Perchè - tu dici- dovrei lesinare le parole? Sono gratuite. Non posso sapere se sarò utilre a colui che ammonisco, so però questo: che sarò utile a qualcuno, se rivolgerò a molti le mie osservazioni. Bisogna spargere a piene mani. Non accade che chi compie molti tentativi non consegua, una volta, il successo.
Seneca Lettere morali a Lucilio
Appena varato il governo di centro-sinistra, i socialisti chiedono una politica di investimenti e di maggiori interventi dello stato nelle grandi imprese.
Quando il ministro socialista del bilancio, Antonio Giolitti (uscito dal Pci dopo i fatti d'Ungheria), mette mano a un progetto impostato su questi orientamenti si apre lo scontro con il ministro del tesoro Emilio Colombo. Questi, infatti, vagliate le proiezioni economiche dello stato, informa il governo che non è possibile dare il via, insieme, alle riforme di struttura e al risanamento dei conti.
A fianco di Colombo si schiera Guido Carli, governatore della Banca d'Italia. Lo scontro tra Dc e Psi si fa duro, la riforma urbanistica per la promozione dell'edilizia popolare finisce sulle secche della battaglia per l'espropriazione dei suoli e i socialisti ricambiano la Dc bloccando la legge sul finanziamento della scuola privata.
Negli anni sessanta-settanta l'impresa pubblica conosce il massimo sviluppo in termini quantitativi e di legittimazione.
L'Iri, che già svolgeva un ruolo da protagonista nella siderurgia, nei trasporti (linee aeree e autostrade), nella telefonia, nel settore bancario, espande la propria attività nei settori minerario, della metallurgia primaria, del cemento, dell'elettronica.
L'Eni, superata la crisi conseguente alla morte di Mattei, impone al Paese un modello di sviluppo basato sugli idrocarburi. Nel periodo '53-'54 avviene un episodio che dà l'avvio ad una nuova missione all'Eni; la Snia Viscosa mette in licenziamento un migliaio di lavoratori del Pignone, ne nasce un caso nazionale, si muove il governo, si muove il sindacato e si muove il sindaco di Firenze, La Pira, che convince Mattei a comprare il Pignone. Da quel momento inizia l'era degli interventi dell'Eni, nel salvataggio di imprese private in crisi, compito, che, eventualmente, avrebbe dovuto assolvere l'Iri. Nel 1962 toccherà alla Lanerossi, poi, al Mineralmetallurgico, al Meccano tessile, alla Savio, alla Samin.
L'Efim si lancia in progetti industriali sempre più rischiosi, mentre viene istituito un quarto ente l'Egam (Ente autonomo di gestione per le aziende minerarie), che si rivelerà un pozzo di perdite senza fondo, per non parlare degli enti per la gestione delle acque termali e per il cinema. Nel 1971 viene costituita, la Gepi (Gestione esercizio partecipazioni industriali) allo scopo di razionalizzare le azioni di salvataggio di imprese destinate al fallimento; l'ente interviene con fondi provenienti dal bilancio dello stato, ma, formalmente, è solo un altro carrozzone, essendo, infatti, di proprietà dei soci Iri, Eni ed Imi.
Nella gestione delle imprese pubbliche la logica imprenditoriale viene accantonata per privilegiare la logica spartitoria; gli enti di stato sono vere e proprie sinecure dei partiti che vi traggono i finanziamenti necessari per mantenere strutture ridondanti e costose. Le imprese pubbliche si trovano ad essere gravate da "oneri impropri" e a dover dipendere in maniera consistente dai trasferimenti pubblici.
Le politiche economiche condotte negli anni settanta innescano, per di più, una vertiginosa spirale inflazionistica; il deficit pubblico, di fatto, finanzia i consumi, mantenendo artificiosamente alta la domanda interna, cosicché l'inflazione passa dal minimo storico dell'1,8%, del 1968, al massimo storico del 21,1%, del 1980.
Se, negli anni '50, l'impresa pubblica aveva conseguito discreti risultati, il quadro cambia negli anni '60. Priva di strategie, nel decennio '63-'72, l'impresa pubblica perde, di fatto, la capacità di produrre profitti: i bilanci dell'Iri iniziano a segnare rosso nel '63, quelli dell'Eni nel '69.
