 punti di Pil, e le sole forniture sanitarie costano 5 punti di Pil cioè il doppio di 7 anni fa, perché ogni ospedale e Asl ne rifiuta la centralizzazione. Altro che chiedersi alla Kennedy che cosa possiamo fare per lo Stato. Qui bisogna chiedersi solo che cosa lo Stato stia facendo a noi. Si comporta come un bandito. Ma in più – come scriveva Lysander Spooner – lo Stato ha la pretesa che i ladri non hanno, cioè quella di dirci che gli immorali siamo noi. E che ci deruba per il nostro bene.
C’è una conclusione aggiuntiva da trarne. A me appare chiaro che l’Italia sia in una cambio di fase più profondo ancora del 92-93, per proporzioni e gravità attuale della discontinuità economica e d’impresa rispetto alla crisi allora della lira. Allora, se questo è vero, chi la pensa come noi deve porsi un problema. Se restare osservatore libero. O se e come darsi da fare, tirarsi su le maniche e costruire un’offerta politica nuova su questo semplice e dirimente crinale. Meno spesa per meno tasse, meno pubblico per abbattere il debito. Ne vale la pena? Una pattuglia liberista, dura e pura. Per la libertà, per l’impresa, per il lavoro, per il PIL. Non credo affatto che questi punti spossano essere l’agenda del vecchio Pdl qualunque trovata abbia il suo anziano Mao Tse Tung: il suo tempo e le sue prove in 17 anni le ha date, sono un passato di delusioni da dimenticare. Non credo affatto che interessino alla sinistra, non me ne stupisco ed è giusto così. Non credo affatto che interessino, però, neanche ai vecchi e nuovi dc e ai coloriti caroselli imprenditorial-managerial-intellettual che sui vecchi dc e qualche “tecnico” convergono, magari su nuovi rossi treni. Leggo sul Foglio e sul Giornale di campagne di arruolamento conviviali estese al nostro mondo liberista. Non mi piacciono, non partecipo, conosco i soggetti che invitano e mi basta e avanza non frequentarli, visto che mi querelano per quel che scrivo trascinandomi in Tribunale. Non è materia divisiva per questo blog, ciascuno ha le sue idee. Ma le mie sono queste, e le dico in chiaro. Non vorrei tra pochi mesi trovarmi all’improvviso con amici liberisti che ricredono a nuovi Berlusconi opportunisti, neomoderatineocentristituttoeilcontrarioditutto, come fecero con l’originale 18 anni fa. da CHICAGO-BLOG.
Ancora problemi per la Grecia (30 aprile 2012).
La Grecia sarà anche stata salvata (per ora), ma le sue banche sono al collasso. Non tanto e non solo per quelle perdite record da 28 miliardi di euro registrate a fine 2011. Quello è il prezzo salato pagato al piano di swap dei creditori privati. Tra cui ovviamente le banche elleniche che si erano riempite di titoli di Stato di Atene fin dall'inizio della crisi per soccorrere il Governo a fronte della fuga degli investitori esteri. Quei 28 miliardi di buco sono frutto del taglio del 79% del valore dei bond in pancia alle prime 4 banche del paese: National Bank of Greece; Piraeus; Efg Eurobank e Alpha bank. Ora quelle perdite verranno colmate dalle ricapitalizzazioni per le quali l'Fmi ha chiesto ai privati di partecipare. Già ma quali privati? Chi è in condizioni oggi in Grecia di ridare mezzi freschi agli istituti di credito? C'è più di una possibilità di non vedere più restituiti quei denari, insomma di vederli volatilizzare. E il motivo è nella pesante crisi che il sistema bancario greco sta vivendo, in sintonia con le pessime condizioni del Paese che si appresta a vivere il quarto anno di recessione profonda dall'inzio della crisi. E se anche le perdite causate dallo swap verranno coperta dai nuovi aiuti resta la condizione di estrema fragilità del sistema bancario. Un dato su tutti presoccupa: non si arresta la fuga dei depositi dalle banche elleniche. Clienti che non si fidano più e ritirano i soldi dagli sportelli. All'inizio del 2012 i depositi del totale delle banche sono scesi a poco più di 170 miliardi dai 240 miliardi della primavera del 2009. Settanta miliardi fuoriusciti dalle banche nell'arco di poco meno di tre anni. Su base annua l'emorragia è del 20%; un quinto dei conti correnti è stato chiuso e ha preso altre strade. Segno tangibile della crisi di fiducia che regna ad Atene. E se i depositi scendono anche i prestiti non possono che seguire la stessa strada. Da un lato non c'è più domanda; dall'altro le banche devono ridurre i crediti per mantenere il rapporto tra depositi e prestiti a un livello sostenibile. E già oggi quel livello è deteriorato. Per Piraeus, come spiega uno studio di Mediobanca Securities, il rapporto prestiti/depositi è al 162%; per Alpha bank al 153% per Eurobank al 148%. E la media si colloca al 140%. Il rapporto ideale dovrebbe essere più vicino al 100%: cioè prestiti uguali ai depositi. Il che fa pensare che le banche di Atene andranno incontro a un'ulteriore riduzione dei crediti. In un paese fiaccato da anni di recessione si chiude anche l'ultimo rubinetto, quello del credito. Con una doppia conseguenza. Che per le banche di Atene si profila un 2012 ancora in perdita e che per il paese senza più prestiti la recessione sarà ancora più profonda.
Monti e la spending review (1 maggio 2012).
«Tutti invocano la riduzione delle tasse, ma ci sono responsabilità del passato che causano l'attuale pressione fiscale». Il governo «non si diverte» ad alzare imposte e tributi ed è ormai assodato che una diminuzione «è possibile solo se tutti paghiamo le tasse e se tutti riconoscono che l'illegalità è immorale». In questo contesto, «chi vuole diminuire le tasse sa che è necessario rivedere enti e società, compresa la Rai, dove la logica della trasparenza, del merito, dell'indipendenza dalla politica non è garantita». E' un Mario Monti determinato quello che affronta la conferenza stampa seguita al consiglio dei ministri che ha varato la «spending review». Alla quale non erano presenti solo esponenti del governo: alla destra del premier c'era anche Enrico Bondi, forse la principale delle novità emerse dalla riunione dell'esecutivo. Il risanatore dei conti Parmalat, che ha rimesso in sesto l'azienda di Colleccio dopo il crac consentendone il passaggio ai francesi della Lactalis, avrà il compito di «definire il livello di spesa per l'acquisto di beni e servizi». La conferenza stampa era iniziata con una replica indiretta a Beppe Grillo, con Monti che ha espresso «sdegno» nei confronti di chi «vuole candidarsi alla guida di un Paese e giustifica l'evasione fiscale», riferendosi alle uscite del comico genovese che aveva difeso la scelta di non pagare le tasse. E poi una stoccata al suo predecessore, Silvio Berlusconi, mai nominato esplicitamente: «L'Ici non andava abolita, non c'erano le condizioni per farlo. E oggi c'è necessità di recuperare il tempo perduto». «Se all'Imu si preferisce una patrimoniale il governo è pronto a valutare un'alternativa», ha proseguito Monti facendo intendere che esistono poche strade per ridurre il debito pubblico. «Il consiglio dei ministri si è dedicato alla spending review - ha aggiunto il premier - che è opera personale del ministro Giarda. L'importo complessivo di riduzione della spesa pubblica è di 4,2 miliardi di euro, importo che dovrà servire per evitare l'aumento dell'Iva di due punti percentuali previsto per il prossimo ottobre, anche se per il momento la misura prevista nel decreto Salva Italia non è scongiurata». Monti ha poi annunciato incarichi «speciali» anche per Giuliano Amato (sulla spesa relativa al finanziamento pubblico ai partiti) e per il professore Francesco Giavazzi, chiamato ad analizzare il sistema dei contributi pubblici alle imprese. Entrambi presteranno la loro opera a titolo gratuito, mentre Bondi - ha detto Monti - «rifiuta qualsiasi remunerazione, ma speriamo almeno di imporgli il rimborso spese» (in realtà effettuando attività non di studio, come gli altri due, ma gestionale l'esecutivo dovrà comunque corrispondergli gli emolumenti da alto dirigente, nonostante il rifiuto del diretto interessato). Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Pietro Giarda, ha poi sottolineato che «l'obiettivo strategico» della spending review è quello di «cambiare la dinamica dei costi di produzione dei servizi pubblici, che oggi valgono circa 300 miliardi». E ha annunciato che ogni ministro avrà «circa un mese e mezzo per elaborare un piano di riorganizzazione del proprio ministero», con l'obiettivo di arrivare ad una riduzione significativa delle spese. Quanto alle cifre complessive, la spesa pubblica «rivedibile» nel medio periodo - ha puntualizzato il ministro - è pari a circa 295 miliardi di euro». Il presidente del Consiglio ha poi rivolto una critica anche al principale partito della maggioranza che lo sostiene, il Pdl, sul tema dei crediti delle imprese nei confronti dello Stato: «Non si possono istituire personali e arbitrarie compensazioni tra crediti e debiti verso lo Stato», ha detto Monti, provocando l'immediata levata di scudi di Gaetano Quagliarello (Pdl), che gli ha replicato: «Il problema della sperequazione tra debiti non onorati e crediti imposti sempre più duramente da parte dello Stato, che in un momento di grave crisi può portare le imprese al fallimento - prosegue - non può essere nascosto come polvere sotto il tappeto, ed è grave che il governo non si renda conto appieno che si tratta di una priorità assoluta».
COMMENTO DI IMPRESA OGGI. Vorremmo sottolineare alcuni punti che ci vedono in profondo disaccordo con il Premier. Primo. Il ministro Giarda è dal 1981 che si occupa di spending review, eppure il governo di tecnici sente il bisogno dell'aiuto di un altro tecnico, Enrico Bondi, degnissima persona, ma assolutamente digiuna di pubblica amministrazione; si ha l'impressione che il governo, non sapendo cosa fare, si nasconda dietro l'onorabilità di Bondi. L'unica valida spiegazione è che il governo sappia cosa fare, ma che voglia che appaia una figura terza per farlo. Secondo. Noi siamo indignati che Monti si indigni se qualcuno chiede compensazioni tra crediti e debiti verso lo Stato; forse il governo è competente di grandi imprese e banche ma non conosce il capitalismo molecolare che è la fonte della competitività della media e gerande impresa.
Cala ancora il mercato dell'auto (2 maggio 2012).
Le immatricolazioni auto, ad aprile, sono scese del 17,99% su base annua, a 129.663 autovetture. Lo rende noto il ministero dei Trasporti e infrastrutture. Sempre ad aprile, sono stati registrati 327.386 trasferimenti di proprietà di auto usate, con una variazione di -18,94% rispetto ad aprile 2011, durante il quale ne furono registrati 403.899 (nel mese di marzo 2012 sono stati invece registrati 391.863 trasferimenti di proprietà di auto usate, con una variazione di -8,22% rispetto a marzo 2011, durante il quale ne furono registrati 426.972). Il volume globale delle vendite (457.049 autovetture) ha dunque interessato per il 28,37% auto nuove e per il 71,63% auto usate.
Tra gennaio e aprile, la Motorizzazione ha in totale immatricolato 537.170 autovetture, con una variazione di -20,17% rispetto al periodo gennaio-aprile 2011, durante il quale ne furono immatricolate 672.872. Nello stesso periodo di gennaio-aprile 2012 sono stati registrati 1.408.227 trasferimenti di proprietà di auto usate, con una variazione di -12,21 rispetto a gennaio-aprile 2011, durante il quale ne furono registrati 1.600.096.
In calo anche il settore dell'usato con la registrazione ad aprile di 327.386 trasferimenti di proprietà, con una variazione di -18,94% rispetto allo stesso mese del 2011 (allora furono 403.899). Ad aprile 2012 il volume globale delle vendite (457.049 autovetture) ha dunque interessato per il 28,37% auto nuove e per il 71,63% auto usate. Il calo sull'usato è minore se si considera il periodo gennaio-aprile 2012 con 1.408.227 trasferimenti di proprietà, con una variazione di -12,21 rispetto allo stesso periodo del 2011, quando ne furono registrati 1.600.096.
Il parere di Promotor
Secondo il Csp - centro studi Promotor con il dato di aprile la proiezione su base annua degli ultimi sei mesi si attesta a 1.465.625 immatricolazioni. Un volume di vendite che non veniva più realizzato dal 1983. Molte sono le cause che concorrono a determinare questa situazione. Il mercato italiano dell'auto soffre particolarmente per i livelli elevatissimi dei prezzi dei carburanti e dell'assicurazione RC auto, per una pressione fiscale specifica insostenibile, per le difficoltà di accesso al credito e, soprattutto, per un quadro economico che si rivela di giorno in giorno più preoccupante, sia per il succedersi di dati sempre più negativi sull'economia reale, sia perchè il Governo non ha ancora adottato alcun provvedimento che possa determinare una ripresa dell'economia in tempi ragionevolmente brevi. Alcuni dati e alcuni indicatori sono particolarmente eloquenti sull'attuale momento del settore dell'auto. Tra la fine del 2011 e la fine di aprile il prezzo della benzina è aumentato del 10,5% e quello del gasolio del 4,5%. Ne hanno risentito pesantemente i consumi calati del 2,4% in gennaio, del 16,4% in febbraio e dell'8,7% in marzo e ne hanno sicuramente risentito anche gli acquisti di auto. A questo proposito giova rilevare che l'indicatore elaborato dall'Osservatorio Findomestic sulla propensione a comprare un'autovettura nuova, dopo essere sceso a livelli infimi a fine 2011 e, dopo un rimbalzo in gennaio e febbraio, in marzo e in aprile è di nuovo in calo. Per quanto riguarda l'assicurazione RC auto non si hanno notizie di effetti positivi conseguenti alla liberalizzazione introdotta dal Governo. Per la pressione fiscale specifica sull'auto si prevedono poi ulteriori inasprimenti, mentre la quota degli acquisti di autovetture con ricorso al credito è scesa al 51% dal 61% del 2008. Questa situazione incide pesantemente sulla fiducia degli operatori del settore che, secondo l'indicatore costruito dal Centro Studi Promotor GL events, è scesa a un livello tanto basso quale non era mai stato rilevato da quando l'indicatore viene elaborato (gennaio 1993). In aprile sono, d'altra parte, tutti in calo i principali indicatori di fiducia diffusi dall'Istat. L'indice per le imprese manifatturiere scende da 91,1 a 89,5, quello per le imprese dei servizi scende da 82,2 a 76,0, quello per le imprese del commercio da 83,8 a 81,8 e quello dei consumatori da 96,3 a 89,0. Si tratta di cali molto rilevanti che riflettono una presa di coscienza della situazione dell'economia reale, presa di coscienza che è un brusco richiamo alla realtà dopo la momentanea euforia dovuta all'allontanamento del rischio di default finanziario del Paese.
Proprio oggi l'Istat ha rettificato il dato sul tasso di disoccupazione in febbraio, che passa dal 9,3%, comunicato un mese fa, al 9,6%, mentre il dato di marzo si attesta al 9,8% con un incremento dei disoccupati rispetto a un anno fa del 23,4% (476.000 unità). Questi dati seguono quelli sulla produzione industriale, che in febbraio ha accusato un calo del 6,8% su base annua, e autorizzano a ritenere che la stima preliminare del Pil nel primo trimestre 2012, che verrà diffusa dall'Istat il 15 maggio, sarà fortemente negativa, confermando la gravità della recessione che interessa il nostro Paese. La situazione è dunque decisamente allarmante anche per il settore dell'auto che al momento può sperare in un'inversione di tendenza soltanto nell'ipotesi in cui, come ormai richiesto da tutti, si affianchi finalmente alla politica del rigore un pacchetto di misure per la ripresa dell'economia reale.
Il commento dei concessionari
«Il dato delle immatricolazioni di aprile, quinto mese consecutivo che registra un calo a due cifre, risulta non veritiero in quanto alterato dai recuperi per lo sciopero delle bisarche del mese scorso. In sintesi, migliaia di vetture che in normali condizioni sarebbero state immatricolate in marzo sono slittate ad aprile. L'analisi dei dati farà probabilmente emergere che questa anomalia ha prodotto anche un minor ricorso alle kilometri zero last minute». Così commenta Filippo Pavan Bernacchi, presidente di Federauto, l'associazione che rappresenta i concessionari di autoveicoli di tutti i marchi commercializzati in Italia. «Oggi – ha proseguito Pavan Bernacchi - non possiamo che confermare la previsione di un mercato 2012 destinato a chiudersi a 1.370.000 pezzi. Sapendo che su ogni mancata vendita lo Stato perde 5.000,00 euro fra IVA e annessi, se pensiamo che il mercato auto negli ultimi 5 anni ha sviluppato una media di 2.000.000 di pezzi, i conti su quanto perderà lo Stato solo nel 2012 è presto fatto. Basta moltiplicare 5.000 euro per i 630.000 pezzi che mancano all'appello. Il risultato è -3,150 miliardi».
Secondo Gian Franco Soranna, direttore di Federauto: «L'analisi più corretta sta nel confronto fra il bimestre marzo-aprile 2011 e 2012 e ancor di più nel raffronto quadrimestrale. Analizzando i numeri con questa chiave di lettura, nel confronto marzo-aprile 2011 e 2012 mancano all'appello 78.361 immatricolazioni, che diventano quasi 135.683 se prendiamo a riferimento il primo quadrimestre. In termini percentuali stiamo parlando di flessioni che oscillano, rispettivamente, fra il 22,6% e il 20,2%.» Questi dati esprimono le gravissime difficoltà del settore automotive, che impiega 1,2 milioni di addetti, contribuisce per il 16,6% al gettito fiscale nazionale e fattura oltre l'11,4% del PIL. Conclude Pavan Bernacchi «La settimana scorsa, nel corso dell'audizione svoltasi presso la Commissione Trasporti della Camera, Federauto ha esposto in modo dettagliato la situazione del settore e riaffermato l'urgenza di provvedimenti per arginare la crisi delle vendite acuita da un attacco concentrico agli autoveicoli e ai loro utilizzatori. Attacco realizzato attraverso aggravi di imposte, tasse e diminuzione delle deducibilità fiscali sulle auto aziendali. L'affannosa ricerca di risorse da parte del Governo, e il conseguente drenaggio a carico degli automobilisti, in particolare delle famiglie, sta compromettendo irrimediabilmente un settore che potrebbe rappresentare una forte leva per far ripartire questo Paese».
Spending review: dai tecnici al supercommissario al web (3 maggio 2012).
Cittadini segnalate via web gli sprechi della pubblica amministrazione. È l'appello lanciato da Palazzo Chigi che sceglie la partecipazione online anche per l'adozione della spending review. Un'apposita sezione del sito del Governo è dedicata proprio alla spending review, «allo scopo di illustrare la spending review, quanto è stato fatto finora e i progressi che si attendono per i prossimi mesi». Non solo però perchè «tutti i cittadini, attraverso il modulo "Esprimi la tua opinione", hanno la possibilità di dare suggerimenti, segnalare uno spreco, aiutando i tecnici a completare il lavoro di analisi e ricerca delle spese futili». La riduzione delle spese pubbliche attraverso la spending review, informa il sito web di Palazzo Chigi, «non lineare ma - si sottolinea - selettiva, sarà realizzata potenziando la linea di risparmio seguita dal governo nei primi mesi di attività: ad esempio i risparmi, per oltre 20 milioni di euro, prodotti dalla Presidenza del Consiglio grazie alla diminuzione delle consulenze e ai tagli all'organico, la riduzione degli stipendi dei manager pubblici, i tagli sui voli di Stato e sulle "auto blu", la soppressione di enti, o la riforma delle Province. In base alla bozza di decreto legge il supercommissario per la spending review, Enrico Bondi, avrà "15 giorni" di tempo per presentare un cronoprogramma al Consiglio dei ministri per tagli e razionalizzazioni della spesa pubblica. Il Consiglio dei ministri poi verificherà l'attuazione del piano «sulla base di relazioni mensili del commissario». Il commissario straordinario potrà operare «in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione» e potrà avvalersi anche di un "subcommissario". Potrà stare in carica non più di un anno e percepire un'indennità «non superiore a quella del dirigente generale della presidenza del Consiglio dei ministri». Dopo la fase di raccolta delle informazioni sulle diverse voci di spesa e dopo aver segnalato al Consiglio dei ministri quelle che si possono tagliare, ridurre o razionalizzare, il commissario indicherà le misure da prendere e individuerà «un termine per il raggiungimento degli obiettivi prefissati e alla scadenza del termine il Consiglio dei ministri può autorizzare, nel rispetto dell'articolo 120 della Costituzione (sui poteri sostitutivi del governo nei confronti di regioni ed enti locali, n.d.r.), l'esercizio dei poteri sostitutivi dei vertici delle amministrazioni inadempienti». Secondo i calcoli del Governo nel complesso, la spesa pubblica "rivedibile'' nel medio periodo è pari a circa 295 miliardi di euro. A breve termine, invece, la spesa considerata rivedibile è stimabile in circa 80 miliardi. Per il 2012 la riduzione della spesa pubblica ha un importo complessivo di 4,2 miliardi: tutte le amministrazioni pubbliche devono concorrere. Questo importo potrebbe servire, per esempio, a evitare l'aumento di due punti dell'Iva previsto per gli ultimi tre mesi del 2012. Una riduzione di 4,2 miliardi, da ottenersi in 7 mesi (1° giugno-31 dicembre 2012) equivale a 7,2 miliardi su base annua e corrisponde perciò al 9% della spesa rivedibile nel breve periodo (80 miliardi). Abbiamo già messo in evidenza che il ministro Giarda nel 1981 era membro di una commissione alla quale era stato affidato il compito di individuare gli sprechi nella PA, perchè c'è ora bisogno di un supercommissario che non conosce la PA? E' forse un modo per lavarsi le mani? Per quanto concerne la possibilità di avere informazioni sugli sprechi della PA non c'è bisogno di scomodare tutti gli italiani. E' sufficiente leggersi una pila di libri che trattano dell'argomento dal primo di Rizzo e Stella, La Casta, all'ultimo di Mario Giordano, Spudorati.
Draghi, sostenere la crescita (4 maggio 2012).
La crescita va rimessa al centro dell'agenda europea. Il presidente della Bce Mario Draghi, che la settimana scorsa aveva invocato un "patto per la crescita", ne ha messo in fila ieri i tre elementi essenziali: le riforme strutturali, comprese liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro, il rilancio degli investimenti in infrastrutture, anche attraverso un aumento dell'azione della Banca europea per gli investimenti, già concordata dai Governi, e un percorso per definire il futuro dell'euro nei prossimi dieci anni, come si fece negli anni 90 quando fu creata l'unione monetaria. «Dobbiamo fare chiarezza sul nostro futuro europeo comune», ha detto. È significativo che Draghi abbia insistito sulla crescita dopo che il consiglio della Bce si era riunito in mattinata a Barcellona, nella Spagna dove un lavoratore su quattro è disoccupato e un giovane su due non trova lavoro, e che è diventata ormai l'epicentro della crisi dell'eurozona. In serata, Draghi e gli altri governatori hanno incontrato il nuovo capo del Governo spagnolo, Mariano Rajoy (di cui ha applaudito il lavoro svolto in breve tempo). Alla crescente insofferenza delle opinioni pubbliche d'Europa e dei politici contro le politiche di austerità, il presidente della Bce ha ribattuto che «non c'è contraddizione» fra "patto per la crescita" e "patto fiscale", anche se ha ammesso che nel breve termine il rigore di bilancio pesa sulla crescita. Ma, ha affermato, i conti pubblici in ordine sono uno dei pilastri su cui si basa una crescita sostenibile. Draghi ha attribuito la responsabilità per mettere in moto quest'ultima anzitutto ai Governi, anche se nelle sue risposte ha girato alla larga dalle polemiche sollevate in campagna elettorale in Francia e in Grecia. Gli ultimi dati, tutti negativi, «sottolineano la prevalenza dell'incertezza» nel quadro economico, ha detto Draghi, ma non sono sufficienti a far cambiare all'istituto di Francoforte il suo scenario di base, che resta di una ripresa graduale nel corso dell'anno. La Bce pubblicherà la revisione delle sue previsioni il mese prossimo: la maggior parte degli osservatori si aspetta un ritocco al ribasso e qualcuno pensa che, in seguito, un ulteriore deterioramento dell'attività potrebbe indurre la Bce ad abbassare i tassi d'interesse. Per il momento, tuttavia, l'istituto di Francoforte non ritiene di doversi muovere: i tassi d'interesse all'1% sono ai minimi storici in termini nominali e negativi in termini reali. Un taglio non è stato neppure discusso. «La politica monetaria rimane accomodante - ha osservato Draghi - e non si può negare che la liquidità abbondi», dopo le due operazioni di finanziamento triennale alle banche per oltre 500 miliardi di euro netti. Il presidente della Bce non si è sbilanciato sulla possibilità che ne venga effettuata un'altra, né sull'ipotesi di riprendere gli acquisti di titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, fra i quali la Spagna sarebbe il principale candidato. Secondo il capo dell'Eurotower, l'effetto delle Ltro (LTRO longer-term refinancing operation consiste in un'asta di liquidità in cui la BCE concede un prestito alle banche richiedenti, della durata di 3 anni e con un tasso di interesse agevolato dell'1% annuo. In cambio la BCE riceve dalle banche una garanzia sul prestito, detta "collaterale". La garanzia è composta solitamente da obbligazioni governative - titoli degli stati membri dell'UE - , la BCE accetta come collaterale anche titoli privi di valore - ad esempio quelli emessi dalla Grecia, dichiaratasi insolvente - . La lista degli asset eligibili per essere usati come collaterale viene pubblicata sul sito della BCE ed è aggiornata più volte al mese) non si sta esaurendo e anzi richiederà ancora tempo per dispiegarsi: nel frattempo ha però evitato un grave credit crunch, mentre si cominciano a vedere condizioni meno tirate nell'offerta di credito, un rafforzamento dei depositi bancari, soprattutto nei Paesi in difficoltà, un recupero degli aggregati monetari anche se a livelli ancora depressi e una riduzione della volatilità dei mercati finanziari. Draghi ha detto che la Bce deciderà a giugno se continuare la politica di fornitura illimitata di liquidità alle banche varata nell'ottobre scorso. Decisione ritenuta probabile dai mercati. Da alcuni giorni Draghi sta sollecitando i governi dell'eurozona ad ammorbidire gli interventi sulla fiscalità e avviare una politica di incentivazione della ripresa; sembrerebbe una velata critica al governo Monti.
Il nuovo presidente francese (7 maggio 2012).
François Hollande è il nuovo presidente della Repubblica francese. Il settimo da quando, nel 1965, l'elezione avviene con il suffragio universale. Il secondo socialista, 31 anni dopo la vittoria di François Mitterrand e 17 anni dopo la sua uscita di scena. E' stato eletto con il 51,9% dei voti, una percentuale molto vicina a quella registrata dagli ultimi sondaggi. Poco dopo le sei gli exit poll davano per sicura la vittoria di Hollande mentre l'Ump, il partito del presidente uscente, annullava la manifestazione prevista alla Concorde in caso di successo. Venti minuti dopo le otto, Sarkozy ha parlato ai militanti e simpatizzanti riuniti nella sala parigina della Mutualité. Con un bel discorso, all'altezza della situazione: «Ho telefonato a Hollande e gli ho augurato buona fortuna. Perché la Francia è più importante del destino dei singoli». Si è assunto «l'intera responsabilità della sconfitta» e ha confermato indirettamente il ritiro dall'attività politica, almeno per ora. Non sarà quindi lui a guidare l'attuale maggioranza nella prossima battaglia, quella delle legislative di metà giugno. Perché se i socialisti dovessero vincere, ed è molto probabile, per la prima volta una parte politica avrebbe tutti i poteri. La sinistra controllerebbe infatti l'Eliseo, il Governo, le due Camere, la quasi totalità delle Regioni e delle Province, le principali città. Hollande ha parlato molto più tardi, alle nove e mezza. Da Tulle, cittadina di 16mila abitanti del cuore agricolo francese di cui è stato a lungo sindaco. Capoluogo del dipartimento di cui è tutt'ora presidente, la Corrèze. Terra che ha già dato alla Francia un presidente, Jacques Chirac. Hollande ha rilanciato lo slogan sull'unione per sottolineare che «non ci sono due France che si affrontano ma una sola» e che «il tempo delle fratture, delle divisioni, delle contrapposizioni è finito». E ha parlato dell'Europa, «che ci guarda perché noi abbiamo detto che l'austerità non può più essere una fatalità, come ribadirò ai partner europei e in primis alla Germania, in nome dell'amicizia che ci lega». D'altronde il primo colloquio telefonico con un leader europeo è proprio con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Come aveva preannunciato uno dei suoi consiglieri più stretti, quel Jean-Marc Ayrault che dovrebbe passare dalla presidenza dei deputati socialisti alla guida del futuro Governo. E a Berlino sarà il primo viaggio ufficiale. Dove Hollande sarà accolto da una classe dirigente che tifava Sarkozy ma che si è già pragmaticamente adeguata alla nuova situazione. Il ministro degli Esteri Guido Westerwelle ha parlato ieri di «evento storico», assicurando che i due Paesi «lavoreranno insieme a un patto di crescita per l'Europa». L'asse franco-tedesco continuerà a essere forte, anche se da una parte e dall'altra del Reno la parola «crescita» non ha lo stesso significato. Quanto all'agenda dei prossimi giorni, è molto probabile che Sarkozy, il cui mandato scade il 16, decida di accelerare il passaggio di consegne. Che dovrebbe avvenire l'11, subito dopo la conferma ufficiale dei risultati da parte della Corte costituzionale. Il 14 o il 15 dovrebbe esserci la nomina del nuovo Governo, probabilmente con Michel Sapin all'Economia e Laurent Fabius agli Esteri. No va dimenticato che Hollande ha basato tutta la sua campagna elettorale sulla critica al Fiscal Compact, di cui non ha parlato nel suo primo intervento. Staremo a vedere.
Elezioni in Grecia (7 maggio 2012).
Le due formazioni pro Europa, Nea Dimokratia e socialisti del Pasok, non raggiungono la maggioranza in Parlamento di 151 seggi sebbene abbiano il premio di maggioranza di 50 seggi. I risultati parziali danno in vantaggio il partito popolare Neo Dimokratia con il 18,92% dei voti (108 seggi, di cui 50 di premio), segue a sorpresa Syriza, formazione di sinistra anti austerity e per la sospensione del pagamento del debito, che quadruplica i voti passando dal 4,6% al 16,75% (52 seggi), al terzo posto il socialista Pasok con il 14,11% dal 44% (43 seggi). Entrano con il 6,97% i neonazisti di Alba d'oro. La formazione anti-austerity moderata dei Greci indipendenti va al 10% mentre la Sinistra democratica va al 6 per cento. I due partiti storici insieme non raggiungono la maggioranza dei 151 seggi su 300 e devono chiedere di formare una coalizione a tre se non a quattro. Antonis Samaras, leader di Nea Dimokratia (centro-destra), il partito che si avvia ad ottenere la maggioranza relativa, ha proposto ieri sera che venga formato un «governo di salvezza nazionale». Samaras ha ribadito la necessità che il nuovo governo avvii la ripresa economica del Paese per mantenere la Grecia in Europa e nell'eurozona. Ma ha auspicato anche modifiche al Memorandum firmato con i creditori internazionali. Una chiara apertura alle formazioni anti-piano di salvataggio. Dopo aver definito la giornata «un giorno particolarmente dolorosa», il leader del partito socialista greco Pasok, Evangelos Venizelos, ha auspicato che all'indomani del voto si possa formare in Grecia un «governo di unità nazionale». Segno che anche Venizelos è pronto a un esecutivo allargato. Ma il vero vincitore della consultazione di domenica è Syriza, acronimo che sta per coalizione della sinistra radicale, guidata da Alexis Tsipras, 36 anni, paragonabile al Sel di Vendola in Italia, che vuole sospendere il pagamento del debito, negoziare la cancellazione di una larga porzione di esso, aggiungere una clausola di crescita nei patti per ripagare la parte restante dei debiti, introdurre la patrimoniale, ridurre le spese militari, combattare la corruzione. Il considerevole aumento della forza di Syriza, la Coalizione di sinistra greca, «non è un premio ad una persona o a un partito, ma alla proposta di annullare il Memorandum» firmato dalla Grecia con i creditori internazionali. Lo ha detto ieri sera, commentando i primi risultati delle elezioni, il leader di Syriza, Alexis Tsipras. «Da domani - ha aggiunto - per la Grecia sarà un nuovo giorno. Il risultato delle elezioni rappresenta una rivoluzione pacifica contro il memorandum della barbarie».
