Il lavoro è meno noioso del divertimento.
C. Baudelaire
Nel 1987 un referendum, seguito all'incidente di Chernobyl, aveva determinato la chiusura del nucleare in Italia; nel 2011, un nuovo incidente, quasi altrettanto grave, quello di Fukushima, e un nuovo referendum hanno fermato i tentativi di riapertura. Ma, ora, ci si trova, in pratica, di fronte agli stessi problemi di allora: il decommissioning degli impianti e la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi che sono stati prodotti durante il loro funzionamento e di quelli che si produrranno con lo smantellamento degli impianti. Su questo piano, dalla chiusura del nucleare a oggi non si è fatto molto: per quanto attiene al decommissioning, una stima complessiva dà per svolto solo il 12% del lavoro, mentre il condizionamento dei rifiuti radioattivi già presenti sugli impianti, primo ed essenziale passo per la loro messa in sicurezza, è fermo a circa il 34%, e non si sa ancora dove collocarli definitivamente. Oggi rispetto ad allora c’è un vantaggio, si sa ciò che c’è da fare e soprattutto vi è la generale consapevolezza che quel che c’è da fare deve essere fatto.
Per contro, come elemento sfavorevole rispetto ad allora, le risorse umane complessive del sistema nucleare italiano si sono notevolmente ridotte. Nel personale degli esercenti vi è stato un turnover pressoché completo e non in crescita; nell’ente di controllo l’organico è oggi poco più di un decimo di quello raggiunto negli anni 80; nelle altre amministrazioni pubbliche competenti il numero degli addetti, quando va bene, è ridotto ai minimi termini.
Il sistema nucleare italiano si trova di fronte un’opera di bonifica nel suo complesso indubbiamente imponente, un’opera che oggi è da considerare ancora in una fase iniziale. Il soggetto principale è la Sogin, la società a capitale pubblico costituita nel 1999 con lo specifico incarico della conduzione di quell’opera. Alla Sogin, sin dalla sua costituzione, è stata trasferita la proprietà delle quattro centrali nucleari italiane – Latina, Trino Vercellese, Garigliano e Caorso – già dell’Enel, e successivamente, nel 2003, le è stata affidata anche la gestione degli impianti del ciclo del combustibile dell’Enea, sempre ai fini della sistemazione dei rifiuti radioattivi presenti in essi e del loro decommissioning. Alla Sogin, all’atto della sua costituzione, il ministero dell’Industria, oggi dello Sviluppo economico, indicò, quale obiettivo programmatico per il decommissioning degli impianti, il raggiungimento entro un termine di venti anni della cosiddetta condizione di “prato verde”, cioè il rilascio dei siti esenti da ogni vincolo di natura radiologica. L’obiettivo fu confermato da un successivo decreto dello stesso ministero nel 2004, anche se l’inizio dei venti anni veniva spostato alla data del decreto.
Condizione necessaria per il raggiungimento di quell’obiettivo era la disponibilità, entro la fine del primo decennio, di un deposito nazionale ove trasferire i rifiuti radioattivi già presenti sugli impianti e quelli prodotti dal loro smantellamento. La perdurante mancanza di quest’ultimo ha costretto la Sogin a ridefinire i programmi, assumendo quale riferimento non più il green field ma il brown field, condizione in cui gli impianti sono smantellati, ma i rifiuti radioattivi vengono conservati sui loro rispettivi siti, in strutture di deposito già esistenti o da realizzare, che saranno a loro volta smantellate solo quando il deposito nazionale sarà disponibile per accogliere i rifiuti dai siti stessi.
Nelle previsioni attuali il brown field verrà raggiunto, a seconda dei siti, tra il 2018 e il 2025. Ovviamente più lontane (tra il 2024 e il 2035) le date previste, in base a ipotesi di disponibilità del deposito, per il green field. Tuttavia, la indubbia complessità delle attività potrebbero far ritenere non impensabili ulteriori slittamenti, che comporterebbero non solo ritardi nel rilascio dei siti e nell’eliminazione di ogni rischio radiologico, ma anche inevitabili lievitazioni dei costi – oggi complessivamente stimati in 6,7 miliardi di euro.