La siderurgia dell'Iri è fonte di perdite vertiginose; in un periodo in cui altri paesi industrializzati giudicano prudente contrarre le attività siderurgiche da lasciare ai paesi in via di sviluppo, l'Italia diventa uno dei maggiori produttori d'acciaio (con le relative perdite). Negli anni sessanta viene costruito a Taranto un gigantesco stabilimento, partendo dalla falsa supposizione che esso sarebbe stato il punto di cristallizzazione della crescita economica del Sud-Est del Paese.
Dieci anni dopo, un altro imponente complesso siderurgico viene progettato per lo sviluppo del Sud-Ovest, a Gioia Tauro. Viene costruito il porto che frutta immensi profitti alle famiglie mafiose della zona e ad alcuni uomini politici calabresi, e che porta alla devastazione di una ricca e splendida area agricola. Fortunatamente il progetto dello stabilimento siderurgico non verrà mai attuato, sostituito da un progetto di centrale termoelettrica, anch'esso, successivamente, abbandonato. Resterà il porto che, fortunatamente, assumerà un ruolo importante per i traffici marittimi del Mediterraneo.
Il legame di stretta interdipendenza tra la "borghesia di stato" e il potere politico ha avuto come effetto quello di far perdere competitività ed efficienza all'impresa di stato.
Di converso, gli anni sessanta vedono un forte incremento della ricchezza prodotta dal settore produttivo privato, specie della piccola e media impresa, che, grazie agli elevati profitti e alla ridotta tassazione, dispone di mezzi propri per l'autofinanziamento; ne conseguono sensibili aumenti dei redditi.
Alla fine degli anni sessanta l'economia ha compiuto numerosi e duraturi progressi, nonostante permangano alcune isole di povertà. In vent'anni il reddito è cresciuto più che in tutti i precedenti cento, a Milano c'è la stessa densità di telefoni di Londra, la lira è una delle monete più forti del mondo, la bilancia commerciale registra un consistente avanzo, il numero di lavoratori agricoli è sceso a meno di quattro milioni. Zanussi, Ignis e Indesit (1) primeggiano, in Europa, nel settore degli elettrodomestici, Olivetti è leader europeo per la fornitura di macchine d'ufficio, il settore turistico ha, probabilmente, il maggior giro d'affari del mondo, l'industria automobilistica produce, nel 1967, un milione e mezzo di autovetture, l'Urss, nel 1966, affida alla Fiat la costruzione della prima fabbrica di automobili per una produzione di massa, la Montedison è una delle maggiori imprese chimiche d'Europa e, nel 1969, l'Italia dispone della maggior industria di raffinazione a livello europeo ed è uno dei maggiori produttori di energia elettrica da fonte nucleare. Anche nel Mezzogiorno le condizioni di vita sono migliorate sensibilmente, anche se il divario con il Nord rimane immutato. Nel Sud si concentra l'offerta di lavoro pubblico e questa situazione crea fenomeni paradossali: la posta imbucata a Milano e indirizzata a Milano viene mandata in aereo a Palermo, dove una pletora di impiegati la suddivide in tanti pacchetti che ritornano a Milano in aereo.
La fine del miracolo economico
La storiografia economica fissa al 1964 la fine del miracolo economico. Esso, peraltro, non si esaurisce per morte naturale, ma alla sua rapida conclusione contribuisce, in modo determinante, la stretta messa in atto, proprio nel 1964, per allentare la tensione sui prezzi manifestatasi tra la fine del '62 e il '64.