Elezioni amministrative del 6 - 7 maggio (8 maggio 2012).
Il centrodestra fuori dai giochi in tutte le principali città; la Lega che festeggia la vittoria di Flavio Tosi al primo turno ma che per il resto è costretta a prendere atto di un crollo mai così forte in occasione di elezioni amministrative; i grillini che realizzano un vero e proprio exploit, conquistando il loro primo sindaco, seppure di un piccolo paese, e arrivando al ballottaggio a Parma e sfiorandolo a Genova; il centrosinistra che vince ma che deve fare i conti con il successo debordante di Leoluca Orlando a Palermo, la principale delle città chiamate al voto, e di conseguenza con gli scenari che si aprono sul fronte delle future alleanze. La tornata elettorale di primavera, il primo test dopo l'insediamento del governo «tecnico» di Mario Monti, disegna uno scenario politico completamente cambiato. E pone i partiti politici di fronte a nuovi dilemmi e nuove scelte. Il Pd, che per il suo segretario Pier Luigi Bersani è uscito vincitore da questo confronto con gli elettori («Non c'è materia per dire che tutti hanno perso, basta guardare i numeri») dovrà indubbiamente ragionare su quanto avvenuto a Palermo. Leoluca Orlando, con oltre il 47,6% dei voti, ha ipotecato seriamente la conquista della poltrona che già fu sua a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. E tra due settimane se la vedrà con il candidato «ufficiale» del centrosinistra, Fabrizio Ferrandelli, che è andato al 17,4%. Ma la sua sfida al Pd è anche e soprattutto una sfida al vertice del partito ex alleato: «La metà degli elettori del Pd ha votato per me: su questo Bersani dovrebbe riflettere». A Verona il sindaco uscente Flavio Tosi è stato riconfermato al primo turno. Il più pragmatico dei primi cittadini del Carroccio ha avuto la conferma della bontà della propria scelta di porsi, in alcuni momenti, in contrapposizione allo stesso Umberto Bossi. Ad esempio nella scelta di presentare una propria lista civica non espressamente leghista, che alla fine è risultata la più votata di tutte e che con tutta probabilità ha intercettato buona parte del consenso ex pidiellino, il cui candidato Luigi Castelletti è stato sopravanzato nettamente dal portacolori del centrosinistra, Michele Bertucco (che ha raccolto poco meno del 23%) ed è stato superato anche dal candidato grillino Gianni Benciolini in un tira e molla che non si è discostato molto dall'8-9%. Numeri lontanissimi da quelli a cui il fronte del centrodestra era abituato nella città scaligera. Oggi Tosi è l'unica «consolazione» per la Lega, che ha perso in molti dei propri luoghi simbolo: in Brianza sono crollate alcune delle roccaforti tradizionali, a partire da Monza, terza città della Lombardia, dove il sindaco uscente Marco Mariani non arriva nemmeno al ballottaggio. E diverse sconfitte che solo fino a un paio di mesi fa sarebbero state impensabili sono arrivate da altre città e province storicamente favorevoli al Carroccio, da Varese a Como a Bergamo. La Lega è uscita sconfitta anche a Mozzo, il paese di Roberto Calderoli e a Cassano Magnago, paese di origine di Umberto Bossi. «La gente ci ha tirato le orecchie - ha commentato Matteo Salvini, numero uno del Carroccio a Milano, intervenendo nella diretta di Corriere Tv -. È un segnale. E da qui dobbiamo ripartire. Il Pdl? Ultimamente è diventato il partito del cemento, non ci interessa più». «Ripartiamo da Verona» ha detto Roberto Maroni, ormai il vero uomo-simbolo del partito. E lo stesso Tosi: «Serve una svolta, dobbiamo diventare la Lega di una volta». Significativi i dati relativi a Parma: il candidato del centrosinistra, Vincenzo Bernazzoli, ha chiuso lo scrutinio nettamente avanti con il 39,2% dei voti, ma alle sue spalle si piazza il candidato del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Federico Pizzarotti, con il 19,47%. Uno scenario simile anche a Genova dove alle spalle di Marco Doria, avanti con il 48,39%, c'è un testa a testa tra il candidato del terzo polo Enrico Musso (14,90%) e quello grillino Paolo Putti (13,90%), quando mancano meno di 20 sezioni al termine dello scrutinio. Da segnalare che la prima proiezione dava in vantaggio Putti e che, in ogni caso, il voto per coalizioni piazza i grillini al secondo posto, confermando il buon exploit del movimento. Solo quarto il candidato del centrodestra Pierluigi Vinai. Va poi ricordato che pure a Verona i grillini hanno ottenuto un buon risultato. E sempre in Veneto, a Sarego, nel Vicentino, Roberto Castiglion si è «laureato» primo sindaco a 5 stelle d'Italia, con tanto di investitura via twitter dello stesso Beppe Grillo.
Il verdetto degli italiani è dunque stato pronunciato. Un verdetto su chi dovrà amministrare i rispettivi comuni e le loro città. Ma anche sulla politica nel suo complesso, in tempi di governo tecnico, con maggioranze e opposizioni cambiate in corso d'opera, con i partiti alle prese con la questione morale e con una Lega Nord, che delle elezioni amministrative ha sempre fatto il proprio cavallo di battaglia, trovatasi ad affrontare questa tornata di voto con il fardello dello scandalo che ha travolto parte del proprio vertice. Sono andati ai seggi circa nove milioni e mezzo di elettori, una parte non trascurabile dell'intero corpo elettorale. E malgrado molti leader politici già nei giorni scorsi abbiano messo le mani avanti cercando di minimizzare la portata di questo voto, derubricando la chiamata ai seggi come una semplice tornata amministrativa - refrain sentito ancora nei commenti del dopo voto -, è del tutto evidente che il responso delle urne potrà avere un peso nella definizione dei prossimi scenari. La nascita del nuovo partito di centrodestra destinato a superare l'esperienza del Pdl, le possibili alleanze nel campo del centrosinistra, il ruolo dei partiti antipolitici e delle liste civiche: tutti temi che emergeranno con forza a partire da martedì mattina, a risultato delle amministrative ormai cristallizzato. Il Viminale ha diffuso il dato definitivo sull'affluenza: si sono recati alle urne il 66,88% degli aventi diritto a fronte del 73,74% delle precedenti consultazioni, con un calo quindi del 6,86%. Maglia nera tra i capoluoghi di provincia la città di Monza, dove si è registrata un'affluenza del 59,82% con un calo del 13-14% rispetto alla precedente tornata. Un calo generalizzato che segnala una disaffezione per la politica o, più semplicemente, una voglia di presa di distanze. Che preoccupa il governo, che per la sua qualità «tecnica» ha invece evitato di commentare i risultati. «Che ci sia disaffezione verso i partiti e le istituzioni è sotto gli occhi di tutti e questo desta molta preoccupazione - ha detto il ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri -. Bisogna farsi le domande e rivedere i collegamenti che ci sono tra la società civile e le istituzioni. Occorre ricostituire questo legame perchè è fondamentale per la democrazia». Ancora una volta gli italiani hanno dato prova di scarso discernimento. E' vero che i partiti hanno toccato il fondo in termini di corruzione, stupidità e arroganza, ma legarsi al carro di un comico farneticante è la reazione più insulsa che gli italiani potevano scegliere. L'elezione di Tosi a Verona è la dimostrazione che si possono individuare persone adeguate anche in un partito allo sfascio.
L'Italia trucco i conti per entrare nell'Euro? (8 maggio 2012).
Lo scrive sull’ultimo numero il settimanale tedesco Der Spiegel, un giornale cui l’Italia non sta simpatica e che, recentemente, ci ha definito “codardi come Schettino”. Questa volta però non si tratta di una polemica giornalistica, ma di documenti, carte, riscontri con protagonisti della decisione europea che ha rivoluzionato la nostra vita: l’introduzione della moneta comune. Il cancelliere Kohl sapeva che eravamo sull’orlo della bancarotta e non avevamo i requisiti per entrare nell’euro, ma la ragione politica prevalse sul rigore finanziario. Questo è il resocondo di Der Spiegel.
L’ITALIA TRUCCÒ I CONTI PER ENTRARE NELL’EURO Berlino, 6 mag. 2012.
L’Italia non aveva i conti in regola per entrare nell’euro e l’allora cancelliere tedesco Helmut Kohl ne era consapevole, ma per motivi di opportunità politica non si mise di traverso. Lo sostiene lo Spiegel in un articolo dal titolo «Operazione autoinganno». Il settimanale tedesco ha avuto accesso a centinaia di pagine di documenti del governo Kohl sull’introduzione dell’euro tra il 1994 ed il 1998. Si tratta di rapporti dell’ambasciata tedesca a Roma, di note interne dell’esecutivo e di verbali manoscritti di colloqui avuti dal cancelliere della riunificazione. «I documenti dimostrano ciò che finora si supponeva: l’Italia non avrebbe mai dovuto essere accolta nell’euro», scrive lo Spiegel, aggiungendo che a decidere sull’ingresso dell’Italia «non furono i criteri economici, ma le considerazioni politiche». «In questo modo», denuncia il settimanale di Amburgo, «si creò il precedente per una decisione sbagliata ancora maggiore presa due anni dopo: l’ingresso nell’euro della Grecia». Per lo Spiegel il governo Kohl non può sostenere di essere stato all’oscuro della reale situazione italiana dell’epoca, poichè «era perfettamente informato sulla situazione di bilancio». «Molte misure di risparmio erano solo cosmetiche, si basavano su trucchi contabili o vennero subito ritirale non appena venne meno la pressione politica», scrive il settimanale. «Fino al 1997 avanzato, al ministero delle Finanze non credevamo che l’Italia riuscisse a rispettare i criteri di convergenza», ha dichiarato al settimanale Klaus Regling, attuale responsabile del fondo salvastati Efsf ed all’epoca capo dipartimento del ministero delle Finanze tedesco. Il 3 febbraio 1997 lo stesso ministero constatava che a Roma «importanti misure strutturali di risparmio sono venute quasi del tutto meno per garantire il consenso sociale». Il 22 aprile dello stesso anno in una nota per Kohl era scritto che «non ci sono quasi chance che l’Italia rispetti i criteri». Il 5 giugno il dipartimento di Economia della cancelleria comunicava che le previsioni di crescita dell’Italia apparivano «modeste» ed i progressi nel consolidamento delle finanze pubbliche «sopravvalutati». In preparazione di un vertice con una delegazione governativa italiana del 22 gennaio 1998 l’allora sottosegretario alle Finanze, Juergen Stark, constatava che in Italia «la durevolezza di solide finanze pubbliche non è ancora garantita». A metà marzo 1998 era Horst Koehler, allora presidente dell’Associazione delle Casse di Risparmio tedesche, a scrivere una lettera a Kohl, accompagnata da uno studio dell’Archivio dell’Economia mondiale di Amburgo, in cui era scritto che l’Italia non aveva rispettato le condizioni «per una durevole riduzione del deficit» e che pertanto costituiva «un rischio particolare» per l’euro. Lo Spiegel scrive che «Kohl rispose picche ai suoi consiglieri di allora», anche perchè, come afferma Joachim Bitterlich, allora consulente di Kohl per la politica estera, al vertice Ue di maggio 1998 «la parola d’ordine politica era: per favore non senza gli italiani». Il settimanale di Amburgo rileva che i documenti visionati «fanno sorgere il sospetto che sul problema Italia il governo Kohl abbia ingannato non solo l’opinione pubblica, ma anche il Bundesverfassungsgericht (la Corte Costituzionale di Karlsruhe, ndr)». Secondo lo storico Hans Woller, al momento di entrare nell’euro l’Italia era «sull’orlo della bancarotta finanziaria», mentre dai documenti visionati dallo ’Spiegel’ risulta che nel corso del 1997 l’Italia propose per due volte di rinviare la partenza dell’euro, ma la Germania rifiutò.
Bitterlich spiega che questa data era diventata «un tabù» e che tutte le speranze tedesche erano riposte in Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro del Tesoro nel governo Prodi. «Per tutti era come un garante dell’Italia, lui ce l’avrebbe fatta!», spiega Bitterlich, ma lo Spiegel scrive che «alla fine con una combinazione di trucchi e di circostanze fortunate gli italiani riuscirono sul piano formale a rispettare i criteri di Maastricht. Il Paese trasse vantaggio da tassi di interesse storicamente bassi, inoltre Ciampi si dimostrò un creativo giocoliere finanziario». Il settimanale cita in proposito l’introduzione della «tassa per l’Europa», la vendita delle riserve auree alla banca centrale e le tasse sugli utili, con il risultato che «il deficit di bilancio scese in misura corrispondente, anche se gli esperti statistici dell’Ue in seguito non accettarono questi trucchi». Ai primi del 1998 rappresentanti del governo olandese chiesero a Kohl un «colloquio confidenziale» alla Cancelleria, durante il quale chiesero di fare maggiori pressioni su Roma, poichè «senza ulteriori misure dell’Italia a conferma del durevole consolidamento, un ingresso dell’Italia nell’euro non è accettabile». Kohl respinse la proposta olandese, anche perchè il governo francese gli aveva fatto sapere che senza l’ingresso nell’euro dell’Italia, neanche la Francia sarebbe entrata, con il risultato che, come scrive lo ’Spiegel’, «i tedeschi erano in una posizione di trattativa debole». La conclusione del lungo articolo è che riguardo all’Italia «molti sapevano che i numeri erano truccati e che un’autentica riduzione del debito era fuori discussione. Nessuno però osò trarne le conseguenze e Kohl si fidò delle melodiose dichiarazioni di Ciampi, che assicurava un 'cammino virtuoso', con il governo di Roma che prevedeva al più tardi per il 2010 la riduzione al 60% del debito pubblico. È andata diversamente».
I dati del giorno dopo (9 maggio 2012).
Le tendenze che si sono viste lunedì sono quelle che i dati completi (o quasi) confermano. Il centro-destra ha subito una netta sconfitta sia in termini di comuni vinti e persi sia in termini di voti, il centro-sinistra ha vinto molti comuni e molti altri li vincerà ai ballottaggi ma la sua base di consensi resta più o meno la stessa, il Movimento 5 Stelle è l'unico vero vincitore. Come era facile prevedere questa volta sono stati pochi i comuni in cui le elezioni si sono decise al primo turno. Nei 157 comuni sopra i 15.000 abitanti è successo solo in 37 casi con 25 vittorie dei candidati targati Pd e alleati, 7 candidati Pdl e alleati, e 2 candidati della Lega. Negli altri 120 comuni si deciderà al ballottaggio. In questi comuni è interessante vedere la distribuzione dei vari tipi di "duelli". In 58 casi lo scontro è tra i candidati del blocco di centro-sinistra (nelle sue diverse configurazioni) e quello del Pdl e alleati. La Lega va al ballottaggio in 7 casi contro il candidato del Pd e in uno contro il candidato di una lista civica. I candidati del terzo polo (nei suoi vari formati) vanno al ballottaggio in 13 comuni contro i candidati del Pd e alleati e in 6 comuni contro quelli del Pdl e alleati. La sorpresa è il Movimento 5 Stelle che è riuscito a far passare al secondo turno 5 candidati che affronteranno tutti un candidato del blocco di centro-sinistra. Il voto ai partiti è quello che attira sempre l'attenzione di tutti gli osservatori ma è un voto impossibile da decifrare in una elezione amministrativa in cui la presenza di tante liste collegate ai candidato-sindaco nasconde la vera forza dei partiti. L'unica cosa che si può dire è che i brand Pd, Pdl ecc. non hanno un grande appeal se per sostenere i propri candidati i partiti storici devono ricorrere ad altri brand con una immagine meno logora. In questa situazione di grande frammentazione sono più indicativi i dati aggregati per aree politiche (i blocchi). I blocchi sono stati costruiti sommando nei 26 comuni capoluogo i voti ottenuti dai partiti tradizionali e quelli delle varie liste comprese nella coalizione che sosteneva lo stesso candidato sindaco. Dai dati emerge chiaramente che mentre il blocco di centro-sinistra (Pd, Idv, Sel + liste civiche) arretra relativamente poco rispetto alla sua consistenza nel 2008 (dal 43,1% al 37,7%) il blocco di centro-destra (Pdl, Nuovo-Psi, La Destra + liste civiche) passa dal 39,9% del 2008 al 25,7% di oggi. Quanto alla Lega che abbiamo separato dal blocco targato Pdl resta sulle stesse posizioni includendo Verona, grazie allo straordinario successo della lista di Tosi, ma in realtà perde significativamente senza Verona passando dal 4,7% al 2,3%. Per il Carroccio però è più significativo calcolare i voti solo per i comuni in cui era presente. Così facendo si vede che nei 14 comuni del 2012 per cui abbiamo anche il dato delle regionali del 2010 (manca Gorizia) il Carroccio passa dal 15,3% al 5,3%. Se a questo dato sommiamo anche i voti della lista Tosi a Verona il gap si riduce ma resta comunque molto negativo. Per il blocco di centro il discorso è più complicato. In realtà questo blocco non esiste. Non esiste nemmeno il terzo polo. Esistono dei partiti e delle liste collegate che insieme però hanno raccolto un discreto bottino. Ma il dato più significativo è che, nel momento in cui si assiste al netto smottamento dell'elettorato del Pdl e della Lega, l'Udc resta al palo. Fino a pochi giorni fa molti irridevano quei sondaggi che davano il movimento di Grillo sopra il 7% dei voti. E invece erano stime corrette. Anzi no, ma per la ragione inversa a quella degli scettici perché ora sappiamo che erano stime al ribasso. Nei 20 comuni capoluogo in cui si è presentato il movimento di Grillo ha ottenuto in media l'8,2% dei voti. Questo dato nasconde però una grande varianza. Nei 10 comuni del Nord (tutti quelli in cui si è votato) la percentuale è stata 11,3. Mentre nei quattro comuni capoluogo della ex zona rossa arriva al 13,1. Al Sud invece il movimento era presente solo in 6 comuni su 12 e i suoi consensi sono modesti, il 3,1%. Questa diversità territoriale non è una sorpresa. Era così anche prima di queste elezioni, ma è poco probabile che sia così dopo queste elezioni. Le condizioni politiche, economiche e sociali sono favorevoli ad una espansione del movimento anche nelle regioni meridionali. Il successo di oggi è destinato ad alimentare quello di domani se nulla cambierà nel campo dei partiti tradizionali. Tra questi invece si assiste più al tentativo di demonizzare il pericolo rappresentato da Grillo che a dare risposte concrete ad alcune delle istanze che ne spiegano il successo. Queste elezioni confermano un dato già rilevato da tutti i sondaggi di opinione negli ultimi mesi. La fine del ciclo berlusconiano ha aperto il mercato elettorale. Ci sono milioni di elettori disponibili a cambiare le loro scelte di voto, ma l'offerta di nuovi "prodotti" è praticamente inesistente. Una fetta di loro ha scelto Grillo. Ma sono molti di più quelli che non hanno ancora deciso per mancanza di alternative accettabili. Se non verranno fuori da qui alla prossima primavera non andranno a votare. Ci sarà una domanda inevasa che rischia di ingrossare ancora di più la marea montante della disaffezione nei confronti della politica e forse nei confronti delle istituzioni democratiche e dell'Europa. Tratto dal sito de Il Sole24Ore.
SandPoor's vede nero (10 maggio 2012)
Nei prossimi cinque anni ci potrebbe essere una potenziale "tempesta perfetta" sui mercati finanziari, risultato di una combinazione di ingente bisogno di capitali delle società, deleveraging delle banche e difficoltà economiche di Stati Uniti e Eurozona. A lanciare l'allarme è l'agenzia di rating Standard and Poor's nel report sul credito globale intitolato The Credit Overhang: Is A $46 Trillion Perfect Storm Brewing? stima che le società non finanziarie di Stati Uniti, Gran Bretagna, Cina, Eurozona e Giappone avranno bisogno di 30mila miliardi di dollari di nuovo debito per rifinanziare i bond in scadenza e i prestiti erogati nel periodo pre crisi (le società europee contano per il 30%), più altri 13-16mila miliardi di nuovi capitali che si stima siano necessari per finanziare la crescita. Nel complesso quindi 46 trilioni di dollari (ovvero 35mila miliardi di euro). Secondo SandPoor's le banche e i mercati dei capitali dovrebbero essere in grado di rifinanziare il debito in scadenza, ma il razionamento del credito potrebbe limitare i nuovi finanziamenti per supportare la crescita. Quanto ai governi e le banche centrali hanno meno opportunità di prevenire i problemi derivanti da future carenze di liquidità e di offerta di credito nel mercato dei capitali.
Il parere da Rete Imprese Italia sulla crisi (10 maggio 2012).
«Sulle imprese, in questi due anni, è come se si fosse abbattuto uno tsunami». La crisi economica paragonata ad una catastrofe naturale, nelle parole del presidente di Rete Imprese Italia, Marco Venturi, che a Roma aprendo l'assemblea annuale dell'associazione ha lanciato l'allarme per il numero rilevante di aziende «travolte» dall'emergenza economica». La ricetta per il rilancio, spiega, si chiama revisione della spesa pubblica: «per ossigenare il Paese si agisca con rigore ed efficacia sulla spending review». Secondo Venturi, «taglio agli sprechi, dismissioni, e riduzione della pressione fiscale sono must irrinunciabili per ridare vitalità alla nostra economia». Necessario, inoltre, che «le banche tornino a sostenere le nostre imprese e lo Stato paghi i propri fornitori». Da Venturi, anche un altolà all'incremento dell'aliquota dell'imposta sul valore aggiunto in calendario per l'autunno «Un ulteriore aumento dell'Iva metterebbe definitivamente in ginocchio il Paese», ha sottolineato ricordando che «La pressione fiscale viaggia ormai sopra il 45 per cento». Con un tale livello di pressione fiscale «non ci sarà nessuna ripresa degli investimenti. L'Imu e la mannaia dell'Iva sono un vero e proprio percorso di guerra lungo il quale rischiano di cadere molte imprese con grave danno per il Paese». Nella sua relazione, Venturi richiama anche gli altri fattori che mettono a rischio le prospettive di ripresa del nostro paese, come i «70 miliardi di euro di debiti della Pa», una cifra «mostruosa, immorale, non tollerabile» che sottrae ricchezza a investimenti, occupazione e consumi. Altro fronte che preoccupa le Pmi è l'accesso al credito. «La disponibilità del credito - ha continuato Venturi - è poi fondamentale per gli investimenti delle imprese e per la ripresa dell'economia. In questi mesi abbiamo assistito a una significativa contrazione del credito disponibile e a un altrettanto significativo aumento dei tassi di interesse. A volte ci riesce difficile comprendere come mai le risorse finanziarie messe a disposizione dalla Bce a tassi di interesse bassissimi fatichino ad arrivare alle imprese e , quando anche arrivano, hanno tassi troppo elevati». Dal ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera, presente in rappresentanza del Governo, l'assemblea ha ricevuto parole di solidarietà e la prospettiva di un cammino difficile sulla strada della ripresa. Metà del Paese soffre, ed é a rischio «anche la sua tenuta», ha riconosciuto il ministro: «Se mettiamo insieme disoccupati, inoccupati, sottoccupati e sospesi arriviamo a 5-6- forse 7 milioni di persone. Se moltiplichiamo per i loro familiari arriviamo alla metà della nostra società. Non sono soltanto a rischio i consumi e gli investimenti ma anche tenuta economica e sociale del Paese». Rivolgendosi all'assemblea, il ministro ha sottolineato come «il Governo sa quello che sentite dentro. Nessuno pensi che la percezione di difficoltà che ogni giorno avete nel fare impresa non sia molto chiara come é chiaro il disagio sociale diffuso legato alla mancanza di lavoro che nel nostro Paese si é creata». «Siamo in un momento complicato ma sappiamo che possiamo uscirne anche più forti di altri paesi», ha poi spiegato Passera, partendo da «alcuni punti, pochi ma concreti», Governo e imprese debbono «prendere degli impegni reciproci e importanti». Quanto all'Unione europea, Passera ha censurato le sue scelte e per come ha affrontato finora la crisi. «L'Ue non ha fatto la sua parte adeguatamente negli ultimi mesi», ha detto il ministro «non ha saputo garantire se stessa, ma adesso deve dimostrare di saper garantire se stessa e anche i più deboli. Deve smettere di parlare di crescita e fare qualcosa per gli investimenti, distinguendo ciò che è spesa e ciò che è investimento».
Emendamenti al ddl lavoro (10 maggio 2012).
Nel ddl lavoro sono in arrivo in Senato novità per i lavoratori a progetto, dagli emendamenti dei relatori, Tiziano Treu (Pd) e Maurizio Castro (Pdl): viene previsto una sorta di 'salario base' come hanno spiegato gli stessi relatori e verrà rafforzata in via sperimentale per tre anni l'indennità una tantum. "Se l'economia si riprende, comincia a crescere e i redditi dei lavoratori crescono un po', allora forse si può passare, dopo questi tre anni di sperimentazione, a un ammortizzatore sociale che somiglia di più a quello che l'Europa ci chiede", ha commentato il ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Sono 16 gli emendamenti dei relatori e spaziano dalla flessibilità in entrata all'articolo 18, passando per gli ammortizzatori sociali. Dal governo arriva un pacchetto di 27 proposte. Su alcuni punti intervengono sia i relatori che l'esecutivo (è il caso dei ritocchi ai licenziamenti). Lavoro a progetto. Il compenso dei lavoratori a progetto, si legge nell'emendamento, "deve essere adeguato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e non può comunque essere inferiore, in proporzioni di durata del contratto, all'importo annuale determinato periodicamente con decreto del ministero del lavoro". Una tantum. Per i parasubordinati si rafforza l'attuale una tantum: si puntava a una mini-Aspi ma al momento non è possibile. Si parte con una fase sperimentale di 3 anni. Ad esempio se si lavora 6 mesi come co co pro si prenderanno circa 6.000 euro. Poi ci sarà una verifica e la mini-Aspi (Vedi Nota). Il totale delle risorse per i co co pro, Con i nuovi interventi dei relatori, dovrebbero superare i 100 milioni di euro complessivi. Primo contratto a termine. La durata del primo contratto a termine, che può essere stipulato senza che siano specificati i requisiti per i quali viene richiesto (la causale), sale da sei mesi a un anno. Partita Iva. Inoltre, le partite Iva che hanno un reddito annuo lordo di almeno 18mila euro sono considerate vere, come prevede sempre un emendamento dei relatori al ddl lavoro presentato in commissione al Senato. Sopra questo reddito non saranno valide presunzioni per far scattare l'assunzione. Utili. I lavoratori potrebbero presto poi partecipare agli utili e al capitale delle imprese, e essere anche componenti dei Consigli di sorveglianza, come avviene oggi in Germania. Licenziamenti disciplinari. Un emendamento dei relatori cancella dal ddl lavoro il riferimento al pubblico impiego ma non interviene sulle cosiddette "tipizzazioni" in modo da evitare di toccare in modo esplicito i poteri dei giudici. Il governo avrebbe invece presentato un emendamento che fa sì che i giudici possano stabilire il reintegro del lavoratore licenziato per motivi disciplinari illegittimi. Nessuno stop per malattia. Il licenziamento intimato all'esito del procedimento disciplinare "produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato, salvo l'eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva". Uniche eccezioni sono quelle della maternità e dell'infortunio sul lavoro. Voucher. Norma anti truffa per i lavoratori occasionali pagati con voucher. I 'buoni' utilizzati per pagare i dipendenti dovranno ora essere numerati progressivamente e avere indicato data ed orario. Un decreto - inoltre, stabilirà le modalità per il "riscontro temporale dell'utilizzo della prestazione retribuita con il buono". I voucher per i lavori occasionali serviranno anche nlle imprese commerciali, negli studi professionali e per l'agricoltura, ma no se il lavoratore è iscritto agli elenchi anagrafici. Sms per lavoro a chiamata. Per attivare il lavoro a chiamata basterà un sms, o un fax o la posta elettronica certificata, alla Direzione teritoriale del lavoro competente per il territorio. Ridotte del 60 % le sanzioni per chi omette l'obbligo. Indennità per artigiani. Gli artigiani che hanno fondi bilaterali nel caso in cui le risorse non siano sufficienti a garantire le tutele potranno usufruire il sistema di indennità generale. I lavori. La commissione lavoro inizierà a votare gli emendamenti da martedì della prossima settimana con 'obiettivo di concludere con giovedi'. In questo senso va anche "l'impegno politico dei partiti della maggioranza - riferiscono i relatori - a sfoltire drammaticamente gli emendamenti". Il termine per la presentazione dei subemendamenti è fissato per domani alle 18. "Presumiamo che la commissione bilancio darà i suoi pareri sulle coperture entro martedì pomeriggio e quindi da martedì in notturna" si dovrebbe cominciare a votare in commissione "per concludere all'alba di giovedì", ha spiegato Castro. Reazioni. "Portiamo a termine la riforma del lavoro" anche se "si poteva fare meglio" ma può "aiutarci", ha detto la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. "Non è la riforma che avremmo voluto per far fare passi avanti al Paese ma è una riforma che può aiutarci".
"Il buon lavoro fatto dai relatori Treu e Castro, dal governo e il risultato raggiunto ci dicono che ci sono tutte le condizioni per arrivare in tempi rapidi all'approvazione del ddl di riforma del mercato del lavoro", ha commentato la presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro. "Il Pd - continua Finocchiaro- si ritiene complessivamente soddisfatto". L'emendamento presentato al Senato per contrastare le false partite Iva "trovo sia del tutto accoglibile", ha detto il ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Per i parasubordinati, Fornero ha sottolineato "l'obiettivo di incrementare e ristrutturare" l'una tantum, che era "molto bassa" e restrittiva: "Abbiamo modificato i requisiti in modo da renderla più accessibile e abbiamo alzato l'importo", in modo che sia "più dignitoso di quello precedente", ha spiegato evidenziando che la sperimentazione vale per tre anni "in attesa che si possa definire una forma di Aspi anche per il lavoro autonomo". NOTA ASPI Ogni forma di tutela per la disoccupazione confluirà nell'Assicurazione sociale per l'impiego, con il graduale superamento dell'indennità di mobilità, attraverso un periodo transitorio che si completerà solo nel 2017. Un sussidio esteso ad apprendisti, artisti e dipendenti della Pa con contratto a termine. I requisiti di accesso sono quelli già previsti per l'attuale disoccupazione ordinaria non agricola: anzianità assicurativa di almeno 2 anni e 52 settimane di contribuzione nell'ultimo biennio. L'Aspi avrà una durata di 12 mesi fino ai 54 anni e di 18 mesi da 55 anni in poi. L'importo massimo è fissato in 1.119,32 euro. È previsto, inoltre, un abbattimento del 15% dell'indennità dopo i primi 6 mesi e di un ulteriore 15% dopo altri 6 mesi. C'è poi la mini Aspi, che sostituisce l'attuale disoccupazione con requisiti ridotti. Durata: pari alla metà delle settimane di contribuzione nell'ultimo biennio. I requisiti di accesso dovranno essere pari ad almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi (mobili). Resta il requisito di almeno 2 anni di anzianità assicurativa.
UE: Italia pareggio di bilancio nel 2013 (11 maggio 2012).