Venendo ora ai rifiuti radioattivi, la loro definitiva messa in sicurezza richiede sostanzialmente due passaggi: il loro trattamento e condizionamento e il loro trasferimento in un idoneo deposito nazionale. Il condizionamento, in particolare, consiste nell’inglobare i rifiuti in una matrice solida, tipicamente cemento, all’interno di un contenitore, in modo tale che la radioattività presente in essi risulti sigillata. I già ricordati obiettivi programmatici indicati alla Sogin dal ministero dell’Industria avevano fissato in dieci anni il termine per il condizionamento dei rifiuti già esistenti. Si è già detto che solo un terzo dei rifiuti radioattivi oggi presenti negli impianti italiani risulta condizionato, mentre il resto si trova ancora nello stato originario.
La realizzazione di un deposito nazionale ove trasferire i rifiuti è indispensabile per diversi motivi. Innanzi tutto, in assenza di quella struttura, ognuno degli attuali siti nucleari dovrebbe continuare a ospitare indefinitamente i rifiuti già presenti negli impianti (a oggi oltre 28.000 m3) e quelli che si produrranno con il loro smantellamento (alcune ulteriori decine di migliaia di metri cubi). Al di là di ogni considerazione sull’opportunità di rinunciare al rilascio degli attuali siti e sull’economicità di mantenere un volume
di rifiuti complessivamente limitato, quale è quello italiano, suddiviso in una dozzina di piccoli depositi distribuiti sul territorio, ciascuno con le stesse esigenze di un deposito nazionale, va detto che, già in linea generale, le caratteristiche richieste a un sito di deposito sono diverse da quelle dei siti destinati a impianti nucleari produttivi (si pensi alla presenza di acqua, necessaria nel secondo caso, da evitare nel primo). Per quanto riguarda i siti italiani in particolare, alcuni di loro, nati agli albori dell’era nucleare, hanno caratteristiche talmente sfavorevoli da escludere comunque ogni ulteriore loro impiego e da richiedere al contrario ogni sforzo per un rilascio nei tempi più brevi possibile. In secondo luogo, in mancanza di una struttura unica, adeguatamente attrezzata, i siti dai quali è partito il combustibile nucleare per il riprocessamento all’estero dovrebbero prepararsi ad accogliere i rifiuti ad alta attività prodotti dal riprocessamento stesso, destinati a rientrare in Italia per obbligo contrattuale.
Va infine tenuto presente che altri rifiuti, per centinaia di metri cubi all’anno, continueranno comunque a essere prodotti nell’impiego di sorgenti radioattive a fini industriali, nella ricerca e, soprattutto, per scopi medici. Tali rifiuti, in assenza del deposito nazionale, continueranno a essere precariamente raccolti in alcuni depositi temporanei esistenti, spesso inadeguati. La legge ha affidato alla Sogin il compito di realizzare e gestire il deposito nazionale e ha stabilito una specifica procedura per la localizzazione e l’autorizzazione della costruzione, ma sarebbe illusorio non attendersi notevoli difficoltà di accettazione da parte delle comunità locali che saranno interessate, nonostante le non trascurabili misure di compensazione territoriale previste. Ricordiamo le violente proteste in Basilicata quando fu indicato Scanzano ionico come sede del deposito unico nazionale.
Va detto con estrema chiarezza che un deposito di rifiuti radioattivi, quale dovrà essere il deposito nazionale, correttamente localizzato e realizzato secondo gli standard attuali, è intrinsecamente esente da incidenti e perdite di radioattività sono da considerare un’eventualità remota e comunque rilevabile e rimediabile.
Un accenno infine al sistema dei controlli. L’ente di sicurezza, Ispra, ha subìto una progressiva, forte riduzione di organico, che avrebbe richiesto da tempo una decisa azione di rafforzamento. A fronte di questa esigenza, la legge ha prima stabilito l’istituzione di un’apposita Agenzia per la sicurezza nucleare, poi, quando con il referendum le prospettive di realizzazione di nuove centrali si sono chiuse, ha previsto l’incorporazione delle funzioni di controllo nel ministero dello Sviluppo economico, una soluzione che per divenire operativa necessita ora di un decreto ministeriale di attuazione, ma che, in ragione delle attribuzioni complessive del ministero stesso nel campo nucleare, è in eclatante contrasto con il principio di indipendenza dell’autorità di controllo sancito dalle direttive emanate in materia dall’UE. Nel frattempo i controlli continuano a essere esercitati da Ispra, che il clima di incertezza sul destino delle sue funzioni non ha certo contribuito a rafforzare.
Eugenio Caruso
6 settembre 2012
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