Nella realtà il pericolo dell'inflazione viene drammatizzato per ragioni politiche; Guido Carli, infatti, ha posto in essere adeguate restrizioni al credito, ma Moro, timoroso che l'inflazione possa allarmare i ceti moderati e rafforzare il Pli, vuole dimostrare che centro sinistra e lotta all'inflazione sono compatibili, cosicché, lacci e lacciuoli al credito vengono inaspriti e la dinamica salariale bloccata. L'inflazione è stroncata, ma la "cura da cavallo" cui è stata sottoposta l'economia del Paese interrompe bruscamente un'espansione che ha avvicinato l'Italia alle economie dell'Europa occidentale. Una concausa della fine del grande periodo espansivo potrebbe essere la nazionalizzazione dell'energia elettrica; questa, infatti, si abbatte come un ciclone su un'economia ancora debole e in fase di strutturazione. La nazionalizzazione viene effettuata con il trasferimento allo stato degli impianti elettrici in cambio di congrui indennizzi. Le società ex elettriche si trovano a disporre di notevole liquidità che sono costrette ad investire in settori nei quali non hanno competenze; esse diventano facile preda di finanzieri più interessati alla liquidità che a progetti industriali.
Di converso, tra il '62 e il '74, l'incidenza delle esportazioni sul prodotto interno lordo passa dal 12 al 20%. Le imprese italiane, che devono fronteggiare il rallentamento della domanda interna, per il colpo d'arresto della dinamica salariale del '64 e per la diminuzione dell'occupazione, riescono ad aumentare le esportazioni sfruttando la competitività, assicurata da livelli salariali inferiori di quelli dei concorrenti. Questo periodo sarà il più lungo in cui il saldo delle partite correnti con l'estero resta positivo; sarà la crisi petrolifera del '73 ad invertire la tendenza.
È degno di nota che questo balzo delle esportazioni non è realizzato dalle grandi imprese ma dalle piccole e medie, che hanno avviato la politica della flessibilizzazione degli impianti e della specializzazione in nicchie di mercato, e che sanno sfruttare una congiuntura mondiale che continua ad essere sostenuta. Dopo gli aumenti salariali degli anni '69 - '70, va maturando una crisi economica che il primo shock petrolifero del '73 rende manifesta. Tra l'autunno caldo e il '73 il sistema di protezione sociale consente di alimentare la domanda interna e sostenere l'occupazione attraverso il trasferimento di reddito da parte dello stato; la produzione riesce a seguire l'andamento della domanda e si evitano strappi inflazionistici. Ma, gradualmente, si evidenziano le prime incrinature; con il rallentamento della domanda di alcuni beni, la rigidità delle grandi imprese rivela di non poter ridurre i costi di produzione in modo da rilanciare, in modo significativo, la domanda. Con la riduzione delle entrate fiscali aumentano i trasferimenti dello stato per coprire il disavanzo di bilancio e l'inflazione inizia a radicarsi. In questo quadro, la crisi petrolifera è particolarmente dura e colpisce maggiormente l'Italia, per l'acerbità del sistema produttivo e il Regno Unito per la sua obsolescenza.
La crisi si abbatte sulle imprese pubbliche con effetti catastrofici. La flessione della domanda provoca perdite nei bilanci che diventano strutturali quando il management di stato e i politici che li proteggono teorizzano che è possibile produrre in perdita purché vengano coperti i costi fissi (in gran parte oneri finanziari); l'aumento dei tassi di interesse non fa che peggiorare la situazione. Proseguire nella politica di espansione della produzione attraverso l'indebitamento, con il miraggio di una riduzione dei costi che stimoli la domanda, diventa un suicidio per gran parte dell'industria pubblica italiana.
La crisi non colpisce solo l'impresa pubblica ma anche quella privata; i capitalisti italiani, senza capitali, e i capitali che non amano il rischio, si affidano alle cure di Mediobanca che, con l'abilità che le è propria nel costruire impalcature finanziarie, si pone l'obiettivo della salvaguardia della grande impresa: Fiat, Pirelli, Snia, Montedison.
Eugenio Caruso
Nella versione PDF oltre agli aspetti economici viene illustrato, anche, dettagliatamente, lo scenario storico.
(1) Il settore degli elettrodomestici mette in luce un'imprenditoria vigorosa ma priva di forza finanziaria e arroccata su modelli di organizzazione familiare, caratteristiche inadeguate per esercitare un peso sul potere economico italiano; questa debolezza determinerà l’acquisizione di queste imprese da mani straniere.
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