Il
Rapporto European Economic Forecast della Commissione europea conferma il pareggio di bilancio dell'Italia nel 2013 in termini strutturali «grazie ad un aggiustamento di oltre mezzo punto percentuale del Pil». Bruxelles rivede le previsioni di deficit di bilancio dell'Italia: dal 3,9 per cento del 2011 il deficit-Pil calerà al 2 per cento quest'anno e all'1,1 per cento nel 2013. Il commissario Ue Olli Rehn commenta le stime: l'Italia «è in linea con il patto di stabilità» per quanto riguarda il deficit/pil in termini strutturali nel 2013 . In occasione del consueto appuntamento delle previsioni economiche di primavera su Pil, andamento dell'inflazione, occupazione e conti pubblici Bruxelles mette in evidenza che il pareggio di bilancio in termini strutturali potrebbe essere raggiunto nel 2013 grazie a un ulteriore aggiustamento di oltre lo 0,5% del Pil. L'Italia raggiungerà il picco del suo debito pubblico nel 2012, quando sarà pari al 123,5% del Pil. A partire dal 2013 «grazie all'alto e crescente surplus primario, il rapporto debito/Pil comincerà a scendere». Quanto invece alla disoccupazione, quest'anno schizzerà al 9,5%.
Bruxelles prevede un aumento della disoccupazione in Italia dall'8,4% del 2011 al 9,5% nel 2012 e al 9,7% nel 2013. «Il tasso di disoccupazione è tornato a crescere nella seconda metà del 2011 - si legge nel rapporto - trainato dal forte aumento della disoccupazione giovanile»; per il futuro, la tendenza sarà solo in parte compensata da «un graduale aumento dei tassi di occupazione per i gruppi di età più avanzata, a causa della riforma delle pensioni recentemente approvata». «L'Italia è sulla strada giusta per raggiungere il pareggio strutturale di bilancio e non ha bisogno di nuove manovre», ha dichiarato il commissario Ue. In Italia «ci sono delle fragilità», ha detto Rehn. «ma in termini strutturali, al netto degli effetti ciclici e di misure una tantum, questo significa un bilancio in equilibrio nel 2013. Quindi - ha precisato Rehn - anche le nostre previsioni dicono che l'Italia dovrebbe raggiungere i suoi obiettivi di bilancio a medio termine l'anno prossimo. Pertanto - ha concluso Rehn - l'Italia è in linea con le disposizioni del Patto di stabilità e di crescita». La manovra «aggiuntiva» di cui parlano le previsioni della Commissione Ue per il raggiungimento del pareggio nel 2013 è quella già varata. È quanto precisano fonti dell'esecutivo Ue dopo che il Commissario Rehn ha precisato che per Bruxelles l'Italia «è in linea» con quanto previsto dal Patto di stabilità «in termini strutturali».
La bolla dei derivati (13 maggio 2012).
Le scioccanti perdite rivelate giovedì notte da JP Morgan, la più grande banca americana nel trading di derivati, che potrebbero salire a tre miliardi nel clima di volatilità dei mercati, hanno scosso la finanza e la politica: hanno riaperto il dibattito sugli eccessi speculativi e i pericoli che seminino nuove crisi. Il colossale passo falso di JP Morgan – una super-scommessa sbagliata sul miglioramento della salute di un gruppo di aziende – ha scatenato tensioni in Borsa: JP Morgan, ha ceduto quasi il 10% per poi assestarsi a un calo dell'9,3 per cento. E la prima bocciatura arriva da Fitch, che ha tagliato la valutazione su JP Morgan ad «A+» da «AA-». L'agenzia di rating ritiene i 2 miliardi di dollari di perdite «gestibili» ma evidenzia come la «magnitudine delle perdite» implichi una mancanza di liquidità e sollevi dubbi sulla forte predisposizione al rischio della banca. E Moody's, che ha minacciato declassamenti di 17 banche globali per metà giugno, potrebbe calcare di più la mano sugli istituti americani. A Washington, intanto, si moltiplicano le richieste di accelerare le riforme del settore, a cominciare dalla Volcker Rule che colpisce il trading speculativo delle banche. «È difficile sostenere oggi che le banche non abbiano bisogno di nuove norme per evitare azioni irresponsabili», ha detto il deputato Barney Frank, autore della legge Dodd-Frank. Il Senatore Carl Levin ha aggiunto che «le banche chiamano hedging scommesse rischiose che non dovrebbero mai fare». Scompiglio è filtrato anche tra le authority: la Sec ha avviato un esame del caso e il suo presidente Mary Schapiro ha affermato che tutti gli organismi di controllo sono «concentrati» su JP Morgan. La Fed, secondo gli operatori, potrebbe fermare i piani di dividendi e buyback azionari da parte degli istituti nonostante abbiano passato gli stress test. JP Morgan, in realtà, può assorbire i costi immediati della debacle: solo nel primo trimestre ha intascato profiti per 5,4 miliardi. Dimon si è inoltre affrettato da giovedì sera, in una conference call, a offrire un mea culpa: ha negato che le riforme avrebbero impedito lo smacco e parlato piuttosto di «grossolani errori» nella strategia di hedging, di «cattiva esecuzione e supervisione». Il disastro d'immagine e gli interrogativi che solleva, però, sono più pesanti delle cifre. Anzitutto sulla trasparenza dei rischi e della loro gestione: alcune banche, ad esempio, potrebbero finire sotto osservazione per aver di recente aumentato l'esposizione a Paesi in difficoltà del Vecchio Continente. Quando nel 2008 la crisi finanziaria mordeva già gli Stati Uniti, e Lehman Brothers affondava, tutte le autorità Usa invocavano regole più stringenti per i giganteschi mercati dei derivati. Il presidente della Fed, Ben Bernanke, chiedeva a gran voce che le normative cambiassero in maniera fondamentale. L'allora presidente della Sec Christopher Cox gli faceva eco, denunciando con tono severo che i derivati non erano regolamentati «nella maniera più assoluta». Peccato che gli stessi protagonisti solo pochi anni prima si dichiarassero fermi sostenitori di regole light per i derivati. «Si tratta di strumenti importanti – diceva nel 2005 Bernanke –, perché permettono di diversificare e spostare i rischi verso chi li sa gestire». «Mi preoccuperebbe se i derivati venissero considerati come il Diavolo dal Congresso», diceva Cox qualche anno prima. Ormai sono passati cinque anni dall'inizio della crisi, e anche da quelle invocazioni di regole stringenti. Qualcosa è stato fatto. Ma non abbastanza. E ancora, nel 2012, accade che una banca come JP Morgan usi i derivati in maniera così aggressiva da perdere due miliardi di dollari in sole sei settimane. Facendo riemergere, come fiumi carsici, nuove immancabili richieste di regole. Che, come fiumi carsici, molto presto torneranno nel dimenticatoio. Fino al prossimo scandalo. Eppure non servirebbe un genio della finanza per capire che i mercati dei derivati andrebbero regolamentati veramente. Non demonizzati, certo. Ma neppure lasciati alla completa deregolamentazione. Basta guardare i numeri, per capirlo: le ultimissime statistiche della Bri, aggiornate a dicembre 2011, calcolano che l'intero mercato di questi strumenti ammonti a 647 mila miliardi di dollari di valore nominale. Ancora più dei 466mila miliardi dell'ultima rilevazione (più vecchia) realizzata dall'Isda. Si tratta di un numero 14 volte più grande della capitalizzazione di tutte le Borse del globo. E nove volte più grande del Pil del mondo intero. È vero che il reale rischio, cioè il valore netto, è molto inferiore. Ma queste cifre restano enormi, troppo scollate dall'economia reale.
Ovvio che non tutti i derivati siano meri strumenti per speculare. Anzi, si tratta in realtà di contratti che sono stati inventati con uno scopo nobile: gestire i rischi. La stragrande maggioranza di questi strumenti, pari a 504mila miliardi di dollari, è costruita su tassi d'interesse: serve dunque a chi vuole trasformare un finanziamento a tasso fisso in variabile, o viceversa. Il resto è dato da derivati su valute (63mila miliardi), su azioni (6mila) e su materie prime (3mila). Ci sono poi i credit default swap (che valgono 28mila miliardi di valore nominale): si tratta di polizze assicurative, usate dagli investitori per coprirsi dal rischio di fallimento di qualunque debitore al mondo. Insomma: non esistono derivati "cattivi". Cattivo, però, può esser l'uso che viene fatto. I derivati di tasso (interest rate swap) sono per esempio finiti in molte inchieste della magistratura: l'accusa, molto spesso, è che le banche li abbiano venduti a Enti locali o a Casse previdenziali facendo "la cresta" con costi occulti. Insomma: aiutavano Comuni e Regioni a trasformare un mutuo o un bond da tasso fisso a variabile, ma nel frattempo si intascavano decine di milioni di euro. Ma i più bersagliati dalle critiche sono i credit default swap: perché da strumenti di gestione dei rischi sono diventati mezzi per speculare. Lo dimostra il fatto che troppo spesso esistono più Cds che debiti da assicurare: il gruppo francese Carrefour, prendendo un nome a caso, ha 13 miliardi di euro debiti (dato di Bloomberg) e 28 miliardi di dollari di Cds lordi (dato Dtcc). Ovvio che tutto questo non va bene. I derivati sono tutti scambiati over-the-counter, cioè fuori da qualsiasi Borsa regolamentata. Sguazzano nell'opacità più totale: solo le grandi banche americane, che controllano circa la metà dell'intero mercato, sanno veramente cosa ci sta dietro. Loro da questa opacità guadagnano (anche se a volte cascano come JP Morgan). Per questo si sono sempre opposte a vere regole stringenti, facendo leva sulle debolezze del mondo politico più attento agli interessi delle lobby che a quelli dei cittadini. E così siamo arrivati al 2012, con l'ennesimo scandalo. Con gli ennesimi scandalizzati e con le ennesime richieste di regole.
Il Presidente della Consob e il rischio della dittatura finanziaria (14 maggio 2012).
«Lo spread attribuisce ogni potere decisionale a chi detiene il potere economico, nei fatti vanificando il principio del suffragio universale». Al termine del suo discorso di fronte alla comunità finanziaria, il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, solleva il rischio di una «dittatura» dei mercati che comprometta le stesse fondamenta delle democrazie europee. «In molti Paesi europei - dice il presidente - va crescendo l'insofferenza nei confronti della "dittatura dello spread", vista come ostacolo alle aspirazioni dei popoli, e affidare il nostro futuro a un numero costituisce anche un modo di abdicare ai nostri doveri» che discendono «da un fondamentale diritto: quello di partecipare democraticamente all'assunzione delle decisioni che ci riguardano». Un diritto messo in pericolo dallo spread «che dipende in sostanza dalle scelte di un soggetto invisibile, il mercato» e che «attribuisce ogni potere decisionale a chi detiene il potere finanziario». Nel suo discorso, il presidente Vegas presenta il bilancio di un «annus horribilis», il 2011, segnato dall'aggravarsi della crisi dei debiti sovrani e, in particolare, dall'esplosione del rischio Italia, con differenziali e rendimenti sui titoli italiani impennatisi a livelli record nella seconda metà del 2011. Un terremoto i cui effetti sono stati spesso amplificati da strumenti come i derivati o le piattaforme di high frequency trading. E proprio a questi strumenti il presidente della Consob dedica un'ampia parte del suo discorso. Vegas ne parla citando, tra l'altro, il recente caso di cronaca che ha riguardat Jp Morgan che ha registrato un buco superiore ai due miliardi di dollari proprio a causa delle speculazioni sui derivati. «I processi di innovazione finanziaria - dice Vegas - pur ampliando le possibilità di investimento e diversificazione di portafoglio per i risparmiatori, fanno emergere nuove fonti di rischio, non sempre governabili dalle autorità di vigilanza». «In un mondo sempre più globalizzato - prosegue Vegas - diventano più stretti e meno agevolmente tracciabili i legami tra i mercati e gli intermediari bancari. Può diventare complesso valutare l'entità dei rischi che si diffondono all'interno dei sistemi finanziari e risulta sempre più arduo definire nuove norme ed esercitare controlli. Nuovi prodotti e nuove pratiche operative si collocano in aree grigie, dove le regole di vigilanza prudenziale, che presidiano la stabilità dei singoli intermediari, si sovrappongono a quelle che disciplinano la correttezza e la trasparenza dei comportamenti». Il presidente della Consob cita i cds, i derivati che assicurano sul rischio fallimento, e il cosiddetto high frequency trading, cioè la tecnica di contrattazione che, utilizzando algoritmi matematici e connessioni ad alta velocità, consente di inserire, eseguire e cancellare ordini nell'arco di millisecondi sfruttando variazioni marginali dei prezzi. Altro esempio citato da Vegas, sono gli Etf, fondi di investimento che replicano l'andamento di un indice di mercato. «La complessità e la rischiosità crescenti di tali fondi richiedono un attento esame da parte delle autorità di vigilanza» avverte il presidente della Consob. Data la globalizzazione dei mercati, risulta difficile regolamentare questi strumenti. Le autorità nazionali si sono mosse autonomamente ma questi sforzi spesso sono stati vanificati. «La mobilità dei capitali, che si spostano liberamente e velocemente, consente di trasferire le transazioni verso giurisdizioni più permissive». I singoli paesi insomma non hanno gli strumenti per competere. Nonostante ciò alcuni legislatori nazionali continuano a ritenere che iniziative autonome possano essere, comunque, efficaci. Vegas in particolare cita il recente dibattito sull'imposta sulle transazioni finanziarie. Tuttavia - dice Vegas - se si vogliono affrontare le sfide del mercato globale con ragionevole possibilità di successo «occorre disporre di una regolamentazione finanziaria armonizzata».
La sconfitta di Angela Merkel (14 maggio 2012).
La sconfitta è pesante. I democristiani della Cdu, il partito del cancelliere Angela Merkel, non erano mai scesi così in basso nei consensi in Nord Reno Westfalia, lo stato più popoloso della Germania, dove vive quasi un quarto dei tedeschi. Proprio per le sue dimensioni (il land rappresenta anche un quinto circa del prodotto interno lordo), il test è molto significativo e la signora Merkel non può permettersi di ignorarlo, come ha fatto con tutti gli altri insuccessi nelle elezioni locali negli ultimi due anni. Inoltre, la cancelliera si era impegnata in prima persona nella campagna elettorale e aveva schierato come candidato presidente del land quello che alcuni cominciavano a pensare potesse essere il suo delfino, il ministro dell'Ambiente, Norbert Roettgen, che poi è invece naufragato con una serie di gaffes. Per di più, i democristiani avevano insistito perché nel NRW, uno stato altamente indebitato, si applicassero le stesse regole di austerità fiscale che la Germania segue a livello nazionale e che impone vengano adottate dal resto d'Europa. Da qui a trarre conclusioni definitive sulle conseguenze a livello tedesco ed europeo del voto nel land renano, però, ce ne passa. Intanto, si tratta di un territorio storicamente controllato dai socialdemocratici. Inoltre, il candidato della Spd, Hannelore Kraft, è molto popolare e qualcuno ne parla, forse un po' prematuramente, come di una possibile anti-Merkel alle elezioni politiche dell'anno prossimo. Ma, soprattutto, è proprio sul suo credo del rigore e dell'austerità che la cancelliera ha costruito la propria base di consensi a livello nazionale, una base forte, che per ora la Spd non è riuscita a scalfire, incapace di tradurre su tutta la Germania le vittorie ottenute a livello locale. Sembra quindi troppo presto per decretare l'inizio della fine del predominio della signora Merkel sulla politica tedesca e di un cambiamento di rotta sull'austerità fiscale, in Germania e in Europa. Certo, quella che si incontra con il neo presidente francese, François Hollande, domani a Berlino è una Merkel più vulnerabile e che probabilmente sarà più incline a indirizzarsi verso un compromesso che preveda in Europa anche una strategia della crescita, pur senza abbandonare la linea del rigore.
Rischi per la Grecia fuori dall'Euro (15 maggio 2012).
Anche nelle dichiarazioni ufficiali dell'ultim'ora l'Europa si sta rilevando gravemente impreparata nell'affrontare la crisi greca (intrappolata nella recessione economica, con il Pil nel primo trimestre 2012 a -6,2%) e, soprattutto, quella dei debiti sovrani dell'Eurozona. A chi come il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble è pronto ad accettare un'uscita della Grecia dall'euro («la zona euro è in grado di sopportare l'uscita della Grecia») si contrappone il giudizio del rispettivo ministro della Francia (seppur uscente), Francois Baroin («un'eventuale uscita della Grecia dall'euro non sarebbe un problema a livello finanziario, ma rappresenterebbe una minaccia di contagio eccezionale per gli altri Paesi dell'Unione»). Poi c'è il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Durao Barroso, che va giù duro: «Se la Grecia non rispetta i patti, fuori dall'euro». Mentre il presidente dell'Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, smorza i toni: «Vogliamo mantenere la Grecia nell'euro e faremo tutto il possibile perchè ciò accada». Secondo gli analisti economici i fattori negativi derivanti da un eventuale sganciamento di Atene dal Trattato di Maastricht supererebbero quelli positivi. In caso di ritorno alla dracma è largamente condivisa da parte degli economisti l'opinione che ci sarebbe una forte svalutazione della dracma nei confronti dell'euro (svalutazione competitiva). Argentina e Russia, gli ultimi due Paesi ad andare in bancarotta, hanno visto scendere il valore delle rispettive valute del 60-70%. Ciò vuol dire che i cittadini greci si troverebbero a ricevere salari più che dimezzati con una drammatica perdita nel potere d'acquisto. A ciò vanno aggiunti i rischi di un'inflazione galoppante e di un rialzo dei tassi di interesse da parte della Banca centrale di Atene (che riacquisterebbe l'autorità monetaria in caso di sganciamento dalla Bce) per arginare un'eventuale esplosione dei prezzi. Alti tassi di interesse impatterebbero anche sul costo del debito per famiglie e imprese.
Downgrading per 26 banche italiane (15 maggio 2012).
In una giornata difficile per i titoli del credito in tutta Europa è arrivata la bocciatura di Moody's per le banche italiane. Ben 26 istituti hanno subito il taglio da parte dell'agenzia di rating e per tutte l'outlook è negativo. E così i rating a lungo termine sono oggi di Baa3 per Mps (era Baa1) e Banco Popolare. Per Ubi Banca il rating a lungo termine è stato portato a Baa2 dal precedente A3. Tra i big Intesa Sanpaolo è stata portata ad A3 da A2 così come UniCredit. Per Moody's a questo punto i rating delle banche italiane «sono ora tra i più bassi nei paesi dell'Europa avanzata e riflettono - avverte l'agenzia in una nota - la vulnerabilità di queste banche a contesti operativi sfavorevoli in Italia e in Europa». Per l'agenzia pesano non solo le avverse condizioni di mercato con il Paese in recessione e le misure di austerità che deprimono la domanda interna, ma anche la scarsa qualità dell'attivo e le difficoltà di accesso al mercato del funding. Stupisce l'ABI il particolare accanimento verso l'Italia. Come se le banche spagnole per le quali il Governo ha chiesto nuovi accantonamenti per 30 miliardi dopo i 50 chiesti a febbraio non patiscano nè la recessione (più profonda che in Italia) nè la crisi dell'immobiliare con prestiti in sofferenza per 184 miliardi, il 18% del Pil di Madrid. È tale e tanta la pressione sui titoli del credito che la bocciatura era in buona parte attesa. La stessa Moody's aveva annunciato il 15 febbraio l'avvio del processo di revisione dei rating per le banche italiane e il risultato con le tensioni delle ultime settimane non poteva che essere questo. Il taglio di Moody's è giunto in una giornata pesante per il settore bancario non solo italiano. Le fibrillazioni sulla crisi greca e la sconfitta alle elezioni regionali del partito della Merkel hanno dipinto un lunedì nero per le banche. Lo Stoxx 600 bancario ha chiuso con un -2,76% con le banche italiane, spagnole e francesi in prima fila nei ribassi. UniCredit ha lasciato sul campo il 4,91%; Intesa Sanpaolo il 3,55%; mentre Mediobanca (-2,16%) è sempre più vicina ai 3 euro (ieri ha chiuso a 3,16 euro lontana dai 4,6 euro del punto di minimo toccato dopo la crisi Lehman). Ma l'ondata di vendite non ha risparmiato neanche i big francesi: da Natixis (-5,46%) a SocGen che perso il 4,15% a Credit Agricole con un pesante -5,5%. Che poi il mercato tenda a liberarsi di Bankia con un tonfo del 9% non sorprende. Bankia, la quarta banca spagnola ha dovuto chiedere soccorso sul fronte patrimoniale la settimana scorsa inaugurando una nuova ondata di ricapitalizzazioni per le banche spagnole. Ma se il focolaio della crisi bancaria parte da Atene, tocca Madrid e Roma non si circoscrive solo ai Pigs. Ieri ha sofferto Deutsche Bank (-4%) le svizzere e le inglesi non sono state immuni dal contagio. Barclays ha ceduto il 6,4%, Rbs il 4,8%; Lloyds Bank il 5,4%. Tra le elvetiche giù Ubs del 3% e Credit Suisse del 2,6%.
ANCE: in tre anni fallite 7.500 imprese (16 maggio 2012).
La situazione fortemente negativa che, ormai da cinque anni, sta vivendo il settore delle costruzioni, sta manifestando i suoi effetti anche sulla tenuta del tessuto imprenditoriale. Il numero crescente di imprese di costruzioni entrate in procedura fallimentare costituisce un esplicito indicatore di difficolta' del settore. Secondo i dati di Cerved Group, le imprese di costruzioni entrate in procedura fallimentare sono passate da 2.216 nel 2009 a 2.776 nel 2011, con un aumento del 25,3%. Complessivamente in tre anni i fallimenti nel settore delle costruzioni sono stati 7.552 su un totale di circa 33 mila nell'insieme di tutti i settori economici. Pertanto circa il 23% dei fallimenti avvenuti in Italia riguardano le imprese di costruzioni. E' quanto ha reso noto l'Ance, l'associazione dei costruttori edili, in occasione del D-day delle costruzioni.
La tendenza si conferma anche nel primo trimestre del 2012 con un ulteriore aumento delle procedure fallimentari nel settore delle costruzioni dell'8,4% nel confronto con il primo trimestre 2011 (+4,2% l'aumento dei fallimenti nel complesso dell'economia). Dal punto di vista territoriale, la crescita dei fallimenti osservata nel periodo 2009-2011 ha interessato tutte le aree geografiche sebbene con livelli di intensità differenti. Sud ed Isole è l'area più colpita con un aumento, tra il 2009 ed il 2011, del numero di imprese di costruzioni entrate in procedura fallimentare del 40%; segue l'area del Centro con un aumento del 27,3%, il Nord-Est con +20,8% ed infine il Nord-Ovest con +16,4%. Nell'analisi delle singole regioni, tra il 2009 ed il 2011, si registrano aumenti dei fallimenti superiori al 40%, in Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Campania, Sicilia e Sardegna. Nei primi tre mesi del 2012 le imprese con procedure di default continuano ad aumentare in tutta la penisola ad eccezione del Nord Est, in cui si registra una diminuzione del 2,7% rispetto allo stesso periodo del 2011. L'aumento delle imprese entrate in procedura fallimentare è, invece, particolarmente significativo nel Centro Italia (+24,5%), ampiamente superiore rispetto alla media nazionale (+8,4%) e nel Nord Ovest (+13,1%). Nel Mezzogiorno e nelle Isole, dopo i forti incrementi del biennio precedente, nel primo trimestre 2012 si registra un lieve aumento pari allo 0,5%. L'insolvency ratio, che misura la frequenza di fallimenti su 10 mila imprese operative, mostra come le costruzioni risultino uno dei settori più colpiti dalla crisi preceduto solo dall'industria. Tale indicatore è passato da 25 imprese fallite ogni 10 mila imprese operative del 2009 a 31 imprese fallite ogni 10 mila imprese operative del 2011. Nel primo trimestre 2012 il settore delle costruzioni registra un ulteriore peggioramento: l'insolvency ratio per il settore si attesta a 8,3 imprese fallite ogni 10 mila imprese operative (contro il 5,5 osservato nel complesso dell'economia), a fronte del 7,8 del primo trimestre 2011 e del 7,4 del primo trimestre 2010. Cio' significa che se la dinamica osservata nei primi tre mesi dell'anno in corso (8,3 imprese fallite ogni 10 mila imprese operative) venisse confermata per l'intero anno si raggiungerebbe un risultato peggiore rispetto agli anni precedenti e superiore a 33 punti. L'industria continua ad essere il macro-settore con la maggiore frequenza dei fallimenti, tuttavia, e' stato l'unico comparto che nel 2011 ha mostrato un'inversione di tendenza, passando da circa 43 imprese fallite ogni 10 mila imprese operative del 2010 a circa 40 del 2011; una tendenza che si conferma anche nel primo trimestre 2012 (9,8 punti contro i 10,5 del primo trimestre 2011 ed i 10,7 punti del primo trimestre 2010). Il problema sempre piu' diffuso dei ritardati pagamenti dei lavori da parte della Pubblica Amministrazione e l'ulteriore razionamento del credito da parte delle banche al settore delle costruzioni sono alcuni dei fattori - commenta l'Ance - che stanno contribuendo ad ampliare il fenomeno dei fallimenti. Nel secondo semestre 2011, i tempi medi di pagamento dei lavori pubblici hanno raggiunto gli 8 mesi, con punte di ritardo superiori ai 24 mesi. I dati della Banca d'Italia, descrivono un progressivo disimpegno del sistema creditizio nei confronti delle costruzioni: nel quadriennio 2008-2011, i mutui erogati per investimenti in edilizia residenziale sono diminuiti del 38,2%, mentre quelli per l'edilizia non residenziale sono sostanzialmente dimezzati.
Preoccupazioni in USA (17 maggio 2012).
L'economia Usa si sta espandendo in modo moderato ma «le tensioni sui mercati finanziari legati alla situazione in Europa continuano a porre significativi rischi al ribasso». È quanto si legge nelle minute della riunione del comitato di politica monetaria della Federal Reserve degli scorsi 24 e 25 aprile, rese pubbliche oggi. La crisi finanziaria europea, e in particolare la possibile uscita dall'euro della Grecia, è un rischio significativo per l'economia americana. Secondo la Fed, le azioni dell'Europa allentano lo stress sui mercati, ma serve altro. Diversi membri del comitato di politica monetaria (Fomc) della Federal Reserve ritengono necessarie nuove misure di stimolo qualora la ripresa dell'economia Usa perda ritmo. E lanciano un invito alle banche americane: ridurre l'esposizione verso l'Europa. Nella riunione i dirigenti della Banca centrale americana si sono trovati d'accordo nel ritenere che la ripresa acquisterà gradualmente forza, ma sono rimasti cauti sul miglioramento del mercato del lavoro. Ma dai verbali emerge che, poiché la ripresa economica dovrebbe migliorare "moderatamente", la Fed non dovrebbe adottare ulteriori misure di stimolo. La Banca centrale ha comunque sottolineato che è pronta a intervenire in caso di rallentamento dell'economia. La Federal Reserve potrebbe valutare nuove misure espansive solo se la ripresa economica degli Stati Uniti dovesse perdere slancio. E' l'opinione di diversi membri del Federal Open Market Committe che emerge dalle minute dell'ultima riunione. Il Fomc, comunque, per ora non rileva grandi cambiamenti nelle prospettive dell'economia ipotizzando «una crescita moderata nei prossimi trimestri» insieme ad una «graduale discesa del tasso di disoccupazione». Toni più preoccupati per le decisioni sul bilancio federale con molti componenti del Fomc che vedono un "rischio consistente" per gli Usa da un repentino taglio della spesa pubblica.
CONFCOMMERCIO: persi 142 miliardi, in dieci anni, a causa delle reti di trasporto (17 maggio 2012).
La ''congestione'' delle reti di trasporto in Italia ha causato la perdida di circa 142 miliardi di euro di Pil negli ultimi dieci anni. E' quanto emerge dal Libro bianco dei trasporti in Italia curato da Confcommercio, nel quale viene sottolineato come la velocità media attuale nei maggiori centri urbani italiani ricorda da vicino quella raggiunta alla fine del '700: oscilla intorno ai 15 km/h e scende fino a 7-8 km/h nelle ore di punta. E' uno dei sintomi più macroscopici del ''congestionamento'' delle reti urbane e metropolitane del Paese, con costi sociali ed economici altissimi. Un congestionamento che a sua volta produce effetti difficilmente sostenibili, se non grotteschi, come il fatto che si impieghi più tempo per raggiungere l'aeroporto della Malpensa o di Orio al Serio dal centro di Milano che per viaggiare in aereo tra il capoluogo lombardo e Roma o Trapani. La congestione delle reti - si legge nel libro - è il risultato di un mix micidiale di ingredienti (parco auto circolante, infrastrutture urbane ed extraurbane inadeguate, trasporto pubblico inefficiente, mancanza di parcheggi, tariffe popolari non usate come regolatori della domanda, bassa velocità commerciale e, non ultimo, inquinamento). Tra gli indicatori maggiormente utilizzati dagli studiosi per misurare la congestione due sono particolarmente significativi: l'accessibilità, che analizza il modo in cui i singoli nodi (come, appunto, i centri urbani) sono collegati alla rete nel suo complesso, e la connettività, che invece prende in esame gli spostamenti all'interno delle aree designate dai singoli nodi. La connettività media nelle province italiane evidenzia decrementi medi, rispetto all'optimum teorico, che oscillano tra il 20 e il 30%, con trend di peggioramento medio nel decennio di osservazione (2001-2010) del 2,5% all'anno in termini relativi. L'accessibilità ha fatto segnare nello stesso periodo di osservazione (2001-2010) un calo costante in tutte le regioni italiane: dal 19,4% perso in Abruzzo (massima performance negativa) all'1,5% perso in Sicilia. La media nazionale evidenzia un peggioramento del 15%, che appare particolarmente grave se rapportato ai trend positivi registrati invece tra i principali competitor europei, Germania in primis. La perdita di Pil conseguente a questo peggioramento, calcolata dall'ufficio studi di Confcommercio, è probabilmente il dato più eclatante di questa analisi: se l'Italia avesse messo in campo, nel decennio osservato, politiche di miglioramento dell'accessibilita' tali da allineare il sistema-paese all'andamento dello stesso indicatore in Germania, si sarebbe registrato un incremento del Pil pari a 142 miliardi di euro. Ma anche senza rapportarsi ai principali protagonisti continentali, limitarsi ad una omogeneizzazione dei livelli di accessibilità alla rete sul piano nazionale, riducendo gli enormi squilibri esistenti ad esempio tra Nord e Sud, avrebbe prodotto significativi effetti virtuosi. In questo caso, infatti, il Pil perduto nel 2010 viene quantificato in 50 miliardi di euro: corrispondente all'incremento del 3,2% del Pil che si sarebbe registrato portando i livelli di accessibilità medi del Mezzogiorno agli standard raggiunti nella regione Lombardia. Spesse volte intrappolato fermo per ore in una delle tangenziali o autostrade lombarde mi ero chiesto quanto questo enorme spreco di tempi di migliaia di automobilisti nella mia stesse situazione potesse costare in termini di PIL. Questo rapporto mi ha dato la risposta.
Il G8 (19 maggio 2012)
«È imperativo promuovere la crescita e i posti di lavoro». Una frase isolata, decisa, che apre da sola, a rafforzarne il significato politico, il documento finale emesso dal G-8 a Camp David. Il tono e il linguaggio sono quelli dell'emergenza. L'indicazione è che la sfida è epocale e andrà superata. Che l'euro, dalla Grecia al resto dell'Unione Europea, debba restare il punto di riferimento centrale lo si dice senza ambiguità: «L'importanza di una Eurozona forte e coesa per la stabilità e la ripresa globale non è messa in discussione».
Messaggi molto precisi a un mercato – e a cittadini – nervosi, che solo la settimana scorsa si sono confrontati con il pericolo di un contagio, del caos, di corse sfrenate agli sportelli nei Paesi e per le istituzioni bancarie più fragili. Davanti a queste sfide l'Europa cercava di reagire, ma lo faceva in modo scomposto. Oggi può contare sul peso dell'intervento americano e giapponese a sostenere le tesi per un approccio nuovo. Il cambiamento di atteggiamento c'è stato: il G8 ha deciso nella prima sessione, quella economica, presieduta da Mario Monti, di dare una priorità alla crescita e alla gestione dell'emergenza economica rispetto alle misure di consolidamento fiscale. E che ci sia un'emergenza si dice in modo esplicito nella seconda frase del documento, di nuovo isolata rispetto al resto del testo: «Persistono significativi venti contrari». Un'ammissione inusuale per un gruppo che deve invece gettare acqua sul fuoco. Ma un tocco di realismo era necessario per acquisire credibilità nei confronti dei mercati. E pur nella delicatezza delle circostanze economiche e finanziarie, gli Otto hanno chiesto alla Germania di fare la sua parte con maggiore determinazione nella gestione delle politiche fiscali: «Restiamo impegnati sul fronte della responsabilità fiscale – hanno scritto – e in questo contesto appoggiamo politiche sostenibili di consolidamento fiscale che tengano in considerazione le condizioni economiche in evoluzione dei vari Paesi». Di più, hanno riconosciuto che «le giuste misure non sono le stesse per ognuno di noi». Passaggi che se da una parte rassicurano la Merkel (gli accordi per il "fiscal compact" andranno rispettati, dalla Grecia agli altri Paesi dell'Eurozona), dall'altra introducono delle distinzioni importanti: Berlino non può restare passiva davanti agli sforzi dei partner, ma dovrà assumersi responsabilità e fare la sua parte per compensare i drenaggi di liquidità che stanno mettendo in ginocchio economie avanzate e aziende sane.
Ma non tocca al G-8 sostituirsi a quel che deve fare l'Europa: «Appoggiamo i leader dell'area euro perché risolvano le difficoltà in modo credibile e puntuale, in modo da poter aumentare la fiducia, la stabilità e la crescita» hanno detto collettivamente gli Otto. La palla insomma è in campo europeo. E la Germania dovrà raccogliere il nuovo incoraggiamento: l'emergenza è ora, non si può attendere. Vedremo già nei prossimi giorni se Angela Merkel si adeguerà al documento che lei stessa ha sottoscritto, ma la successione dei termini – fiducia, stabilità, crescita – è chiara e prevede l'avvio di un nuovo pacchetto che si dovrà aggiungere a quelli già definiti sul piano del rigore fiscale e per il lancio del Firewall al prossimo vertice del G-20. Il nuovo pacchetto passa per un ruolo più attivo – e dunque fortemente espansivo in chiave antideflattiva - della Banca centrale europea. E per una precondizione propedeutica alle misure espansive la creazione di garazie massicce dei depositi bancari da parte dei singoli stati e l'avvio delle fondamenta per lanciare l'eurobond: Misure finanziarie credibili dovrebbero costruire un sistema più solido nel tempo senza soffocare la crescita del credito a breve», dicono gli Otto in un altro passaggio significativo. Ci vorranno anche l'abbattimento di quelle rigidità strutturali – permessi impossibili, burocrazie rigide e inefficienti, spese per l'amministrazione pubblica insostenibili e ingiustificabili dal punto di vista della contabilità nazionale – che bloccherebbero produttività e crescita anche in presenza di una liquidità molto più vasta. È l'Europa insomma che deve trovare il suo passo. Il resto è contorno.
Amministrative: i ballottaggi (22 maggio 2012).
Eclatante vittoria del grillino Pizzarotti a Parma. Ancor più eclatante trionfo del partito dell'astensione. Due notizie che vanno a braccetto. Per il resto è tutto Pd. Le proiezioni sull'esito delle comunali dovranno per forza far riflettere i partiti. Almeno se non vorranno essere spazzati dalla scena politica. Certo, il Pd festeggia, tranne che a Parma e Palermo (dove stravince il redivivo Orlando) può dire: "Abbiamo vinto ovunque". Vero, i democratici portano a casa Monza, Como, Genova, Piacenza, Alessandria e Lucca, facendo sprofondare agli inferi il Pdl e la Lega (che perde ovunque). Eppure oggi nessun partito può dirsi soddisfatto, nemmeno il Pd. Il dato sull'affluenza fa rabbrividire: 51,4% dopo il già magrissimo 65,4% del primo turno. E c'è anche dove le cose sono andate peggio: a Palermo e Genova l'affluenza è stata del 39%. Chi festeggia sono Grillo e i suoi adepti, che con un clamoroso 60% per la prima volta vincono qualcosa di grosso, Parma, e conquistano anche comuni come Mira (Venezia) e Comacchio (Ferrara). Se si somma questo risultato al dato sull'astensione si capisce che l'antipolitica si sta facendo strada. Cosa faranno i partiti? Per ora sembra niente, almeno nel centrodestra. Basta leggere le parole della Gelmini, per lei Grillo assomiglia a Berlusconi. Per un centrodestra allo sbando sembra più facile corteggiare il capo del Movimento a cinque stelle che rifromare la politica. «Il Pdl dice di votare per noi? È una presa per il c...», urlava Beppe Grillo qualche giorno fa dal palco di Comacchio, per scongiurare convergenze. E invece è successo. L’esponente del Movimento cinque stelle Federico Pizzarotti è sindaco a Parma con il 60,2% delle preferenze, oltre venti punti in più dello sfidante, Vincenzo Bernazzoli (Pd). Soprattutto oltre il 40% in più dei voti ottenuti al primo turno. In appena quattordici giorni, Pizzarotti ha aumentato il suo parco votanti di 34mila cittadini, passando da 17mila a 51.235. La percentuale dell’affluenza è scesa lievemente, di cinque punti percentuali. Le persone che sono andate a votare sono insomma più o meno le stesse. L’esponente democratico Bernazzoli ha mantenuto un bacino di voti pressoché identico: aveva il 39,2% due settimane fa, ieri è arrivato al 39,7. Il conto matematico è semplicissimo: tutti gli elettori dei partiti fatti fuori al primo turno hanno votato il grillino. I simpatizzanti del Terzo Polo, e anche quelli del Pdl. Compattamente. Non erano mancati del resto nei giorni scorsi molti segnali in questo senso, arrivati dai sondaggi, ma anche direttamente dalla voce di qualche dirigente del Pdl. Il vicepresidente della Camera, Antonio Leone, l’aveva spiegato chiaro: «Voterei il candidato grillino». Anche perché «Grillo è un po' come Berlusconi nel '94, dice cose sovrapponibili». L’ex ministro Maria Stella Gelmini lo prevedeva: «Alcuni elettori Pdl voteranno Grillo». Altri si erano mantenuti cauti, o avevano manifestato sincera o presunta contrarietà: «Non diamo affatto indicazione di voto per Federico Pizzarotti», scandiva un altro vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi. Ma un conto è quel che dice la dirigenza, un altro le scelte degli elettori, orfani al ballottaggio del simbolo del Pdl. Che infatti nell’urna non hanno avuto dubbi. Mai col Pd. Molto meglio Grillo. Lo stesso Berlusconi già da tempo sta ragionando sul fenomeno del 2012, richiamando i suoi sulla necessità di tornare a parlare alla gente, come sa fare, nella sua maniera, il nuovo comunicatore della politica italiana. Recentemente ha anche chiarito che tra i partiti con cui trattare c’è sicuramente il movimento di Grillo. La tentazione di votare il partito del comico genovese tra i simpatizzanti pidiellini non è del resto una novità di ieri. Secondo un recente sondaggio Spincon sui flussi di voti verso il Movimento cinque stelle, più di un terzo dei nuovi elettori grillini arriverebbero dal Pdl. Il secondo partito più «saccheggiato» da M5s sarebbe l’Italia dei valori di Di Pietro. L’elettorato del Popolo della libertà sarebbe quindi addirittura più sensibile dei seguaci dell’Idv ai temi dell’antipolitica. E nelle previsioni, il Pdl rimarrebbe sempre il primo partito di provenienza dell’elettorato (26,6%), seguito da Idv e Lega e Pd quasi appaiati, al 14%. Secondo le analisi dei flussi di voto di Alessandra Ghisleri, fondatrice di Euromedia, almeno il 5-10% dell’elettorato del Pdl si sarebbe spostato su Grillo, e la stessa cosa è successa per circa un quarto dei simpatizzanti leghisti. L’agenzia di sondaggi Demopolis sottolinea come anche il Pd sia stato contaminato dal fenomeno Grillo: un votante su quattro del M5s arriverebbe dal partito di Bersani (uno su cinque dal Pdl secondo questa ricerca). E un altro quinto dalla zona grigia degli astenuti del 2008.
Ma secondo una recente valutazione di Maurizio Pessato, ricercatore Swg, Parma sarebbe la città dove più di altre i grillini hanno rubato voti al Pdl, per la delusione degli elettori nei confronti dell’amministrazione uscente di centrodestra. Al primo turno il Pd ha subito molto meno, rispetto al partito di Alfano, l’attacco dei Cinque stelle. L'emorragia di voti del Pdl, che al primo turno non ha raggiunto il 5%, è andata quindi a tutto vantaggio del candidato di Grillo, Pizzarotti, e del partito degli astensionisti: quattro elettori su dieci non hanno votato. Nessuno pensi però «a un ingresso del Pdl nella giunta del sindaco grillino di Parma», avverte Anna Maria Bernini, portavoce vicario del Pdl. Sarebbe un «folle pensiero». E non è accettabile «alcuna tesi di assimilazione» tra «il leader dei moderati italiani e un capopolo che da sempre lo diffama».
Figli mammoni (23 maggio 2012).
Lo studio è la molla che porta ragazzi e ragazze a cercare un buon lavoro. Fino agli anni Settanta ha funzionato, consentendo alle famiglie di salire qualche gradino, generazione dopo generazione. Adesso l’ascensore sociale si è bloccato. Anzi, va in direzione opposta, dall’alto verso il basso. Dice il Rapporto Istat 2012 che se la «mobilità ascendente si è ridotta» è invece «aumentata la probabilità di sperimentare una mobilità discendente». Specie per i figli della «classe media impiegatizia e della borghesia». E non è certo l’unica notizia negativa che arriva dalle 300 pagine del lavoro presentato dall’Istituto nazionale di statistica. Aumenta ancora il numero dei giovani che restano a vivere con i genitori: sono il 41,9% nella fascia che va dai 25 ai 34 anni, contro il 33,2% del 1993. La metà di loro, il 45%, resta da mamma e papà non per scelta ma perché non ha un lavoro e non può mantenersi. Aumentano anche i cosiddetti Neet (not in education, employment, or training); i giovani che non studiano e non lavorano: tra i 15 e i 29 anni hanno superato i 2 milioni, più di uno su cinque. Il guaio è che il momento del distacco si allontana sempre di più: se guardiamo la fascia d’età fra i 35 e i 44 anni, i figli che restano in casa sono arrivati al 7%, il doppio del 1993. Scende di parecchio il numero delle coppie sposate che ha figli: appena il 33,7% nel 2010-2011 contro il 45,2% del 1993. La famiglia tradizionale diventa minoranza anche nel Mezzogiorno dove rappresenta poco più del 40% contro il 52,8% di vent’anni fa. Raddoppiano invece le nuove forme familiari: tra single, single con figli, convivenze e nuclei allargati siamo a 7 milioni su un totale di 24 milioni. I matrimoni sono in continua diminuzione: poco più di 217 mila nel 2010, nel 1992 erano 100 mila in più. Mentre aumentano le separazioni: ci si arriva tre volte su dieci, una proporzione raddoppiata in 15 anni. In media ci si separa dopo 15 anni di matrimonio: i mariti ci arrivano a 45 anni, le mogli a 41. Non c’è più l’alibi di un tempo quando il loro livello di istruzione era mediamente più basso. Ma ancora adesso per le donne il mercato del lavoro è più difficile. Siamo il Paese europeo dove è più alto il numero di coppie in cui la donna non ha uno stipendio. Il 33,7%, una su tre. In un terzo delle coppie il lavoro domestico è tutto a carico della donna e spesso «tale asimmetria è associata con un più limitato accesso al conto corrente della famiglia, basse quote di proprietà dell’abitazione, scarsa libertà di spesa per se stessa, poco coinvolgimento nelle scelte importanti che riguardano il nucleo familiare». Una condizione di moderna schiavitù che può arrivare anche nel corso della vita: a due anni dalla nascita di un figlio quasi una madre su quattro (il 22,7%) ha lasciato il lavoro. Bastano due numeri per capire come l’Italia sia ancora a due velocità: al Sud le famiglie povere sono 23 su 100, al Nord scendono a 4,9 su 100. Ed è proprio nel Mezzogiorno, dove ce ne sarebbe più bisogno, che i servizi sociali funzionano peggio. Qualche esempio. Gli asili nido ci sono soltanto in due comuni su dieci, nel Nord Est sono otto su dieci. Per i disabili i Comuni del Mezzogiorno spendono otto volte meno di quelli settentrionali. Più in generale la spesa sociale è scesa dell’ 1,5% al Sud, mentre nel resto d’Italia è cresciuta, fino a un massimo del 6% registrato sempre nel Nord Est. L’Italia produce più ricchezza ma le famiglie italiane sono diventate più povere. Sembra una contraddizione e invece è il succo, amarissimo, del confronto fra l’Italia di oggi e quella del 1992. Il primo indicatore da guardare è il Pil pro capite, il prodotto interno lordo che misura la distribuzione media della ricchezza in un Paese. In termini reali, cioè neutralizzando gli effetti dell’inflazione, dal 1992 al 2011 è cresciuto dell’11,6%. Il secondo indicatore, invece, è il reddito disponibile procapite, cioè i soldi che restano in tasca alle famiglie e che possono essere spesi davvero. Sempre in termini reali, tra il 1992 e il 2011, è sceso del 4%. Italia più ricca ma italiani più poveri, dunque. Come è possibile? In questi 20 anni sono aumentate tre voci che in qualche modo «dirottano » la ricchezza prodotta nel Paese, non la fanno arrivare nelle tasche degli italiani. «La prima — spiega il presidente dell’Istat Enrico Giovannini — è la pressione fiscale, ma poi ci sono le rimesse agli immigrati che spediscono nel loro Paese buona parte di quello che guadagnano da noi e soprattutto i profitti delle multinazionali che, su scala più vasta, fanno la stessa cosa ». Negli ultimi dieci anni, in realtà, anche il Pil ha stentato parecchio. Tra il 2000 e il 2011 il Prodotto interno lordo è salito a un ritmo dello 0,4% l’anno, il più lento tra i 27 Paesi dell’Unione Europea. Anche se ci sarebbe da considerare pure l’economia sommersa che l’Istat stima nel 2008 pari a 275 miliardi di euro. Sarebbe il 17,5% del Pil, mezzo punto in meno rispetto al 2000. Ma l’istituto di statistica sottolinea che con la crisi il peso del nero si è «verosimilmente allargato». Per la prima volta il rapporto annuale dell’Istat contiene anche le previsioni sull’andamento dell’economia nei prossimi mesi. Nel 2012 il Pil dovrebbe scendere dell’1,5% per poi risalire di mezzo punto nel 2013. Quest’anno scenderanno ancora i consumi delle famiglie, si prevede un meno 2,1%, e soprattutto gli investimenti per i quali viene stimato un crollo del 5,7%. L’unica voce a reggere sono le esportazioni con una domanda estera netta che dovrebbe far segnare un +1,2%. Mentre le importazioni continueranno a scendere con un -4,8%. Ancora peggiori le cifre che arrivano dall’Ocse, l’organizzazione che raggruppa 34 Paesi a economia avanzata. La previsione è che il Pil calerà di più nel 2012 (-1,7%) e continuerà a scendere anche l’anno prossimo con un flessione dello 0,4%. Per questo, sempre secondo l’Ocse, l’obiettivo del pareggio di bilancio è da rinviare almeno di un anno, al 2014. E anzi «potrebbe essere necessaria una manovra fiscale ulteriore, in considerazione della recessione prevista». Un’ipotesi che il presidente del consiglio Mario Monti dice di «non vedere all’orizzonte».
Grecia verso l'uscita dall'euro? (23 maggio 2012).
Borse europee in picchiata - con Piazza Affari che risulta la peggiore e perde alla fine il 3,7% - e spread in risalita a 428 nel giorno in cui trapelano indiscrezionisul "rischio Grecia" dai tecnici dell'Eurogruppo. Secondo quanto riferito da alcuni funzionari all'agenzia Reuters, ciascun Paese dell'Eurozona deve fin d'ora preparare un piano per valutare il potenziale impatto dell'eventuale uscita della Grecia dall'euro. E' questo il senso dell'intesa raggiunta, nel corso di una teleconferenza svoltasi lunedì scorso tra i componenti della squadra di lavoro costituita nell'ambito dell'Eurogruppo davanti alla possibilità, sempre più concreta, che la Grecia esca dall'euro. Un'eventualità, questa, legata all'esito delle prossime elezioni greche del 17 giugno. I piani nazionali serviranno, secondo le fonti interpellate, a dettagliare il costo per ogni singolo Paese di un addio di Atene alla moneta unica, anche se sarà sicuramente la Grecia a dover pagare il prezzo più alto. In ogni caso, per preparare la strada a un eventuale "divorzio consensuale" viene ipotizzata la concessione di altri 50 miliardi di euro ad Atene da parte della Ue e del Fmi. Secondo i documenti e le indicazioni raccolte dalla Reuters, l'impatto che l'uscita della Grecia dall'euro potrebbe avere sui Paesi già sotto la lente dei mercati è stato finora sottostimato. Seduta nera per i principali mercati europei che hanno chiuso con perdite pesanti, oltre il 2%. Piazza Affari si è segnalata come maglia nera: -3,68%. Male anche gli altri listini: Parigi - 2,62%, Londra -2,53%, Francoforte -2,33%. In risalita il differenziale tra Btp e Bund tedeschi, a quota 428 contro i 410 punti base della chiusura di ieri. Sulla parola d'ordine, rilanciare la crescita, sono tutti ormai d'accordo. Compresa, seppur con tanti distinguo, la Germania di Angela Merkel, messa all'angolo dal pressing arrivato anche dagli Usa e dal G8. Ma ora le parole devono essere tradotte in fatti, in quelle piste concrete sollecitate a Camp David anche dal premier Mario Monti, che l'Europa deve iniziare a delineare, in vista del prossimo consiglio europeo di fine giugno. Primo appuntamento è quello di stasera a cena, al Consiglio straordinario Ue, per iniziare a tracciare il cammino. Le proposte, per riempire di "fatti" il pacchetto pro-crescita, dovrebbero passare attraverso una serie di misure che vanno dal varo dei project bond alla ricapitalizzazione della Bei, al possibile uso dei fondi strutturali non utilizzati. Senza dimenticare la possibilità - fortemente auspicata da Roma - della "goden rule". Ma anche riaprendo il dibattito - voluto dalla Francia ma anche dall'Italia cui si oppone strenuamente Berlino - sugli eurobond. Senza dimenticare una riflessione sulla politica della Bce che - secondo molti - dovrebbe usare la leva dei tassi (già all'1%) e su quella Tobin Tax che - incassato il via libera del Parlamento Ue - secondo stime, frutterebbe intorno ai 55 miliardi. Ecco in sintesi i principali punti. Fiscal compact - E' certo che il fiscal compact andrà integrato con la crescita. Ma sul tavolo c'è anche la possibilità di valutare uno slittamento dei tempi per il famoso parametro del 3% nel rapporto deficit-Pil che, anche alla luce della recessione, sembra per alcuni paesi un miraggio. L'idea sarebbe quella di farlo slittare di un anno, al 2014. Lasciando fermo l'obbligo di pareggio di bilancio, uno dei cardini del Fiscal compact. Banca europea investimenti - Quella di ricapitalizzare la Bei, attraverso cui dovrebbe passare anche la creazione dei project bond, è un'idea da tempo sul tavolo della Commissione. Più volte rilanciata dal presidente Jose Manuel Barroso, che invita i governi a trovare un accordo, l'idea è trovare 10 miliardi: somma in grado di liberare prestiti per 60 miliardi in 3 anni, con un effetto volano sugli investimenti in Europa stimato fino a 200 miliardi. Golden rule - L'ipotesi di scorporare dal calcolo del deficit le spese destinate agli investimenti produttivi è certamente uno dei cavalli di battaglia italiani, sul quale il premier Mario Monti insiste da sempre avanzando anche la possibilità di scorporare, oltre agli investimenti, anche alcune spese della PA. Una posizione che nasce dalla convinzione che la "regola d'oro" non significhi allentare le maglie del necessario rigore (preoccupazione molto sentita a Berlino che teme che questa misura possa far perdere il controllo in alcuni paesi) ma evitare che politiche troppo stringenti di bilancio finiscano per imbrigliare eccessivamente le politiche di spesa, anche quelle come gli investimenti nelle grandi infrastrutture (reti transeuropee comprese) che possono generare la crescita. Project bond - Uno strumento destinato a rilanciare le grandi opere pubbliche e ridare slancio all'economia. Si tratta di emissioni obbligazionarie - su cui ieri Parlamento europeo e Consiglio hanno trovato un primo accordo politico per un progetto pilota da 230 milioni in grado di mobilitare 4,6 miliardi di euro di investimenti privati - destinate a finanziare le grandi infrastrutture, da quelle di trasporto a quelle energetiche passando per quelle digitali, su cui l'Ue si confronta da tempo. Sul tavolo ci sarebbe l'idea di affidare alla Bei le emissioni (garantite dall'opera). Un primo passo - quello dei project bond, rilanciati spesso da Monti - anche verso una possibile evoluzione verso gli eurobond. Eurobond - L'emissione di obbligazioni sul debito pubblico dei Paesi dell'eurozona - la cui solvibilità sia garantita congiuntamente dagli stessi Paesi di Eurolandia - è uno dei nodi più controversi su cui si registra il secco, e reiterato, "no" di Berlino, che considera l'ipotesi solo nella lunga prospettiva. L'idea è pienamente appoggiata dal Parlamento europeo che intanto ha dato il suo sostegno al "redemption fund", ovvero un meccanismo di garanzia collegiale per la parte dei debiti che eccedono la quota del 60% del Pil.
Il primo discorso di Giorgio Squinzi (27 maggio 2012).
Tagliare la spesa pubblica per ridurre la pressione fiscale definita una "zavorra intollerabile che si aggiunge ad altre zavorre che penalizzano le imprese italiane". E' quanto chiede dal palco dell'assemblea annuale il neopresidente di Confindustria, Giorgio Squinzi per il quale "la bassa crescita dell'Italia è determinata soprattutto dalla difficoltà di fare impresa. Occorre dare concreta prospettiva di riduzione della pressione fiscale sulle imprese e sul lavoro. Nel 2011 il total tax rate, inclusivo di tutte le tasse e i prelievi, compresi gli oneri sociali, gravanti su una piccola impresa-tipo, era pari, in Italia, al 68,5%, contro il 52,8% in Svezia, il 46,7% in Germania, il 37,3% nel Regno Unito". Per questo che, prosegue Squinzi, "diciamo che i proventi della lotta all'evasione, che è sacrosanta, devono essere utilizzati per ridurre la pressione fiscale su chi produce ricchezza ossia sul lavoro e sull'impresa. Per questo diciamo no a nuovi balzelli o a tasse fantasiose che creerebbero solo incertezza e sfiducia. Per questo diciamo che occorre privatizzare, oltre che liberalizzare, e valorizzare il patrimonio pubblico con l'obiettivo della riduzione del debito". Quello che il presidente di Confindustria chiede è "un impegno serio, determinato, continuo per ridurre la spesa pubblica. Non possiamo accontentarci di una spending review che sia solo una bella analisi dei tagli possibili, servono tagli veri. Gli italiani stanno sopportando grandi sacrifici non capiscono perché l'azienda Stato non possa risparmiare come risparmia l'impresa nella quale lavorano, come stanno risparmiando nelle loro famiglie".
Per Squinzi se "fare l'imprenditore in Italia non è mai stato un mestiere facile,oggi è diventata una sfida temeraria. Le imprese italiane, specie quelle che lavorano prevalentemente per il mercato interno, sono precipitate in una crisi senza precedenti. Manca domanda e manca liquidità. L'accesso al credito bancario è diventato problematico. Lo Stato paga con ritardi sempre più ampi che non sono più tollerabili. Non sono degni di un Paese civile". Sono diverse le urgenze per il Paese sulle quali il leader di Confindustria chiede "di aprire un confronto col Governo per una nuova politica industriale che assicuri una vera prospettiva di crescita: tagli della spesa pubblica, riduzione della pressione fiscale, riforma della pubblica amministrazione, semplificazione normativa, pagamenti della pubblica amministrazione e il credito alle imprese. Per noi -sottolinea - è una questione di sopravvivenza che coincide con la sopravvivenza del Paese stesso". Per Squinzi è prioritario "arrestate l'emorragia e restituire fiducia", assicurando così "la sopravvivenza" delle imprese e dell'Italia stessa. "Non stiamo chiedendo e non chiederemo la luna. Non chiediamo favori o privilegi - dice ancora - Stiamo solo chiedendo di poter lavorare in un Paese meno difficile e inospitale , più normale, più simile agli altri Paesi avanzati". "L'emorragia -dice ancora- si misura con le decine di migliaia di imprese che non sono sopravvissute alla crisi. L'emorragia si misura con le oltre 2 milioni 500mila persone che non trovano lavoro. L'emorragia si misura con il senso di sgomento che attraversa il paese. Dobbiamo fermare questa emorragia. Dobbiamo ridare speranza". Nel suo discorso, non è poi mancato un attacco alla riforma del mercato del lavoro che "appare meno utile alla competitività del Paese e delle imprese di quanto avremmo voluto. E' una riforma che modifica il sistema in più punti, ma, a nostro giudizio, non sempre in modo convincente". Gli imprenditori sono "assolutamente contrari" a ogni imposizione per legge di forme di cogestione o codecisione, afferma con decisione puntando il dito su quella norma inserita "a sorpresa" nel corso della discussione al Senato del ddl di riforma del mercato del lavoro e che prevede una delega ad hoc al governo. Poi un pensiero ai giovani: "Se non apriamo ai giovani nuove possibilità di occupazione e di vita dignitosa, nuove opportunità" di affermazione sociale, la partita del futuro è persa non solo per loro, ma per tutti noi, per l'Italia". Infine un riferimento al suo predecessore, Emma Marcegaglia. Raccogliendo il testimone "di donna coraggiosa e appassionata", Squinzi ha detto: "Cara Emma i tempi della tua presidenza sono stati molto duri, ma tu sai bene che i miei lo saranno ancora di più". Dopo Squinzi, è intervenuto anche il ministro Corrado Passera: "E' un anno difficile ma l'industria italiana ha dato grande prova". ha detto sottolineando che per la crescita "non ci dobbiamo inventare niente, c'è già la soluzione: basta che ci allineiamo alla parte dell'Italia che funziona". Il governo, ribadisce, "ha sempre tenuto insieme il rigore e la crescita" e "non c'è una fase uno e due" e che "anche nei momenti più difficili, non è mai venuta meno la convinzione di dover rimettere in moto la crescita". "Tutto il governo - ha assicurato Passera - sta lavorando sulla crescita. Tutti i ministeri stanno facendo la loro parte". E, ha sottolineato il ministro, "quello della crescita non è un tema di comunicazione ma la ragion d'essere profonda di quello che stiamo facendo. Siamo nel momento più difficile in cui si è cumulato l'effetto di dieci anni di non crescita. Ci sono state due recessioni e siamo ancora nel pieno della seconda". E a tutto questo si unisce il "disagio sociale" e l'effetto degli interventi adottati dal governo che "ora mordono". "Questo - ha proseguito Passera - è il momento più difficile per tenere la barra al centro". Ma, ha evidenziato, "tutto con il buonsenso può essere affrontato e superato. Avevamo il naso molto vicino al muro ma la reazione e' stata molto matura". E il ministro è tornato ancora una volta sul rischio concreto di commissariamento in cui l'Italia è incorsa. Un commissariamento che "ci avrebbe tolto dal novero dei paesi indipendenti", ha sottolineato. Quindi, rivolto alle imprese assicura che "sul fisco si faranno cose tangibili e positive. Il Paese si aspetta molto da voi". Con la relazione di Squinzi, Confindustria, per la prima volta, a muso duro, ha messo in evidenza quali sono le cose da fare e la loro urgenza.
Spending review, i possibili tagli (28 maggio 2012).
Ammonta a 100 miliardi la spesa pubblica «potenzialmente aggredibile nel breve periodo», mentre è di 300 miliardi quella che richiede un intervento al lungo periodo. Lo ha detto il ministro per i Rapporti con il Parlamento Piero Giarda in una intervista a Radio Vaticana. Giarda ha spiegato che la ricerca di «risparmi e tagli agli sprechi riguarda l'intero settore pubblico dallo Stato al più piccolo dei comuni» poiché «l'intero paese non si è ancora adattato alle nuove condizioni economiche. Non ci sono posti o sezioni - ha sottolineato - in cui ci siano sprechi maggiori». Giarda ha quindi detto che «alcuni interventi si possono fare subito» con una spesa di 100 miliardi «potenzialmente aggredibile nel breve periodo» che riguarda «lo Stato, gli enti previdenziali, le regioni e gli enti locali» mentre ulteriori interventi per complessivi 300 miliardi derivano da un lavoro «a lungo periodo». «Noi ci stiamo dedicando un po' a l'uno e un po' all'altro». «In tutto il settore pubblico, dallo Stato fino all'ultimo dei comuni, il Paese non si è ancora adattato alle nuove condizioni» ha aggiunto Giarda. «C'è un paese che, purtroppo o per sfortuna, un po' per nostra incapacità, sono quasi dieci anni che non cresce più. Come una famiglia in cui i redditi restano stabili nel tempo. Non ci sono aree dove si annidano sprechi maggiori ma è tutto il comparto che va rivisto e analizzato».
Grecia e Spagna, incubo dei mercati (30 maggio 2012).
Il caso Grecia e la crisi delle banche spagnole fanno paura ai mercati europei che hanno archiviato la seduta di oggi in profondo rosso. La speculazione ribassista sarebbe stata alimentata dal no della Bce al salvataggio della spagnola Bankia e dagli ultimi sondaggi elettorali in Grecia che danno in vantaggio i partiti anti-europeisti. La richiesta da parte della Commissione Ue di un intervento diretto del fondo anti crisi per ricapitalizzare le banche non è riuscita ad arginare le perdite dei listini. Parigi ha perso il 2,2%, Francoforte l'1,8% mentre a Milano l'Ftse Mib ha chiuso in calo dell' 1,79%. In Piazza Affari, a picco Fiat (-5,1%) con tutto il comparto auto europeo, e Bpm (-4,8%) e Impregilo (-4,7%) sulla scia dell'inchiesta che ha portato all'arresto di Massimo Ponzellini. Lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi è tornato a salire e ha toccato un massimo a 483 punti sulla piattaforma Reuters, massimo dal 16 gennaio (505 pb), per poi attestarsi intorno a 440. Nell'ottobre 2011 non c'era forse una lunga fila di economisti e giornalisti che affermavano che tolto Berlusconi lo spread sarebbe sceso subito di 2/300 punti???? In questa situazione il Tesoro ha collocato stamane Btp a 10 e 5 anni per un totale di 5,732 miliardi su un'offerta compresa tra i 4,5 e 6,25 miliardi. I rendimenti dei titoli decennali sono saliti sopra la soglia critica del 6%, destando non poco allarme. «Le condizioni di mercato non erano ideali» ha commentato il viceministro dell'Economia, Vittorio Grilli. Intanto Bondi ha affermato che in poco tempo si possono tagliare sprechi per poco più di 4 miliardi di euro; una miseria rispetto ai 100 di cui parlava Giarda, solo due giorni fa.
Commento di Draghi alla crisi delle banche (31 maggio 2012).
Il presidente della Bce, Mario Draghi, si chiede «perché continuiamo ad usare i denari dei contribuenti per colmare i buchi bancari e curare le entità sistemiche», in altre parole perché devono essere i cittadini a pagare il conto degli errori del signori del credito. E’ una giusta questione di etica e di responsabilità, che il banchiere centrale vede risolta con l’Unione bancaria europea, ipotesi che in questi giorni ribolle con forza nel dibattito istituzionale a Bruxelles. Secondo Draghi, essa implica uno schema comune per la garanzia dei depositi, un fondo di intervento ponte in caso di crisi (per mantenere in piedi l’attività base, come i pagamenti o il credito alle imprese), la centralizzazione di una parte della vigilanza. Tutto ciò, ha spiegato l’ex governatore alla commissione Economica del Parlamento europeo, consentirebbe di «imparare la lezione degli errori del passato». La sua impressione è infatti che «sinora è sempre stata sottovalutata la portata delle crisi bancarie, si è intervenuti per approssimazioni successive sino ad arrivare ad avere la soluzione giusta, ma al massimo costo possibile. Una supervisione centrale della vigilanza è necessaria specialmente per le banche più grandi e per quelle sistemiche». Un esempio? «Bankia non è grande, ma è sistemica». Vuol dire che andava vigilata meglio. Il numero uno dell’Eutotower ha invitato l’Europa ad avere maggiore visione per raggiungere una maggiore integrazione. «Per molti governi la situazione è quella di chi attraversa un fiume contro corrente e non vede l’altra sponda perché c’è la nebbia: il nostro compito è quello di diradare la nebbia». Vuol dire guardare avanti e fare pieno uso degli strumenti che ci sono. Draghi ha parlato dell’Esm, il fondo salvastati permanente, che spera possa essere usato in modo più concreto «perché è inutile avere tanti soldi e non usarli quando serve, è come non averli». Oltretutto, ha indicato, la banca centrale europea «non può sostituirsi ai governi nel fronteggiare la crisi, nella quale il debito di alcuni paesi non è più percepito come sostenibile». Per questo sottolinea come sull’Esm ci sia una valutazione in corso – elemento ripreso anche da Mario Monti che ha parlato subito in teleconferenza da Roma, ma collegato col Palazzo della Commissione Ue – , «stiamo lavorando per soluzioni valide per ricapitalizzare le banche» Direttamente? O attraverso i governi? «Su questo si lavora». Nella speranza che l’Esm «sia usato e di più e sia più utile». Graghi sta ovviamente lavorando per avvicinale la Bce alla funzionalità della Fed.
L'opinione di Bankitalia (31 maggio 2012).
L'innalzamento della pressione fiscale non è compatibile con una crescita sostenuta e l'inasprimento «non può che essere temporaneo». Gli spread alti sono una fonte di rischio per la stabilità finanziaria, ma anche «un ostacolo alla crescita» e pesano negativamente sul Pil per l'1% annule. Le prime considerazioni finali di Ignazio Visco come governatore della Banca d'Italia all'assemblea annuale giungono in un momento non facile, con la crisi del debito sovrano ancora irrisolta e il differenziale tra titoli tedeschi e Btp oltre 460 punti. Il Governatore ha sottolineato che senza un'unione politica europea più forte l'euro è a rischio. Serve, inoltre, una governance bancaria più agile, con meno costi e meno amministratori. L'uscita dalla crisi non sarà breve. «Tirarci fuori dallo stretto passaggio che attraversiamo impone costi a tutti. Sono costi sopportabili se ripartiti equamente e con una meta chiara». In Italia c'era urgenza di due azioni di politica economica obbligate, ha sottolineato il Governatore: «mettere il bilancio pubblico su una dinamica sostenibile e credibile; rianimare la capacità di crescita dell'economia attraverso incisive riforme strutturali. Il governo le ha intraprese entrambe». Per il Governatore «la sfida si sposta: occorre trovare, oltre a più ampi recuperi di evasione, tagli di spesa che compensino il necessario ridimensionamento del peso fiscale. Se accuratamente identificati e ispirati a criteri di equità, i tagli non comprometteranno la crescita; potranno concorrere a stimolarla se saranno volti a rimuovere inefficienze dell'azione pubblica, semplificare i processi decisionali, contenere gli oneri amministrativi. I margini disponibili per ridurre il debito anche con la dismissione di attività in mano pubblica vanno utilizzati pienamente». Gli spread a livelli alti non solo sono «una fonte di rischio per la stabilità finanziaria», ma anche «un ostacolo alla crescita» e pesano negativamente sul Pil per l'1% annuo, rileva il Governatore di Bankitalia. Visco spiega che «i differenziali attuali di rendimento dei titoli pubblici alimentano ulteriori squilibri determinando una redistribuzione di risorse dai paesi in difficoltà a quelli percepiti più solidi; impediscono il corretto operare della politica monetaria unica; sono fonte di rischio per la stabilità finanziaria, un ostacolo alla crescita». Per difendere l'unione monetaria, ha sottolineato Visco, «nell'immediato, servono soprattutto manifestazioni convergenti della volontà irremovibile di preservare la moneta unica». Per il Governatore «vanno resi più efficaci sul piano operativo gli strumenti di assistenza finanziaria agli Stati in difficoltà». Se i governi, le autorità europee, la stessa Banca centrale europea valutano positivamente i progressi compiuti dai Paesi in difficoltà nel risanamento finanziario e nelle riforme strutturali «ne deve seguire un loro impegno attivo a orientare in tal senso anche le valutazioni dei mercati».
Giova notare che a 681 mila euro ammontano gli emolumenti del governatore di Bankitalia, come si evince dal Bilancio della Banca reso noto in occasione dell'Assemblea. Visco percepisce in realtà un compenso annuale di 757.714 euro, somma decurtata del 10% a seguito delle norme sul blocco e taglio degli stipendi del pubblico impiego varate nell'estate 2010, che lo riduce cosi' a 681mila euro. Al direttore generale Fabrizio Saccomanni vanno invece 593.303 euro, ridotti dalla stessa normativa a 533 mila euro circa. Per ciascuno dei vice direttori generali il compenso è di 441.057 euro (che anche in questo caso vanno decurtati del 10%). Considerando che Visco parla di distribuire i sacrifici e ridurre ill peso dell PA perchè non inizia a tagliare i costi di Bankitalia uno degli enti che più vergognosamente pesa sul bilancio dello stato?
Le dichiarazioni fiscali del 2011 (31 maggio 2012)
Le dichiarazioni fiscali 2011 sono cresciute sulla spinta della mini-ripresa economica del 2010. I timidi segnali di crescita dopo il tonfo registrato dal Pil nel 2009 si sono tradotti negli studi di settore in un aumento medio dei ricavi/compensi dichiarati pari all'1% (798,2 miliardi di euro il totale dichiarato dai contribuenti soggetti agli studi) rispetto all'anno precedente, con andamenti differenziati all'interno dei vari settori: il manifatturiero, che aveva subito il calo maggiore nel 2009, è quello che ha fatto emergere il rimbalzo più deciso (+1,9%), seguito dalle attività professionali (+1,7%) e dai servizi (+1%), mentre è rimasto stabile il commercio (+0,1%). La fotografia scattata dal dipartimento delle Finanze sulle dichiarazioni dei redditi 2011 (anno d'imposta 2010) al mondo degli studi di settore e diffusa ieri mostra dinamiche anche più decise sul versante del reddito, che per le persone fisiche si attesta a quota 27.300 euro (+3,1% rispetto al 2009), e sale a 37.500 per le società di persone (+4,3%) e a 31.600 per le società di capitali ed enti (+19,7%). Anche per i redditi complessivi dichiarati, comunque, il fenomeno è quello del rimbalzo, in grado di far recuperare solo parzialmente il terreno perso nei due anni precedenti. Nel 2008 i contribuenti soggetti agli studi avevano infatti denunciato al Fisco 108,8 miliardi di euro (-6,6% rispetto al 2007), e nel 2009 la massa dei redditi era scesa fino a 99,3 miliardi di euro (-8,7% rispetto al 2008). Nel 2010 i dati mostrano l'inversione di tendenza con una risalita fino a 104,8, ovvero il 6% in più rispetto al 2009. Naturalmente in un mondo così variegato (gli studi hanno riguardato nel 2010 3.482.862 contribuenti tra imprese e autonomi, nel 63% dei casi si tratta di persone fisiche) i valori medi nascondono al proprio interno situazioni molto variegate. La classifica dei redditi annui continua a veder primeggiare i notai (318mila euro, con un aumento del 2,4% rispetto all'anno precedente) seguiti da farmacisti (110mila euro, lo stesso valore registrato nelle dichiarazioni 2010) e studi medici (69.820, +2,2%). Lontanissime dagli scalini più alti della classifica molte categorie impegnate in esercizi pubblici come i titolari di bar (16.800 euro di reddito annuo dichiarato), ristoratori (14.300 euro) e tassisti (14.800 euro, come i titolari di autosaloni). I gioiellieri si attestano a 17mila euro, mentre si fermano molto sotto i 10mila euro i titolari di istituti di bellezza (6.500 euro), negozi di abbigliamento (8.600) e tintorie (9.700). In generale, la platea degli studi di settore è diminuita rispetto all'anno prima di quasi 15mila unità, soprattutto nel manifatturiero (-2,7%), seguito da commercio (-0,6%) e servizi (-0,1%). Stabili i professionisti (+0,1%). A determinare la flessione hanno contribuito anche le nuove adesioni al regime dei minimi (circa 90mila soggetti in più), che prevede l'esclusione dagli studi di settore. Se si guarda alla congruità e redditività per macrosettore, i dati fanno emergere che a fronte di una perdita media di 900 euro dichiarata complessivamente dai soggetti non congrui e non adeguati, i singoli settori economici spaziano da una perdita media di 19.500 euro nel manifatturiero a un reddito medio di 30.900 euro nelle attività professionali.
Riforma del lavoro (1 giugno 2012).
Con quattro voti di fiducia il Senato approva la riforma del mercato del lavoro (231 sì e 33 no) che dalla prossima settimana sarà all'esame della Camera. Il presidente del Consiglio, Mario Monti ha affermato «È una riforma di profonda struttura che è stata, come è normale, accompagnata da dibattiti intensi e da diverse prese di posizione ma il governo deve guardare anche alle valutazioni positive degli organismi imparziali» come l'Ue, l'Ocse, il Fondo monetario. Soddisfatto anche il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, secondo la quale la riforma «è un tassello di un disegno più ampio» che punta a rilanciare la crescita, mentre con le nuove regole anche sul fronte dei licenziamenti l'Italia si è avvicinata agli «standard europei». Ora resta da affrontare il passaggio a Montecitorio. Dalla Cgil, Susanna Camusso, avverte: «riproporremmo alla Camera come abbiamo fatto al Senato la necessità di modifiche al Ddl, il cui giudizio nel complesso non è certo positivo». Un disco rosso che incontra però qualche distinguo: per Giorgio Santini (Cisl) l'ok alla riforma «è un fatto positivo». Si vedrà nei prossimi giorni la piega che prenderà il confronto in Commissione ma sembra già certo che il testo non arriverà all'Aula di Montecitorio prima di luglio, visto che la conferenza dei capigruppo non ha voluto modificare il calendario dei lavori di giugno. Passando alle novità licenziate ieri spiccano le modifiche al contratto a tempo determinato. Viene raddoppiata (da 6 a 12 mesi) la durata del primo contratto con la possibilità per l'impresa di omettere la causale. E i contratti collettivi potranno prevedere, in alternativa a questi 12 mesi, una "franchigia oggettiva" nei casi di specifici processi organizzativi (come: start up, lancio di un nuovo prodotto, rilevante cambiamento tecnologico, progetto di Ricerca e Sviluppo, proroga di una commessa) nel limite del 6% dei lavoratori occupati nell'unità produttiva. L'avvio di un lavoro a chiamata potrà avvenire con un sms. La stretta sulle partite Iva si allenta (si considerano "vere" quelle, in particolare, che superano i 18mila euro di reddito annuo lordo); mentre per i co.co.pro. arriva il c.d. salario base e, in via sperimentale, per tre anni, viene rafforzata l'indennità una tantum in caso di perdita del lavoro (si potrà percepire fino a 6mila euro se si lavora tra i sei mesi e un anno). Sul fronte invece dei licenziamenti cambia l'articolo 18, con l'arrivo della conciliazione obbligatoria per i licenziamenti economici individuali (che non potrà più essere stoppata da una "finta" malattia del lavoratore). L'eventuale reintegra poi per i licenziamenti disciplinari (annullati dal giudice perché ingiustificati o illegittimi) dovrà essere decisa sulla base delle "tipizzazioni" dei contratti collettivi (e non più quindi dalla legge). Modifiche in arrivo anche sul fronte degli ammortizzatori, con l'introduzione della nuova Assicurazione sociale per l'impiego (l'Aspi, che dal 2017 sostituirà l'indennità di mobilità e le varie indennità di disoccupazione).
Ci sarà poi la possibilità, in via sperimentale dal 2013 al 2015, di prendere tutto insieme il sussidio per avviare un lavoro autonomo. E per i disoccupati scatterà la perdita dell'indennità se non accettano un'offerta di lavoro con retribuzione superiore almeno del 20%. Il bonus produttività viene confermato a regime dal 2012 e viene assegnata al Governo una delega per introdurre la c.d. compartecipazione dei dipendenti agli utili dell'impresa. Viene poi ripristinata la gratuità del ticket per i disoccupati (e i loro familiari); mentre sul fronte delle coperture la deduzione Irpef sugli affitti fuori dalla cedolare secca del 20% scende dal 15% al 5% (non più al 7%, dopo lo stop della Ragioneria dello Stato). E sull'apprendimento permanente arriveranno linee guida ad hoc concordate tra Stato e Regioni per arrivare a «una dorsale informativa unica» mediante l'interoperabilità della banche dati centrali e territoriali esistenti.
APPRENDISTATO L'apprendistato diventa il canale d'ingresso dei giovani al lavoro. Il rapporto tra apprendisti e professionisti non può superare quello di 1 a 1 per le aziende con meno di 10 dipendenti. Nulla di fatto per gli apprendisti in staff leasing.
AMMORTIZZATORI Arriva la nuova Aspi dal 2013. Dal 2017 sostituirà l'indennità di mobilità e le varie indennità di disoccupazione. Si consente poi, in via sperimentale, dal 2013 al 2015, di prendere tutta insieme l'indennità per avviare un lavoro autonomo.
CO.CO.PRO. Viene previsto una sorta di salario base per i collaboratori a progetto e in via sperimentale per tre anni l'una tantum (in caso di perdita del lavoro) viene rafforzata: potrà arrivare a 6mila euro per un collaboratore che abbia lavorato da sei mesi a un anno.
CONGEDI Viene rivisto il congedo di paternità nei primi 5 mesi di vita del figlio: sarà obbligatorio un giorno e facoltativo (e in accordo con la madre) per gli altri due. E i voucher per la baby sitter potranno pagare anche le rette dell'asilo.
CONTRATTI A TEMPO Si porta a un anno la possibilità per le aziende di non indicare la causale nel contratto. I contratti collettivi poi possono prevedere, in alternativa ai 12 mesi, una "franchigia" nei casi di specifici processi organizzativi nel limite del 6% degli occupati.
LICENZIAMENTI Si modifica l'articolo 18. Nei licenziamenti disciplinari il reintegro è possibile in base alla "tipizzazioni" dei contratti collettivi (e non più dalla legge). Una finta malattia poi non potrà più inficiare il recesso (salvo maternità e infortuni).
MUTUI PRIMA CASA Cambiano le regole per accedere alla sospensione delle rate di mutuo sulla prima casa. La sospensione non comporterà più l'applicazione di commissioni o spese di istruttoria e avverrà senza richiesta di garanzie aggiuntive.
PARTITE IVA Sono considerate "vere" le partite Iva con un reddito lordo annuo superiore ai 18mila euro. Per stanare quelle "fittizie" arrivano tre indici presuntivi: durata di 8 mesi della collaborazione, 80% del reddito totale e avere una postazione fissa.
PREMI PRODUTTIVITÁ Gli sgravi sul salario di produttività diventano strutturali dal 2012. La "cedolare secca" del 10%, introdotta in via sperimentale per il triennio 2008-2010,potrà contare su 650 milioni di euro.
VOUCHER Sì ai voucher in agricoltura per studenti, pensionati, casalinghe, ma per le imprese con un fatturato sotto i 7mila euro. Per tutte le altre imprese le casalinghe sono escluse. Previsto un valore orario, da aggiornare con i sindacati.
Generali: Perissinotto sfiduciato (2 giugno 2012).
Il consiglio di amministrazione di Generali ha sfiduciato il group Ceo Giovanni Perissinotto. I voti a favore della "rimozione" sono stati dieci. Il consiglio d'amministrazione delle Generali era stato convocato in via straordinaria con il voto di sfiducia quale unico argomento all'ordine del giorno. Al voto erano presenti 16 dei 17 consiglieri del gruppo. Era assente il manager interno, Reinfried Pohl. Dieci hanno votato la mozione di sfiducia caldeggiata dai soci privati e dall'azionista Mediobanca, cinque consiglieri hanno votato contro, l'amministratore delegato Sergio Balbinot si è astenuto. La decisione è stata giustificata formalmente con "l'esigenza di operare un'iniziativa di discontinuità gestionale". Il cda ha inoltre deliberato la risoluzione del rapporto di lavoro dipendente che Giovanni Perissinotto ha con la Società, in qualità di direttore generale. L'ex Ceo dovrebbe comunque restare nel board come consigliere. Perissinotto ha lasciato in auto la sede di piazza Cordusio senza rilasciare dichiarazioni. E' stato un cda civile. Non c'è stato nulla di particolare, se non un confronto. Tutti sono preoccupati per il futuro della Compagnia, speriamo sia stata fatta la scelta giusta", ha commentato alla fine uno dei consiglieri di Generali, Claudio De Conto. Su Mario Greco, probabile successore di Perissinotto, De Conto sottolinea che "è un ottimo manager" ma, interpellato sulla possibilità che Greco firmi oggi si è limitato a dire: "Vediamo, non lo so". Una nota ufficiale ha reso noto, in seguito che il Cda ha deliberato "di proporre a Mario Greco la sua nomina a Direttore Generale e Group CEO, che avverrà previa sua cooptazione nel Consiglio di amministrazione successivamente alla risoluzione del suo rapporto di lavoro con il gruppo Zurich". In attesa della formalizzazione dell'incarico a Greco tutti i poteri vengono temporaneamente esercitati dal presidente della società, Gabriele Galateri. Diego Della Valle, invece, annuncia l'addio: "Lunedì comunicherò le mie dimissioni dalle Generali", ha detto il patron della Tod's lasciando la sede della compagnia del Leone alato al termine del Cda. "Non ero d'accordo su quello che si voleva fare, nella forma e nella sostanza. Trovo che si poteva fare tutto meglio preservando l'immagine della nostra società e soprattutto del nostro Paese che in questi momenti ha bisogno di attrarre gli investitori e non di preoccuparli. Prendo atto di chi ha deciso diversamente questa è la democrazia: io non essendo d'accordo, l'ho detto anche ai miei amici del consiglio, lunedì manderò la mia lettera di dimissioni da consigliere delle Generali. Tanti auguri per il lavoro che dovranno fare in futuro". Perissinotto era sotto attacco per il rendimento del titolo del Leone che nell'ultimo trimestre ha perso un 22%, che diventa 31% nell'ultimo semestre e 45% nell'ultimo anno. Ai valori attuali, sotto quota 8,5 euro, Generali fa perdere centinaia di milioni ai suoi azionisti "privati" ma rappresenta un problema anche per il suo storico nume, Mediobanca che consolida il Leone al patrimonio netto. In passato, da Trieste a Milano fluiva un fiume di utili e dividendi, mentre negli ultimi tre anni, complice la crisi finanziaria, Mediobanca ha tratto ben poche soddisfazioni - e molti milioni di svalutazioni - dal suo portafoglio di partecipate, che insieme a Generali annovera tra le quote strategiche Telecom e Rcs. Leonardo Del Vecchio, socio di peso con il 3% ma che non siede più nel cda, essendosi dimesso, un mese fa alla vigila dell'assemblea Generali aveva chiesto in un'intervista le dimissioni di Perissinotto a causa degli scarsi risultati economici. Perissinotto si era difeso chiamando a giustificazione il calo dei prezzi dei Btp italiani, nei quali il suo gruppo è grande investitore. Del Vecchio si è assunto la responsabilità dell'operazione: «Sono stato io insieme a Lorenzo Pelliccioli a rappresentare a Mediobanca l'urgenza del cambiamento ed Alberto Nagel ne ha convenuto».
Primi interventi per lo sviluppo (4 giugno 2012).
Primo pacchetto. Sono in arrivo in consiglio dei ministri, forse mercoledì o venerdì prossimo, il decreto Crescita e quello Infrastrutture. Come ha chiarito domenica da Trento il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, saranno solo i primi provvedimenti di una serie: gli altri verranno quando saranno disponibili risorse maggiori, anche provenienti dalla spending review .
E infatti, in realtà, questo primo pacchetto nel confronto con la Ragioneria ha perduto alcuni pezzi: il credito d'imposta, che era la norma cardine, resta circoscritto alle spese per il personale altamente qualificato (master in materie tecniche), con un'aliquota pari massimo al 40% delle spese ammissibili. Le minori entrate fiscali previste, pari a circa 22 milioni rispetto ai 510 milioni di partenza, danno l'idea del ridimensionamento subito.
Gli incentivi. Il riordino degli incentivi prevede l'istituzione di un Fondo per la crescita sostenibile da circa 600 milioni. In più circa un miliardo sarà attivabile dal Fondo rotativo della Cassa depositi e prestiti per il sostegno alle imprese. Altre risorse potrebbero derivare dal Fondo Industria 2015, dalle agevolazioni per le Aree sottoutilizzate e da quelle per l'intervento straordinario per il Mezzogiorno, dai fondi per il settore minerario e il commercio elettronico. Vale al massimo 100 milioni di minori entrate per lo Stato la moratoria di un anno per le rate dei finanziamenti agevolati da restituire, a favore delle imprese che oggi rischiano la revoca degli incentivi. Mentre ha costo zero l'accelerazione della compensazione tra crediti fiscali e versamenti Iva.
I minibond. Tra le innovazioni più interessanti i minibond: obbligazioni e cambiali che le imprese non quotate, medie e piccole, possono emettere per finanziarsi, ma in presenza di alcuni requisiti: l'assistenza di uno sponsor, la certificazione dell'ultimo bilancio e la circolazione dei titoli tra investitori qualificati. Per agevolare questi nuovi titoli, se ne rendono deducibili gli interessi, inoltre vengono estese alcune esenzioni fiscali proprie delle obbligazioni societarie, così da rendere «neutrale», anche per gli investitori esteri, la scelta tra i vari strumenti di credito.
Corposo il pacchetto giustizia, concordato con il ministero di Paola Severino, che tende a accelerare i procedimenti. A favore delle imprese va anche il rinvio del Sistri (tracciabilità rifiuti) al 31 dicembre 2013 e l'estensione a tutte le Srl delle misure di semplificazione che finora valevano per gli under 35 anni.
Lo sblocca-centrali. Farà discutere la norma che accelera la realizzazione delle infrastrutture energetiche vincendo l'inerzia delle Regioni nel caso in cui l'intesa regionale, necessaria al ministero per autorizzare l'infrastruttura, o il diniego della stessa, non intervenga anche dopo anni, benché il procedimento amministrativo si sia concluso col parere delle varie amministrazioni centrali e locali coinvolte e dopo una Valutazione di impatto ambientale favorevole. La norma prevede che il ministero faccia ricorso alla presidenza del Consiglio dei Ministri per una decisione definitiva, in modo da pervenire alla chiusura del procedimento. L'obiettivo è sbloccare ingenti investimenti per oltre 10 miliardi di euro, totalmente di capitale privato, come quelli dei gasdotti e rigassificatori sulla dorsale Adriatica.
Al pacchetto di Passera dovrebbe aggiungersi quello curato dal viceministro Mario Ciaccia. Sono attesi la neutralizzazione Iva sull'invenduto, l'aumento della detrazione sulle ristrutturazioni dal 36% al 50% e il riordino del bonus del 55% per gli interventi di efficienza energetica sugli edifici. Ma per il rilancio Ciaccia punta tutto sui project bond , la cui tassazione dovrebbe essere portata a livello di quella dei titoli di Stato e sul Piano città da 2 miliardi, 1,6 dei quali provenienti dal Fondo investimenti per l'abitare della Cassa depositi e prestiti.
Come prevedibile cala il gettito tributario (6 giugno 2012).
Nel «Documento di economia e finanza» presentato lo scorso 18 aprile, il governo ha stimato per l'intero 2012 un gettito tributario di 496,3 miliardi. Ora, a distanza di poche settimane, il Dipartimento delle Finanze del ministero dell'Economia, scomponendo il gettito per quadrimestri, evidenzia uno scarto di 3,4 miliardi (-2,9%) rispetto a quelle previsioni. In sintesi, da 122,5 miliardi stimati si passa a 119 miliardi. A tale scostamento – rende noto il Dipartimento nel «Rapporto sulle entrate tributarie» del primo quadrimestre – contribuisce per gran parte il gettito del bilancio dello Stato (-3,1 miliardi, pari a -2,7%), con l'Iva in caduta libera del 9,6% quale evidente conseguenza della recessione. In flessione, sempre nel raffronto con le previsioni, anche le entrate tributarie degli enti locali (-1,2%) e i ruoli (-4,5%). Non è certo una buona notizia per il Governo, anche se lo stesso ministero dell'Economia fa sapere che il confronto con le previsioni «fornisce solo indicazioni di larga massima sugli andamenti in corso e non può essere assunto a indicatore di quello che potrà essere lo scostamento effettivo a fine anno». Di certo, occorre la massima vigilanza sui conti in tempi di faticosa definizione della «spending review», e con la prospettiva che anche per effetto delle spese per il terremoto in Emilia Romagna non solo non si allontani la già esigua prospettiva di ridurre il prelievo, ma non si riesca a evitare nemmeno l'aumento dell'Iva in programma da ottobre. Sarà già un risultato se si riuscirà a contenere in un punto l'incremento, in luogo dei due punti già iscritti in bilancio (dal 10 al 12%, dal 21 al 23%). Nel confronto con il 2011 si registra comunque un incremento del gettito dell'1,4%, per effetto dell'aumento dell'imposizione disposto dalle tre manovre correttive dello scorso anno. Ma evidentemente pesa l'effetto ulteriormente recessivo di manovre basate per il 66% su aumenti delle entrate. Il risultato è proprio quell'effetto "avvitamento" denunciato ieri dalla Corte dei Conti. Lo scarto rispetto alle previsioni sarà colmato se vi sarà una ripresa del gettito nella restante parte dell'anno, magari un barlume di ripresa. Si potrà rafforzare la spending review, e chiudere anche l'anno con un deficit leggermente superiore alle stime: attorno al 2% del Pil, contro l'1,7% previsto dal Governo. Il combinato dell'ulteriore contrazione della crescita con le spese straordinarie destinate all'emergenza terremoto, viste da Bruxelles, potranno giustificare l'eventuale sforamento del deficit, senza per questo incorrere nella scure del «fiscal compact». Soprattutto se si manterrà il percorso di rientro pattuito per il 2013-2014. Infine, si potrà puntare sui risultati attesi dal fronte della lotta all'evasione che dovrebbero essere quanto meno in linea se non in aumento rispetto ai 12,7 miliardi contabilizzati lo scorso anno. Troppe solo al momento le variabili in gioco, con lo spread abbondamente sopra i 400 punti base, quando fino a un paio di mesi fa la fondata aspettativa era di tarare la spesa per interessi (84,2 miliardi nella previsione del Def per il 2012) su uno spread al di sotto dei 300 punti. Il presidente del Consiglio, Mario Monti rilancia sul fronte dell'evasione ma chiude la strada al taglio delle tasse. Per quanto riguarda il «fattore famiglia» come criterio di imposizione fiscale, spazi inesistenti: è incompatibile con gli impegni di spesa - annuncia Monti - perchè costerebbe tra i 17 e i 21 miliardi. «Siamo per l'80% del nostro tempo a rimettere in sicurezza un Paese che é stato devastato dall'improvvidenza e dalla disattenzione per il futuro». Rischiamo nuovamente come nel novembre scorso? Per Maria Cannata, responsabile del Debito pubblico del ministero del Tesoro, la situazione del mercato «è ancora delicata, ma oggi non solo i tassi sono molto più bassi, ma la curva rendimenti ha un'inclinazione sana». In sostanza, oggi la situazione del debito italiano «è incredibilmente migliore rispetto a novembre».
In questo portale abbiamo sempre sostenuto che l'aumento delle tasse avrebbe comportato una riduzione del Pil e, quindi, del gettito. Il governo Monti ha innescato una spirale perversa che permette un imbellettamento del debito e un incancrenimento della recessione. Si sperava che il governo dei tecnici avrebbe avviato il compito del risanamento partendo dai tagli ai costi della PA, libero dai condizionamenti dei grand commis dei ministeri; e invece no, come qualsiasi governo politico è partito con l'aumento delle tasse. Intanto oggi l'ACI ha proclamato una giornata di "sciopero della benzina"; l'ente è infatti preoccupato dal crollo delle vendite di automobili in Italia, crollo che sta portando lentamente alla scomparsa del settore automotive nel Paese.
I dilemmi di Mario Draghi (6 giugno 2012).
Banche spagnole in cerca di un salvataggio. Elezioni greche che minacciano l'eurozona. Dibattito sull'Unione fiscale europea.
In questo contesto incerto e pieno di insidie, l'Europa politica guarda alla BCE e a Mario Draghi che ha già dimostrato di saper sorprendere i mercati con provvedimenti inattesi. Mario Draghi è alla guida della Bce da novembre. La prima mossa, appena insediato, è stata quella di ridurre i tassi di interesse all'1%. Allora sorprese tutti gli analisti, che avrebbero scommesso sul fatto che il taglio sarebbe arrivato a dicembre. Poche settimane dopo, Draghi ha di nuovo sorpreso tutti "inventandosi" il prestito Ltro, un modo per offrire capitali alle banche al tasso agevolato dell'1% per tre anni. E per distribuire 1.000 miliardi di euro destinati all'economia reale (almeno sulla carta). Da soli, questi due precedenti giustificano l'attenzione verso quello che dirà oggi il governatore della banca d'Italia. In pochi vorrebbero essere al posto di Draghi in questo momento. Guida un'istituzione autorevole, cui però mancano pieni poteri in fatto di politica economica europea. Ma nello stesso tempo con le sue parole e le sue azioni può indurre i decisori (politici) a creare quell'unione fiscale che sembra poter garantire un futuro stabile all'Europa. E tutto questo Draghi lo deve fare con cautela, facendosi spazio tra almeno tre minacciose incognite. La prima: l'esito delle elezioni politiche in Grecia il prossimo 17 giugno, che potrebbero mettere a rischio la tenuta dell'Eurozona (nel caso dalle urne emergesse una maggioranza anti-europeista). La seconda: il salvataggio delle banche spagnole, al momento senza soluzione (europea). Se il destino degli istituti spagnoli sarà affidato a Madrid, aumenterà il deficit della Spagna. Il "fiscal compacct" perderà ulteriormente credibilità. E l'euro poggerà sempre più su basi d'argilla. La terza incognita, quella che oggi appare più decisiva, riguarda gli esiti del prossimo vertice europeo del 28-29 giugno: due giorni in cui i capi di governo dovranno passare dalle parole ai fatti. Per iniziare un cammino che porti a proposte concrete capaci di garantire una maggiore stabilità dell'area euro. Magari in cambio di un allentamento sul fronte del "rigore a tutti i costi". E della rinuncia di una parte della sovranità nazionale. Che cosa farà, in questo contesto, il governatore della Banca centrale europea? Lascerà i tassi fermi mettendo in atto una strategia "wait and see", tenendosi per luglio la "cartuccia" del taglio del denaro? O sceglierà di tagliarlo subito? Se lo facesse, sarebbe un taglio storico: la Bce non è mai scesa sotto la soglia dell'1%. Il taglio sarebbe un segnale a chi – come i banchieri e i politici di Francoforte – chiedono "garanzie reali da parte dei governi dell'Eurozona per rimuovere le cause della crisi del debito sovrano". Dall'agenda di Draghi potrebbe uscire anche un nuovo Ltro. Gli analisti non lo escludono, ma pochi ci scommettono: lo stesso Draghi ha recentemente spiegato che i primo 1.000 miliardi "non sono ancora entrati del tutto in circolo nell'economia reale". Però il governatore potrebbe confermare liquidità illimitata per le banche, nell'ambito delle operazioni di rifinanziamento. E sempre sul fronte "liquidità" Draghi potrebbe annunciare un nuovo piano di acquisti di titoli di Stato sul mercato secondario, per allentare la tensione sugli spread di Italia e Spagna, che hanno ripreso a correre. Non a caso, da 4 mesi la Bce non opera sul mercato secondario per acquistare BTp o Bonos. Ma forse l'annuncio più atteso riguarda quello relativo a una riforma della Bce. Draghi potrebbe svelare un piano politico per dare più poteri alla Banca centrale europea, per renderla più simile alla Federal reserve statunitense. Infine, Draghi potrebbe dar corpo ai rumors che da giorni alimentano le ipotesi sulla nascita di un'unione bancaria europea che possa salvare le banche avendo accesso al nuovo fondo europeo Esm (al via a luglio).
La Spagna potrebbe così trovare i 40 miliardi di euro necessari a salvare gli istituti iberici in crisi. Ma, soprattutto, l'unione bancaria sarebbe un primo passo per far crollare le resistenze tedesche verso la nascita degli Eurobond. Le trattative – già in corso – potrebbero finalmente sfociare verso un accordo capace di spostare in avanti gli orizzonti dell'Unione Europea.
Monti e i poteri forti (8 giugno 2012).
«Il mio governo e io», sostiene il presidente del Consiglio, «abbiamo sicuramente perso in questi ultimi tempi l’appoggio che gli osservatori ci attribuivano dei cosiddetti poteri forti». L’affondo non può naturalmente passare inosservato. Si riferisce naturalmente ad ambienti rispetto ai quali era tradizionalmente considerato omogeneo. Probabilmente non ha gradito un articolo di altri due professori, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, sul Corriere dell’altro ieri; forse ritiene più in generale che la simpatia verso di lui nei grandi giornali, e nei gruppi economici più influenti, stia scemando. Di certo la cosa più naturale è provare a indagare come l’abbia presa forse il più eminente amico-critico, quel Giavazzi che appunto, come si dice, ci mette la faccia da tempo. Giavazzi ha denunciato ancora una volta «i passi indietro compiuti sulle liberalizzazioni e sulla riforma del mercato del lavoro». Ha parlato di «una direzione sbagliata» del governo, che procede alla creazione di più infrastrutture fisiche, quando ci vorrebbero infrastrutture immateriali, giustizia civile più veloce, cause di lavoro più certe e spedite, pagamenti rapidi della pubblica amministrazione alle imprese, lotta alla criminalità, un’università che produca «buon capitale umano e buona ricerca». «Più facile - dice Giavazzi - costruire strade e ferrovie aumentando le tasse, che fare quelle riforme a costo zero che però toccano lobby potenti. Purtroppo non è ubriacandoci di asfalto e traverse ferroviarie che il Paese ricomincerà a crescere». Ecco, Giavazzi è consapevole che critiche come le sue - o quelle di alcuni altri sui giornali - possano aver irritato il premier, «ma so anche che Mario è una persona perbene, non permalosa e sicuramente in buona fede, prova ne è il fatto che ha chiamato a collaborare con lui proprio chi lo criticava». Se - è il pensiero dell’Altro Professore - si spera che questo governo vada avanti, bisogna allora criticarlo, ma anche dandogli atto delle cose positive: e la cosa più positiva secondo Giavazzi è «una capacità di ascolto che in tanti anni di vita pubblica raramente avevo riscontrato». Lo stesso Prodi - ancora un Professore - reagiva assai più piccato alle critiche. Magari, è l’ipotesi di questo «suo amico da quarant’anni», bocconiano oltretutto come lui, Monti sarà sicuramente rimasto male alla lettura dei rilievi, peraltro rinnovati anche dopo l’inizio della collaborazione al governo, così come ci sarebbe rimasto male chiunque, compreso chi lo criticava; si può persino immaginare che il presidente del Consiglio abbia avuto un momento di stizza al mattino, che però gli sarà sicuramente passato durante la giornata, o almeno questo è il convincimento di Giavazzi. Eppure, resta in lui anche il convincimento che «i giornali o i poteri che li esprimono sono tanto più utili se non sono a strapuntino», se esercitano qualche critica costruttiva. Né forti né deboli, solo interessati a pungolare per crescere.
Nervosismo di Obana verso l'Europa (8 giugno 2012).
Da qualche settimana Obama bacchetta l'Europa per il suo immobilismo e i suoi egosmi. Ritorna ancora oggi sull'argomento. «L'austerity può produrre una spirale senza ritorno e portare la discoccupazione a livelli da Grande depressione. Agire ora, quindi, è indispensabile per superare la crisi e per crescere, quanto alla stabilizzazione dei conti è un piano più di lungo termine». È l'appello del presidente degli Stati Uniti durante il discorso del venerdì. Barack Obama si è detto molto preoccupato per la crisi in Europa. «L'Europa ha il nostro sostegno e può farcela, ma è una delle nostre grandi preoccupazioni, perché è il nostro partner commerciale maggiore. Servono misure dure, adesso. Prima i leader europei agiranno, prima il mercato e la gente potranno tornare ad avere fiducia e prima potrà esserci la ripresa. Nella soluzione della crisi economica la buona notizia è che c'è un percorso da seguire». Obama ha affermato che «queste decisioni sono fondamentalmente nelle mani dei leader europei che capiscono la serietà e l'urgenza della situazione». Parlando alla Casa Bianca, Obama ha aggiunto: «Sono stato in contatto frequente con loro nelle ultime settimane e sappiamo che ci sono misure specifiche che possono adottare adesso per evitare che la situazione peggiori in futuro. Ci vorrà del tempo ma abbiamo visto che c'è già un impegno politico e una forte responsabilità nei confronti di un'Europa integrata e questo sarebbe già un importante passo in avanti». È nell'interesse di tutti che la Grecia resti all'interno dell'eurozona rispettando i suoi impegni nei confronti delle riforme. Riconosciamo il sacrificio che il popolo greco sta affrontando e i leader europei comprendono la necessità di appoggiare il popolo greco se deciderá di restare nell'euro - ha aggiunto Obama - ma il popolo greco allo stesso tempo deve riconoscere che le difficoltà potrebbero essere ancora maggiori se scegliessero di uscire dall'area euro». «Paesi come Spagna e Italia hanno fatto intelligenti riforme strutturali, sul fisco, il mercato del lavoro, ma devono avere il tempo e lo spazio perchè queste riforme abbiano il loro esito. Se si fanno solo tagli ai redditi le persone faranno sempre un passo indietro e non spenderanno». «Le sfide sono risolvibili» e l'Ue «si deve concentrare sul rafforzamento del sistema bancario come abbiamo fatto noi». «È necessario - ha aggiunto - prendere decisioni serie che diano fiducia alle persone: decisioni che le inducano a pensare che il sistema bancario è solido e che si possono fidare». «La situazione europea non è solo una crisi del debito: i mercati si sono innervositi e stanno rendendo costoso finanziarsi per alcuni paesi».
Salvataggio banche spagnole (10 giugno 2012).
Dall’Ue piano di aiuti alle banche spagnole, per evitare una corsa agli sportelli in caso la crisi in Grecia dovesse riaccendersi. Ma potrebbe trattarsi solo di un breve periodo di sollievo per Madrid, e per l’Europa. Infatti, salvata la Spagna, con un rapporto debito Pil secondo solo a quello della Grecia nell’Eurozona, l’Italia rischia infatti di essere la prossima pedina di un piano di aiuti che però l’Europa potrebbe difficilmente permettersi. In aggiunta, gli aiuti alle banche potrebbero essere il preludio a un piano di salvataggio spagnolo più ampio. Ma ancora più importante, le elezioni in Grecia a breve rischiano di vanificare tutti gli sforzi, scrive Paul Taylor di Reuters. Dopo settimane di insistenza sul fatto che la Spagna non necessitasse di aiuti per ricapitalizzare le banche, il Primo ministro Mariano Rajoy si è trovato costretto ad accettare, temendo che il peggio per il paese dovesse ancora arrivare. Riuniti in teleconferenza, i ministri delle Finanze dell’Eurozona hanno dato la propria disponibilità a fornire fino a 100 miliardi di euro sotto forma di prestiti da parte dell'ESM, oltre quanto inizialmente richiesto, per cercare di rassicurare il mercato ed evitare un nuovo riaccendersi della crisi. "Cosa ci vorrà ancora? 200 - 300 miliardi di euro per l’Italia? Il piano di salvataggio per la Spagna sta semplicemente prolungando il periodo di sofferenze", ha commentato a Reuters Nick Hocart, director di Xenfin. L’Italia rischia un continuo aumento dell’indebitamento nel tempo e "molto probabilmente avrà bisogno di un qualche tipo di intervento dalla Banca centrale europea, dal fondo di salvataggio EFSF/ESM e dal Fondo Monetario Internazionale", secondo gli economisti di Citi. "Ormai sembra essere solo questione di tempo prima che la situazione sfugga di mano ed emergano nuovi problemi, specialmente con crescita così bassa", ha detto a Reuters Morten Spenner, ceo dell’hedge fund International Asset Management. "Perché questo abbia fine c’è bisogno di una soluzione più seria dal punto di vista finanziario e politico, piuttosto che un continuo rattoppamento delle piccole ferite". Il grande punto interrogativo al momento è rappresentato dai risultati delle elezioni in Grecia e la possibilità che vinca il leader di sinistra Alexis Tsipras, di Syriza, contrario agli accordi raggiunti nei precedenti piani di salvataggio. Una possibile rinegoziazione potrebbe portare Fondo Monetario Internazionale e Ue a interrompere il pagamento delle successive tranche di aiuti. E il rischio è una corsa agli sportelli che potrebbe contagiare anche gli altri paesi deboli dell’Eurozona. La fuga di capitali dalle banche spagnole ha già raggiunto i massimi record, con 66 miliardi di euro netti solo nel mese di marzo. Nei mercati finanziari si è formata ancora una situazione di stress. Sembrano svaniti gli effetti dell’iniezione di 1 trilione di prestiti di lungo periodo dalla Banca centrale europea, con l’operazione LTRO (Le operazioni di LTRO - longer-term refinancing operation - sono operazioni finanziarie effettuate dalla Bce guidata da Mario Draghi a seguito dell'inizio della crisi del debito sovrano dei paesi europei. Tale operazione può essere riconducibile alle operazioni di quantitative easing effettuate dalla Fed).
La scorsa settimana il Presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha confermato che il mercato interbancario non sta funzionando come dovrebbe. Diverse banche del sud sono completamente tagliate fuori e totalmente dipendenti dai fondi della banca centrale.
Lagarde: salvare l'euro (12 giugno 2012.
Un'azione per salvare l'euro è necessaria in «meno di tre mesi». Così il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), Christine Lagarde, in un'intervista alla Cnn. La risposta di Lagarde non è casuale ed è in risposta alle previsioni di George Soros, secondo il quale l'Europa ha tre mesi per salvare l'euro. Il livello di aiuti proposti per aiutare le banche spagnole danno l'assicurazione che le esigenze finanziarie del sistema bancario spagnolo siano totalmente soddisfatte. Lo afferma il capo del Fmi, Chistine Lagarde, commentando gli interventi Ue. «Il Fondo Monetario - ha aggiunto Lagarde - è pronto a dare il suo contributo in questa fase di implementazione, monitorando le misure finanziarie a favore delle banche spagnole». Il direttore del Fondo Monetario Internazionale ha esortato i leader europei ad agire senza indugio per superare la crisi della zona euro. Parlando da New York dove ha partecipato alla conferenza Leaders Dialogue, Lagarde ha avvertito che «L'Europa è a un bivio e i suoi partner devono intervenire subito per rafforzare le banche europee, passo indispensabile per arginare la crisi. I responsabili politici dell'Ue - ha detto - devono mettere a punto una road map chiara per completare il lavoro fatto finora. Non bastano semplicemente obiettivi a cinque o dieci anni, ma servono azioni per le prossime settimane e i prossimi mesi. Siamo ancora lontani dal traguardo», ha concluso il numero uno del Fondo. In particolare, la Lagarde ha indicato l'urgenza di un intervento sul settore bancario: «Voglio essere chiara: il cuore del salvataggio delle banche europee è in Europa e questo significa più Europa, non meno Europa».
Intervista a Wolfgang Schäuble de La Stampa (14 giugno 2012).
Herr Wolfgang Schäuble, oggi lei come ministro delle Finanze tedesco pronuncerà la laudatio in onore di Mario Monti, che sarà a Berlino per ritirare il «Responsible Leadership Award». Il governo italiano attraversa una fase complicata. Come giudica il lavoro svolto finora da Monti?
«Col governo di Monti l’Italia ha compiuto enormi progressi. Ciò viene riconosciuto ovunque in Europa e sui mercati. La nostra collaborazione è stretta e basata sulla fiducia. Posso solo sperare che le forze politiche nel Parlamento italiano e l’opinione pubblica continuino a sostenerlo con decisione perché la strada di un ritorno a una crescita sostenibile attraverso riforme strutturali, miglioramento della competitività e riduzione del deficit è quella giusta. Per quanto riguarda la riforma necessaria del mercato del lavoro ho l’impressione che al momento stia incontrando resistenze. Mi auguro che Mario Monti sia sostenuto anche su questo punto».
L’Italia teme un contagio. Ritiene che dopo gli aiuti alla Spagna il pericolo sia stato scongiurato o l’Italia sarà il prossimo Paese contagiato?
«No, non lo credo affatto. Se l’Italia continuerà sulla strada imboccata con Monti non ci saranno pericoli. Anche la Spagna è sulla strada giusta, non ha bisogno di un programma di aiuti: ha un problema specifico con parte del settore bancario e sono sicuro che lo risolverà. L’Europa contribuisce con gli aiuti per le banche e io sono favorevole a che venga usato il fondo Esm. Dovremo occuparci della Grecia, la tensione sui mercati non scomparirà da un giorno all’altro. Se però continueremo a rafforzare le basi istituzionali della moneta comune attraverso delle modifiche dei Trattati saremo sulla strada giusta».
Monti propone di scorporare specifici investimenti pubblici dal calcolo del deficit. È disposto ad appoggiare questa proposta?
«In Germania non abbiamo fatto buone esperienze col fatto che si possa recuperare credibilità e fiducia sui mercati iniziando a cambiare le regole. Così si può dare l’impressione che non si vogliono affrontare nel merito i problemi. Non consiglierei di risolvere i problemi attraverso delle variazioni statistiche. E’ già andata decisamente storta al momento dell’ingresso di alcuni Paesi nell’Unione monetaria, non ripetiamo l’errore».
«Credo che avremo gli eurobond in una forma o in un’altra, perché l’unione sta diventando più stretta», ha detto Monti. Condivide?
«Per collettivizzare le garanzie c’è bisogno di una vera unione fiscale: se mettiamo in comune le garanzie (sui debiti, ndr.) ma non le politiche di bilancio creiamo enormi incentivi sbagliati. Una collettivizzazione delle garanzie può esserci alla fine del processo verso un’unione fiscale, è incontestabile. Per prima cosa dobbiamo cercare di realizzare i necessari approfondimenti istituzionali. Su questo Monti e il governo tedesco sono assolutamente d’accordo e spero che tutti i nostri partner in Europa collaborino».
Che significa in concreto? Vedremo gli eurobond tra 5, 10, 15 anni?
«Non è una questione di tempo, dobbiamo semmai creare le condizioni istituzionali. È questo l’essenziale».
Insomma, preferisce non sbilanciarsi sui tempi?.
«La scorsa settimana la cancelliera ha detto che la Germania è pronta ad approfondire le basi istituzionali. La reazione non è stata positiva in tutte le capitali europee. Mario Monti dovrà compiere un lavoro di persuasione, ma non a Berlino: sulla questione dell’ulteriore integrazione non abbiamo mai frenato».
E i project-bond ?
«Eurobond e project-bond non hanno nulla a che fare gli uni con gli altri. Nel caso dei project-bond si tratta di muovere soldi privati attraverso risorse pubbliche e avviare dei progetti sensati. Però non abbiamo una carenza di risorse finanziarie per i progetti infrastrutturali, bensì una carenza di progetti che incentivino una crescita sostenibile. Nei fondi europei ci sono risorse non usate. Prima di affrontare nuove discussioni, con cui sappiamo che non si risolveranno problemi, dovremmo preoccuparci di usare in modo rapido e sensato le risorse finanziarie che in Europa abbiamo già».
Cosa significa in concreto un progetto di investimento sensato?
«Ad esempio non credo che possiamo spingere la crescita in Spagna o in Portogallo con nuove autostrade. Sarebbe ad esempio meglio investire nella formazione per combattere la disoccupazione giovanile. Ciò creerebbe posti di lavoro e crescita. Non darò all’Italia dei consigli attraverso i media. Monti sa meglio di molti altri quali riforme strutturali sia possibile attuare in Italia».
Le trasformazioni strutturali di cui parla significano anche un’Europa a due velocità? La strada per uscire dalla crisi passa per un ritorno all’euronucleo da lei descritto già nel 1994?
«Non lo so. La soluzione che preferiamo è realizzare un processo di approfondimento istituzionale, attraverso modifiche dei Trattati, nella cornice dei 27. Se tutti e 27 saranno disposti a farlo è un’altra questione. Abbiamo visto col fiscal compact che ciò non funziona automaticamente. Se non tutti saranno disposti ad andare avanti dovremo creare regole per un’integrazione più profonda dell’unione monetaria. Questa non è una decisione dei 17, ma di alcuni dei 10 Paesi che non fanno parte dell’Eurozona. Non vogliamo distanziarci dai Paesi che non hanno l’euro. D’altro canto appare però inconcludente che ci sia un grande Paese nel Nord dell’Europa, che non fa parte dell’Eurozona, che ci sollecita costantemente a portare l’euro fuori dalla crisi perché questa riguarda anche lui, e al tempo stesso si mostra però incapace di contribuire a farlo col fiscal compact. Quel Paese dovrebbe dunque accettare il fatto che vogliamo soddisfare le sue richieste e affrontare le necessarie modifiche istituzionali».
Le modifiche istituzionali comportano anche una cessione di ulteriori competenze a Bruxelles. È facile immaginarsi che su questo ci saranno resistenze da parte della Francia. Come intende agire?
«Confido nella forza di persuasione di Monti. Faremo il nostro meglio per collaborare col presidente Hollande. Siccome leggo con piacere che adesso l’Italia e la Francia collaborano in modo particolarmente stretto, ci sono su questo versante anche delle nuove chance... La nostra speranza è che Monti convinca Hollande sulla necessità di un rafforzamento dell’integrazione».
Nelle sue parole si nota un po’ di...
«Ironia».
Anche malumore?
«Sì, un po’ di malumore per le critiche a volte ingiustificate alla Germania. La Germania rispetta tutti i suoi impegni. Abbiamo assunto l’impegno di ridurre il deficit ed è quello che facciamo. Abbiamo assunto l’impegno in Europa e nel gruppo del G20 di ridurre i nostri squilibri, ed è quello che facciamo. Lo attesta anche il Fondo monetario internazionale. Per questo a volte mi stupiscono gli articoli che vogliono scaricare in modo unilaterale le responsabilità sulla Germania. La Germania non è l’unico Paese ad avere delle responsabilità per l’Europa. La responsabilità inizia nel momento in cui ognuno rispetta gli impegni che abbiamo fissato e ci siamo assunti insieme. Noi li rispettiamo, siamo disposti a una maggiore solidarietà e a dare più competenze alle istituzioni europee. Se gli Stati dell’Eurozona decidono di voler collettivizzare i debiti pubblici nell’Eurozona devono essere pronti a cedere una grossa parte della politica di bilancio ed economica alle istituzioni europee. Soltanto un esempio: in Europa abbiamo deciso di adeguare i nostri welfare all’evoluzione demografica. Le nostre società invecchiano tutte. La decisione del presidente Hollande di abbassare l’età pensionabile non corrisponde però a quella decisione. Il governo tedesco e la Germania sono disposte a una maggiore solidarietà e si attiene a quanto concordato, la solidarietà degli altri – anche dei greci – inizia con l’assunzione e il rispetto dei propri impegni».
Eppure la Germania viene vista all’estero come corresponsabile della crisi. Cos’è andato storto? Crede che anche la Germania abbia fatto errori?
«Non siamo i primi della classe, anche noi facciamo degli errori. Ma il fatto che a criticarci sia chi non applica quello che abbiamo concordato è sbagliato. Ognuno deve rispettare i suoi impegni. La Grecia è in una situazione molto difficile, ma non la risolveremo dicendo che la colpa dei suoi problemi è dell’Italia o della Germania. No: la colpa dei problemi di cui soffrono i greci è nelle carenze della politica greca, andate avanti per decenni. Sosteniamo la Grecia con prestiti di impressionante entità, tuttavia solo la Grecia può risolvere i suoi problemi».
Molti sono però convinti che la Germania abbia sempre premuto sul freno e rallentato tutti i tentativi di salvataggiodalloscoppiodellacrisiGreca a oggi. Cosa risponde?
«Quest’accusa non corrisponde al vero. La Germania ha compiuto insieme agli altri con decisione – se non a volte per prima - ogni passo per la stabilizzazione dell’euro. In ogni fase abbiamo trovato degli accordi e la Germania li ha rispettati, cosa che non si può dire di tutti. La Germania non preme sul freno, abbiamo mostrato molta flessibilità e comprensione, vogliamo istituzioni più forti e possiamo realizzarle anche più velocemente».
Nessuno sostiene necessariamente che la Germania sia l’unica causa della crisi, bensì che abbia puntato troppo su una politica di rigidi risparmi e troppo poco sulla crescita.
«Noi non facciamo una politica di rigidi risparmi. Guardi il rapporto del Fondo monetario, che attesta che seguiamo esattamente il tipo di politica che dovremmo fare tenuto conto della crisi dell’Eurozona. Noi prestiamo soltanto attenzione a che la Germania resti competitiva, né più, né meno. Se la Germania non crescesse tutta l’Eurozona nel suo complesso non crescerebbe. Non siamo solo l’ancora della stabilità in Europa, bensì anche la locomotiva della crescita».
Herr Schäuble, quand’è che però la Germania accenderà i motori, per citare l’ultima copertina del settimanale britannico «The Economist»?
«Allora le chiedo: come sono i dati sulla crescita della Gran Bretagna? E il deficit britannico? E il debito britannico? Si preferisce anche far ricadere la colpa dei problemi dell’andamento economico statunitense sulla crisi dell’euro piuttosto che chiedersi perché gli Stati Uniti abbiano una disoccupazione che resta così alta. In Germania c’è un vecchio principio: “Ognuno spazzi davanti la sua porta e tutto il quartiere sarà pulito”. È una frase di Goethe, un grande ammiratore dell’Italia».
La Germania vuole davvero la tassa sulle transazioni finanziarie, la Tobin Tax, oppure il governo sta cercando solo di raggirare l’opposizione tedesca?
«Il governo tedesco è fermamente convinto, proprio come Monti, che dovremmo introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie. Per questo da due anni spingiamo affinché la Commissione presenti una proposta legislativa. Ora la stiamo discutendo. Noi la sosteniamo con decisione. Nell’immediato futuro non la realizzeremo coi 27, in quanto la Gran Bretagna non vuole approvarla. Per questo abbiamo creato un gruppo di lavoro per una tassa con meno Stati membri, che presenterà unrapportoprimadellariunionedeiministri delle Finanze della prossima settimana. Siamo favorevoli a fare subito quanto possibile. Ma in Europa le cose, a volte, non vanno avanti così velocemente».
Secondo alcuni economisti la strada per la Grecia è ormai segnata: dopo le elezioni del 17 giugno il Paesi dovrà lasciare l’Eurozona. Che ne pensa?
«No, la Grecia deve realizzare dei forti adeguamenti strutturali, per risolvere i problemi della sua economia non competitiva e delle sue finanze pubbliche non solide. Non c’è altra strada, anche se ciò per il popolo greco comporta delle difficoltà. Se la Grecia uscisse dall’Eurozona ciò non cambierebbe nulla nella necessitàdi fare le riforme. Siamo chiaramente disposti ad aiutare la Grecia a restare nell’euro, ma i greci non possono evitare gli aggiustamenti strutturali. Su questo punto le elezioni non cambieranno nulla. È meglio che la Grecia resti nell’Eurozona».
Un’ultima domanda: spera in segreto che la Germania non vinca gli Europei, affinché il dibattito sul predominio tedesco in Europa non venga rinfocolato?
«No (ride, ndr): così si potrebbe anche spiegare perché abbiamo deciso di non vincere i Mondiali nel 2006, quando l’Italia è diventata campione del mondo. Ma stavolta vogliamo davvero vincere. Non sappiamo se ci riusciremo. Certo che l’Italia ha giocato davvero bene contro la Spagna. Tanto di cappello».
Da La Stampa del 13 giugno 2012 .
Finalmente Monti parla di cessioni del patrimonio pubblico (15 giugno 2012).
Il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno dovrà rafforzare gli strumenti a difesa dell'Eurozona ma fissare, nello stesso tempo, una road map precisa sulle misure a favore della crescita. Su questo punto Mario Monti e Wolfgang Schauble, ministro delle Finanze tedesco, sembrano d'accordo. Ognuno, Germania compresa, dovrà impegnarsi per il risultato finale. L'Italia, nel frattempo, farà la sua parte per tenere in equilibrio i conti dopo le azioni degli ultimi mesi. Non servirà, però, una manovra aggiuntiva, spiega Monti, ma si darà presto vita a un meccanismo per vendere asset pubblici attraverso fondi mobiliari e immobiliari. Certo, le posizioni restano quelle di sempre, così come il linguaggio. «Non c'è crescita senza riduzione del deficit» ripete fino alla noia Schauble. E Monti «La disciplina fiscale genera austerità ma l'austerità non è sostenibile nel lungo termine se non è accompagnata dalla crescita». Tutto questo, comunque, fa parte della parte pubblica del viaggio lampo del "professore", giunto ieri nella capitale tedesca per ricevere il premio "Responsible leadership" dalla business school Esmt. Elogi reciproci di Schauble a Monti («uomo giusto al posto giusto») così come di Monti al rigore tedesco. Sul tavolo restano, però, in tutta la loro durezza le parole pronunciate dal ministro delle Finanze tedesco che, in un'intervista su «La Stampa» di ieri, citando Goethe (che amava molto l'Italia) ricordava che «è bene che ognuno spazzi davanti alla propria porta perché tutto il quartiere sia più pulito». Monti ha ben presente la fragilità del sistema italiano: l'alto debito pubblico così come un mercato del lavoro «eccessivamente protetto per gli occupati e non protetto per i giovani; ma abbiamo anche un sistema di banche più solido di tanti altri Paesi (a cominciare dalla stessa Germania) e un debito privato delle famiglie ridotto rispetto ad altri Stati della Ue. La verità è che in Italia abbiamo il difetto di oscillare tra momenti di euforia irresponsabile e momenti di depressione ingiustificata. Una situazione, quindi, tutto sommato sotto controllo. Sui conti pubblici, ad esempio, abbiamo fatto un po' di più di una manutenzione, un pesantissimo intervento così come sulle pensioni». Ma non occorrerà una seconda manovra quest'anno anche se l'azione di disciplina sui conti pubblici dovrà procedere». Una novità il presidente del Consiglio comunque l'annuncia da Berlino: il Governo sta lavorando a uno strumento per la vendita degli asset pubblici. A chi gli chiede se escluda la cessione dell'attivo del settore pubblico, Monti risponde con prontezza: «Non solo non la escludiamo ma la stiamo preparando e presto seguiranno atti concreti. Abbiamo predisposto veicoli, fondi mobiliari e immobiliari, attraverso i quali convogliare, in vista di cessioni, attività del settore pubblico, prevalentemente a livello regionale e comunale». Monti torna anche sulla Tobin tax per le transazioni finanziarie, ricordando che il precedente Governo Berlusconi era contrario e quello attuale la sostiene. Ma il problema, aggiunge, è che non può essere una misura dei 17 Paesi Euro ma dei 27. Se fosse un'imposta applicata solo nell'Eurozona le transazioni si sposterebbero altrove per evitare la tassa. Davanti a Schauble, in pubblico, Monti parla anche dell'«ammirazione speciale» per la Germania e la sua "Ordnungspolitik", l'economia sociale di mercato. Confida che il non essere un politico di professione lo rende più responsabile: «Non devo rispondere agli elettori ma a un Parlamento dove ottenere la fiducia, non devo scendere in strada per trovare voti. Questo mi rende però molto più responsabile, non meno».
Quello che Monti ha affermato avrebbe dovuto dirlo il giorno dopo la sua nomina a capo del governo; sono note le resistenze dei vertici della PA, in particolare del Tesoro e della Ragioneria di stato verso questo tipo di interventi. Ma, come ha affermato Luttwak pochi giorni fa, proprio perchè Monti è un tecnocrate e non un politico avrebbe dovuto affrontare, subito, con chiarezza queste intenzioni. Ora abiamo le parole vedremo se da queste si passerà ai fatti.
Il CDM approva il decreto sviluppo (15 giugno 2012)
Dopo innumerevoli indiscrezioni, è stato approvato dal Consiglio dei ministri il decreto Sviluppo: in tutto 61 articoli. Ecco le principali novità: arriva l'esclusione dall'Imu per le aziende, nasce l'Agenzia Italia Digitale e vengono snelliti i processi civili. Le coperture necessarie a finanziare alcuni articoli del decreto saranno fatte mediante tagli alla pubblica amministrazione e ai ministeri. Tagli che riguarderanno anche i dirigenti di Palazzo Chigi e ministero dell'Economia. Il provvedimento mobiliterà risorse fino a 80 miliardi. Questa la stima fatta dal ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera: «40-45 arriveranno dai project bond e dalle misure per le pmi - ha detto il ministro - mentre altri 30-35 miliardi dalle altre misure». È un provvedimento «organico e molto robusto» ha commentato il presidente del consiglio Mario Monti.
I PROCESSI CIVILI - Oltre al decreto approvato dal consiglio dei ministri, il governo ha anche dato il via libera al piano delle dismissioni. A livello delle infrastrutture, Passera ha informato: «Sulla Salerno - Reggio Calabria dobbiamo assicurarci che entro la fine dell'anno prossimo, nel 2013, tutti i cantieri siano completi, si tratta di una infrastruttura basilare del sud». Poi l'annuncio delle novità contenute nel decreto Sviluppo: «Ci sarà una srl semplificata per tutti, compresi gli azionisti sopra i 35 anni - ha spiegato Passera - oltre a profonde riforme strutturali come l'accelerazione dei processi civili con un filtro sull'appello». «Se l'appello sarà palesemente inammissibile non verrà celebrato - ha sintetizzato il ministro della giustizia Paola Severino, assicurando -. Questo non significa cancellare il processo di appello» ma introdurre la valutazione di un giudice che darà un giudizio di ammissibilità.
LA LEGGE PINTO - Saranno velocizzati anche i rimborsi per i processi civili più lunghi: a decidere sul diritto ai rimborsi potrà essere «un solo giudice e con una procedura molto semplice». Insomma cambia la legge Pinto (sulla ragionevole durata di un processo): con il decreto sviluppo si prevedono infatti indennizzi predeterminati e calmierati (da 500 a 1.500 per ogni anno di ritardo) e termini di fase per i procedimenti che vengono prefissati: la durata complessiva di un processo è prevista in sei anni, tre per il primo grado, due per l'appello ed una per la Cassazione. Condotte non diligenti, dilatorie o abusive delle parti potranno comportare anche la «non indennizzabilità» per l'eccessiva durata del procedimento.
IMU - Per l'Imu è stato stabilito che verranno esentate dalla tassa, le aziende per un periodo non superiore a tre anni dall'ultimazione dei lavori (immobili, magazzino, fabbricati costruiti e destinati alla vendita). Passa invece dal 36% al 50% la quota di detrazione Irpef per la riqualificazione energetica (fino al 30 giugno 2013) ma con soglia al 50% (rispetto al precedente 55%). Nasce anche l'Agenzia per l'Italia digitale con la conseguente soppressione di DigitPA e dell'Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l'innovazione. Novità per l'agricoltura: viene istituito infatti per l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, un fondo per il finanziamento dei programmi nazionali di distribuzione di derrate alimentari alle persone indigenti nel territorio italiano. Prorogata invece al 31 dicembre 2012 l'emanazione del decreto che avrebbe dovuto adottare disposizioni per impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio taxi e del servizio di noleggio con conducente.
INCENTIVI - Sugli incentivi, ha specificato Passera, è stato fatto «un lavoro molto grosso: avevamo 43 leggi di incentivazione che sono state bloccate, interrotte e sono state recuperate parecchie centinaia di milioni, oltre 2 miliardi per il Fondo per la crescita sostenibile». Per le imprese, arriva un credito d'imposta del 35% (con un limite massimo pari a 200 mila euro annui) per l'assunzione di personale qualificato. Ma non solo: le aziende colpite dalla crisi con prospettive di ripresa, non saranno obbligate a dichiarare il fallimento ma potranno ricorrere direttamente al concordato preventivo. Previste le obbligazioni da parte delle società di progetto, sul modello europeo. I project bond saranno «appetibili per gli investitori» per realizzare nuove infrastrutture anche grazie al capitale privato.
ENERGIA - Novità importanti anche per lo sviluppo del settore energetico. «I decreti per l'incentivazione all'energia rinnovabile elettrica che saranno pubblicati a breve - ha puntualizzato il ministro per lo sviluppo economico - sosteranno fortemente gli investimenti. Prevediamo infatti nei prossimi 8 anni quasi 200 miliardi di euro investiti nel settore, sia nei comparti più tradizionali, come le reti gas ed elettriche, i rigassificatori e l'estrazione di idrocarburi, sia nella cosiddetta 'green economy'». Proprio sulla green economy, il decreto Sviluppo prevede finanziamenti a tasso agevolato che saranno concessi ai progetti di investimento che prevedono l'occupazione aggiuntiva a tempo indeterminato di giovani con età non superiore ai 35 anni alla data dell'assunzione.
I COMMENTI - Tanti i commenti sul decreto Sviluppo: «È stato un parto con una gestazione di 8 mesi - ha detto Paolo Romani, deputato Pdl - ma in questo caso il frutto non è prematuro, quanto piuttosto decisamente in ritardo per lo stato di emergenza in cui ci dicono versi la nostra economia. Per la crescita sono necessari interventi decisi e puntuali, sulla scia di quanto fatto, e in corso di approvazione, dal governo Berlusconi». «Non conosciamo ancora nel dettaglio il testo approvato dal Cdm - ha affermato in una nota il coordinatore delle commissione Economiche del Pd alla Camera, Francesco Boccia - ma le anticipazioni ci sembrano positive, è un buon inizio». «Bisogna non accontertarsi degli annunci e dei commenti - ha spiegato Nichi Vendola -. Bisogna leggere l'articolato e capire effettivamente di che cosa si tratta. La delusione che abbiamo cumulato fino da oggi è tale che è proprio flebile la speranza che si possa trattare di un provvedimento di svolta».
Grecia: vincono i fautori dell'euro (18 giugno 2012).
La Grecia resta nell'euro. «I greci hanno scelto di restare legati all'euro. Non ci saranno più avventure. L'Europa è la nostra direzione e questa è una vittoria per tutta l'Europa»: così il leader di Nea Dimokratia ha commentato la vittoria alle elezioni al centro stampa di Atene, davanti a una selva di fotografi, televisioni e giornalisti di mezzo mondo. Il mondo in efffetti tira un sospiro di sollievo. Dunque Nea Dimokratia di Antonis Samaras, il partito conservatore greco, ha ottenuto la maggioranza relativa e con l'alleanza dei socialisti del Pasok di Evangelos Venizelos hanno 162 seggi complessivi sui 300 nel parlamento greco. Quanto basta per formare un esecutivo pro-salvataggio e farevorevole alla permanenza del Paese nell'euro. Nea Dimokratia ottiene il 29,66%, e 129 seggi; Syriza il 26,89 e 71 seggi, il Pasok il 12,28 e 33 seggi. Seguono Anexartitoi Ellines (Greci indipendenti), 7,51%, 20 seggi; Chrysi Aygi (Alba Dorata) 6,92%, 18 seggi; Dimokratiki Aristera (Sinistra democratica) 6,25%, 17 seggi; e i comunisti del Kke (4,50%, 12 seggi). Un quadro messo in discussione però da un'affermazione fatta in tv dal leader del Pasok Evanghelos Venizelos che ha chiesto una coalizione di governo a quattro in Grecia: con i conservatori di Nea Dimokratia, i socialisti del Pasok, e i due partiti di sinistra, Sinistra Democratica e Syriza, quello anti europeista. Una frase che ha gettato nello sconcerto gli osservatori politici che hanno visto nell'affermzione un nuovo elemento di instabilità che rimetterebbe in discussione la creazione di un governo in tempi rapidi. Ma forse si tratta solo di un tentativo di destabilizzare la ledearship di Samaras e chiedere che il nuovo premier sia un tecnico come Lucas Papademos, o George Provopoulos, governatore della Banca di Grecia, o Panagiotis Pikrammenos, ex premier del Governo uscente e magistrato.
La Sinistra radicale, Syriza, di Alexis Tsipras, la formazione anti-salvataggio che voleva ridiscutere i termini dei finanziamenti minacciando l'uscita dall'euro, ha 71 seggi, un exploit eccezionale ma che non gli consente nessuna alleanza né di incassare il premio di maggioranza. I mercati tirano dunque un sospiro di sollievo e i grandi del G20 in Messico possono guardare al mondo con maggiore tranquillità. I risultati delineano un quadro di stabilità e di continuità e soprattutto di rispetto degli accordi presi con i creditori internazionali, la cosidetta troika, anche se Syriza resta al secondo posto nel panorama politico greco e rimane una grande forza di opposizione con cui fare i conti, soprattutto sulle piazze. La tensione politica si è ridotta ma non certamente quella sociale. Syriza ha i voti di un greco su quattro e cercherà di far pesare in ogni caso politicamente questo successo elettorale con il quale bisogna fare comunque i conti. L'uscita dall'euro della Grecia è dunque meno probabile: «La coalizione guidata da Nea Dimokratia è in linea con una riduzione delle probabilità di un'uscita della Grecia», ha detto Aroop Chatterjee della divisione Barclay Capital a New York. Ma secondo la banca americana Citi si tratta di una vittorio di Pirro poiché il governo non riuscirà a portare avanti le riforme necessarie per la forte opposizione di Syriza e nell'arco dei prossimi 12 mesi resta aperta l'ipotesi di un'uscita del Paese dall'euro. Intanto il leader di Syriza canta vittoria. «Il risultato elettorale odierno è un successo per noi perchè abbiamo avuto contro forze interne alla Grecia e forze esterne e quindi ne siamo orgogliosi»: così Alexis Tsipras, il leader del partito di sinistra Syriza, ha commentato il risultato delle elezioni in cui il suo partito è arrivato secondo dopo Nea Dimokratia. «Syriza - ha ricordato Tsipras - è un partito che si batte contro il memorandum, l'intesa con i creditori internzionali. Comunque, parlando al tefono con Antonis Samaras, gli ho detto che in base ai risultati odierni egli è libero di formare il governo che riterrà più opportuno per il Paese. Noi saremo presenti come opposizione. E siamo anche sicuri che la validità e la giustizia delle nostre posizioni sarà confermata dai futuri sviluppi. A partire da lunedì ad ogni modo tutto cambierà e per la Grecia sarà un nuovo giorno», ha concluso Tsipras.
Il voto greco non incoraggia le borse (18 giugno 2012).
È durato poco l'entusiasmo delle Borse europee per il voto in Grecia. Gli indici - che in apertura avevano fatto segnare rialzi di oltre l'1% - hanno subito rallentato fino a spegnersi e sulla periferia dell'area euro le Borse hanno segnato drastiche inversioni di rotta, mentre si riaccendevano i timori sulla Spagna, le cui banche e titoli di Stato sono tornati ad esser bersagliati da pesanti vendite. Nel primo pomeriggio a Milano il FTSE MIB torna a accentuare i cali con un -2,5%, mentre la tensione si è ricreata anche sulle emissioni italiane. I rendimenti dei Btp a 10 anni risalgono al 6,05% e il loro differenziale rispetto ai Bund torna a 464 punti base. Apertura in territorio negativo anche per Wall Street. Il Dow Jones segna un ribasso di quasi mezzo punto percentuale. La Spagna intanto, oltre agli squilibri sui conti pubblici, si ritrova a dover intervenire su un sistema bancario che vede diversi istituti gravemente in dissesto, a causa delle loro esposizioni al comparto immobiliare. Per questo nei giorni scorsi ha annunciato che intende chiedere aiuti all'Ue, ma questo finora non è bastato a respingere l'allarmismo dei mercati. Intanto oggi la Banca di Spagna ha riferito che i prestiti in sofferenza delle banche sono continuati ad aumentare, incrementando livelli già ai massimi storici. E oggi è di nuovo sulle banche che si concentrano i cali in Borsa, nel pomeriggio Madrid accusa un meno 1,74 per cento. Se ai primi scambi stamattina i rendimenti dei Bonos decennali si erano lievemente attenuati, al 6,82%, successivamente sono tornati a subire pressioni fino a salire al 7,16% nel pomeriggio. In questo modo lo spread Bonos-Bund è arrivato a toccare 575 punti base, quindi oltre il livello dell'Irlanda (571 punti base), Paese sotto salvataggio. Anche Parigi ha cambiato direzione, segnando un meno 0,14% laddove in apertura, come tutti i maggiori mercati europei, aveva segnato un rialzo superiore al punto percentuale. Francoforte si attesta al più 0,62%, Londra al più 0,29 0,11%. Resta molto positiva Atene al più 4,69% (indici finanziari in tempo reale). Volatile anche l'euro, che dopo esser risalito sopra 1,27 dollari nel pomeriggio cala a 1,2617. Le elezioni greche hanno allontanato lo spettro che il Paese esca dall'euro, ma a questo punto gli esperti temono che Atene possa vivere una nuova fase di impasse visto che la destra (Nuova Democrazia) ha vinto le elezioni, ma senza aver ottenuto la maggioranza del Parlamento (ha il 29,66% dei voti ovvero 129 seggi contro i 300 totali). Il partito dovrà quindi allearsi con il Pasok, il cui leader, però, già ieri sera ha dichiarato che auspica la formazione di un governo di unità nazionale al quale dovrebbe partecipare anche l'estrema sinistra. Questa mattina, le prime reazioni dei mercati al voto in Grecia erano arrivate dal Giappone. Il mercato nipponico festeggia il risultato elettorale pro-euro: in apertura di contrattazioni l'indice Nikkei, che raccoglie i 225 principali titoli, ha toccato temporaneamente gli 8.766,56, il suo massimo dal 17 di maggio. La Borsa di Tokyo ha poi chiuso la giornata a +1,77%.
Il goveno Monti tra gaffe ed errori ( 18 giugno 2012).
Nel Parlamento italiano spira un'aria che non c'entra con la crisi europea. Nulla di ufficiale ma si comincia a percepire un'aria di riscatto da parte dei politici, sorrisi, battute, pubblici giudizi. "C'è l'ombra di un ministro?", domanda con aria innocente ma con molta malizia il presidente Pdl della prima commissione Affari costituzionali Donato Bruno facendo notare che Paola Severino non c'è proprio il giorno in cui si deve presentare il maxi emendamento del ddl anticorruzione. La riforma di Francesco Profumo sul merito e sulla scuola? "Proposte sbagliate", condanna il Pd Giuseppe Fioroni. Nichi Vendola mostra le peggiori intenzioni: "I tecnici? Spocchiosi e sciatti".
Un pensiero si fa strada in Parlamento, come nel Paese: "sarebbero questi i docenti universitari, i tecnici che dovevano rimettere il Paese a posto, i restauratori di una civiltà governativa?" In effetti, di giorno in giorno il governo di Mario Monti che doveva far vedere come una democrazia avanzata ed europea si rialzava in piedi dai disastri dell'era berlusconiana e non solo, si sta imbozzolando in un tela di gaffe, incomprensioni, errori. In primo piano la professoressa Elsa Fornero, notevole pasticciona capace di mettersi contro tutti, sindacati, Inps buona parte dell'arco costituzionale, paese in un tripudio di cifre contro altre cifre, di alchimie filologiche che trasformano gli esodati in salvaguardati. Ma non è detto. Per carità, Monti è una benedizione. Però, con lo sfondo di un'Europa in fibrillazione; di un'eurozona dal destino incerto; di un Quirinale che, per quel che gli spetta, media, esorta, placa e dello scontro di potere con l'alta burocrazia dello Stato... Forse per tutto questo i tecnici sono così in crisi da far dire, dopo l'ennesima bagarre alla Camera, a Piero Giarda, titolare dei Rapporti con il Parlamento, ruolo cruciale più che mai in un governo tecnico: "Sono un ministro inesperto". E' vero che è innervosito per essere stato sollevato da buona parte della spending review passata al commissario Enrico Bondi ("Fisso solo il calendario delle sedute", si amareggia); è vero che c'è chi sostiene che non sondi a sufficienza gli umori delle Camere (il governo va spesso sotto: spending review, patto di stabilità dei Comuni, ddl anticorruzione), ma se è inesperto lui, ex presidente di una commissione tecnica per la spesa pubblica e più volte sottosegretario, c'è da preoccuparsi per gli altri. Dimissioni. Negli ultimi tempi è stata la parola più gettonata. Le chiedono al ministro del Welfare dopo la scontro sui dati diffusi dall'Inps (390 mila esodati contro il calcolo di 65 mila della Fornero) Idv, Sel, Lega mentre il Pdl parla di un governo in preda a una crisi di nervi. Le ha minacciate pubblicamente il ministro della Giustizia Severino: "Se non ottengo la fiducia sull'anticorruzione il governo torna a casa". Andiamo bene. Un doppio affondo per Monti. Non solo per la cosa in sé ma per averlo dichiarato all'estero, dal Lussemburgo. "Ma come? Con tutto quello che succede e che il governo fa per rilanciare l'immagine dell'Italia?", hanno deplorato a Palazzo Chigi mentre la professoressa Severino piuttosto turbata dagli ostacoli politici e parlamentari andava avvertendo urbi et orbi che in caso di bocciatura del ddl, avrebbe passato il resto dei suoi giorni nelle aule universitarie a spiegare a generazioni di giovani il duo decreto.
Obama vs Europa (19 giugno 2012).
A pochi minuti dall'appuntamento, il vertice fra i leader europei e Barack Obama è stato annullato. Il vertice si doveva tenere subito dopo la cena del G-20 e l'obiettivo era quello di dimostrare ai mercati che è in corso un forte coordinamento per monitorare la crisi. Da parte americana c'era anche il tentativo di esprimere una dimostrazione di leadership da parte di Obama nel momento in cui le cose dal punto di vista economico interno non vanno bene. Gli annunci notturni a sorpresa a questo vertice di Los Cabos non sono mancati - la decisione dei Bric di comunicare i dettagli dei loro contributi (456 miliardi di dollari in più ) al Fondo Monetario Internazionale è venuta anch'essa a notte fonda dopo che per tutta la giornata Brasile e Cina, in particolare, avevano resistito. Resta un dubbio di fondo: non è chiaro quanto le sorprese servano a tranquillizzare mercati già molto nervosi per lentezze, incertezze e litigi sul ponte di comando nella gestione di questa crisi economica e finanziaria. Sul colpo di scena del mancato incontro Usa/Ue ci sono due interpretazioni. La prima, divulgata dagli americani, afferma che i leader europei avevano un brutto jet lag e dunque hanno chiesto di rimandare. La seconda non priva di una certa solodità afferma che Germania, Francia, Italia e Spagna non sopportano più le lezioni e le ingerenze americane e dunque hanno voluto dare un brusco segnale a Washington. Fonti americane raccolte dal Sole 24 Ore confermano che l'incontro non é stato rimandato, ma che forse ci saranno degli incontri bilaterali ai margini del G-20 fra Obama e i singoli leader europei. Non è chiaro come i mercati prenderanno questa notizia. Potrebbero reagire male: non è mai gradevole che i principali protagonisti di uno sforzo comune diano palesi dimostrazioni di dissenso. Ma, e questo potrebbe essere il rischio calcolato, i mercati potrebbero apprezzare la prova d'orgoglio europea come una dimostrazione di forza. Resta un interrogativo di fondo. E' prudente in una situazione di fragilità psicologica sui mercati dare dei segnali contrastanti? Non sarebbe stato forse meglio non "convocare" l'incontro? Nel pomeriggio di ieri inoltre era stato organizzato all'ultimo momento un bilaterale non programmato fra Angela Merkel e Barack Obama. L'incontro non è andato bene. Obama ha continuato a chiedere dimostrazioni di flessibilità anche per riscadenzare il debito greco, chiedeva segnali concreti per i mercati e per la crescita ma la Merkel continuava a resistere. Nel pomeriggio poi durante una conferenza stampa americana Ben Rhodes (numero due Nsc) e Lael Brainard (capo dell'internazionale al Tesoro) davano due messaggi forti piuttosto antipatici e chiaramente studiati su esigenze di politica interna. Il primo: l'Europa deve essere considerata la principale responsabile di questa crisi. Il secondo: c'è un accordo al G-20 per stimolare la domanda e rilanciare la crescita, cosa non così chiara visto che la Germania aveva invece resistito fino all'ultimo nel corso dei lavoratori preparatori per la dichiarazione finale. Alla fine, sul documento, il compromesso: in caso di persistente debolezza della domanda alcuni paesi si sarebbero impegnati a procedere con politiche espansive. Una sfumatura molto diversa da quella che volevano far passare gli americani.
Conclusioni del G20 (20 giugno 2012).
«Per l'Italia il tema bailout (prestito a un paese in serie dificoltà finanzuarie ndr) non si pone proprio», ha chiarito Mario Monti al termine dei lavori del summit dei leader del G20 a Los Cabos. Ma al tavolo del vertice messicano si è parlato di un'altra proposta, avanzata proprio dal premier italiano: utilizzare l'European Financial Stability Facility (Efsf), il fondo salva Stati da 440 miliardi, per acquistare bond dei Paesi dell'Eurozona i cui tassi di interesse salgono troppo. Un argine contro lo spread. «È stato uno dei temi di conversazione libera e sciolta, che qui può essere più libera e sciolta che nel Consiglio europeo. È uno dei temi su cui si riflette e continuerà a essere uno dei temi su cui si rifletterà anche venerdì a Roma, nel vertice a quattro con Merkel, Hollande e Rajoy. Sarà quello l'appuntamento in cui si metterà a punto l'idea.» E il presidente francese ha subito reagito positivamente alla proposta lanciata da Monti: «L'Italia ha lanciato un'idea che merita di essere considerata. Ne parleremo a Roma». Soddisfatto anche il primo ministro spagnolo Rajoy. Mentre è significativo come non sia stata rilasciata al riguardo nessuna dichiarazione della cancelliera tedesca Angela Merkel. Intanto, nel comunicato finale del summit dei Grandi, si legge che i leader del G20 sono a favore della volontà europea di integrare maggiormente il sistema bancario. Monti ha ribadito la distanza tra la sua proposta e ogni ipotesi di bailout che interessi il nostro Paese. Un tema che è stato sollevato «da più di un sito inglese», ha ricordato Monti. Il riferimento è a quanto riportato dal Daily Telegraph, che ha parlato di un accordo tra i leader europei su 745 miliardi di euro per il salvataggio di Spagna e Italia. Ma Monti ha assicurato: «Per l'Italia il tema bailout non si pone proprio, per la Spagna si pone il tema limitatamente al settore bancario. Può darsi che l'equivoco sia nato perché si sta riflettendo, tra paesi dell'euro, dei modi per la stabilizzazione finanziaria». Monti ha ribadito che crescita e rigore sono ingredienti complementari e non alternativi nella ricetta anticrisi: i Paesi del G20 concordano sul fatto che la crescita avvenga «senza pregiudicare gli equilibri di bilancio», ha detto Monti al termine dei lavori del summit. Dopo aver invitato a «fare presto», il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è apparso soddisfatto e ha riconosciuto che l'Europa è pronta a prendere «azioni coraggiose e decisive per risolvere la crisi. Chi scommette su una sua implosione sbaglia: perché la strada intrapresa dal Vecchio Continente è quella di una sempre più stretta integrazione». Dopo il braccio di ferro con gli europei, Obama ha ottenuto quello che voleva: i leader europei presenti a Los Cabos gli hanno messo sul tavolo le misure immediate che intendono varare nel vertice di Bruxelles della prossima settimana: da quelle per stabilizzare il sistema finanziario e bancario a quelle per assicurare una maggiore crescita e favorire la ripresa. Con l'impegno a sostenere i Paesi maggiormente in difficoltà sul fronte dei mercati: «I Paesi dell'Eurozona prenderanno tutte le misure necessarie sia di lungo che di breve termine», ha annunciato Obama nella conferenza stampa finale, tirando un sospiro di sollievo. «Anche perché i leader europei sembrano finalmente aver capito l'urgenza». I mercati asiatici hanno accolto abbastanza positivamente gli esiti del vertice. I mercati rimangono comunque cauti in attesa di un eventuale allentamento della politica monetaria statunitense che dovrebbe essere annunciato mercoledì sera dalla Fed.
Continua il braccio di ferro tra Fiat e Fiom (21 giugno 2012).
Landini si è commosso durante la conferenza stampa convocata dopo la sentenza del Tribunale di Roma che impone alla Fiat di assumere a Pomigliano 145 operai iscritti al sindacato. La voce si è incrinata quando il leader dei metalmeccanici della Cgil ha ringraziato «tutti gli iscritti dentro gli stabilimenti della Fiat per le discriminazioni pesanti subite. Se siamo qui è anche grazie a loro» ha detto. «Mi aspetto che la Fiat rispetti la sentenza. Troverei singolare che qualcuno vada via dal Paese perchè in Italia si devono rispettare le leggi e la Costituzione» ha detto il segretario della Fiom. Non devono rientrare solo i 145, è il momento che rientrino tutti i 5 mila lavoratori che erano in forza a Pomigliano». Al momento ne sono stati assunti solo 2.000. «Così non si potrà dire che ci sono quote garantite». Landini ha poi chiesto garanzie all'esecutivo sul futuro degli stabilimenti Fiat in Italia. «Chiediamo un intervento esplicito del governo perché venga garantito che Fiat faccia quello che deve fare, a cominciare dagli investimenti». Per Landini infatti «c'è un vuoto sul futuro degli stabilimenti Fiat in Italia» ed esiste «un rischio molto concreto che un intero settore industriale salti con prezzi altissimi per tutti i lavoratori». Dal ministro del Lavoro Elsa Fornero, arriva un «no comment» sulla sentenza a favore del reintegro dei lavoratori Fiat di Pomigliano. Dal Lussemburgo, dove è arrivata per il Consiglio dei 27 ministri del Lavoro Ue, ha detto che «sarebbe improprio da parte del ministro del Lavoro commentare a caldo questa notizia». La notizia era stata resa nota in mattinata dalla stessa Fiom che aveva precisato che 19, sui 145 lavoratori con la tessera del sindacato di Maurizio Landini che dovranno essere assunti nella fabbrica, avranno anche diritto a 3.000 euro per danno. Di tenore opposto il parere del ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera: «Non conosco le motivazioni della sentenza ma è qualcosa di cui tener conto», ha affermato al termine di un'audizione alla commissione Trasporti della Camera. Nel passaggio tra la vecchia Pomigliano e la Newco che aveva riguardato l'assunzione di circa 2000 operai, nessuno di costoro era iscritto al sindacato dei metalmeccanici: negli atti presentati al procedimento dalla Fiom, la possibilità che ciò accadesse casualmente risultavano meno di una su dieci milioni. In base ad una normativa specifica del 2003 che recepisce direttive europee sulle discriminazioni. La Fiat è stata dunque costretta ad assumere nella newco i 145 iscritti al sindacato di categoria, cassintegrati nella vecchia Pomigliano, chiusa e attualmente in liquidazione. In Fiat gli iscritti alla Fiom erano passati da 382 a 207, tutti facenti parte della fabbrica che sta chiudendo. Ritengo che quelle di Landini siano lacrime da coccodrillo; è scontato che questo continuo punzecchiamento della Fiat porterà a decisini che non andranno certo a favore dei dipendenti. D'altra parte ai magistrati cosa interessa se Fiat produce in Italia o in Croazia?
Banche e derivati (24 giugno 2012).
La crisi non ha insegnato nulla alle banche? Non molto secondo la ottantaduesima relazione della Bri (Banca dei Regolamenti Internazionali), presentata a Basilea, per la quale "il settore finanziario sta gradualmente riassumendo il profilo di elevata rischiosità che lo caratterizzava prima della crisi". Il contesto nel quale questo ritorno al rischio sta maturando, è ricapitolato così dalla Bri: "Malgrado i passi avanti nella ricapitalizzazione, molte banche seguitano a operare con un alto grado di leva finanziaria, comprese quelle che appaiono ben capitalizzate, ma in realtà presentano enormi posizioni in derivati. Gli istituti di maggiori dimensioni continuano ad avere interesse ad accrescere la leva finanziaria senza prestare la debita attenzione alle conseguenze di un possibile fallimento: data la loro rilevanza sistemica, essi confidano che il settore pubblico si farà carico delle ripercussioni negative". E dunque i comportamenti spericolati delle banche si appoggiano, secondo la Bri, sulla promessa di un aiuto pubblico. Tanto che la Bri spiega: " Si potrà dire con certezza di avere compiuto progressi fondamentali in merito alla struttura del sistema finanziario quando gli intermediari di maggiore entità potranno fallire senza che ne debbano rispondere i contribuenti e quando le dimensioni dell'intero settore finanziario rispetto al resto dell'economia saranno mantenute entro limiti più restrittivi".
La Bri suggerisce perciò politiche che incentivino le banche ad assumere una politica più "assennata". Come farlo? Le ricette indicate sono: una riforma delle remunerazioni nel settore bancario, ma anche una riduzione dell'intervento pubblico nel caso di rischio per le banche, spostandone una parte del carico sugli obbligazionisti. Questi ultimi infatti, quando il patrimonio netto di un intermediario finanziario diventasse negativo, dovrebbero essere chiamati a pagarne il prezzo insieme al settore pubblico. Inoltre vengono suggeriti poteri di intervento più incisivi della autorità pubbliche. La proposta della Bri va dunque nella stessa direzione di una proposta di direttiva comunitaria, presentata dalla Commissione Ue lo scorso 6 giugno, che prevede il passaggio dal bail out (salvataggio pubblico) ma alle risorse interne della banca, scaricandone i costi, in parte, su azionisti e obbligazionisti. Un passaggio quindi al bail in, che prevede il ricorso alla liquidazione delle attività tossiche degli istituti, per consentire la continuità delle attività dell'istituto, senza quindi scaricarne i costi sulla collettività. Anche la direttiva però prevede poteri di intervento incisive della autorità pubbliche per evitare che si arrivi a situazioni di rischio conclamate.
Un altro lunedì nero (25 giugno 2012).
Le Borse europee accentuano le perdite con Piazza Affari maglia nera con un calo di oltre tre punti e mezzo percentuali. Male anche il listino di Madrid nel giorno in cui la Spagna ha chiesto ufficialmente gli aiuti all'Unione europea. Sui mercati domina un clima di scetticismo sul vertice europeo che tra giovedì e venerdì sarà chiamato nuovamente a confrontarsi sulla crisi dei debiti in Europa, mentre Cipro è stata declassata a livello "spazzatura" dall'agenzia Fitch.
Unicredit arrivata a perdere oltre il 5% viene fermata in asta di volatilità. Stop anche per Banca Mps e Banca Pop Mi. Pesante Intesa Sanpaolo, Mediobanca. Telecom Italia scivola interrompendo una settimana di rialzi.
Buone notizie dagli Usa nel settore immobiliare, segno di una ripresa dell'economia americana. Le vendite di case nuove negli Stati Uniti sono cresciute in maggio del 7,6% alla quota destagionalizzata di 369mila unità, il livello più alto dall'aprile del 2010. Il dato reso noto dal dipartimento del Commercio è nettamente migliore delle attese degli analisti che si attendevano un modesto incremento di tremila unità a quota 346mila. Su base annua le vendite sono cresciute di quasi il 20%, a indicazione di un significativo miglioramento del comparto. In Europa c'è attesa per l'Eurosummit di giovedì prossimo 28 giugno. Ad essere sotto i riflettori sono la rinegoziazione dei termini del piano di salvataggio della Grecia post elezioni e la proposta di un'unione fiscale e bancaria in Europa. Attesa, anche per le aste di titoli di Stato in programma domani in Italia e Spagna. Lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi equivalenti resta a 442 punti, con il rendimento al 5,89%. Il differenziale calcolato sui Bonos spagnoli resta sopra quota 500, attestandosi a 504 punti, per un tasso del 6,52%. Sul fronte valutario l'euro è in calo la moneta unica viene scambiata a 1,2507 contro il dollaro (cambio euro/dollaro) e a quota 100,3 rispetto allo yen. Il rafforzamento del dollaro sta creando forti preoccupazioni all'amministrazione Obama, che teme una significativa perdita di competitività sui mercati mondiali.
I listini del petrolio sono in crescita: il greggio Wti torna sopra quota 80 dollari a 80,34 dollari al barile. In crescita anche il brent a 91,42 dollari.
Le quotazioni dell'oro sono stabili sui mercati asiatici in apertura di settimana con il lingotto con consegna immediata che viene scambiato a 1.572,98 dollari l'oncia, su livelli praticamente invariati rispetto a venerdì scorso.
La Spagna ha formalizzato la sua richiesta di aiuti ai partner dell'Eurogruppo, per ottenere sostegni alla ricapitalizzazione delle sue banche in dissesto. Lo ha annunciato lo stesso governo spagnolo, rendendo pubblica la lettera ufficiale con cui chiede l'intervento, senza tuttavia precisare a quanto ammontino queste richieste. La scorsa settimana due consulenze indipendenti commissionate dalla Spagna avevano quantificato tra 52 e 62 miliardi di euro, in caso di scenari pessimistici, le necessità di ricapitalizzazione delle banche. Precedentemente l'Eurogruppo tra ministri delle Finanze aveva ipotizzato un intervento di sostegno che avrebbe potuto raggiungere 100 miliardi di euro, incluso un margine di sicurezza. Mentre alcuni rumors tra operatori indicano che le banche spagnole potrebbero aver bisogno di un'iniezione superiore a 110 miliardi. Quel che è certo, al momento, è che Madrid avanzerà una richiesta più dettagliata in occasione dell'Eurogruppo del 9 luglio. Nei giorni scorsi la Banca centrale europea ha annunciato un allentamento delle garanzie delle banche necessarie per richiedere soldi in prestito presso l'istituto di Francoforte. Una mossa da molti esperti vista come un modo indiretto per trovare fondi per ricapitalizzare le banche spagnole. Intanto gli effetti dell' esplosione della bolla immobiliare sono sempre più presenti nella vita degli spagnoli. Tanto che negli ultimi mesi il numero di mutui ipotecari cancellati ha superato, per la prima volta, il numero di quelli aperti. Secondo uno studio realizzato dal quotidiano economico Cinco Dias, a febbraio 2012 si è registrato il sorpasso: le ipoteche concesse sono state 26.415, quelle cancellate 27.679. La tendenza, avallata dai dati dell'Istituto nazionale di statistica, si è consolidata durante i mesi di marzo e aprile. In aprile di quest'anno, la morosità delle famiglie spagnole ha toccato gli 885 miliardi di euro. Nonostante si tratti del dato più basso dal settembre del 2007, il numero dei pignoramenti è aumentato del 22% nell' ultimo anno.
L'agenzia di rating Fitch ha tagliato da BBB- a BB+ il rating sul debito a lungo termine della Repubblica di Cipro, con outlook negativo. Il downgrade, che segue quello di Moody's, riflette l'incremento dell'ammontare di capitale che le banche del paese dovranno richiedere, rispetto alle precedenti stime di gennaio 2012.
Ciò a causa soprattutto dell'esposizione alle società greche e domestiche delle tre principali banche cipriote, ovvero Bank of Cyprus, Cyprus popular bank e Hellenic bank e al deterioramento della loro qualità del credito. Secondo Fitch, oltre agli 1,8 miliardi (pari al 10% del Pil) richiesti da Cyprus Popular bank, le banche avranno bisogno di un'iniezione sostanziale di capitale, potenzialmente fino a a 4 miliardi (23% del Pil). La Repubblica di Cipro formalizzerà nel corso della giornata la richiesta di aiuti finanziari ai Paesi dell'eurozona per mettere in sicurezza il suo sistema bancario. Lo ha riferito, secondo l'agenzia Afp, una fonte diplomatica europea. È attesa «entro qualche ora», ha riferito la stessa fonte, la formalizzazione della richiesta. Un portavoce della Commissione Ue, Amadeu Altafaj, ha comunque precisato che «per ora» non esiste una domanda formale in questo senso, mentre la rappresentanza permanente di Cipro a Bruxelles non ha confermato la richiesta aggiungendo che si stanno esaminando «tutte le possibilità».
Il no della Merkel affonda i mercati (26 giugno 2012).
Il rinnovato NO di Angela Merkel agli eurobond ha affossato i listini europei. Maglia nera a Piazza Affari, con l'indice principale Ftse Mib che ha lasciato sul terreno il 4,02%. Le tensioni, in vista del vertice europeo di fine settimana su cui i mercati sembrano non riporre particolare fiducia, si sono riversate anche sul mercato obbligazionario, con lo spread tra Btp e Bund decennali volato fino a 455 punti rispetto ai 422 punti dell'ultima chiusura. Tra le blue chip, più volte sospese per eccesso di ribasso, pioggia di vendite su Unicredit (-8,41%), Bpm (-8,37%) e Mps (-7,06%). Il cancelliere tedesco ha infatti ribadito la sua opposizione all'emissione di titoli di debito congiunti da parte dell'Eurozona, i cosiddetti 'Eurobond'. Merkel ha espresso la preoccupazione che durante il Consiglio Europeo del 28 e del 29 giugno si ponga troppo l'accento sulla questione degli Eurobond, che ha definito una soluzione «sbagliata sia dal punto di vista politico che economico». Ma dalla Germania in mattinata è arrivato comunque il vivo apprezzamento per il lavoro del premier Monti. «Con il suo governo l'Italia può risolvere bene i problemi», ha detto Martin Kotthaus il portavoce del ministro tedesco dell'Economia Wolfgang Schäeuble a Berlino, rispondendo a una domanda sulle difficoltà delle banche italiane. Per il Financial Times il Professore può fare anche di più: «Salvare l' euro», se sarà in grado di «parlar chiaro a Merkel e ai poteri forti». Ancora Schäuble in un'intervista al settimanale Der Spiegel ha ventilato l'idea di chiamare i cittadini tedeschi a un referendum federale su una nuova Costituzione necessaria, ha sostenuto il ministro, per trasferire ulteriori competenze all'Ue. Come ampiamente annunciato, Madrid ha invece ufficializzato lunedì mattina all' Eurogruppo la richiesta di aiuti «fino a 100 miliardi di euro» per sostenere le banche. Un impegno più preciso, ha detto il ministro delle Finanze spagnolo Luis De Guindos nella lettera indirizzata al presidente Jean-Claude Juncker, sarà indicato più avanti quando saranno state valutate nel dettaglio le aree di rischio. Un memorandum di intesa per il pacchetto di aiuti sarà firmato il 9 luglio. Secondo le stime circolate sin qui, serviranno 62 miliardi di euro per salvare il sistema bancario in crisi. In serata è poi arrivata la notizia del taglio, da parte di Moody's, del rating di 28 banche spagnole. Il taglio va da uno a quattro scalini, a seconda dei diversi istituti. Il ministro delle Finanze greco, Vassilis Rapanos, si è dimesso dal suo incarico. Lo ha annunciato il governo ellenico, con una dichiarazione. Rapanos, che non aveva ancora prestato giuramento, era stato ricoverato venerdì a seguito di un malore attribuito al sovraffaticamento. Rapanos non aveva potuto nemmero giurare perché ricoverato in ospedale venerdì a seguito di un malore. Lo ha fatto sapere l'ufficio del primo ministro Antonis Samaras, precisando che Rapanos ha inviato una lettera di dimissioni e che queste sono state accettate. Rapanos, capo della Banca nazionale di Grecia, è stato nominato al dicastero per il nuovo governo di coalizione. Nel frattempo anche Cipro chiede aiuti all'Europa. Il governo di Cipro ha ufficialmente informato le autorità europee della decisione di chiedere aiuto finanziario facendo ricorso al fondo salva-Stati europeo. «L'obiettivo degli aiuti richiesti è il contenimento dei rischi per l'economia cipriota, in particolare quelli derivanti dall'effetto contagio attraverso il settore finanziario, alla luce della sua forte esposizione all'economia greca», si legge in una nota dell'esecutivo di Nicosia. Giova notare che l'ammissione di Cipro all'Eurozona è stato un grave errore di cecità politica; è noto che le banche cipriote sono i paradisi finanziari degli oligarchi russi e dellle mafie dell'Est.
Documento preparatorio alla riunione del 27 e 28 giugno (26 giugno 2012).
Il rapporto che il presidente del consiglio europeo Herman Van Rompuy ha trasmesso questa notte alle delegazioni nazionali dei 27 paesi dell'Unione (mess0 a punto insieme a Mario Draghi, José Manuel Barroso e Jean Claude Juncker) è denso di spunti anche controversi, tratteggia possibili scenari sul futuro della zona euro nel tentativo di dare una risposta strutturale e istituzionale alla crisi debitoria degli ultimi tre anni. Il rappoprto si articola in quattro punti.
• «Un quadro finanziario integrato dovrebbe riguardare tutti i paesi dell'Unione, permettendo comunque specifiche differenze tra paesi della zona euro e paesi extra-zona euro su tutte quelle parti del quadro che sono principalmente legate al funzionamento dell'unione monetaria e alla stabilità della zona euro piuttosto che semplicemente al mercato unico». Il rapporto suggerisce quindi la centralizzazione della vigilanza alla Banca centrale europea, in base all'articolo 127 dei trattati. Consiglia anche la nascita di una garanzia europea dei depositi e un fondo europeo di gestione delle crisi finanziato "principalmente" dalle banche. Ambedue questi elementi potrebbero essere messi sotto il controllo di un'autorità comune. Il meccanismo di stabilità Esm diventerebbe "un cuscinetto finanziario" sia per la garanzia dei depositi che per il fondo di risoluzione.
• Secondo il rapporto Van Rompuy, la zona euro ha bisogno di «un salto qualitativo» verso una unione di bilancio. «Limiti ai saldi di bilancio e ai livelli di debito dei governi potrebbero essere decisi in comune. L'emissione di debito governativo oltre questi livelli dovrebbero essere giustificati e ricevere una previa approvazione. In questo contesto, la zona euro potrebbe chiedere cambiamenti alle poste dei bilanci nazionali se queste sono in violazione delle stesse regole di bilancio, tenendo comunque in considerazione la necessità di salvaguardare l'equità sociale». Nel medio termine la zona euro, secondo la relazione, potrebbe esplorare la possibilità di emissioni comuni di debito, ma solo quando sarà adottata una disciplina di bilancio che eviti l'azzardo morale.
• Il terzo tassello del rapporto prevede una maggiore integrazione economica con l'obiettivo di «promuovere il coordinamento e la convergenza nelle diverse aree di politica economica». In particolare, i paesi della zona euro, prendendo spunto dalle recenti riforme del patto di stabilità e di crescita, dovrebbero avere linee-guida in comune nel settore del mercato del lavoro e delle politiche fiscali.
• Infine, il presidente Van Rompuy mette l'accento sulla necessità di associare alla maggiore integrazione europea una crescente legittimità democratica a livello continentale, coinvolgendo non solo i parlamenti nazionali ma anche il parlamento europeo.
Nella sua relazione, Herman Van Rompuy chiede ai governi nazionali, che si riuniranno giovedì e venerdì a Bruxelles per discutere il suo rapporto a livello di capi di stato e di governo, di immaginare un calendario con il quale dare concretezza alle sue proposte. Un primo rapporto potrebbe essere preparato per ottobre, seguito da una tabella di marcia più concreta in dicembre.
La riforma del lavoro (28 giugno 2012).
Cambia, dopo oltre 40 anni, l'articolo 18, con la limitazione della reintegrazione nel posto di lavoro nei licenziamenti illegittimi per motivi economici. Che d'ora in avanti non sarà più automatica. Ma potrà essere accordata (al posto del riconoscimento di un'indennità risarcitoria compresa tra le 12 e le 24 mensilità) solo nelle ipotesi in cui il giudice accerti la «manifesta insussistenza» del fatto posto alla base dell'atto di recesso. È questa, politicamente e simbolicamente, la modifica principale introdotta dalla riforma del lavoro targata Elsa Fornero, approvata ieri definitivamente dalla Camera, e che il premier, Mario Monti, potrà far valere oggi a Bruxelles davanti agli altri leader europei, dopo i ripetuti richiami all'Italia, anche da parte della Bce ad agosto 2011, a modificare le regole del nostro mercato del lavoro, compresa la flessibilità in uscita. Nel corso dell'esame parlamentare (il provvedimento è stato varato dal Consiglio dei ministri il 23 marzo) è stata attenuata anche la discrezionalità del giudice nello stabilire il reintegro del lavoratore nel caso di licenziamento disciplinare illegittimo. Con l'eventuale ritorno in azienda del dipendente che potrà essere stabilito solo in base alle "tipizzazioni" previste nei contratti collettivi e nei codici disciplinari (e non più quindi in base alle previsioni di legge). Resta sempre nullo, invece, il licenziamento discriminatorio, intimato per esempio per ragioni di credo politico, fede religiosa o attività sindacale. Mentre prima di procedere a un licenziamento per motivi economici bisognerà esperire (in via obbligatoria) il tentativo di conciliazione che, dopo una correzione al Senato, non potrà più essere invalidato (e con esso l'atto di recesso) da una finta malattia del lavoratore. Uniche eccezioni ammesse: maternità o infortunio sul lavoro. La riforma Fornero interviene pure sugli ammortizzatori sociali, puntando ad avvicinare sia pur timidissimamente l'Italia al sistema di "flexecurity" vigente in Danimarca, dove è tutelato in via diretta il lavoratore, e non il posto di lavoro. Nel 2013 (e se non ci saranno ulteriori slittamenti) arriverà l'Aspi, la nuova Assicurazione sociale per l'impiego, che sostituirà a regime, nel 2017, l'indennità di mobilità e quella di disoccupazione. Ne potranno usufruire oltre ai lavoratori dipendenti anche gli apprendisti e gli artisti; e sarà possibile trasformare l'Aspi in liquidazione per poter avviare un'impresa. Per chi non è tutelato dall'Aspi, ci sarà la mini-Aspi. Mentre se il lavoratore rifiuta un impiego con una retribuzione superiore almeno del 20% rispetto all'indennità che percepisce perderà il sussidio. La cassa integrazione ordinaria (Cigo) non subirà modifiche, mentre quella straordinaria (Cigs) sarà interessata da un doppio intervento. Da un lato, questo ammortizzatore viene portato a regime in alcuni settori già interessati (attraverso norme transitorie), come le imprese commerciali e di viaggio con più di 50 dipendenti e le imprese del trasporto aereo e del sistema aeroportuale. La seconda modifica consiste invece nella soppressione della Cigs, a partire dal 1° gennaio 2016, nei casi di fallimento dell'impresa, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria, omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni e nelle ipotesi di aziende sottoposte a sequestro o confisca. Nelle nuove norme c'è anche il capitolo sulla flessibilità in entrata, con il contratto a tempo determinato che costerà di più (è previsto un contributo addizionale dell'1,4% che servirà a finanziare l'Aspi) e sale a un anno la durata del primo contratto a termine senza specifica del c.d. "causalone". Per i collaboratori a progetto (nel 2010, secondo l'Isfol, erano 676mila con un reddito medio annuo inferiore ai 10mila euro - poco più di 800 euro al mese) arriverà una sorta di "salario base", mentre si allenta la stretta sulle partite Iva che si considerano "vere" se hanno un reddito lordo di almeno 18mila euro l'anno. Tutto ciò per favorire l'apprendistato: che dovrà diventare il canale d'ingresso principale al lavoro. Complessivamente la riforma Fornero peserà sulle casse dello Stato per circa 2,2 miliardi l'anno, a regime. Con una clausola di salvaguardia finanziaria: in caso di scostamenti di spesa il Tesoro provvederà a tagli lineari sulle spese rimodulabili. IMPRESA OGGI ha espreso più volte la propria perplessità sulla validità del ddl Fornero: i dipendenti della PA non sono toccati dalla riforma, si è ridotta la flessibilità all'entrata nel mondo del lavoro e ne sono aumentati i costi.
Preparazione alla riunione dell'Eurogruppo (27 giugno 2012).
Entro l'anno sarà presentata una roadmap dettagliata per una più stretta unione economica del paesi europei. È quanto emerge dalla bozza conclusiva del summit. Il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, il presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker e il presidente della Bce Mario Draghi hanno preparato un rapporto da sottoporre all'attenzione dei leader Ue sulle modalità per completare l'unione economica che potrebbe potare all'emissione di debito. Anche la Germania è disposta a un'apertura sulla questione degli eurobond, e cioè sulla mutualizzazione del debito sovrano dei Paesi dell'Eurozona, ma soltanto se ci sarà uno 'zar' europeo a vigilare sui conti pubblici dei 16 paesi dell'euro. Lo ha detto Wolfgang Schaeuble, ministro delle Finanze tedesco, in un'intervista concessa a "The Wall Street Journal". Berlino, ha detto Schaeuble, potrebbe dare via libera a una qualche forma di mutualizzazione del debito non appena la Germania sarà pienamente convinta che il progresso verso l'attuazione di un sistema di controllo centralizzato delle politiche di bilancio nazionali sarà irreversibile. Il ministero delle Finanze tedesco ha poi smentito che da parte sua vi sia stato alcun cambiamento di linea sulla posizione tedesca sulle ipotesi di eurobond, o su quelle di utilizzo dei fondi salva Stati europei per acquistare titoli di Stato sotto tensione. Questo in riferimento all'intervista di Schaeuble al Wall Street Journal. Gli eurobond si possono fare solo dopo una Unione sui bilanci, chiarisce un portavoce del ministero tedesco, e l'uso di Efsf o Esm per acquistare bond sotto stress può avvenire solo nell'ambito delle regole già previste. Anche il presidente del parlamento europeo Martin Schulz appoggia le proposte del premier italiano Mario Monti per contenere gli spread. «Non possiamo permettere che la Bce presti denaro alle banche con un tasso dell'1% e i tassi dei titoli pubblici siano al 6-7% - ha detto nella conferenza stampa dopo il suo intervento al Consiglio europeo - Servono decisioni oggi. Si può utilizzare l'Esm con la licenza bancaria o altri strumenti, come ad esempio quelli proposti da Mario Monti». Intanto è in corso a Bruxelles la riunione dei capi di Stato e di Governo dell'Unione europea. Il Consiglio europeo comincia affrontando il tema del piano finanziario multiannuale, il primo intervento è del presidente del Parlamento Ue, Martin Schulz. Più tardi è prevista, a margine del vertice, una riunione del cosiddetto "euro working group", il gruppo di lavoro dell'Eurogruppo, che discuterà dei contenuti del rapporto per una maggiore integrazione messo a punto dai presidenti Van Rompuy, Barroso, Draghi e Juncker. Prima dell'inizio dei lavori il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha avuto un colloquio con il presidente francese, Francois Hollande.
Eurogruppo: vittoria di Monti? (29 giugno 2012).
E' terminato alle 5 del mattino, a Bruxelles, con una serie di decisioni importanti l'incontro dei capi di stato e di governo della zona euro. Dopo sette ore di trattative i 17 hanno deciso di modificare nella sostanza il modo in cui vengono utilizzati i fondi europei di stabilità finanziaria EFSF ed ESM, venendo anche incontro alle richieste italiane di un meccanismo anti-spread.
In un comunicato, i paesi della zona euro hanno spiegato che l'ESM potrà ricapitalizzare le banche direttamente, e non più attraverso i governi nazionali. Questa possibilità potrà essere adottata non appena ci sarà una sorveglianza unica a livello europeo. «La Commissione presenterà a breve proposte per attivare l'articolo 127/6 dei Trattati» che permette il passaggio della vigilanza bancaria alla Banca centrale europea. Gli aiuti bancari verranno anche in questo caso sottoposti a «condizioni appropriate». L'obiettivo è quello di spezzare il drammatico circolo vizioso tra bilanci bancari e bilanci sovrani. Inoltre i paesi della zona euro hanno deciso di venire incontro all'Italia, che negli scorsi giorni aveva chiesto la possibilità di godere degli aiuti dell'EFSF e dell'ESM senza condizioni particolari, e senza il controllo della Troika. «Riaffermiamo – si legge nel comunicato - il nostro forte impegno a fare tutto il necessario per assicurare la stabilità finanziaria della zona euro e in particolare di utilizzare gli strumenti esistenti EFSF/ESM in modo efficiente e flessibile per stabilizzare i mercati dei paesi membri che rispettano le specifiche raccomandazioni (della Commissione, ndr) e gli altri impegni, ivi compresi i diversi scadenziari». Quest'ultimo punto è stato fortemente voluto dall'Italia, che ieri sera aveva a sorpresa posto il veto alle conclusioni del vertice in attesa di capire se avrebbe potuto strappare una specie di meccanismo per raffreddare le tensioni sui mercati e ridurre gli aumenti dei rendimenti obbligazionari. Lo strumento messo a punto questa notte non è automatico e richiederà da parte del paese la firma di un protocollo d'intesa. Tuttavia, il meccanismo così come è stato concepito non prevede condizioni ulteriori per tutti quei paesi che già rispettano gli impegni presi con le autorità comunitarie. «Le misure a breve sulla stabilizzazione della zona euro sono un fatto positivo per la zona euro e una duplice soddisfazione per l'Italia che ne ha stimolato il processo», ha spiegato questa mattina presto il premier italiano Mario Monti. Infine, tra le decisioni anche la scelta di togliere ai prestiti dell'ESM la qualifica di creditore privilegiato. Questo particolare aveva provocato una vendita di titoli di stato spagnoli da parte di investitori internazionali preoccupati di rimanere svantaggiati nel caso di una ristrutturazione del debito pubblico. Dopo l'accordo di stanotte il veto italiano alle conclusioni del vertice può considerarsi tolto. L'esito dell'incontro tra i 17 è stato sorprendentemente ricco di decisioni radicali. Da mesi i paesi della zona euro discutevano di modificare l'uso dell'EFSF e dell'ESM, abbandonando rigide modalità di utilizzo volute nel 2011 dalla Germania. Il riacutizzarsi della crisi ha indotto il governo federale ad accettare cambiamenti sostanziosi. La stessa sorveglianza creditizia centralizzata è nei fatti un primo tassello verso una unione bancaria. I tempi non saranno rapidissimi, ma la strada è segnata.
EUROGRUPPO : svolta importante (30 giugno 2012).
L'incertezza provocata nelle ultime settimane dal nervosismo sui mercati ha portato i suoi frutti. I paesi della zona euro hanno posto ieri le basi di una unione bancaria, annunciando il trasferimento della vigilanza creditizia alla Banca centrale europea. La scelta è storica, ma richiede tempo. Inoltre, per calmare le tensioni sui mercati, i 17 si sono detti pronti a usare in modo più flessibile i fondi di stabilità europei. Basterà? La crisi greca ancora irrisolta, e l'assenza di un solido firewall finanziario inducono alla cautela.
«Affermiamo che è imperativo spezzare il circolo vizioso tra banche e debito sovrano - si legge in un comunicato pubblicato nelle prime ore di ieri mattina -. La Commissione presenterà a breve proposte relative a un meccanismo di vigilanza unico fondate sull'articolo 127. Chiediamo al Consiglio di prenderle in esame in via d'urgenza entro la fine del 2012». L'annuncio è il risultato di un'accesa trattativa, che si è svolta su due piani: tra i funzionari dei Tesori nazionali e i 17 capi di stato e di governo della zona euro.
Da 10 anni la questione di una qualche forma di centralizzazione della vigilanza bancaria è all'ordine del giorno. Era stata discussa 10 anni fa, ma poi abbandonata per il desiderio delle autorità nazionali di continuare a controllare le proprie banche, chiudendo gli occhi sulle loro debolezze. La crisi debitoria degli ultimi mesi, e la necessità di affrontare in comune lo sconquasso finanziario hanno indotto i governi a cambiare atteggiamento. «A brevissimo - ha detto il presidente della Commissione José Manuel Barroso - faremo le nostre proposte».
In cambio della vigilanza unica, la Germania ha accettato che il meccanismo di stabilità Esm possa ricapitalizzare direttamente le banche, anziché trasferire i prestiti al governo e pesare quindi sul bilancio pubblico. Il problema è che il trasferimento della vigilanza alla Bce è un processo inevitabilmente lungo. Lo sguardo corre alla Spagna, il cui settore bancario è in grave difficoltà. Come farà nel frattempo il Paese mediterraneo? Intanto il premier Mariano Rajoy ha ottenuto che i prestiti dell'Esm non abbiano lo status di creditore privilegiato.
Il dettaglio è tecnico, ma non è banale. Proprio questa caratteristica ha indotto molti investitori a vendere titoli spagnoli nelle ultime settimane, dopo che la Spagna ha chiesto il sostegno europeo, nella preoccupazione che in una eventuale ristrutturazione del debito sarebbero stati penalizzati. Da Washington, il portavoce del presidente americano Barack Obama, Jay Carney, si è detto incoraggiato dalle decisioni europee, anche se «molti dettagli» devono ancora essere messi a punto e la zona euro sarà costretta a ulteriori misure in futuro.
L'Italia aveva affrontato la riunione con l'obiettivo di strappare concessioni sui modi in cui l'Efsf e l'Esm possono acquistare debito sui mercati. Forte del suo deficit pubblico in calo, il governo Monti avrebbe voluto un automatismo nell'intervento europeo. «La Germania ha insistito perché gli acquisti fossero vincolati a un protocollo d'intesa con il paese coinvolto, e ha ottenuto quello che voleva», spiega un responsabile comunitario. Il compromesso è stato sul tipo di controllo: non ci sarà lo stigma del Fondo monetario internazionale, che non avrà alcun ruolo.
La partita giocata dal premier italiano Mario Monti è piaciuta ad alcuni suoi colleghi nel consiglio europeo (Madrid l'ha appoggiata pubblicamente). Altri capiscono le difficoltà di politica interna e il nervosismo provocato dalle pressioni di mercato, ma temono, come in Olanda o in Finlandia, di contribuire all'azzardo morale. «Prendere in ostaggio 25 leader e minacciarli di trattenerli per tre giorni è sembrato a molti un'uscita un po' eccessiva», commenta un partecipante al vertice.
Secondo alcuni, la strategia italiana ha complicato il lavoro di Angela Merkel. Il cancelliere è pienamente consapevole delle difficoltà della zona euro, e dei rischi di instabilità politica in Italia. Ma la decisione di Monti di porre una riserva sulle conclusioni del vertice pur di strappare un'intesa su un meccanismo anti-spread ha provocato interrogativi in Germania e complicato la strategia della signora Merkel. Ciò detto, a molti partecipanti il cancelliere è sembrato più accomodante di quanto l'immagine sui giornali non lo faccia credere.
Il pacchetto presentato ieri è migliore delle attese. Soprattutto l'impegno a una sorveglianza bancaria centralizzata, tutta da inventare, rompe un tabù perché rappresenta una cessione di sovranità. Nel contempo, la zona euro ha fatto poco per migliorare sensibilmente gli strumenti per affrontare lo sconquasso debitorio nel breve termine. La Grecia continuerà a tenere in bilico i mercati finanziari, in un momento in cui il parafiamme finanziario europeo continua a essere strutturalmente debole, senza quella licenza bancaria che gli permetterebbe l'accesso alla Bce.
Il pacchetto crescita. Infrastrutture Ricapitalizzazione della Bei e 4,5 miliardi per i project bond. Per far sì che la politica di rigore in Europa non deprima la crescita, è stato varato un pacchetto per finanziare l'economia del continente. In questa ottica si punta a mobilitare 120 miliardi di euro per misure «a effetto rapido». Il primo punto riguarda la ricapitalizzazione della Bei, la Banca europea per gli investimenti. Il risultato raggiunto al vertice europeo è quello di aumentare di 10 miliardi il capitale versato della Bei, «allo scopo di aumentarne la base di capitale e di accrescerne la capacità totale di prestito di 60 miliardi, liberando in tal modo fino a 180 miliardi di investimenti supplementari, ripartiti in tutta l'Unione europea, compresi i Paesi più vulnerabili». Tale decisione dovrà essere adottata dal consiglio dei governatori della Bei affinché entri in vigore entro il 31 dicembre 2012. Sul tema della ricapitalizzazione della Bei, nelle ultime settimane le posizioni della Francia e della Germania (rappresentanti rispettivamente del partito pro-crescita e di quello pro-rigore) sono state tutto sommato non lontane, tanto che l'accordo è apparso subito non impossibile. L'intesa sui 10 miliardi (una somma non eccessiva) è stata raggiunta proprio per non incontrare l'opposizione di Berlino, che probabilmente si sarebbe opposta a uno stanziamento più consistente. I Paesi "deboli", con conti pubblici in difficoltà, sono stati naturalmente favorevoli a questa soluzione. Altro aspetto non secondario che ha avuto il via libera dal vertice Ue è stato l'ok ai project bond, con il disco verde a una prima fase di sperimentazione. «Si dovrà avviare immediatamente – si legge nel documento definitivo del vertice Ue – la fase pilota dell'iniziativa sui prestiti obbligazionari per il finanziamento di progetti, consentendo investimenti supplementari fino a 4,5 miliardi a favore di progetti pilota nei settori chiave dei trasporti, dell'energia e dell'infrastruttura a banda larga». In futuro potrebbe essere potenziato ulteriormente in tutti i Paesi «il volume di tali strumenti finanziari – è scritto ancora nel documento – a condizione che la relazione e la valutazione intermedie dalla fase pilota siano positive». L'iniziativa, oltre a godere di un appoggio bipartisan in Italia – tanto che sia l'ex premier del centrosinistra Romano Prodi sia l'ex ministro dell'Economia del centrodestra Giulio Tremonti hanno più volte ribadito la bontà di un simile progetto – ha raccolto ampio consenso in ambito accademico e anche in molte cancellerie europee. Finora l'opposizione più netta era stata quella di Berlino.
I fondi strutturali Ue entrano nella strategia di rilancio del continente. Si tratta di strumenti di intervento già esistenti, creati e gestiti dall'Unione Europea per finanziare vari progetti di sviluppo all'interno dell'Ue. Parte delle dotazioni verranno utilizzate, tra l'altro, a fianco della Bei per finanziare nuove infrastrutture; a disposizione ci sono 55 miliardi. Nel comunicato conclusivo del vertice Ue, si specifica: «Ove opportuno e nel rispetto delle regole di disimpegno, gli Stati membri hanno la possibilità di collaborare con la Commissione, nell'ambito delle norme e prassi esistenti, per usare parte delle dotazioni provenienti dai fondi strutturali in modo tale da condividere il rischio di prestito della Bei e offrire garanzie sui prestiti per conoscenze e competenze, efficienza delle risorse, infrastrutture strategiche e accesso ai finanziamenti per le piccole e medie imprese». I fondi strutturali hanno già tre obiettivi principali: riduzione delle disparità regionali in termini di ricchezza e benessere, aumento della competitività e dell'occupazione, sostegno alla cooperazione transfrontaliera. Questi strumenti hanno riassegnato risorse a sostegno della ricerca e dell'innovazione, delle piccole e medie imprese e dell'occupazione giovanile e «ulteriori 55 miliardi di euro saranno destinati a misure a sostegno della crescita nel periodo in corso. Dovrebbe essere ulteriormente rafforzato – si legge ancora nel comunicato diffuso alla fine del vertice – il sostegno alle piccole e medie imprese, anche facilitando il loro accesso ai finanziamenti dell'Ue. Gli Stati membri hanno anche la possibilità di valutare l'eventualità di riassegnazioni all'interno delle dotazioni nazionali, nel rispetto delle norme vigenti e in cooperazione con la Commissione». La proposta di allentare i criteri per accedere ai fondi strutturali europei, consentendone l'utilizzo ai Paesi in maggiore difficoltà (per promuovere progetti utili alla crescita, dal sostegno alle Pmi all'occupazione giovanile) ha goduto di discreti consensi nella fase di ideazione del progetto. La revisione dei fondi strutturali in direzione della crescita è stata una dei punti strategici sponsorizzati dall'Italia per far uscire il paese dalle secche del lento sviluppo in cui è caduto dal 1992 ad oggi.
Olanda e Finlandia contrari ai risultati del summit (2 luglio 2012)
I mercati azionari proseguono in rialzo dopolo sprint di venerdì seguito alla conclusione del Consiglio europeo. Adesso gli operatori si aspettano una mossa della Banca centrale europea che il 5 luglio si riunirà per orientare la politica monetaria. Cè chi ipotizza che la BCE possa far scendere per la prima volta nella storia dell'euro il tasso di riferimento sotto l'attuale minimo storico dell'1%.
Le decisioni della Bce sono una delle prossime incognite su cui si interrogano investitori e risparmiatori. A questa si unisce il ruolo di Finlandia e Olanda.
Dal Nord Europa, infatti, questa mattina sono arrivate dichiarazioni che rischiano di indebolire l'efficacia dei risultati ottenuti nel vertice Ue quando, tra le varie novità:
- unione bancaria europea con sorveglianza che passa alla Bce,
- Esm, meccanismo di stabilità permanente, con poteri di ricapitalizzare direttamente le banche,
- unione economica e pacchetto crescita da 120 miliardi),
- decisione di potenziare il ruolo del neonato Esm (inaugurato il 1 luglio in sostituzione del fondo salva-Stati, al momento, con una dotazione finanziaria da 500 miliardi) dotandolo della capacità di acquistare titoli di Stato per frenare eventuali scorribande all'insù degli spread, senza l'autorizzazione della Troika (Ue-Bce-Fmi, come attualmente previsto) ma con un intervento delle banche centrali dei singoli Paesi membri, coordinate dalla Bce.
In una nota il governo finlandese ha comunicato di non essere d'accordo con l'intervento dell'Esm per acquistare bond sovrani sul mercato secondario, ritenendolo «un'inefficiente via per stabilizzare i mercati». Della stessa opinione l'Olanda. Niels Redeker, portavoce del ministro delle Finanze olandese, ha ribadito che il Paese «non è a favore dell'acquisto di obbligazioni» da parte dell'Esm. I nodi sullo scudo anti-spread - come è stato definito il piano di intervento dell'Esm sui bondi sovrani che al vertice di Bruxelles del 28-29 giugno ha ricevuto l'ok della cancelliera tedesca Angela Merkel - dovranno essere sciolti all'Eurogruppo del 9 luglio. Ma serve l'unanimità dei 17 Paesi dell'areo euro. Ed è per questo che, salvo che non si tratti di pretattica geopolitca, il no di Finlandia e Olanda potrebbe rappresentare un problema, l'ennesimo, da risolvere per far tornare a girare l'Europa.
Aprile - giugno 2012
Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda al successo editoriale
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.
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